Marx lettore di Spinoza. Democrazia, immaginazione, rivoluzione.

Vittorio Morfino

 

Nuova immagine (23)1.     Il posto della Kritik

La Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico ha la forma di una serie di annotazioni alla terza sezione (lo Stato) della terza parte (l’Eticità) dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, in particolare ai paragrafi 261-313, la quasi totalità dei paragrafi dedicati da Hegel al «Diritto statuale interno» (dal 260 al 320)[1]. L’opera, quantomeno la sua ultima stesura, è della primavera-estate del ’43, il periodo di Kreuznach precedente al trasferimento a Parigi[2], ma fu pubblicata da Rjazanov solo nel secolo successivo, nel 1927[3]. Appartiene alla tradizione della glossa nella misura in cui consiste nella copiatura del paragrafo hegeliano seguito dal commento critico. Nicolao Merker, nella nota introduttiva del volume 3 delle Opere complete ne caratterizza così i temi principali:

 

La Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, pur non apparendovi ancora il passaggio di Marx al comunismo, contiene tre temi di fondamentale importanza, vale a dire la critica del meccanismo delle ipostatizzazioni idealistiche di cui è sostanziato il metodo logico di Hegel, l’impostazione che Marx dà al problema dello Stato dal punto di vista di una democrazia radicale di sinistra, infine l’acquisizione ed elaborazione teorica del fatto che le forme della società politica ossia dello Stato sono determinate dai rapporti sociali che hanno luogo nella società civile e non, come aveva sostenuto Hegel, che sia lo Stato o l’elemento politico a determinare la società civile[4].

 

Senza voler entrare nei dettagli di un dibattito filologico che ha appassionato il secolo scorso è sufficiente ricordare le grandi posizione paradigmatiche rispetto alla questione delle opere giovanili di Marx: la posizione continuista, che fa risalire il germe filosofico della successiva critica dell’economia fino alla tesi di laurea, e la posizione discontinuista, che introduce una rottura tra l’opera giovanile e l’opera matura. A questa seconda posizione appartengono tanto l’interpretazione di Louis Althusser che quella di Galvano della Volpe, che si differenziano nel situare la rottura in punti temporali diversi: è interessante dal punto di vista del nostro tema che, mentre Althusser include pienamente la Kritik nel periodo giovanile con temi comandati da una problematica feuerbachiana[5], della Volpe, basandosi su un celebre passaggio del poscritto alla seconda edizione del Capitale[6] vede proprio nella Kritik l’opera della rottura di Marx con la precedente coscienza filosofica[7]. E che la questione non sia semplicemente filologica, ma tocchi dei nervi scoperti della tradizione marxista lo dimostra bene Toni Negri presentando l’edizione della Kritik pubblicata nel 2008 da Quodlibet con delle glosse critiche di Clio Pizzingrilli:

 

Chi avrebbe mai pensato di trovarsi dinnanzi a un nuovo commento così originale e creativo come quello che Clio Pizzingrilli ci presenta della marxiana Critica del diritto pubblico di Hegel, un quarantennio dopo che Louis Althusser aveva liquidato quest’opera come ‘umanistica’, come indegna di stare accanto alle opere ‘materialiste’ che Marx redige dopo la ‘cesura’? Quello che interessa non è la vicenda critica di Althusser – interessa il fatto che il nuovo approccio di Pizzingrilli suoni originale proprio sul terreno del materialismo, e creativo proprio in quell’ambito di analisi della forza-lavoro che più di ogni altro scandalizzava Althusser in quel giovane Marx che studiava. Il fatto è che Pizzingrilli, rileggendo il Marx della Critica del diritto pubblico di Hegel, lo fa a partire dal nuovo livello che la lotta operaia, anticapitalistica, ha prodotto. Lo fa sul terreno del lavoro immateriale, cognitivo, ‘alienato’[8].

 

Per riassumere in breve l’argomento di Negri, egli ritiene che Althusser avesse ragione nel considerare idealistica la categoria di alienazione in una fase storica in cui i rapporti di produzione non erano caratterizzati dal lavoro cognitivo, ma che nella fase attuale l’alienazione «sia l’espropriazione diretta […] del lavoro cognitivo, del sapere operaio, intellettuale e linguistico»[9].

Il movimento di pensiero negriano gioca con la linea tempo. La Kritik di Marx è falsa (idealista) rispetto al suo tempo, ma vera (materialista) rispetto all’avvenire, cioè al nostro tempo, al tempo del lavoro cognitivo.

Medesimo movimento Negri applica al concetto di ‘comune’ e di ‘oltrepassamento dello Stato’, che egli ritrova nella democrazia assoluta teorizzata dal giovane Marx vedendovi una riproduzione dell’«ipotesi spinozista»: idea falsa (idealista) e irrealizzabile ai tempi di Marx, ma vera (materialista) e praticabile rispetto al nostro tempo, il tempo del lavoro immateriale:

 

Torniamo perciò a ragionare di democrazia assoluta: è nello spostare interamente la dinamica della costruzione istituzionale dall’alto al basso, dal potere alla potenza, e facendone saltare ogni omologia, che l’idea di democrazia diviene operativa – rovesciando davvero, e non per finta, Hegel. Non più forma di governo, ma fonte di governo, non più macchina di legittimazione ma costruzione diretta di valori. Sta qui l’immanenza assoluta del politico democratico[10].

 

Alienazione e democrazia sono dunque categorie profetiche del giovane Marx: idealistiche rispetto al proprio tempo, diventano strumenti di interpretazione e di trasformazione dell’avvenire, del nostro tempo.

