Il capitale: un’economia del capitalismo in una teoria della società moderna. Dialogo con Gérard Duménil

Jacques Bidet

 

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0.  Le seguenti riflessioni nascono in parte da una serie di discussioni avute con Gérard Duménil[1] a margine di una stretta collaborazione nella scrittura di un libro[2]. Partiamo entrambi da un’idea comune: la società contemporanea presuppone tre forze sociali primarie, che allora chiamavamo (provvisoriamente e per compromesso) “capitalisti”, “quadri e competenti” e “classi popolari”. La coesione tra le prime due è andata indebolendosi a partire dagli anni ’30 sotto la pressione della terza, ma si è rinsaldata negli anni ’80 sotto l’egida della prima e nella forma del neoliberismo. In mancanza di una chiara comprensione di questa triangolazione del rapporto di classe la sinistra cosiddetta “radicale” è destinata a rimanere paralizzata in una opposizione binaria tra capitalisti e resto della società ispirata a un marxismo vetusto, e incapace di elaborare strategicamente una vera prospettiva di emancipazione. A nostro giudizio, invece, se intendono davvero infrangere il blocco dominante le classi “popolari” non hanno altra scelta, oggi come già nel passato, se non quella di unirsi e cercare di forgiare un’unione sufficientemente forte da egemonizzare i cosiddetti “quadri” attraverso un’alleanza al contempo suscettibile di legittimazione e sovversiva. Queste tesi sono di natura insieme socio-analitica, storica e strategica. Esse mostrano come quelle che oggi chiamiamo “la destra” e “la sinistra” corrispondano almeno in parte (perché la sinistra non si limita solo a questo) a due facce della dominazione di classe, e propongono una politica di sinistra e di classe.

Un altro punto di convergenza tra me e GD riguarda a mio avviso l’uso che oggi si può fare del Capitale. Questa opera sembra ad entrambi fondamentale per interpretare la società contemporanea, e tale inoltre, sebbene per ragioni disciplinari io mi sia concentrato principalmente sul Libro I, da dover essere considerata nel suo complesso. Senza cercare in essa una folgorazione immediata, vi troviamo un vasto complesso di concetti operativi e una costruzione teorica capace di indicare le analisi economiche, politiche e culturali che occorre intraprendere se si vogliono comprendere i meccanismi e le tendenze della società contemporanea, le pratiche dei capitalisti e le lotte di classe.

Una divergenza manifesta tra le nostre posizioni risiede nel fatto che GD identifica le tre forze sociali primarie come tre classi, mentre io ne vedo soltanto due, quella dominante comportando però due «poli» distinti. Invece di affrontare di petto questa divergenza, esaminerò qui, come d’altronde suggeritomi da GD stesso, una questione epistemologica che mi sembra chiarire il senso della distanza tra le nostre due analisi, e che riguarda il nostro modo di rapportarci, l’uno dal punto di vista della filosofia e l’altro dell’economia, al testo del Capitale, del quale facciamo entrambi un uso poco ortodosso e che rappresenta tuttavia un punto di riferimento condiviso. Esporrò dunque nelle sue linee essenziali il mio modo di procedere differenziandolo da quello dell’economista e senza in nessun modo pretendere che si tratti dell’unica lettura filosofica legittima.

 

 

1.  PROGRAMMA ECONOMICO E PROGRAMMA FILOSOFICO

 

 

1.1. L’analisi del capital-quadrismo

 

Comincerò con uno schizzo estremamente schematico dell’approccio di Duménil, che è anche quello di Dominique Lévy, traendo spunto dal primo capitolo del loro ultimo libro, The Crisisis of Neoliberalism.

Gli autori partono da enunciati marxisti abbastanza classici. Le classi sociali sono dei gruppi sociali definiti a partire dalla loro posizione nei rapporti di produzione: da un lato i capitalisti, che possiedono i mezzi di produzione, e dall’altro i proletari, che assicurano la produzione. Essi aggiungono tuttavia che nel XX secolo la “socializzazione della produzione” è divenuta  più complessa e ha reso l’economia più instabile. Questa situazione, e specialmente le grandi crisi del 1893 e del 1929, hanno determinato la nascita di due tipi di istituzioni. Da un lato, una rivoluzione della proprietà capitalistica: la proprietà collettiva delle società per azioni, le gradi banche legate a queste società, lo sviluppo del management. Dall’altro, una rivoluzione macroeconomica d’ispirazione keynesiana, che sfocia nel controllo centralizzato della produzione. In questo contesto emergono due nuovi attori storici: la Finanza, ovvero la classe capitalista in quanto classe dotata di istituzioni finanziarie sue proprie, e i Quadri, che controllano le attività produttive e finanziarie in maniera diretta e l’amministrazione centrale in maniera indiretta. I quadri formano così una classe intermedia che si appropria di una parte del surplus, monopolizza l’istruzione superiore e si distingue per il suo stile di vita particolare −annettendo alcune professioni intellettuali che condividono in misura maggiore o minore gli stessi privilegi. Si giunge dunque a un modello tripolare: capitalisti, quadri e classi popolari.

Emerge così un nuovo “modo di produzione”, designato come “quadrismo”, che rende visibile il carattere parassitario della classe capitalista e può essere riscontrato in regimi diversi,  democratici o dittatoriali, in particolare nel socialismo burocratico. Le società contemporanee appartengono a un “capital-quadrismo” in transizione verso un “quadrismo” puro e semplice. Il cammino verso il socialismo presuppone un compromesso tra quadri e classi popolari, che miri  innanzitutto all’eliminazione della proprietà capitalistica e alla radicalizzazione della democrazia. Esso passa dunque attraverso quello che GD e DL chiamano un nuovo “ordine sociale”, un nuovo rapporto di potere tra le tre forze sociali. La nozione di “ordine sociale” indica una fase di pochi decenni, più ristretta rispetto alla storia plurisecolare del “modo di produzione capitalistico”. Il capital-quadrismo ha conosciuto ad esempio tre “ordini sociali” successivi, separati da quattro crisi strutturali (1893, 1929, 1970, 2007) legate le une ad un abbassamento del tasso di profitto (1893 e 1970) e le altre (1929, 2007) a un cataclisma interno al sistema finanziario, e in ogni caso alle lotte popolari contro la classe capitalistica nel contesto delle mutevoli relazioni tra le tre forze sociali. Il primo “ordine”, 1893-1929, coniuga egemonia della Finanza e compromesso tra quadri pubblici e privati. Nel secondo, 1930-1970, si intensifica l’alleanza tra quadri e classi popolari e si indeboliscono i profitti e i poteri capitalistici. Il terzo (1970…), l’ordine neoliberista fondato sull’alleanza tra quadri e capitalisti sotto l’egemonia della Finanza e inasprito dal fallimento dell’esperienza sovietica, è segnato dalla deregulation, dall’apertura delle frontiere ai movimenti di capitale, dal declino della protezione sociale e della condizione dei lavoratori ecc, e reitera il tipo di egemonia sperimentata nel 1893. Si noterà che questa analisi differisce da quella proposta dalla teoria della regolazione, nella misura in cui insiste sull’esistenza di una tendenza storicamente orientata (ascesa dei quadri) e contesta che le crisi siano prevalentemente legate alla distorsione del rapporto tra salario e produttività.

