Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia.

di Oscar Oddi.


Quanto mai opportuna appare la scelta di riproporre al pubblico, sei anni dopo la prima uscita, questa nuova edizione del libro di Cristina Corradi Storia dei Marxismi in Italia (Manifestolibri, 2011, pp. 376, € 35,00). Un libro importante, che ha suscitato una vasta eco, riuscendo nell’impresa di rianimare un dibattito che ormai languiva sia negli asfittici particolarismi accademici che negli ambienti politici-culturali che ancora in qualche modo ritengono di ispirarsi alla lezione (e tradizione) del marxismo in Italia. Si può infatti dire di trovarsi di fronte ad un lavoro “militante” (nel senso più nobile della parola), nato dall’esigenza di fornire uno strumento storico-teorico capace, nella ricostruzione della nascita e degli sviluppi della riflessione su Marx nel nostro paese, di indicare percorsi e proposte di ricerca attuali che si pongono ancora tenacemente l’obiettivo di una radicale trasformazione dello stato di cose presenti, senza che questo incida sul rigore dell’analisi e dell’esposizione. Va anzi sottolineato come la Corradi non si sia limitata a una mera riproposizione della vecchia edizione, ma abbia continuato a lavorare sul testo, integrandolo e rendendolo più compatto e meno ridondante. Il volume è diviso in tre parti: nella prima – Da Labriola a Gramsci (1895-1937) – in modo succinto ma esaustivo si descrive e si analizza l’origine della riflessione marxiana italiana a partire dalla sistematizzazione di  Labriola per il quale “il materialismo storico non è sinonimo di visione empirica della storia, che smarrisce ogni sintesi nella considerazione di una molteplicità di fattori, e (…) l’affermazione del primato delle pratiche sociali del lavoro è alternativa sia ad una concezione positivistica sia ad una concezione speculativo-spiritualistica (…). Il nesso struttura-sovrastruttura non va (…) inteso come se il diritto, le istituzioni politiche e le produzioni culturali fossero un semplice riflesso della riproduzione materiale, occorre piuttosto ricostruire una catena di mediazioni per risalire, secondo un metodo morfologico-genetico, dal condizionato alla condizione”. Per Labriola il “midollo del materialismo” è rappresentato dalla filosofia della praxis, che vuol dire che la storia ha come suo fondamento un agire per necessità, cioè il lavoro come mezzo sociale per la soddisfazione dei bisogni, per la trasformazione dell’ambiente e la creazione di ulteriori bisogni. Dopo aver descritto le modalità con cui Croce e Gentile si approcciarono al pensiero di Marx, dando vita, pur nelle loro differenze, a quell’egemonia neoidealista che influenzò in modo determinante l’avvicinarsi al marxismo di molte generazioni (con tutte le conseguenze teoriche che ciò comportò), la Corradi si sofferma approfonditamente su Gramsci, centrando l’attenzione sulle riflessioni presenti nei Quaderni del carcere. Qui sottolinea come per il pensatore sardo il marxismo non è riducibile ad un insieme di aforismi e di metodi pratici per l’azione, ma è una “teoria in cui la filosofia, la politica e l’economia costituiscono linguaggi reciprocamente convertibili, formanti un “circolo omogeneo”. La novità della riflessione gramsciana è messa in evidenza attraverso il confronto critico con, da una parte, l’elaborazione crociana, di cui respinge le quattro tesi revisionistiche (la riduzione della filosofia della praxis a semplice metodo di interpretazione, la visione della teoria del valore-lavoro come risultato ellittico tra due tipi di società, la critica della legge sulla caduta del saggio di profitto, la necessità di completare la sociologia economica marxista con una teoria pura dell’economia), dall’altra con le posizioni di Bucharin che propugnava una concezione del marxismo come teoria sociologica della storia e della politica, costruita in base ai metodi delle scienze naturali, integrata, sul piano filosofico,  con il materialismo tradizionale, al limite riveduto e corretto con un pò