 

2. Il concetto di sovranità

Veniamo al testo marxiano. Da un punto di vista metodologico Marx affronta Hegel con due armi critiche fondamentali: 1) la critica feuerbachiana di inversione soggetto-predicato (nei mesi di Kreuznach legge le Tesi provvisorie per una riforma della filosofia) e 2) la critica di Trendelemburg di interpolazione surrettizia dell’empirico nel logico[11]. Applicando queste critiche alla filosofia politica hegeliana Marx trova che da una parte Hegel prenda i soggetti reali per predicati e i predicati per soggetti (ad es. inversione di famiglia e società civile che da soggetti diventano predicati dello Stato) e dall’altra elevi l’empirico a logico fingendo delle deduzioni dove in realtà non vi è altro che una descrizione dell’esistente (su questo anticipato dalla critica di Arnold Ruge).
Ma concentriamoci ora sul passaggio in cui Marx propone quella che Negri chiama una «democrazia assoluta». Si tratta del commento al paragrafo 279 e alla sua nota esplicativa. Nel paragrafo 279 Hegel deduce il monarca dall’idea della sovranità:

 

§ 279 […] La sovranità, dapprima soltanto il pensiero universale di questa idealità, esiste soltanto come la soggettività certa di se stessa [die ihre selbstgewisse Subjektivität] e come l’autodeterminazione astratta, e in tal misura priva di fondamento, della volontà, nella quale autodeterminazione risiede l’elemento ultimo della decisione [das Letze der Entsheidung]. È questo l’individuale dello Stato come tale, il quale Stato, esso stesso soltanto in ciò è uno. Ma la soggettività è nella di lei verità soltanto come soggetto [Die Subjektivität aber ist in ihrer Wahrheit nur als Subject], la personalità soltanto come persona, e nella costituzione cresciuta a razionalità avente realtà, ciascuno dei tre momenti del concetto ha la sua separata configurazione per sé reale. Questo momento assolutamente decidente dell’intero [absolut entscheidende Moment des Ganzen] è perciò non l’individualità in genere, bensì un individuo, il monarca[13].

 

Marx ha gioco facile nel mettere in luce l’inversione soggetto-predicato che rende necessaria la sussunzione surrettizia dell’empirico, cioè del monarca:

 

[la sovranità] dovrebbe essere l’opera consapevole dei soggetti [das selbstbewußte Werk der Subjekte], e come tale esistere per essi e in essi. Se Hegel avesse preso, come punto di partenza, i soggetti reali come basi dello Stato [von den wirklichen Subjekten als den Basen des Staats], non avrebbe trovato necessario di soggettivare [versubjektiviren] in guisa mistica lo Stato. «La soggettività», dice Hegel, «è nella sua verità soltanto come soggetto, la personalità soltanto come persona». Anche questa è una mistificazione. La soggettività è una determinazione [Bestimmung] del soggetto, la personalità una determinazione della persona. Invece di concepirle come predicati dei loro soggetti, Hegel fa indipendenti i predicati [verselbstständigt die Praedicate] e li lascia poi tramutarsi, in guisa mistica, nei loro soggetti[14].

 

Secondo Marx, Hegel deduce il monarca dalla sovranità precisamente perché parte dall’idea di sovranità, predicato dei soggetti reali, e ne fa il soggetto: a quel punto diviene necessario dare un corpo all’idea, incarnarla in un soggetto reale, e quel soggetto è il monarca. In questo passaggio si mostra secondo Marx l’andamento tipico del pensiero hegeliano:

 

L’esistenza dei predicati è il soggetto: dunque soggetto è l’esistenza della soggettività ecc. Hegel dà un’esistenza indipendente [verselbstständigt] ai predicati, agli obietti [Obiekte], ma astraendoli dal loro soggetto, ch’è realmente indipendente [er verselbstständigt sie getrennt von ihrer wirklichen Selbststandigkeit]. Dopo, il reale soggetto appare come risultato [Resultat] loro, mentre invece, bisogna partire dal reale soggetto e considerare il suo obbiettivarsi [seine Objektivation]. La mistica sostanza diventa, dunque, il reale soggetto, e il reale soggetto appare come qualcosa d’altro, come un momento della mistica sostanza. Proprio in quanto Hegel prende le mosse dai predicati della determinazione generale, invece che dall’ente reale (hypokeimenon, soggetto), e ci ha da essere tuttavia un supporto [Träger] di queste determinazioni, la mistica idea diventa questo supporto[15].

 

Dunque l’inversione soggetto predicato fa sì che «la sovranità, l’essenza dello Stato [das Wesen des Staats] [sia] considerata come un’essenza indipendente [eine selbstständiges Wesen], [sia] obbiettivata [vergegenständlicht]» e che poi debba «ridiventare soggetto»: «Ma – conclude Marx – questo soggetto appare allora come un’autoincarnazione [Selbstverkörperung] della sovranità; mentre la sovranità non è nient’altro che l’obbiettivato spirito dei soggetti dello Stato [der vergegenständlichte Geist der Staatssubjekte[16].

L’interpolazione surrettizia dell’empirico si aggiunge a questa inversione proprio per dare contenuto reale al predicato elevato a soggetto. Da dove viene il monarca? Nel paragrafo che abbiamo già letto Hegel risponde:

 

[…] nella costituzione cresciuta a razionalità avente realtà, ciascuno dei tre momenti del concetto ha la sua separata configurazione per sé reale. Questo momento assolutamente decidente dell’intero è perciò non l’individualità in genere, bensì un individuo, il monarca.

 

In altre parole lo scheletro logico della costituzione impone un’articolazione nei tre momenti fondamentali del concetto: l’universalità, la particolarità e l’individualità. E tuttavia Hegel fa un salto, poiché l’individualità non è l’individuo.