Si passa così da uno schema binario (capitalisti/proletari) a uno ternario (capitalisti/quadri/classi popolari), che segue una evoluzione definita. Con l’ascesa della socializzazione della produzione nel corso del primo XX secolo i quadri si autonomizzano fino a divenire capaci, nel dopo-guerra, di creare una vasta rete di istituzioni pubbliche e di condurre una macropolitica fiscale e monetaria. Il neoliberismo apre una nuova fase della socializzazione, sotto una forma privata che sfugge ai poteri nazionali e nella quale i quadri finanziari sopravanzano quelli tecnici. Questo nuovo ordine sociale non inverte la tendenza storica: la spesa pubblica non si restringe in rapporto al PIL, e i quadri continuano a migliorare la loro posizione rendono manifesto che i capitalisti sono impotenti senza di loro… Ma va in una direzione opposta a una evoluzione sociale progressista e alla crescente esigenza di un’organizzazione della produzione. Resta da vedere se i quadri saranno capaci di riconquistare l’egemonia, e sulla base di quali alleanze: con i capitalisti o con le classi popolari? Tutto ciò dipende dalla potenza delle lotte popolari, ma anche dall’attitudine dei quadri delle istituzioni pubbliche a riprendere un certo controllo della politica economica.

Questa analisi si lega a una concezione dello Stato non come mero agente di una classe dominante, ma come complesso delle istituzioni che costituiscono le gerarchie e le alleanze interne a un dato ordine sociale. Nel dopo-guerra le classi popolari giocano un ruolo importante nelle istituzioni statuali, ma i capitalisti non mancano di guadagnare terreno man mano che il mercato fa retrocedere altri e più antichi modi di socializzazione. A conti fatti, la socializzazione è un fenomeno pluridimensionale: crescita delle unità di produzione e complicazione delle loro relazioni, concentrazione del capitale, sviluppo di un coordinamento centrale sul piano non solo della finanza, ma anche dei trasporti, della sanità, della ricerca, ecc. Essa richiede, anche nelle istituzioni finanziarie, un livello di organizzazione crescente. Per quanto i capitalisti abbiano costantemente mirato allo sviluppo delle istituzioni di coordinamento privato (banche, borse, ecc.), lo Stato, in quanto Stato di classe, è sempre stato un attore decisivo di questo processo. Nel neoliberismo la sedicente “fine della politica” non è che l’espressione del monopolio del potere da parte delle classi superiori.

 

 

1.2. Due registri teorici.

 

Questo affresco impressionante, che rende conto di un secolo e mezzo di storia del capitalismo, si fonda su una certa lettura del Capitale. La “critica dell’economia politica” contenuta in quest’opera veicola una economia politica, che GD e DL non solo utilizzano ma completano e talvolta correggono. Come è noto, quello marxiano non è un sistema dalla vocazione atemporale. Marx situa il suo oggetto in un contesto storicamente definito da una articolazione specifica tra forme economiche, giuridico-politiche e ideologiche altrettanto specifiche. È a questo livello che si situa la sfasatura tra la lettura o l’uso del Capitale da parte di un economista o di un filosofo. Il Capitale articola infatti due livelli discorsivi distinti. Una parte degli enunciati −il Libro II e II nella loro quasi totalità− rientrano nell’ambito del sapere economico. Altri sviluppi, in particolare nel Libro I, sollecitano l’interesse analitico e critico di discipline diverse: sociologia, storia, diritto, filosofia. Oltre al suo contenuto economico, insomma, il Libro I presenta a mio avviso lo schizzo di una teoria d’insieme della società moderna, compresa nella sua struttura di classe. Nella Prefazione della Critica dell’Economia Politica (1861), la struttura di classe capitalistica si trova definita dalla relazione tra una “struttura economica”, in cui si articolano “forze produttive” (tecnologia”) e “rapporti di produzione” (e cioè di proprietà, di scambio, di organizzazione del lavoro, d’informazione, di appropriazione e ripartizione), e una “sovrastruttura, nella quale si definiscono le condizioni istituzionali giuridico politiche e ideologiche di questi rapporti di produzione, in quanto rapporti di classe o di conflitto, di sfruttamento e di dominio. Questa visione in termini di edificio prescrive di studiare le società non a partire dalle loro istituzioni politiche o culturali, ma dalle “condizioni materiali di esistenza” che ne formano “la base”. La metafora architettonica −ed è proprio questo il punto per me decisivo− non riesce però nascondere l’immanenza della “sovrastruttura” alla “struttura”, del giuridico-politico all’economico. Nella società moderna le persone sono sfruttate e dominate, almeno nello spazio dello Stato-nazione, in un quadro giuridico supposto identico per tutti, che dichiara tutti liberi ed eguali. Finzione, certo, ma che possiede nondimeno una terribile efficacia, producendo effetti contraddittori di dominazione e di provocazione emancipatrice. Una potente realtà, dunque. Proprio perché situa la propria opera economica in un tale contesto, nel contesto reale dell’attività economica moderna, Marx riesce a sfuggire all’idealismo di una teorizzazione  astratta e atemporale dell’economia.

È a questo livello che si radica la nostra difficoltà: questi due ordini di enunciati – quelli della teoria d’insieme e quelli della teoria economicasi formulano nello stesso tessuto concettuale. I produttori scambisti di cui si tratta fin nel primo capitolo, anche se sono sottomessi al peso di costrizioni ineguali, si danno come liberi e eguali nell’interazione di scambio: un simile enunciato chiama in causa i concetti giuridico-politici di libertà e di eguaglianza. L’economista, dal canto suo, può rivendicare il diritto di attenersi ai concetti e agli enunciati meramente economici del Capitale, che costituiscono la trama dell’opera e formano un sistema che esclude come tale ogni diversa considerazione. Consapevole che nessun fatto reale è mai puramente economico, l’economista aggiungerà che il suo sapere deve coniugarsi con saperi diversi: storici, politici, culturali, ecc. Ragionare in questo modo è senza dubbio conveniente, ma io credo che non ci si possa arrestare qui. Inscrivendo la propria teoria economica in questa particolare architettonica infra/sovrastrutturale Marx si assegna infatti come oggetto la società moderna come un fenomeno di insieme e cerca di produrne una teoria d’insieme, capace di decifrarne la dinamica e i movimenti, in un modo che consenta agli attori coinvolti di agire per trasformarla. Questa teoria di insieme non è strutturata come una semplice giustapposizione di teorie diverse, l’una economica, l’altra politica, e via dicendo. I concetti costitutivi e gli enunciati primi, che formano la trama del suo discorso propriamente economico, sono in realtà di natura economico-politica. È in questo modo che Marx risponde a un vincolo teorico insito ogni teoria generale della società: pensare il diverso, significa pensarlo nella sua unità. È questa la via che mi propongo di seguire.