di logica dialettica. Nella seconda parte –  Storicismo, Dellavolpismo, Operaismo (1943-1980) –  si trovano due delle più importanti integrazioni rispetto alla prima edizione. La prima riguarda Bordiga, per decenni innominabile, colpito dalla “damnatio memoriae” scagliatagli contro dal “comunismo ufficiale”. La Corradi fa emergere come le posizioni del teorico napoletano sono state la prima alternativa sorta alla declinazione gramsciano-togliattiana del marxismo (precedendo, dunque, da questo punto di vista, le posizioni di Della Volpe e dell’Operaismo, nelle sue varie diramazioni, nella critica dello storicismo togliattiano, ideologia di riferimento del PCI. Tali teorie sono analizzate e confrontate in modo approfondito, nella loro ampiezza e nelle loro conseguenze storiche-filosofiche-economiche, in questa sezione del libro, attraverso la descrizione dei fondamenti del pensiero dellavolpiano, il dibattito e il confronto che provocò con i seguaci dello storicismo, tra cui emerge Luporini, senza tralasciare l’originale posizione di Banfi, la genesi del pensiero operaista nell’opera di Panzieri, che lucidamente la Corradi mostra nella sua originalità e diversità dagli sviluppi successivi in pensatori come Tronti e Negri). Concentrandosi sulle riflessioni che Bordiga svolge dopo il 1945, la Corradi ne mette in risalto la lettura non stagnazionista (tipica della Terza Internazionale) del capitalismo, di cui prevede un lungo ciclo di espansione per favorire provvisori compromessi socialdemocratici, destinato però ad entrare in crisi negli anni ’70; Bordiga non crede che il capitalismo di Stato sia l’anticamera del socialismo, al contrario ritiene lo Stato un dispositivo di garanzia della produzione di plusvalore presente fin dall’inizio dell’accumulazione originaria accompagnandone lo sviluppo. Critica alla radice la strategia togliattiana della democrazia progressiva poggiante sull’incapacità del capitalismo di garantire sviluppo economico e democrazia politica. Per questo respinge il frontismo e la democrazia elettorale. Infine la Corradi sottolinea come Bordiga consideri la preminenza dell’attività teorica, dal momento che il terreno della rivoluzione in occidente si è chiuso in modo disastroso e irreparabile per decenni, e ne rimarca i suoi studi del III libro del Capitale sulla rendita assoluta e differenziale. La seconda integrazione riguarda Fortini, di cui è messa in evidenza la formazione atipica (Lukàcs, Sartre, Adorno, Benjamin, il Gramsci dei Quaderni del carcere, negli anni del dominio del crocio-gramscismo), che gli consente una lettura più pregnante della realtà. Si evidenzia come per lui il marxismo “non è un metodo, bensì una dottrina capace di declinare secondo una connessione sistematica i temi della libertà, della produzione e della politica. Il marxismo è una pedagogia politica che insegna a collegare i problemi quotidiani con i nessi dell’economia mondiale e della grande politica; che chiama ciascuno a interrogarsi sulla propria posizione nel contesto della società, a stabilire le radici di classe dei propri comportamenti, a liberarsi delle false immagini indotte dalla produzione capitalistica”. La Corradi descrive poi come dalla seconda metà degli anni ’70 Fortini polemizzi col pensiero negativo alimentatore di una cultura dello sradicamento e della negazione della memoria (in particolar modo critica l’indirizzo neonietzscheano foriero di elitismo tecnocratico e di subalternità ad una cultura della differenza che legittima di nuovo privilegi razziali, sociali ed economici). Non a caso negli ultimi anni della sua vita “combatte per difendere l’onore di un’antica causa e per rivendicare il valore di una cultura anacronistica – arretrata o anticipatrice – che corrisponde a strati sociali scomparsi o non ancora manifesti. La sua concezione del marxismo come tradizione da proteggere sa parlare a generazioni che non hanno avuto esperienza del comunismo novecentesco ma hanno sperimentato la precarizzazione e la crisi neoliberista”. La