Marx commenta:

 

Dianzi si discorreva della soggettività, ora dell’individualità. Lo Stato è uno «non soltanto» in ciò, in questa individualità: l’individualità è solo il momento naturale della sua unità, la determinazione naturale dello Stato: «perciò questo momento assolutamente decisivo non è l’individualità in generale, ma un individuo, il monarca». Donde ciò? Da questo: che «nella costituzione sviluppata a razionalità reale ciascuno dei tre momenti del concetto ha il suo per sé separato aspetto». Un momento del concetto è l’«individualità», ma ciò non è peranco un individuo. E che sarebbe poi una costituzione, in cui l’universalità, la particolarità, l’individualità, avessero ciascuna «il suo per sé reale separato aspetto»? Giacché si tratta insomma non di qualcosa di astratto, ma dello Stato [Staat], della società [Gesellschaft], si può anche assumere la classificazione hegeliana. Che cosa ne segue? Il cittadino in quanto determina l’universale è legislatore; in quanto decide del particolare e realmente vuole è sovrano: che cosa significa che l’individualità della volontà dello Stato  è «un indviduo», un individuo particolare distinto da tutti gli altri? Anche l’universalità, la legislazione, ha «un per sé reale e separato aspetto»: si potrebbe per ciò concludere che «questi particolari individui sono la legislazione»[17].

 

In altre parole, Marx ritiene che partendo dal predicato, la sovranità, e non dal soggetto, Hegel sia poi costretto a sussumere un individuo per dar corpo al predicato:

 

[Hegel] non dice: la volontà del monarca è la decisione ultima; bensì: la decisione ultima della volontà è – il monarca. La prima frase è empirica, la seconda stravolge il fatto empirico in un assioma metafisico. Hegel mescola i due soggetti, la sovranità «come soggettività certa di se stessa [die Iherer selbstgewiße Subjektivitäte la sovranità «come autoderminazione senza fondamento della volontà [die grundlose Selbstbestimmung des Willens], come volontà individuale», per costruire l’«idea» come «un individuo». S’intende bene che questa soggettività certa di se stessa deve anche volere realmente, deve volere anche come unità, come individuo. Ma chi ha anche mai dubitato che lo Stato agisca attraverso individui? Se Hegel voleva spiegare che lo Stato deve avere un individuo come rappresentante della sua unità individuale, non ne avrebbe ricavato il monarca. Come positivo risultato di questo paragrafo riteniamo soltanto:
 che il monarca è nello Stato il momento della volontà individuale, dell’autodeterminazione senza fondamento, dell’arbitrio.[18]

 

Dunque l’empirico, l’arbitrio, viene interpolato nel logico, proprio perché il logico si pone come sostantificazione di predicati che poi devono trovare un supporto empirico.

Marx passa a commentare la nota hegeliana al paragrafo che egli definisce «rimarchevole» e degna di essere delucidata «in dettaglio». Hegel scrive:

 

Lo sviluppo immanente di una scienza, la deduzione del suo intero contenuto, dal semplice concetto […], mostra l’aspetto peculiare che un unico e medesimo concetto, qui la volontà, che all’inizio, giacché è l’inizio, è astratto, si mantiene, ma ispessisce le sue determinazioni, e parimenti soltanto attraverso se stesso, e in questo modo acquista un contenuto concreto. Così il momento fondamentale della personalità dapprima astratta nel diritto immediato, è esso che s’è maturato attraverso le sue diverse forme di soggettività, e qui nel diritto assoluto, nello Stato, nell’oggettività completamente concreta della volontà, è la personalità dello Stato, la di lui certezza di se stesso [seine Gewissheit seiner selbst] – questo elemento ultimo, che toglie tutte le particolarità nella semplice medesimezza, interrompe la ponderazione degli argomenti pro e contro, tra i quali si lascia sempre oscillare di qua e di là, e li decide con un: io voglio, e inizia ogni azione e realtà[19].

 

Marx contesta che caratteristica della scienza sia «che il concetto fondamentale della cosa di continuo ritorni»[20], ma soprattutto contesta che abbia avuto luogo un progresso dalla personalità giuridica astratta del diritto privato alla personalità dello Stato. Si tratta della medesima persona giuridica astratta:

 

Hegel – commenta Marx – non avrebbe dovuto stupirsi che la persona reale – e le persone fanno lo Stato – si ripresenti ovunque come l’essere [Wesen] dello Stato. Avrebbe dovuto stupirsi al contrario, e ancora di più che la persona in quanto persona politica sia un ritorno della medesima povera astrazione ch’è la persona del diritto privato. Hegel qui definisce il monarca come la «personalità dello Stato, la sua certezza di se stesso». Il monarca è la sovranità «personificata», la «sovranità divenuta uomo», la corposa coscienza statale, per cui tutti gli altri sono esclusi da questa sovranità e dalla personalità e dalla coscienza dello Stato. Ma al tempo stesso Hegel non sa dare a questa «souveraineté personne» alcun altro contenuto che l’«io voglio», cioè il momento dell’arbitrario nella volontà. La «ragione politica», la «coscienza di Stato» è un’empirica «unica» persona, a esclusione di tutte le altre, ma questa ragione personificata non ha altro contenuto che l’astrazione dell’«io voglio». L’Etat c’est moi[21].

 

Ma come Hegel giunge alla deduzione dell’unità dal concetto di personalità? La personalità e la soggettività, scrive Hegel, «ha verità […] come persona, come soggetto essente per sé [für sich seiende Subjekt], e l’essente per sé è del pari semplicemente uno»[22]. Marx mette in evidenza l’inversione soggetto predicato che prelude alla sussunzione dell’empirico, del monarca:

 

S’intende bene che, poiché personalità e soggettività sono soltanto predicati della persona e del soggetto esistono soltanto come persona e soggetto, e la persona a dir vero è uno. Ma Hegel doveva soggiungere che l’uno ha schietta verità soltanto come molti uno [viele Eins]. Il predicato, l’essenza [Wesen], non esaurisce mai le sfere della sua esistenza in un uno, ma nei molti uno[23].