Aderisco volentieri alle esigenze “scientifiche” dell’economista. I meccanismi economici hanno una logica propria e la loro analisi presuppone quindi concetti specificamente economici. C’è così, nel Capitale, una teoria propriamente economica che si forma in maniera puramente analitica a partire dai concetti primi di valore e plus-valore e dall’insieme categoriale che li costituisce. Ma questo complesso sistematico può essere prodotto solo facendo astrazione dalle componenti giuridiche, politiche e ideologiche che appartengono a questi stessi concetti, per come essi si danno nella “teoria d’insieme” della società moderna proposta nel Capitale. Sono gli stessi concetti, ma spogliati della loro dimensione politica. Così, per esempio, nel Libro I si può seguire un percorso economico-analitico che va dalla Sezione 1, intitolata “Valore”, alla Sezione 3, “Plusvalore”, e in questo percorso non interviene nessuno di quei procedimenti “dialettici” attraverso i quali si manifestano più ampie implicazioni antropologico-politiche. Le buone introduzioni economiche del Capitale vanno in questa direzione. I loro enunciati sono del tipo: il valore è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario, il salariato lavora per un tempo più lungo di quello necessario alla produzione dei suoi beni-salario. Allo stesso modo, è possibile seguire nel Libro II le metamorfosi del valore lungo il ciclo del capitale e le condizioni di una riproduzione in equilibrio, in crescita, ecc., e nel Libro III la trasformazione del valore in tasso di profitto. In questa astrazione dalla dimensione giuridico-politica e sociale si manifesta il carattere “regionale”, specifico, che costituisce la condizione della peculiare scientificità di questa forma di sapere. La capacità dimostrativa del lavoro di GD (e DL) mi sembra derivare appunto dalla loro capacità di mantenersi costantemente entro questi confini, pur situando d’altro canto il fenomeno economico in un contesto sociale e politico. Resistono a quelle precipitose contaminazioni fra generi che sin troppo spesso intaccano i discorsi ispirati al marxismo (in particolare quando gli economisti a vocazione profetica cercano un “supplemento d’anima” nel repertorio delle filosofie che parlano di dominazione o emancipazione).

La scientificità economica non esaurisce però l’oggetto del Capitale. Marx, che pratica senz’altro l’economia (come la storia, che costituisce un’altra forma particolare di sapere), ha aperto anche un altro cantiere, nel quale si fa carico di una teoria generale di quella che nella Prefazione chiama “società moderna”. Questa operazione può essere verificata attraverso l’esame dei concetti che strutturano l’esposizione del Capitale. Rapportando il valore al «dispendio di forza-lavoro» Marx è in grado di concludere che il suo acquirente, il capitalista, «consuma» questa forza-lavoro, la quale è certo «a sua disposizione», e della quale il lavoratore non cessa nondimeno di «disporre», potendo sempre venderla a qualcun altro. In questa terminologia si riconosce facilmente una trama di concetti sociologico-politici che impegnano nozioni come quella di diritto e di torto, di dominazione e resistenza, di libertà e sottomissione, ecc. La relazione capitalistica include tutto questo, soprattutto in quanto resta ad un tempo una relazione di mercato. La specificità dell’economia di Marx è di essere, nel senso più rigoroso (benché tradizionale) del termine, una “economia politica“. La relazione salariale di mercato è politica: si determina nella lotta secolare per la giornata “legale” di lavoro, attraverso la quale arriva ad imporsi all’istanza statuale, e nella quale ne va del dispendio di forza-lavoro e della longevità del lavoratore. Questo determinazione appartiene al suo concetto. Marx manifesta in questo modo un’ambizione propriamente filosofica, quella di una critica dei saperi (l’economia classica, la filosofia politica borghese) capace di connetterli tra loro. Non di giustapporre ecletticamente teorie diverse, ma di collaborare a una teoria d’insieme che renda evidente come e perché questi differenti saperi – economia, sociologia, diritto, storia – si integrino, si limitino e si critichino l’un l’altro. La teoria elaborata da Marx non si presenta come una totalità filosofica. Non escludendo la prospettiva economica e politica, non si lascia neppure ridurre a una sociologia generale, quale potrebbe essere quella bourdieusiana. Marx lavora propriamente a una teoria d’insieme, a una teoria generale dei tempi moderni. Il suo programma di ricerca risponde all’esigenza di pensare il nostro tempo, vale a dire pensarlo per quanto possibile nelle sue diverse dimensioni all’interno di uno stesso corpo teorico. Egli lavora a quella particolare unità teorica richiesta da una pratica di emancipazione condivisibile da tutti, in quanto razionale e ragionevole.

I filosofi non hanno mancato di impegnarsi in questa direzione. Hanno prodotto molteplici commentari del Capitale, spesso addirittura illuminanti. Il problema, però, è che in questo caso specifico i commentari non bastano: occorre di capire quel che vale questa “teoria generale”, e quello che al suo interno è possibile riconoscere come vero o come falso. E questa non è soltanto materia da economisti. Secondo GD una terza classe, quella dei quadri, è apparsa in seguitoal la rivoluzione manageriale. Per me la è invece la forma moderna della società in quanto tale a comportare tre forze sociali primarie, invece delle due presupposte dal Capitale e dal marxismo standard. A dispetto di questo scarto GD ed io siamo arrivati, in Altermarxisme, a una certa convergenza: a fronteggiarsi, ai nostri occhi, non sono soltanto una classe di capitalisti da un lato e una classe composta da salariati e altre figure dall’altro, perché esiste anche una terza entità costitutiva, la cui posizione dominante non dipende dal possesso di capitale. Abbiamo chiamato questi soggetti “quadri e esperti”. Certo, si dirà che questo è un segreto di pulcinella, visto che la sociologia politica si interessa da molto tempo al potere delle “élites”. Resta tuttavia da capire se questo fenomeno possa essere analizzato à la Marx, in termini di rapporti e di lotte di classe e nella prospettiva di una strategia di emancipazione. In modi diversi, sia io che GD ci muoviamo in questa direzione. GD e DL portano avanti un’economia che fa corpo con una teoria delle classi sociali. La considerazione del fenomeno “quadrista” li conduce a una rinnovata analisi del processo di accumulazione, di crisi, di egemonia, delle dinamiche e delle strategie, a una ricostruzione della storia economica dell’ultimo secolo, a una diagnosi che sfocia su pronostici e previsioni macroeconomiche a lungo termine. Da parte mia, invece, io tento di interpretare l’esistenza di questo triangolo di classe nella longue durée dell’età moderna, e di identificare il suo significato sociale e politico sulla base di un rimaneggiamento della concettualità di Marx al livello della sua teoria d’insieme. Più precisamente, mi propongo di rifondare l’edificio, ripensando i rapporti infra/sovrastrutturali che costituiscono la struttura di classe.