terza parte del volume – Bilanci critici e progetti ricostruttivi –  è, a giudizio di chi scrive, la più importante, quella che caratterizza la prospettiva dell’autrice. Qui, infatti, si da conto delle riflessioni e delle teorizzazioni sviluppatesi dopo la cosiddetta crisi del marxismo degli anni ’70 e della sconfitta politica-sociale delle forze e dei movimenti che si ispiravano in qualche modo al pensiero di Marx. E’ un grande merito che va ascritto alla Corradi quello di portare a conoscenza di un pubblico più vasto questi pensatori, che hanno continuato, e che continuano, a confrontarsi con il “cantiere aperto” rappresentato dall’opera di Marx, fuori dalle luci della ribalta, molto spesso ignorati anche da quel che rimane del circuito politico-culturale-editoriale “comunista” (e questa “cecità” avrà pure la sua responsabilità nel disastro politico-strategico delle forze residue che ancora pensano di richiamarsi al “comunismo”). Emblematico a questo riguardo il caso del filosofo torinese Costanzo Preve, a cui la Corradi dedica ampio spazio nell’analisi delle varie fasi della sua riflessione, “silenziato” dallo “stalinismo degli antistalinisti (presunti)”, diffamato dal “gossip antagonista in rete”, e ciononostante autore prolifico di una produzione culturale (pubblicata anche in alcuni paesi europei) che da decenni si confronta con il pensiero di Marx (e di Hegel, oltre che del pensiero greco antico), cercando di fare i conti con il fallimento del comunismo storico novecentesco e tentando una ricollocazione, una rilettura e una rivalutazione dell’opera di Marx fuori da schemi ormai logori e da ortodossie ed eresie fuori tempo massimo (riconoscimento di cui anche Peter Thomas da atto nella Prefazione del libro, anche se ci permettiamo di sottolineare come il tentativo ricostituivo di Preve è molto più che una sintesi di Lukàcs e Althusser con enfasi sull’antropologia filosofica, come afferma Thomas, elementi certo presenti nella sua riflessione ma che non la esauriscono; inoltre, sempre a partire da una sollecitazione del prefatore, sarebbe ora che si rifletta sulle motivazioni del successo internazionale delle “elucubrazioni fantascientifiche” di Negri, che la Corradi espone analiticamente dalla loro genesi agli sviluppi più recenti, rispetto ad altre riflessioni infinitamente più congrue e adeguate ai fini della comprensione dell’attuale fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico, che sono invece, forse proprio per questo, oscurate dallo “Star System” culturale). Sempre per rimanere sul terreno filosofico, la Corradi procede poi ad analizzare le posizioni di Domenico Losurdo, che rivendica l’attualità della dialettica di Hegel, del socialismo scientifico di Marx, della critica del colonialismo di Lenin e del comunismo critico di Gramsci, e infine le riflessioni di Roberto Finelli, critico con l’antropologia giovanile di Marx, fortemente influenzata da Feuerbach, che legge il Marx maturo del Capitale (l’unico in grado di illuminare le contraddizioni della post- modernità) attraverso il metodo di ispirazione hegeliana del presupposto-posto, valorizzando così il Marx dell’astrazione contro il Marx della contraddizione. Notevole anche la parte che la Corradi dedica alla ricostruzione del programma scientifico di Marx,  a cominciare dalla proposta di Gianfranco La Grassa maturata tra gli inizi degli anni ’80 e la fine degli anni ’90 insieme a Maria Turchetto (tralasciando l’ultima produzione di La Grassa basata sulla rilettura geopolitica dei rapporti sociali che pone al centro del modo di produzione capitalistico il concetto di conflitto strategico), dove “l’individuazione del centro di gravità del movimento della frammentazione produttiva e la ricostruzione dei contorni di un rapporto di potere specificamente capitalistico sono affidate ad una lettura della critica dell’economia politica incentrata sull’astrazione lavoro anziché sull’astrazione merce”, proseguendo con il programma di ricerca di Riccardo Bellofiore, con al suo centro