 

Partendo dal predicato, la personalità e la soggettività, Hegel deve sussumere surrettiziamente l’empirico nel logico: il monarca. E infatti conclude: «La personalità dello Stato è reale soltanto se intesa come una persona, il monarca»[24]. Se fosse invece partito dal soggetto avrebbe trovato attraverso il predicato, l’essenza, il Gattungswesen feuerbachiano, la pluralità, i molti uno che partecipano di essa (poiché non si dà essenza che di una molteplicità). Sulla conclusione hegeliana Marx ironizza:

 

Così, poiché la soggettività è reale soltanto come soggetto e ogni soggetto è reale soltanto in quanto uno, la personalità dello Stato è reale soltanto in quanto è una persona. Bella conclusione. Hegel poteva concludere parimenti: che poiché il singolo uomo è un’unità, il genere umano [die Menschengattung] è solamente un unico uomo[25].

 

Tuttavia Hegel stesso riconosce che il concetto di monarca è problematico:

 

Il concetto del monarca – scrive – è […] il concetto più difficile per il raziocinamento, cioè per la riflettente considerazione dell’intelletto, perché tale raziocinamento si ferma alle determinazioni isolate, e perciò poi anche conosce soltanto argomenti, punti di vista finiti e il dedurre di argomenti. Così esso allora espone la dignità del monarca come qualcosa di dedotto non soltanto secondo la forma, bensì secondo la sua determinazione; peraltro il suo concetto è di essere non un che di dedotto, sibbene ciò che ha inizio semplicemente da sé [aus sich Anfangende zu sein]. Pertanto si avvicina qui più di tutto alla verità la rappresentazione di considerare il diritto del monarca come fondato sull’autorità divina, giacché vi è contenuto l’incondizionato [das Unbedingte desselben] medesimo[26].

 

Dove Hegel afferma che si avvicina maggiormente al vero la rappresentazione della derivazione dell’autorità divina del monarca, Marx esclama un ironico: «certamente!». Egli non sembra qui cogliere il riferimento alla causalità per libertà intesa in senso kantiano, che costituisce una vera e propria infrazione del sistema hegeliano. Afferma che avere inizio da sé è una caratteristica di ogni necessaria esistenza, «[del] pidocchio del monarca tanto quanto [del] monarca»[27]:

 

Con ciò Hegel non ci ha detto nulla di specifico sul monarca. Ma che qualcosa di specificamente diverso da tutti gli altri oggetti della scienza e della filosofia del diritto debba valere invece per il monarca, ciò è una reale sciocchezza; ed è esatto solo in quanto quest’«una persona-idea» è certamente qualcosa di derivabile soltanto dall’immaginazione [Imagination], ma non dall’intelletto[28].

 

3.     La sovranità popolare

Nelle righe successive Hegel affronta la questione della sovranità popolare: «Sovranità popolare – scrive – può venir detto nel senso che un popolo in genere sia un che di indipendente all’esterno e costituisca un proprio Stato». Hegel riporta qui gli esempi storici, on ricopiati da Marx, di «Inghilterra, o Scozia, Irlanda, o di Venezia, Genova, Ceylon ecc.», che hanno cessato di essere popoli sovrani nel momento in cui «hanno cessato di avere per sé propri governi supremi o prìncipi». Marx commenta che il ragionamento hegeliano è triviale:

 

Se il principe – aggiunge – è la «reale sovranità dello Stato», esso deve anche all’esterno poter valere come lo «Stato autonomo [selbstständige Staat]», pur senza il popolo. Ma se esso è sovrano in quanto rappresenta l’unità del popolo, esso medesimo è dunque soltanto il rappresentante, il simbolo della sovranità popolare. La sovranità del popolo non c’è per mezzo di lui, è lui al contrario che c’è attraverso la sovranità popolare[31].

 

Se il monarca incarna la sovranità, ciò dovrebbe valere sia verso l’interno che verso l’esterno. In realtà verso l’esterno Hegel concede che si dia sovranità popolare nel senso di un popolo indipendente. Marx ribatte che il monarca non è che il rappresentante di questa sovranità e non la sua incarnazione: ancora una volta è l’inversione soggetto predicato smascherata da Feuerbach che sta al cuore del pensiero hegeliano: separando il predicato, la sovranità, dal soggetto, il popolo, Hegel finisce per dover sussumere l’empirico, il monarca, per dare un sostrato reale al predicato astratto.

Quanto alla sovranità verso l’interno, continua Hegel, «si può anche dire ch’essa risieda nel popolo, se si parla soltanto in genere dell’intero, proprio così come prima (§§ 277, 278) è stato mostrato che la sovranità spetta allo Stato»[32]. Qui Marx sbotta:

 

Come se il popolo non fosse il reale Stato. Lo Stato è un astratto [der Staat ist ein Abstraktum]. Soltanto il popolo è il concreto [Das Volk allein ist das Konkretum]. Ed è rimarchevole che Hegel, che lo fa senza esitazione per l’astratto, ascriva al concreto soltanto con esitazioni e riserve una qualità vivente come quella della sovranità[33].

 

È proprio perché Hegel ha dato una vita autonoma al predicato, alla sovranità, che stenta a riconoscere il soggetto di questo predicato. Lo Stato non è che un’astrazione separato dal popolo, ma è proprio autonomizzando questo predicato che Hegel finisce per dargli come corpo empirico il monarca. Per questo Hegel prende decisamente le distanze da una concezione della sovranità popolare concepita in antitesi alla sovranità del monarca:

 

Ma sovranità popolare, in quanto presa nell’opposizione alla sovranità esistente nel monarca, è il senso ordinario, nel quale in tempi recenti [in neueren Zeit] s’è cominciato a parlare di sovranità popolare, – in questa opposizione la sovranità popolare appartiene ai confusi pensieri, ai quali sta a fondamento la rozza rappresentazione del popolo [wüste Vorstellung des Volkes][34].