 

 

1.3.   Ricostruire l’edificio marxiano con procedimento marxiano

 

Per ricostruire la struttura di classe mi rivolgo infatti alla procedura seguita nel Capitale. Marx, si sa, arriva ad affrontare questo punto solo nella Sezione 3 del Libro I, dedicata al plusvalore, il meccanismo cioè attraverso il quale si riproduce la spaccatura della società in due classi, l’una delle quali è sempre di nuovo in condizione di sfruttare l’altra. È degno di nota che non si possa giungere a formulare questo problema se non a partire dall’analisi della relazione di mercato compresa come un rapporto di produzione, provvisto di una sua logica specifica, tra produttori-scambisti indipendenti e in concorrenza sul mercato. Questo quadro ideale, di una logica mercantile di produzione in sé stessa razionale, presuppone dei tratti giuridico-politici: proprietà privata, libertà di scelta nella produzione e nello scambio che mette i partners in posizione di eguaglianza (e la critica che Marx ne fa in termini di “feticismo” è una variante sottile dell’argomento filosofico classico della servitù volontaria). Si passa al concetto di capitalismo a partire dal momento in cui si presuppone – o si constata – che soltanto alcuni dispongano dei mezzi di produzione, mentre gli altri non possano far altro che vendere la propria forza-lavoro. Questi diversi soggetti entrano così in un rapporto capitalistico il cui “presupposto” resta il rapporto (di liber-eguaglianza) mercantile, rapporto che non si dissolve in quello di lavoro salariato, ma si trova strumentalizzato nel rapporto di classe sotto forma di sfruttamento e dominazione. Il capitalismo viene definito così come una strumentalizzazione della razionalità di mercato. La struttura è la strumentalizzazione di una metastruttura razionale. Questo rapporto di mercato −libero, eguale e razionale− è il presupposto della struttura. Ma è la struttura capitalistica che, attraverso la sua dinamica di accumulazione di plusvalore, mercifica qualunque cosa, inclusa la forza-lavoro: universalizza, in altri termini, l’ordine di mercato nell’atto stesso di strumentalizzarlo in un rapporto di sfruttamento. Per esprimere questo concetto marxiano ho proposto il termine di “metastruttura”, intesa come presupposto della struttura capitalistica. Esso designa quella finzione attiva, assieme “reale” e “irreale”, di cui parla Marx.  Lo sfruttato è interpellato come libero, uguale e razionale. È ovvio allora che entri in lotta. Anche se il termine “metastruttura” è nuovo, l’idea è al cento per cento marxiana…

L’idea di metastruttura elaborata da Marx, però, è incompleta, e questo perché la sua stessa teoria della struttura è incompleta. Per estendere la matrice strutturale, e far apparire l’altra forza che viene dall’alto, è tuttavia sufficiente seguire lo stesso procedimento marxiano. Bisogna semplicemente spingerlo più lontano di quanto Marx stesso non faccia. Egli invita a pensare il processo sociale di produzione, nel suo insieme, a partire dalla considerazione di due tipologie di divisione del lavoro, o − come dicono gli istituzionalisti − di coordinamento razionale del lavoro su scala sociale: da una parte il mercato, dall’altra quella che Marx stesso chiama l’organizzazione, “die Organisation” (Grundrisse, 1, 27). Anche se quest’ultima viene analizzata solo nel contesto della fabbrica, è chiaro che l’organizzazione governa anche l’amministrazione generale dello Stato. Il mercato coordina riequilibrando a posteriori degli agenti indipendenti (anche se sempre anticipando, chiaramente), l’organizzazione attraverso la disposizione a priori dei fini e dei mezzi sotto una stessa autorità, e l’economia moderna è sempre una certa articolazione di entrambe queste modalità di coordinamento. Marx designa mercato e organizzazione come due “mediazioni” (Vermittlung Grundrisse, 1, 27), la prima delle quali sfocia nel capitalismo, mentre la seconda, pur sviluppandosi all’interno capitalismo (in seno all’impresa), annuncia il suo ineluttabile superamento attraverso una forma di “pianificazione concertata”. L’errore di questo discorso risiede a mio modo di vedere nel fatto che queste due mediazioni coesistono strutturalmente nella forma moderna della società: sono strumentalizzate in due fattori di classe, che convergono nel rapporto di classe moderno. Questo rapporto merita certo di essere qualificato come «capitalistico», ma esige al tempo stesso di essere ulteriormente qualificato. GD e DL hanno scelto il nome di “quadrismo”, in particolare per identificare il processo che si sviluppa nel corso del XX secolo. Ne traggono degli insegnamenti preziosi sull’emergenza del regime di compromesso normalmente detto “socialdemocratico” dopo la crisi degli anni ’30, sull’interpretazione del neoliberismo e della sua crisi. Trattandosi però di fondamenti e di mutazioni di regimi egemonici, io propongo da parte mia un approccio almeno in parte differente.