la forma di lavoro capitalistica, che cerca di risolvere “le difficoltà analitiche in cui si è imbattuta la lettura della teoria marxiana del valore in termini di lavoro sociale-astratto e replicando all’accusa di ridondanza del riferimento al valore-lavoro nella determinazione dei prezzi di produzione a seguito dell’esito sraffiano del problema della trasformazione”, passando per Gianfranco Pala (altra importante integrazione rispetto alla prima edizione) che rivendica l’inscindibile nesso tra dialettica e critica dell’economia politica, riafferma la validità della teoria marxiana del valore e plusvalore e dell’analisi dell’imperialismo di Lenin, per concludere con le nuove soluzioni della trasformazione dei valori in prezzi, dove la Corradi descrive sia l’ipotesi detta New Solution (Giorgio Gattei) sia quella conosciuta come Temporal Single System (Guglielmo Carchedi), che seppur in modi diversi hanno superato le accuse di incoerenza rivolta alla teoria marxiana, fondandosi non sulla contrapposizione tra due sistemi alternativi di valutazione delle merci, quello dei valori-lavoro e quello dei prezzi di produzione, ma operando sulla base di un sistema di prezzi monetari (questo dibattito ha avuto grande sviluppo e risonanza fuori dai nostri confini nazionali, mentre all’interno di essi è pressoché sconosciuto, ulteriore dimostrazione, se mai ve ne fosse bisogno, dell’attuale stato del dibattito pubblico marxiano nel nostro paese). Si diceva, all’inizio di queste note, della salutare discussione che l’apparire di questo libro ha provocato (e che ci si augura possa proseguire). L’opera è ambiziosa e certo imperfetta, (anche se, come già detto, in questa nuova edizione il lavoro appare più snello e compatto oltreché arricchito), ma un’impresa del genere, proprio perché seria, rigorosa e con pretese di influenza nella  “battaglia delle idee”, non può che esserlo, per cui ognuno può lamentare un’omissione, proporre un appunto, fare una  puntualizzazione, segnalare uno sbilanciamento. Ma è il senso complessivo che può e deve suscitare discussione. La tesi forte che attraversa le pagine della Corradi è che il grande assente nei vari marxismi italiani sia stato il Capitale, l’opera massima di Marx, e che questa assenza abbia influito negativamente sugli sviluppi teorico-pratici della lunga vicenda italiana, e che a quell’omissione bisogna urgentemente porre rimedio se si vuole continuare a pensare ad una alternativa radicale alla totalizzazione capitalistica. Questa visione è stata al centro di vivaci spunti critici. E’ stato rilevato come si rischiasse così un percorso che prevede all’inizio un Marx puro e incontaminato (presente appunto nel Capitale), vittima di “degenerazione” e incomprensione come tappa successiva, e il ritorno alla sua “sorgente” come tappa suprema del cammino. L’impostazione dell’indice della prima edizione (con la conclusione nell’ampia analisi del Marx dell’astratto “rinvenuto” nello studio del Capitale) veniva considerata come una conferma ulteriore di questa prospettiva (nella nuova edizione, a seguito del lavoro sul testo svolto dalla Corradi, anche l’indice è in parte mutato, per cui questa conclusione passibile di teleologia è stata eliminata). E’ certo che ci troviamo così veramente al centro di una delle questioni più importanti, cioè quella dell’auotosufficienza teorica o meno di Marx. Riccardo Bellofiore, il principale esponente di questo tipo di critica al libro (si veda il volume da lui curato “Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento”, Manifestolibri, 2007, pp. 272, e il suo saggio all’interno del libro a cura di Mario Cingoli e Vittorio Morfino “Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive”, Unicopli, 2011, pp. 540) è molto sensibile al tema, paventando il rischio che l’opera di Marx rimanga schiacciata tra filologia (la nuove edizione critica delle Opere Complete di Marx e Engels nota come Mega2 che tante prospettive di rilettura sta aprendo agli studiosi) e filosofia, pur importanti, impedendo