 

Marx replica:

 

Le «confuse idee» e «la rozza rappresentazione» si trovano qui solo in Hegel. Certamente: se la sovranità esiste nel monarca, è una sciocchezza parlare di una sovranità contraria [gegensätzlichen Souverainetät] esistente nel popolo; ché è proprio del concetto di sovranità che questa non possa avere una doppia e addirittura opposta esistenza [doppelte und gar entgegengesetzte Existenz]. Ma:
1)      La questione è precisamente: non è un’illusione [Illusion] la sovranità che si assorbe [absorbirt] nel monarca? Sovranità o del monarca o del popolo, ecco la question;
2)      si può anche parlare di una sovranità popolare, in antitesi [im Gegensatz] alla sovranità esistente nel monarca. Ma allora non si tratta di un’unica e medesima sovranità derivata da due parti, bensì di due del tutto opposte nozioni di sovranità [zwei ganz entgegengesetze Begriffe der Souverainetät], di cui una è tale che può realizzarsi soltanto in un monarca, e l’altra tale che lo può soltanto in un popolo. Come parimenti avviene quando si chiede: se è Dio il sovrano, o è l’uomo il sovrano. Una delle due è una falsità [Unwahrheit], anche se una falsità esistente[35].

 

A Hegel, che ripete il celebre aforisma hobbesiano secondo cui rex est populus e dunque che si può parlare di sovranità popolare nella misura in cui questa si incarna nella figura del re, Marx replica che la sovranità incarnata nel re è una falsità, seppur esistente, poiché si fregia del carattere popolare in quanto predicato reso autonomo rispetto al legittimo soggetto, il popolo. Nelle righe che seguono Hegel rafforza l’ascendenza hobbesiana del suo argomento:

 

Il popolo, preso senza il suo monarca e la membratura appunto necessariamente e immediatamente connessavi dell’intero [die eben damit nothwendig und unmittelbar zusammenhängende Gegliederung des Ganzes], è la massa informe che non è più uno Stato e alla quale non spetta alcuna delle determinazioni che sussistono soltanto nell’intero sovranità, governo, tribunali, l’autorità, gli ‘stati’ [Stände] e quel che sia. Per il fatto che tali momenti riferentesi a un’organizzazione [Organisation], alla vita dello Stato, si presentano in un popolo, esso cessa di essere quest’astrazione indeterminata [unbestimmte Abstraktum], che nella rappresentazione meramente generale si chiama popolo[36].

 

Il popolo senza monarca è privo di articolazione organica e dunque una tale astrazione indeterminata non può essere il soggetto delle sovranità. Marx ritiene il discorso sofistico, poiché sembra presupporre che la sola organizzazione possibile sia quella monarchica:

 

Tutto una tautologia. Se un popolo ha un monarca e una organizzazione con questo necessariamente e immediatamente connessa [eine zusammenhängenden Gliederung], cioè se esso è organizzato in una monarchia, esso è certamente, una volta fuori da questa struttura [Gliederung], una massa informe e una rappresentazione meramente generale [eine formlose Masse und bloß allgemeine Vorstellung][37].

 

Tuttavia nelle righe successive della nota Hegel affronta la questione di una differente organizzazione del popolo:

 

Se per sovranità popolare s’intende la forma della repubblica, e cioè più determinatamente della democrazia […] allora […] di fronte all’idea sviluppata non si può più parlare di tale rappresentazione[38].

 

Questa la frase ricopiata da Marx. Nel testo hegeliano troviamo una parentesi non priva di interesse che segue immediatamente il termine ‘democrazia’:

 

giacché per repubblica si comprende ogni sorta di molteplici mescolanze empiriche [sonstige mannichfache empiriche Vermischungen], che in ogni caso non hanno a che fare con una considerazione filosofica[39].

 

La replica di Marx è ironica: egli afferma che Hegel ha senz’altro ragione «se si ha della democrazia soltanto una ‘cosiffatta concezione’ e nessuna ‘idea sviluppata’»[40]. In altre parole Hegel non prende nemmeno in considerazione la possibilità che la sovranità si incarni nel popolo dando vita ad una forma di Stato democratico, precisamente perché non ha alcuna idea di Stato democratico.

 

4. La dialettica monca di monarchia e democrazia

Qui Marx si stacca per un momento dal commentario al testo di Hegel e propone la sua propria concezione attraverso lo stile ricco di chiasmi e di calembours tipico della sinistra hegeliana:

 

La democrazia è la verità della monarchia, la monarchia non è la verità della democrazia. La monarchia è necessariamente democrazia come inconseguenza verso se stessa, l’elemento  monarchico [das monarchische Moment] non che è una inconseguenza nella democrazia. La monarchia non può, la democrazia può essere concepita attraverso se stessa [aus sich selbst begriffen werden]. Nella democrazia nessuno dei suoi elementi [Momente] acquista un significato diverso da quello che gli spetta. Ciascuno è realmente solo un momento dell’intero demos. Nella monarchia una parte determina il carattere del tutto: l’intera costituzione si deve modificare secondo un punto fisso [nach dem festen Punkt]. La democrazia è il genus della costituzione [Verfassungsgattung]. La monarchia ne è una specie [eine Art], e una specie cattiva. La democrazia è contenuto e forma. La monarchia deve [soll] essere soltanto forma, ma essa altera [verfälscht] il contenuto. Nella monarchia il tutto, il popolo, è sussunto sotto uno dei suoi modi di esistere [Daseinsweise], la costituzione politica; nella democrazia la costituzione stessa appare [erscheint] semplicemente come una determinazione, cioè autodeterminazione [Selbstbestimmung] del popolo. Nella monarchia abbiamo il popolo della costituzione; e nella democrazia la costituzione del popolo. La democrazia è l’enigma risolto di tutte le costituzioni. Quivi la costituzione non solo in sé, secondo l’essenza, ma secondo l’esistenza, secondo la realtà, è ricondotta continuamente al suo reale fondamento [wirkliche Grund], all’uomo reale, al popolo reale, e posta come opera propria di esso. La costituzione appare per quel che è, libero prodotto dell’uomo. Si potrebbe dire che ciò valga anche, sotto un certo riguardo, per la monarchia costituzionale: ma la specifica differenza della democrazia è che qui la costituzione in genere è soltanto un elemento di esistenza [Daseinsmoment] del popolo, e che non la costituzione politica per se stessa forma [bildet] lo Stato[41].