 

 

1.4    Metastruttura come decostruzione del rapporto infra/sovrastruttura

 

Sul piano dell’analisi storica il lavoro di Foucault, in particolare quello che ruota attorno a Sorvegliare e punire, rende evidente che l'”organizzazione” non è semplicemente un prodotto della manifattura o dell’industria, in quanto si sviluppa simultaneamente e in modo folgorante  anche in altre grandi istituzioni sociali (di classe): l’ospedale, l’esercito, la scuola, la prigione. Questo sviluppo sconsiglia di affrontare il rapporto di classe moderno nel suo insieme in termini di sola produzione capitalistica. Mi sembra dunque necessario riprendere il problema strutturale nel suo insieme. La Scuola di Francoforte ha parlato di una ragione strumentale. A me sembra più adeguato parlare di una «strumentalizzazione della ragione», compresa secondo le due “mediazioni” sociali del mercato e dell’organizzazione, che possono farsi valere come razionali e ragionevoli solo sotto il controllo della relazione comunicativa “immediata” e nella forma supposta democratica dello Stato-nazione. Ci si trova così ricondotti a una configurazione che attraversa la filosofia politica e le scienze sociali: questa bipolarità economica del mercato e dell’organizzazione è correlativa del tra-ciascuno e del fra-tutti, della libertà dei Moderni e degli Antichi. Ho esposto altrove, e in particolare in L’État-Monde, questo “quadrato metastrutturale”. Mi limito qui a sottolineare che questa analisi metastrutturale consente di decifrare la struttura e di identificare il fondamento della dualità delle “forze dall’alto”, o in altre parole quella che ai miei occhi appare come la strutturale bipolarità interna alla classe dominante. Essa permette infatti di individuare le due forze sociali dominanti, strettamente legate l’un l’altra ma pur sempre reciprocamente ineguali e incomparabili, a partire da due diversi tipi di privilegi dissimili, che si riproducono nel loro stesso esercizio secondo vie altrettanto differenti: un potere-proprietà sul piano del mercato e un sapere-potere sul piano dell’organizzazione.  La ragione per la quale a mio avviso c’è una sola classe dominante e non due risiede in ciò, che questa classe non esiste se non attraverso quella relazione di convergenza-divergenza tra i suoi due poli che determina ad un tempo la sua potenza e la sua fragilità storica: spezzare questo potere di classe significa spezzare in due questa classe dominante, e proprio questo deve essere l’obiettivo della classe popolare.

Il “capital-quadrismo” proposto da GD e DL formula, secondo modalità concettuali differenti, una prospettiva analoga. Il termine di “quadro” ha il proprio valore euristico rispetto all’interpretazione della storia economica e politica compresa tra il XIX e il XXI secolo in rapporto alla grande impresa, e da questo punto di vista la scelta di concetti come quelli di “quadri” o “classe operaia” è senz’altro scientificamente giustificata: ed è così che E. P. Thompson ha potuto scrivere una “storia della classe operaia inglese”. Anche a volerne allargare il campo di applicazione alle amministrazioni di qualunque ordine e grado, però, questo termine mi sembra comunque insufficientemente generale per designare un fenomeno che si estende lungo l’intero arco dell’età moderna. Tornerò su questo punto nel libro che sto preparando, Foucault avec Marx. Malgrado ogni vocabolo abbia i suoi inconvenienti, per esprimere una tale generalità mi è sembrato si possa parlare, in stretto parallelo col sapere-potere foucaultiano, di «competenti-dirigenti». Non di coloro che sono competenti. Ma di coloro che hanno (ricevuto) competenza. Quelli ai quali è stata data competenza nel circolo (dei circoli) della riproduzione-conservazione di tali privilegi. Questo concetto guarda certo ai managers ai quali i capitalisti danno la competenza di dirigere. Gli agenti così definiti, però, non sono identificati unicamente dal posto che occupano: lo sono innanzitutto dalla loro capacità sociale di occuparlo, dalla loro competenza (culturalmente prodotta) a ricevere competenza. Si comprende allora perché questa altra forza dall’alto attraversi le sfere dell’economia, della finanza, dell’amministrazione, della cultura, dell’informazione, dell’esercito, ecc.: dalla direzione degli affari alla direzione delle anime o alla gestione dei desideri. È a partire da qui, mi sembra, che si può comprendere in tutta la sua ampiezza il contesto strategico di una politica di emancipazione.

L’approccio metastrutturale indica infatti, al tempo stesso, il motivo per il quale occorre parlare al singolare dell’altra classe, la classe popolare. Io la chiamo anche «fondamentale» per sottolineare che essa non può essere definita né dal fatto di lavorare, labour class, né dal fatto di essere sfruttata, come accade nella prospettiva di una storia delle società come storia dei modi di sfruttamento che sembra fatta propria da GD. Produce, canta, inventa (le invenzioni sono fatte da gente ordinaria, che d’un tratto si rivela eccezionale), pensa. La sua unità dipende dal fatto che i suoi membri si trovano costantemente presi da entrambi i fattori di classe, mercato e organizzazione. Il suo frazionamento, invece, dal modi in cui essi lo sono a gradi diversi, a seconda che domini la dipendenza gerarchica (dipendenti pubblici) o la subordinazione mercantile (autonomi, contadini), o una posizione in cui i due fattori sono più strettamente associati (salariati del privato). Quanto all’esclusione, la povertà moderna, essa segnala un’espulsione fuori della rete del mercato e/o dal tessuto organizzativo. Questa configurazione metastrutturale definisce ad un tempo le determinanti primarie (sulle quali se ne innestano molte altre) della frammentazione della classe popolare e delle sue risorse di solidarietà − i fondamenti della sua potenza moltitudinaria.

A conti fatti, dunque, io e GD non impieghiamo la parola “classe” nello stesso senso. Come si è visto GD e DL la utilizzano, in modo abbastanza classico presso i marxisti, nel senso di gruppo sociale i cui membri sono unificati dalla comune posizione nei rapporti di produzione e da altri caratteri che ne derivano (stile di vita, ecc.). Io la intendo invece nel senso di divisioni caratteristiche della forma sociale moderna, nelle quali si costituiscono dei gruppi sociali storicamente variabili. I rapporti di classe dividono la società. È in questo senso che Althusser diceva che “la lotta di classe precede le classi”. Marx analizza il rapporto di produzione capitalistico come un processo che scinde strutturalmente in due la società e riproduce questa scissione. L’analisi di classe ha così per oggetto un processo generale di divisione che si perpetua: laddove gli operai diminuiscono in numero relativo, le “classi” esistono ancora e non meno di prima. C’è secondo me una divisione primaria tra le sue classi, che riguarda la coesione della coppia mercato/organizzazione, e due divisioni secondarie, derivanti dalla differenza tra mercato e organizzazione, che distinguono da parte i due “poli” della classe dominante e dall’altra le tre “frazioni” della classe fondamentale. I nostri approcci non si escludono a vicenda. Ma essi nascono da uno scarto, del quale non posso qui affrontare tutte le conseguenze.

Sono occorre che io mi spinga più lontano. La “rifondazione metastrutturale” da me proposta comporta quattro dimensioni, attraverso le quali si distingue in parte dall’approccio di GD, sebbene si possano poi ogni volta discernere certe interferenze che cercherò di mettere in evidenza. La prima concerne la questione di cosa si intenda per “produzione”. La seconda, la periodizzazione dei tempi moderni. La terza, la prospettiva politica. La quarta, la relazione tra struttura di classe e sistema-mondo.