così un’accurata rivisitazione del discorso marxiano sfruttando anche teorie sorte fuori dal contesto puramente marxista. Certamente la Corradi è pensatrice marxista a “tutto tondo”, convinta che nel “cantiere aperto” sopra richiamato dell’opera di Marx sia possibile rintracciare i fili di un discorso teorico-rivoluzionario ancora in qualche modo inespresso, capace di fornire gli strumenti per combattere l’attuale stadio di sviluppo del capitalismo. Chi scrive non crede che la Corradi sia fautrice esplicitamente di qualsivoglia percorso teleologico, ma che, appunto, sia convinta che studiando criticamente Marx, anche attraverso i nuovi manoscritti messi a disposizione dall’edizione Mega2, analizzandoli fuori da ogni preoccupazione per vecchie o nuove ortodossie, sia possibile ricavarne il necessario per una teoria rivoluzionaria all’altezza dei nostri tempi. Ecco spiegato, a nostro parere, l’inserimento di Bordiga (peraltro sacrosanto, almeno sul piano storico), che nel suo rigoroso approcciarsi al testo marxiano aveva (come rilevato in precedenza) tracciato una linea alternativa allo storicismo togliattiano egemone, che alla Corradi conferma come nel “laboratorio” di Marx si trovino ancora innumerevoli strumenti in grado di fornire materiale per la costruzione di un pensiero rivoluzionario che vada oltre le forme di marxismo che storicamente si sono sedimentate, e per lei è questa la questione cruciale, tanto da sorvolare sui limiti presenti nella riflessione bordighiana. E’ questo un dibattito che certo proseguirà, si spera senza che nessuno si cristallizzi troppo sulle proprie convinzioni; le preoccupazioni di Bellofiore sono legittime, anche se, a nostro parere, sottendono una scarsa considerazione dell’utilità delle riflessioni filosofiche (ma qui si aprirebbe tutt’altro discorso da farsi in altra sede) nell’opera ricostruttiva del discorso marxiano, nonostante sia tra i pochi economisti ad essersi cimentato con essa, ma altri la pensano diversamente (si veda per esempio il pensiero di Gianfranco Pala, non a caso inserito in questa nuova edizione). Non crediamo però si possa negare, come fenomeno storico, l’assenza di una riflessione proficua sul Capitale nella gran parte dei marxismi italiani come dalla Corradi espresso, né vedere in essa una sorta di “necessità” che rivela punti di forza sul terreno della teoria della politica e dell’organizzazione come afferma Peter Thomas nella Prefazione. Tale visione evidenzia innanzitutto una sorta di mitizzazione del “caso italiano” da parte di osservatori stranieri, soprattutto di area anglosassone, che hanno (ri)scoperto il ciclo lungo di lotte svoltosi in Italia attraverso una ricostruzione, sia sul piano storico che delle idee, fortemente influenzata dalla lettura che ne ha dato il pensiero post-operaista (tanto che “caso italiano” e pensiero (post)operaista sono in questi ambienti considerati quasi sinonimi), ricavandone così inevitabilmente una visione storico-teorica parziale, sovente distorta. E’ ben giunta l’ora di una analisi seria e rigorosa di quegli anni, priva di leggende e di posizioni di comodo. Questa è una delle ragioni che poi portano il prefatore a lamentare l’assenza della politica, della prassi, all’interno del volume, nella convinzione che in Italia (ma probabilmente si tratta di una posizione che, seppur riferita specificatamente alla storia italiana, ha poi una valenza che abbraccia il pensiero marxiano nella sua globalità) la caratteristica del marxismo sia stata quella di essere una totalità di teorie che si ponevano l’immediato radicale cambiamento della realtà grazie all’immersione in essa, la quale a sua volta, nel processo trasformativo così avviato, forniva ulteriori elementi di cui quella costruzione teorica si “nutriva” per essere sempre più  in sintonia con il processo rivoluzionario in itinere. Che Marx pensasse la trasformazione radicale della realtà attraverso l’irruzione dell’azione della classe degli sfruttati è cosa nota, ma una separazione “concettuale” di