 

L’ascendenza feuerbachiana del passaggio non potrebbe essere più evidente: la democrazia, così come la intende Marx, è l’uomo inteso come Gattungswesen, e in quanto tale ovviamente come zoon politikon, che si è riappropriato della politica alienata. In questo senso la dialettica di democrazia e monarchia è una dialettica monca, unilaterale: la democrazia è la verità della monarchia, ma non viceversa; la monarchia è un’inconseguenza della democrazia, ma non viceversa; la democrazia può essere concepita per se stessa, la monarchia no (essa deve essere concepita attraverso la democrazia); nella democrazia ogni elemento è un momento del popolo, mentre nella monarchia un elemento si stacca da esso.

Questa dialettica monca è fondata su una proposizione capitale:  la democrazia è Verfassungsgattung. La democrazia è l’essenza disvelata dell’uomo politico, «l’enigma risolto di tutte le costituzioni», mentre la monarchia non ne è che una forma alienata: per questo la prima è forma e contenuto, mentre la seconda forma che falsifica il contenuto, la prima è essenza ed esistenza, mentre la seconda è essenza alienata, essenza che non si manifesta che in una distorsione anche nella forma della monarchia costituzionale, poiché nella monarchia il popolo appare solo nella forma trasfigurata della legalità costituzionale, cioè dopo l’instaurazione del potere, identificandosi con il re, mentre nella democrazia la costituzione è una determinazione del popolo, un’autodeterminazione, un libero prodotto dell’uomo[42].

Marx sviluppa il suo argomento attraverso un parallelismo tra politica e religione:

 

Hegel parte qui dallo Stato e fa dell’uomo lo Stato soggettivato [versubjektivirten Staat]; la democrazia parte dall’uomo e fa dello Stato l’uomo oggettivato [verobjektivirte Menschen]. Come non è la religione che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la religione, così non è la costituzione che crea il popolo, ma il popolo la costituzione. La democrazia sta, sotto un certo punto di vista, a tutte le altre forme politiche, come il cristianesimo sta a tutte le altre religioni, il cristianesimo è la religione kat’exochen, l’essenza della religione, l’uomo deificato in una particolare religione. Così la democrazia è l’essenza di ogni costituzione politica, l’uomo socializzato [socialisirte Mensch] in una particolare costituzione politica; essa sta alle altre costituzioni come il genere sta alle sue specie; solo che qui il genere stesso si manifesta [erscheint] come esistenza, e però come una particolare specie di fronte alle esistenze non corrispondenti [nicht entsprechenden] all’essenza. La democrazia sta a tutte le altre forme politiche come al suo [della democrazia] Antico Testamento. L’uomo non esiste per la legge, ma la legge esiste per l’uomo, è esistenza umana, mentre nelle altre forme l’uomo è esistenza legale [gesetzliche Dasein]. Questa è la differenza fondamentale della democrazia[43].

 

Dunque, Marx lo lascia trasparire con forza, lo schema feuerbachiano di interpretazione della religione viene applicato alla politica: Dio non è soggetto, ma predicato dell’uomo, così come la costituzione non è soggetto ma predicato del popolo[44].

In uno scritto pubblicato postumo dedicato a Feuerbach Althusser ha esibito con precisione i meccanismi della problematica che Feuerbach costruisce nell’Essenza del Cristianesimo insistendo a più riprese sulla specularità dei predicati di Dio e dei predicati dell’uomo: la teoria della religione come oggetto proprio, oggetto essenziale, dell’uomo, come esteriorizzazione, oggettivazione della sua essenza. Tuttavia questo oggetto, oggetto assoluto dell’uomo, esprime l’essenza generica dell’uomo nella forma dell’opacità, ossia «nella religione e in tutti i suoi atti generici, l’uomo ha a che fare con la coscienza di sé, ma senza la coscienza, cioè senza la trasparenza»[45]; questa opacità è l’effetto dell’alienazione e dunque «la coscienza può rendersi adeguata alla coscienza di sé (vale a dire la coscienza di sé può divenire trasparente) soltanto attraverso la disalienazione dell’uomo, attraverso il rovesciamento del senso e la restaurazione del senso originale, autentico, attraverso lo svelamento»[46].

Il discorso marxiano funziona precisamente all’interno di questa problematica: vi è una semplice sostituzione di oggetto essenziale, la politica per la religione[47]. In questo quadro la democrazia è l’essenza della politica, così come la religione cristiana è l’essenza della religione, proprio perché in entrambe si esprime il soggetto qua talis: l’uomo, il popolo nell’ambito politico, l’uomo-dio nell’ambito religioso. E come l’uomo-dio è genere, in quanto essenza di tutti gli uomini, ma anche esistenza, così la democrazia è genere, in quanto essenza di ogni forma costituzionale, ma anche esistenza reale, specie tra le altre specie costituzionali.