 

 

 

2.  SCARTI E INTERFERENZE.

 

 

2. 1. A mio avviso, la teoria della società moderna deve considerare sin dal principio il processo propriamente moderno della produzione nella sua doppia dimensione, mercantile e non mercantile.

 

È il problema col quale ci si trova confrontati sin dalla prima frase del Capitale. “La ricchezza delle società in cui regna il modo di produzione capitalistico si annuncia come una ‘immensa accumulazione di merci’. L’analisi della merce, forma elementare di questa ricchezza, costituirà conseguentemente il punto di partenza delle nostre ricerche» (corsivi miei). Prima frase, primo errore[3]. Per “ricchezza” Marx intende , in opposizione al “valore”, l’insieme dei valori d’uso che sono prodotti dalle società in questione e dei quali esse possono disporre. Bisogna dunque includervi dei “prodotti” che non corrispondono pienamente allo statuto di merci, o non vi corrispondono affatto. Tralasciando qui il tema fondamentale del lavoro domestico, si tratta ad esempio dei servizi pubblici dell’educazione, della sanità, dell’informazione, della ricerca, della cultura, dei trasporti, ecc., e a diverso titolo delle amministrazioni, delle strade, dei porti, dei piani urbanistici, dei luoghi e degli edifici pubblici, ecc. Queste ricchezze, risultato di lavori in parte interni (equipaggiamenti comperati) e in parte esterni al mercato (lavoro dei funzionari, che non producono merci), si accumulano secondo una logica sociale di selezione, di produzione e di fruizione di valori d’uso che non risponde interamente alla logica del plus-valore. Si dirà che nel capitalismo ciò che è interno e ciò che è esterno al mercato sono strettamente connessi, e partecipano di uno stesso processi di riproduzione. Ora, la teoria può senz’altro rapportare l’attività non mercantile alla produzione mercantile, in quanto è remunerata attraverso una fiscalità essa stessa prelevata dai risultati monetari dell’attività mercantile di capitalisti e salariati. Questa possibilità, però, non toglie nulla al fatto che alcune ricchezze siano prodotte fuori mercato e secondo una logica non capitalistica. Come del resto succedeva già ai tempi di Marx. Sin dalla prima frase il Capitale esclude dunque dal proprio oggetto la forma di produzione non mercantile che ciò nonostante non manca di caratterizzare la (forma di) società che esso si propone di studiare. Le conseguenze di questa unilateralità del punto di partenza sono decisive per l’insieme della teoria.

L’approccio metastrutturale consente di prendere le misure di questo problema. La teoria del capitalismo si concentra sul “lavoro produttivo di plus-valore”, e definisce così quel campo immensamente fecondo del quale testimoniano tra gli altri anche i lavori di GD e DL.  Una teoria generale della società moderna, però, non può esimersi dal prendere in considerazione il fenomeno del “lavoro produttivo di valore d’uso”. Ciò che sfugge a una teorizzazione ristretta della produzione in quanto produzione di plus-valore diviene evidente non appena si ricorda che la forma moderna di società procede dall’interferenza, sotto l’egida dello Stato-nazione e in uno spazio internazionale aperto agli scambi, delle due “mediazioni” che rappresentano i due modi di coordinamento sociale, quella del mercato e quella dell’organizzazione. Il coordinamento tramite organizzazione, che si esercita nella produzione di merci come in quella di semplici valori d’uso, viene strumentalizzata come “fattore di classe” e dà luogo così, all’interno della classe dominante, al polo dei “competenti-dirigenti”. Ai miei occhi, dunque, quella indicata da GD come la questione dei “quadri” non nasce all’interno dell’impresa con la rivoluzione manageriale, che pure ne rappresenta un episodio particolarmente importante, paragonabile a quello della “classe operaia” nella storia della classe fondamentale.  Essa è, nel suo principio, più antica, vecchia quanto la forma moderna di società che emerge impercettibilmente all’interno di forme sociali anteriori. Ne derivano, a mio avviso, delle conseguenze considerevoli sia per l’interpretazione della storia moderna (in tutte le sue dimensioni,  economica, politica e culturale) sia per le prospettive del “socialismo” o del “comunismo”. È in questo senso, del resto, che io mobilito Foucault all’interno del materialismo storico di Marx.

 

 

2.2.    La metastruttura come principio di periodizzazione in termini di “regimi di egemonia”.

 

L’approccio metastrutturale propone, in termini di “regime di egemonia”, una periodizzazione molto vicina a quella proposta in termini di “ordine sociale”, ma su basi concettuali parzialmente differenti. Esso collega la struttura di classe alle due “mediazioni” definite da Marx, strumentalizzate in “fattori di classe” fusi nel “rapporto di classe” moderno dallo Stato-nazione sotto la sfida dello scontro discorsivo “immediato” attraverso il quale i cittadini si dichiarano liberi ed eguali. Esso si connette all’analisi marxiana in termini di infra/sovrastruttura, della quale rappresenta al contempo l’attivazione e la decostruzione. Il concetto di metastruttura manifesta infatti l’immanenza della sovrastruttura alla struttura e la contraddizione che attraversa entrambe. Non si situa sul piano della sovrastruttura: è altrettanto attivo sul piano strutturale, perché genera un concetto bipolare della struttura stessa. Esso spiega anche perché la struttura sia sempre presa nella lotta sociale, travagliata dai presupposti contraddittori della metastruttura: tutti proclamano la libertà, gli uni sostenendo che è già realizzata, gli altri che è ancora da conquistare. È proprio questa contraddizione che progressivamente si delinea all’interno dello Stato-nazione sul piano della lunga durata, man mano che esso investe la società in profondità e secondo la struttura di dominazione di classe che  gli è propria.