teoria e prassi è necessaria proprio per adempiere a quel compito rivoluzionario, perché il loro interagire è composto di mediazioni di livelli diversi. Non si spiegherebbe altrimenti lo sviluppo delle posizioni teoriche descritte nella terza parte del libro, di cui di nuovo si sottolinea l’importanza, sorte in un contesto storico privo di movimenti rivoluzionari. La teoria del modo di produzione capitalistico ha una sua autonomia rispetto alla politica. La riduzione del pensiero marxiano all’azione in quanto tale che emerge nelle pagine della Prefazione rientra all’interno di quel filone di studi (ripetiamo, specialmente di impronta post-operaista) che vede l’opera di Marx esplicarsi quasi esclusivamente nell’azione politica (si veda al riguardo il libro di Fabio Frosini “Da Gramsci a Marx. Ideologia, Verità e Politica”, DeriveApprodi, 2009, pp. 128, non a caso di impronta antihegeliana). Si è, a nostro avviso correttamente,  sostenuto che “la teoria del modo di produzione capitalistico elaborata da Marx non è infatti – né può essere – immediatamente una teoria politica; si tratta piuttosto della ricostruzione, a un altissimo livello di astrazione, del funzionamento “epocale” della società borghese, che implica delle linee di tendenza, delle forme di movimento, ma immediatamente non una politica. Ciò non per negare le esplicite prese di posizione di Marx, né che si possa utilizzare questa teoria con finalità politiche, ma per stabilire I. che la politica, collocandosi a un livello di astrazione molto più basso, per essere raggiungibile ha innanzitutto bisogno di una serie di teorie cuscinetto che Marx non ha sviluppato, 2. che quindi la politica non ha a che fare solo con le forme – che rappresentano l’oggetto essenziale della teoresi di Marx – ma anche con le “figure”, che sono via via quei soggetti che in sottoperiodizzazioni della fase epocale si trovano a incarnare la forma di moto. Così, per fare un esempio, l’”operaio massa” è stato legittimamente ritenuto una figura di movimento della società capitalistica, ma la forma di tale movimento funziona in altre fasi anche con altre figure, proprio perché non c’è identità fra forma e figura. Così, se facendo politica Marx si rivolgeva giustamente all’operaio nella fabbrica, ciò non esaurisce lo spettro d’applicabilità della sua teoria. Se da una parte si guadagna in ampiezza, dall’altra si perde in precisione (…). Più in generale, si può sostenere che a livello politico si agisce inevitabilmente con le figure, ma una cosa è la tattica e altra la teoria del modo di produzione come fase epocale. Così, Marx e il marxismo non possono essere la stessa cosa ed è inevitabile che di debba parlare di “marxismi”, al plurale (…). Questi hanno la loro dignità storica e, nel bene e nel male, rappresentano un momento importante – se non imprescindibile in certi casi – della storia recente, ma si stia attenti a non operare fuorvianti appiattimenti. Gli oggetti d’indagine sono, infatti, due. Non si deve d’altronde commettere l’errore opposto, ossia credere che non sia lecito stabilire quanto i vari “marxismi” siano stati fedeli alle indicazioni date da Marx: che non ci sia identità fra forma e figura non significa neppure che ogni tentativo di applicazione politica vada bene. Come sempre occorre mostrare le mediazioni (o eventualmente l’assenza di esse)” (Roberto Fineschi, “Marx e Hegel. Contributi a una rilettura”, Carocci, 2006, pp. 9-10). L’importanza del libro della Corradi, nei suoi risvolti storici, nelle sue ampie stratificazioni teoriche, nelle sue asperità concettuali, crediamo abbia giustificato in pieno lo sforzo editoriale di questa seconda edizione. La speranza è che possa continuare a suscitare discussione (come già auspicato in precedenza), possibilmente non fine a se stessa, coinvolgendo le nuove generazioni, perché mai come oggi si sente la necessità di un pensiero forte, l’unico in grado di poter affrontare il “totalitarismo” capitalista.

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