La logica conseguenza del discorso marxiano è la dissoluzione dello Stato nella vera democrazia nella misura in cui l’oggetto essenziale della politica non è più esterno al popolo:

 

Tutte le altre formazioni politiche [Staatsbildungen] sono una certa, determinata, particolare forma di Stato. Nella democrazia il principio formale è al tempo stesso il principio materiale. Essa è dunque primieramente la vera unità dell’universale e del particolare. Nella monarchia, ad es., o nella repubblica come forma semplicemente particolare di Stato, l’uomo politico ha la sua peculiare esistenza accanto all’uomo non politico, all’uomo privato. La proprietà, il contratto, il matrimonio, la società civile appaiono qui (secondo l’esattissima [ganz richting] spiegazione hegeliana di queste astratte forme politiche, salvo che Hegel crede di spiegare l’idea di Stato) come modi di esistenza particolari accanto allo Stato politico, come il contenuto, nei cui confronti lo Stato politico si comporta come la forma organizzatrice [organisirende Form], e propriamente come intelletto senza contenuto in se stesso [in sich selbst Inhaltlose Verstand], determinante e limitante, e che ora afferma e ora nega. Nella democrazia lo Stato politico, in quanto esso si pone accanto a questo contenuto e se ne distingue, è esso stesso solo un particolare contenuto, come un particolare modo di esistere del popolo. Nella monarchia, ad es., la costituzione politica, questo particolare, ha il significato dell’universale, che domina e determina tutto il particolare. Nella democrazia lo Stato, in quanto particolare, è soltanto particolare, e in quanto universale è l’universale reale [das wirkliche Allgemeine], cioè niente di determinato che sia distinto dall’altro contenuto. I francesi moderni hanno inteso questo così: che nella vera democrazia lo Stato politico perisca [untergeht]. Il che è giusto, nel senso che esso, qua Stato politico, quale costituzione, non vale più per il tutto.  In tutti gli Stati che differiscono dalla democrazia, lo Stato, la legge, la costituzione, dominano senza dominare realmente, cioè senza penetrare materialmente il contenuto delle restanti sfere non politiche. Nella democrazia la costituzione, la legge, lo Stato stesso, sono semplicemente un’autodeterminazione del popolo, un contenuto determinato del popolo, per quanto esso contenuto è costituzione politica[48].

 

5.     La dialettica astratta di monarchia e repubblica

Marx a questo punto ritorna sui suoi passi e mostra come la stessa dialettica di monarchia e repubblica sia in realtà una dialettica astratta, dove astrarre significa, secondo la definizione  feuerbachiana, «porre l’essenza della natura al di fuori della natura l’essenza dell’uomo al di fuori dell’uomo, l’essenza del pensiero al di fuori dell’atto del pensiero»[49], dunque, prolungando la logica del discorso feuerbachiano, l’essenza della società fuori dalla società. La verità di questa opposizione, che si svolge tutta nel piano dello Stato astratto, è la democrazia:

 

Del resto si intende da sé che tutte le forme politiche hanno come loro verità la democrazia, e che quindi in quanto non sono democrazie  non sono vere [unwahr]. Negli Stati antichi lo Stato politico costituisce il contenuto dello Stato con l’esclusione delle altre sfere; lo Stato moderno è un compromesso [Akkomodation] fra lo Stato politico e quello non politico. Nella democrazia lo Stato astratto ha cessato di essere il momento dominante. Il conflitto [Streit] fra monarchia e repubblica è esso medesimo ancora un conflitto all’interno dello Stato astratto. La repubblica politica è la democrazia all’interno della forma politica astratta. L’astratta forma politica della democrazia è quindi la repubblica: ma qui essa cessa di essere la costituzione semplicemente politica. La proprietà ecc. in breve tutto il contenuto del diritto e dello Stato, è, con poche modificazioni, il medesimo nell’America del Nord che in Prussia. Là la repubblica è dunque una semplice forma politica come è qui la monarchia: il contenuto dello Stato si trova al di fuori di queste costituzioni. Hegel è dunque nel giusto quando dice: lo Stato politico è la costituzione, cioè lo Stato materiale [der materielle Staat] non è politico. Ivi si ha soltanto un’identità esteriore, una reciproca determinazione [Wechselbestimmung]. Il più difficile era di formare lo Stato politico, la costituzione, dai diversi momenti della vita del popolo. La costituzione si sviluppò come la ragione universale di fronte alle altre sfere, come un aldilà delle medesime. Il compito storico consistette poi nella sua rivendicazione; ma le sfere particolari non hanno con ciò la coscienza che il loro essere privato cade con la trascendenza [jenseitigen Wesen] della costituzione ossia dello Stato politico, e che l’esistenza trascendente [jenseitige Dasein] dello Stato non è nient’altro che  l’affermazione della loro propria alienazione [Entfremdung]. La costituzione politica fu fino ad ora la sfera religiosa, la religione della vita, il cielo della sua universalità rispetto all’esistenza terrestre della sua realtà. La sfera politica fu la sola sfera politica nello Stato, l’unica sfera in cui il contenuto fu generico come la forma, fu il vero universale, ma al contempo in tal modo che, con l’opporsi di questa sfera alle altre, il contenuto divenne anch’esso un contenuto formale e particolare. La vita politica nel senso moderno è lo scolasticismo della vita del popolo. La monarchia è l’espressione compiuta di questa alienazione [vollendete Ausdruck dieser Entfremdung]. La repubblica è la negazione della medesima dentro la sua propria sfera. S’intende che la costituzione politica come tale è sviluppata solo là dove le sfere private hanno acquistato una esistenza indipendente. Là dove il commercio e la proprietà fondiaria non sono liberi, non sono ancora diventati indipendenti, non lo è neanche la costituzione politica. Il medioevo era la democrazia dell’illibertà. L’astrazione dello Stato come tale appartiene solamente al tempo moderno, perché l’astrazione della vita privata appartiene solamente al tempo moderno. L’astrazione dello Stato politico è un prodotto moderno[50].

 

Qui compare finalmente il termine alienazione, largamente annunciato dalla problematica feuerbachiana delle pagine precedenti: lo Stato, la politica, risulta essere una forma alienata in quanto tale. La monarchia incarna questa forma di alienazione per eccellenza, ne è «la forma compiuta» e tuttavia la repubblica non è riappropriazione dell’essenza del popolo, ma negazione di questa alienazione nella forma ancora alienata della politica, una negazione astratta, esattamente come in Feuerbach «il panteismo è la negazione della teologia, compiuta dal punto di vista della teologia», mentre solo nel «capovolgimento [della] filosofia speculativa […] avremo finalmente la verità messa a nudo, la pura, la schietta verità»: «l’ateismo è il panteismo alla rovescia»[51]. La repubblica sta al panteismo, come la democrazia sta all’ateismo. Lo stesso riferimento alla «vita politica nel senso moderno» come  «scolasticismo della vita del popolo» diviene chiaro attraverso Feuerbach che nelle Tesi scrive:

 

La nuova filosofia, la sola positiva, è la negazione di ogni filosofia scolastica [Schulphilosophie], per quanto ne contenga in se stessa la verità; è la sola negazione della filosofia intesa come una qualità astratta e particolare, cioè scolastica[52].