Sul piano storico la metastruttura va dunque considerata anche come un principio di periodizzazione. Faccio riferimento, proprio come GD e secondo una tradizione che risale a Marx, al concetto di “modo di produzione”. Anche se certi autori lo identificano questo concetto con quello di struttura, mi sembra più coerente con la concettualità marxiana riferirlo all’insieme infra/sovrastrutturale, vale a dire all’intero “edificio” a partire dal quale la Prefazione della Critica dell’economia politica dipana il proprio “filo conduttore”. In questo senso pregnante il «modo di produzione capitalistico» riesce a definire l’ordine  sociale moderno, almeno secondo uno dei due “poli” costitutivi, ma, a me pare, resta incapace di disegnare un particolare concatenamento di stadi storici (feudalesimo, capitalismo, quadrismo…). Il programma metastrutturale è più ristretto. Mira a una teoria della “forma moderna di società”, e a distinguere  nel corso dei “tempi moderni” i diversi “regimi” che vi si succedono[4] definiti tramite il tipo di relazioni di alleanza e di egemonia che articola le tre forze sociali costitutive del rapporto di classe moderno. Seppure abbastanza prossima a quella proposta da GD e DL (che ha del resto contribuito a stimolarla), questa periodizzazione è fondata però su motivi teorici differenti, e si inscrive in una temporalità diversa: nella lunga durata dei tempi moderni sin dai loro inizi medievali (almeno per quanto riguarda l’Europa: tralascio qui inizi diversi e più antichi, come in particolare quello cinese), dai quali emerge progressivamente la “forma moderna di società” fondata sulla strumentalizzazione delle due mediazioni, mercato e organizzazione[5].  Mi limito qui agli ultimi due secoli. Se si designa con “K” i capitalisti, con “E” l’élite dei competenti-dirigenti e con “P” la classe popolare o fondamentale, rappresentando inoltre con “V” la contraddizione principale e con “v” la contraddizione secondaria (che è anche alleanza), si assiste allora al succedersi, dall’Ancien Régime, di tre regimi successivi:

− il regime della borghesia,  KvÉ V P, 1750…

−il regime dello Stato-sociale nazionale, K V ÉvP, 1930…

− il Regime neoliberale, KvÉ V P, di nuovo, 1970-80…

− senza dimenticare la variante del Regime del socialismo reale, É V P.

Si comprendono allora i termini del mio incontro con GD, e le ragioni dell’analogia tra le nostre analisi dei grandi processi storici del XX secolo. Ma è chiaro che il cammino e la competenza dell’economista autorizzano degli argomenti differenti, delle analisi che hanno il loro valore proprio e delle conclusioni che concernono in particolare una strategia economica, di cui il lavoro filosofico non può evidentemente dare la minima idea.

 

 

2.3.   Quale prospettiva di « lotta di classe» ed emancipazione?

 

La teorizzazione metastrutturale, pur trovandosi così confortata dai lavori di GD, esprime ai miei occhi più chiaramente la prospettiva politica che noi condividiamo. L’approccio in termini di “capital-quadrismo” finisce per concepire il “quadrismo” come un modo di produzione intermedio fra capitalismo e socialismo, segnato da un’alleanza fra quadri e classi popolari, o almeno come la condizione della vittoria sui capitalisti. In questo senso esso ne fa un obiettivo sul cammino dell’emancipazione. Possiamo infatti pensare che si debba distinguere fra obiettivi vicini e fini più lontani. Ciò non significa, naturalmente, che si possa formulare un discorso politico che invochi una lotta per un “quadrismo” nel quale i quadri si sostituirebbero ai capitalisti nella posizione di classe dominante. E non è chiaramente questa l’intenzione di GD. Ma la questione non riguarda semplicemente la terminologia o i vincoli retorici di un discorso politico efficace. La classe fondamentale, nella misura in cui tende ad emanciparsi dai rapporti di classe, affronta una classe dominante che forma un insieme coerente. Sconfiggerla vuol dire dividerla, disconnettere i suoi due elementi. GD legge sicuramente i fatti alla stessa maniera. La lotta si presenta immediatamente su entrambi i fronti dominanti. I dirigenti-competenti non si smarcheranno dai capitalisti se non in quanto la classe popolare, riuscendo a riunificare le diverse frazioni nelle quali si trova divisa, cresca in potenza fino al punto di diventare rispetto a loro egemonica (e credo che sia proprio questo quello che è avvenuto almeno in una certa misura durante il regime dello Stato-sociale nazionale, anche se la memoria dei vinti è stata essa stessa sconfitta, e si è finito con l’attribuire ai quadri il ruolo di protagonisti). Ciò non vuol dire che occorra aspettare che questa egemonia si realizzi per provare ad andare più lontano. Una coordinazione sulla base del primato dell’organizzazione, e quindi dei competenti, è sempre preferibile a quella costruita sulla base del primato del mercato, quindi dei capitalisti. Ma conviene qui, mi sembra, partire dal terzo termine del trinomio metastrutturale”: il discorso “immediato”, supposto avvicendarsi tra le “mediazioni” del mercato e dell’organizzazione di fatto strumentalizzate in «fattori di classe». È infatti tutto ciò di cui possono disporre, attraverso la quotidiana lotta democratica, coloro che sono sprovvisti dei privilegi della proprietà e della competenza. Da qui la «massima» suggerita: controllare il mercato attraverso l’organizzazione e questa attraverso la democrazia. Ed è in questo senso, senza dubbio, che anche GD insiste sulla lotta di classe e sulla democrazia. Ma l’approccio metastruttuale si orienta già autonomamente ed in maniera esplicita verso la simultanea ricerca di una riduzione dei diritti della proprietà e di una appropriazione collettiva delle «competenze». Su queste questioni, come su quelle che seguono, non ci sono divergenze fra le mie posizioni e quelle di GD. Credo tuttavia che tali conclusioni esigono che si prendano le cose da un punto di vista più alto, a un livello concettuale nel quale i diversi continenti del sapere non hanno ancora cominciato a separarsi. Non si tratta di una massima economica, ma di una massima metastrutturale. Essa muove da un’analisi di classe nella lunga durata della modernità, e non implica affatto che la “struttura di classe moderna” costituisca un orizzonte insuperabile della modernità. Essa enuncia al contrario, nella loro imprescindibile generalità, le condizioni di una emancipazione dal rapporto di classe: neutralizzare le due mediazioni in quanto fattori di classe, per riappropriarsene collettivamente.

 

 

2.4.   Struttura, Sistema-mondo e Stato-mondo: decostruzione del concetto di modernità

 

Se la forma moderna di società si definisce così come la congiunzione tra mercato e organizzazione sotto uno Stato-nazione, siamo portati –conformemente del resto a una storiografia abbastanza tradizionale– a far risalire i «tempi moderni» più in alto del capitalismo, e, in una prospettiva storica globale sgombra dall’eurocentrismo, a trovarne i inizi diversi da quelli europei.[6] Questa operazione comporta una certa decostruzione del concetto di modernità. La teoria metastrutturale non ci rinchiude in uno spazio strutturale. Essa sottolinea al contrario i suoi limiti. Pensata infatti a partire dalla metastruttura, la struttura si articola concettualmente con l’altra dimensione della forma moderna di società, quella cioè che non si inscrive sotto il presupposto metastrutturale: quella del sistema, del Sistema-mondo, nel quale non è la lotta di classe in seno allo Stato-nazione a prevalere, bensì la guerra fra entità territoriali (fondamentalmente ineguali). E l’approccio metastrutturale permette infine di decifrare il tempo presente come quello nel quale la figura struttura/sistema in qualche modo si ribalta, man mano che emerge uno Stato-mondo di classe ormai imbrigliato nel caos del Sistema-mondo imperialista. Esso definisce così la scena sulla quale si dispiegano i giochi strutturali-sistemici del neoliberismo.

L’emergere dello Stato-mondo implica che la lotta di classe, che ri/comincia  sotto le condizioni alienate del neoliberismo, si ri/dispiega progressivamente in uno spazio statuale che è ad un tempo mondiale e locale. Le carte sono state mischiate e ridistribuite fra le classi in maniera più ineguale che mai. Le regole del gioco, però, non sono affatto cambiate. Non è mutato che il terreno. La partita si svolge ormai nella sua territorialità ultima, quella della nostra ecologia comune. Ma questo è un altro problema, che l’analisi metastrutturale aiuta però a porre nella sua dimensione politica.

 

La teoria che ho designato come “teoria generale della modernità” non va intesa come una filosofia: è una “teoria d’insieme”, alla partecipano le diverse scienze sociali, e il lavoro filosofico con esse. Quest’ultimo tende a radicalizzare lo sforzo compiuto dai diversi saperi sociali quando provano ad articolare fra loro i rispettivi campi d’analisi (così gli economisti tengono in considerazione il diritto, la psicologia, la politica…).[7] Mira all’integrazione dei diversi elementi della nostra esperienza sociale, economica, politica e culturale. Al di là di ciò non resta che l’eclettismo dell’interdisciplinarità. Spingere questo limite il più lontano possibile mi sembra un’esigenza pratica oltre che teorica. Si tratta dell’antica complicità di filosofia e politica. Su quest’aspetto, Marx resta un modello insuperato.

Quello che ho voluto far emergere in queste pagine è soprattutto che la teoria della metrastruttura non riguarda esclusivamente la sovrastruttura, l’ordine sociopolitico. È vero che, nei miei scritti, ho passato molto tempo sul terreno dei filosofi. Ma è proprio su questo terreno ho trovato ciò che mi ha condotto verso un allargamento del punto di vista strutturale, e a considerare le cose, secondo l’espressione di Marx, «a partire dalle condizioni materiali d’esistenza», a partire cioè dall’identificazione dell’altro polo della classe dominante, economico non meno che politico. In definitiva, non miro esclusivamente ad allargare l’edificio (attraverso la relazione del mercato con il suo altro polo, l’organizzazione, e attraverso quella della struttura di classe con la sua ulteriore dimensione, il sistema-mondo), ma anche, a questo fine, a ricostruirlo dalle fondamenta risalendo a un concetto logicamente più alto di quello di struttura, fino a giungere a questo ordine metastrutturale partendo dal quale possiamo identificare la forma moderna di società come strumentalizzazione della nostra “ragione sociale” posta nella coppia delle “mediazioni” che la costituiscono. In questo senso, piuttosto che un neomarxismo – e al contrario di un postmarxismo – io miro ad un “metamarxismo”.[8] Se la struttura di classe si riproduce su scala mondiale, con le proprie tendenze e le proprie dinamiche, capiamo anche perché la rivoluzione non muoia mai. Al di là dei timori angosciosi del neoliberismo, l’emancipazione si disegna ormai nel suo spazio ultimo.

 

 

Traduzione di Riccardo Antoniucci (§§ 0 e 1.1), francesco toto (§§ 1.2, 1.3, 1.4, 2.1 e 2.2 ), Guido Grassadonio (§§ 2.3 e 2.4).

 

 



[1] Gérard Duménil è un economista marxista conosciuto in tutto il mondo, particolarmentee in quello anglosassone e sud-americano. Gli associo Dominique Lévy, partner di una ricerca comune perseguita nel corso di due decenni e co-autore con lui di numerose pubblicazioni.  Il loro ultimo libro,  Leur dernier livre, The Crisis of Neoliberalism, Harvard University Press, Cambridge MA, 2011, è atteso anche in cinese. Lunghi scambi con Gérard Duménil mi hanno consentito di comprendere meglio il suo modo di procedere e di chiarificare il moi. Lo voglio ringraziare di questo.

[2] Altermarxisme, Un autre Marxisme pour un autre Monde, Paris, PUF, 2007.

[3] Mi permetto di rinviare qui al mio Commentaire du Capital reperibile sul mio sito personale, del quale riprendo qui alcune formule, e a Explication et reconstruction du Capital, PUF, Paris, 2004, pp. 159 e sgg, trad. it. Manifestolibri, Roma, 2010, . Si tratta di un vecchio dibattito con GD, che risali agli anni ’70-’80, e del quale Que faire du Capital ? Materiaux pour une réfondation, Klincksieck,  Paris, 1985, dava già un’idea abbastanza precisa. Esso riguarda ad un tempo la posizione del valore d’uso nella teoria, il concetto di “lavoro produttivo”, e ora anche la struttura di classe.

[4] Preciso questa analisi in Foucault avec Marx, in preparqazione, dovre riprendo la questione detta della “ultima istanza”.

[5] E’ l’oggetto del Capitolo 7 di L’État-monde, PUF, Paris, 2011, consacrato àl comune italiano del XII e XIII secolo. Non è per caso (per una misteriosa alchimia infrapolitica) che esso ha inventato le “istituzioni repubblicane moderne”: un riflesso marxista elementare conduce a cercare dal lato della struttura. È così, a mio avviso, che occorre comprendere la relazione tra il comune e le «arti», prima articolazione politico-economica moderna fra mercato e organizzazione.

[6] In L’État-monde, cit., ho studiato, nel capitolo dedicato al Comune italiano, l’inizio europeo di questo processo: nel senso nietzschiano di “inizio” congiunturale, distinto da qualsiasi concetto di origine (all’interno di una supposta tradizione greco-romana o altro).

[7] Trovo un  ottimo esempio di ciò nelle opere delle femministe materialiste, come Danièle Kergoat, che rifiutano l’idea di una necessaria “interconnessione” tra le teorie sul genere, sulla classe  e sulla “razza”, e che nelle loro analisi pongono piuttosto l’accento sul concetto di una “consustanzialità” di tali rapporti sociali.

[8] Avevo già introdotto questo termine programmatico nella conclusione del mio Théorie de la modernité, PUF, Paris, 1990, trad it. Editori Riuniti, Roma, 1992, nel quale spiegavo la coppia “proprietari” e “amministratori”.

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