 

Dunque, la democrazia è la vera riappropriazione dell’essenza alienata del popolo, riappropriazione che è allo stesso tempo negazione del dualismo pubblico/privato nato con la modernità e di cui l’alienazione statale non è che il contraccolpo. E qui il soggetto, identificato da Marx precedentemente nel popolo, prende una forma diversa: il soggetto è la società, e la democrazia non è altro che il riappropriarsi delle forze alienate di questa società.

 

6.     Gli estratti dal Contratto sociale

Fin qui gli argomenti marxiani in cui la democrazia viene opposta alla monarchia e alla repubblica. Se come abbiamo visto la problematica che struttura il discorso marxiano è senza alcun dubbio feuerbachiana, si tratta di capire se un’altra genealogia possa essere tracciata, una genealogica più propriamente politica, una genealogia della posizione democratica all’interno della modernità. In questo senso è inevitabile il riferimento a Spinoza e a Rousseau[53]. Tuttavia si tenterà di ricostruire questa genealogia non in termini astratti, come una sorta di ritratto di famiglia, bensì da un punto di vista storico-filologico. Esistono infatti estratti marxiani tanto del Contratto sociale quanto del Trattato teologico-politico.

Gli estratti del Contratto sociale appartengono all’intenso periodo di studio di Kreuznach e sono dunque contemporanei alla Kritik. Testimonianza dello studio di questo periodo sono 6 quaderni di appunti, tra cui per noi ha particolare interesse il secondo, intitolato redazionalmente dai MEGA «Notizen zur Geschichte Frankreichs, Venedigs und Polens und Exzerpte aus staatstheoretischen Werken », datati, sempre redazionalmente, «juli august 1843». Il quaderno contiene una serie di appunti da opere sulla storia francese, polacca e della repubblica veneziana ed estratti dal Contratto sociale e dall’Esprit des lois.

Scorriamo rapidamente il contenuto di questi estratti. Del primo libro del Contratto sociale Marx ricopia passi da tutti i 9 capitoli. Dei primi 5 capitoli polemici contro quelli che Rousseau chiama «i fautori del dispotismo» Marx non ricopia che poche righe in cui è posta l’antitesi tra lo stato di natura in cui l’uomo è libero e la società in cui esso è schiavo. Il capitolo 6 è riportato nei suoi punti cruciali: si tratta di «trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima»[54]. Unica clausola è «l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità»[55]. Escludendo l’inessenziale Marx ricopia i termini in cui Rousseau formula il patto sociale: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto». E continua l’estratto:

 

Al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce subito un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo morale riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che [si forma così dall’unione di tutte le altre, prendeva una volta il nome di] città, [e adesso quello di] repubblica o [di] corpo politico, il quale a sua volta è chiamato dai suoi membri Stato quando è passivo, sovrano quando è attivo, potenza in relazione ai suoi simili. Gli associati poi prendono collettivamente il nome di popolo, e singolarmente si chiamano cittadini in quanto partecipanti all’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alla legge dello Stato[56].

 

Degli ultimi tre capitoli Marx ricopia poche righe: di rilievo i passi in cui Rousseau identifica la libertà con l’obbedienza alla volontà generale (il celebre «lo si costringerà ad essere libero»[57]) e quelli in cui differenzia libertà naturale e libertà civile, diritto del primo occupante e diritto di proprietà. Marx si sofferma invece sulla conclusione del primo Libro:

 

Invece di distruggere l’uguaglianza naturale, il patto fondamentale sostituisce al contrario un’uguaglianza morale e legittima a quel tanto di ineguaglianza fisica che la natura aveva potuto mettere fra gli uomini; questi, pur potendo essere disuguali per forza o per ingegno, divengono tutti uguali per convenzione e secondo il diritto[58].

 

E aggiunge Marx prima di ricopiare la nota che «Rousseau macht zu dem letzen Satz folgende merkwürdige Note»[59]:

 

Sotto i cattivi governi questa uguaglianza non è che apparente e illusoria; essa non serve  che a mantenere il povero nella sua miseria, e il ricco nella sua usurpazione. Di fatto, le leggi sono sempre utili a coloro che possiedono, e dannose per quelli che non hanno niente; da ciò deriva che lo stato sociale è vantaggioso agli uomini solo in quanto essi abbiano tutti qualche cosa e nessuno di loro abbia troppo[60].

 

Del secondo libro Marx estrae passi dalla quasi totalità dei capitoli (fanno eccezione il capitolo 5 e il capitolo 10). Il problema fondamentale del libro, che Marx cerca di approfondire attraverso gli estratti, è quello della definizione della volontà generale: «La volontà generale può dirigere le forze dello Stato in modo conforme al fine della sua istituzione, che è il bene comune»[61]. La sovranità, che è l’esercizio della volontà generale, non è dunque alienabile: «il sovrano, ente collettivo [être collective], non può essere rappresentato che da se stesso: si può trasmettere il potere, ma non la volontà»[62].

Inoltre, «per la stessa ragione per cui è inalienabile, la sovranità è indivisibile»[63]. A questo proposito Marx ricopia il seguente passaggio di Rousseau:

 

Ma i nostri scrittori politici, non potendo dividere la sovranità nel suo principio, la dividono nel suo oggetto […] la dividono in forza e volontà, in potere legislativo e potere esecutivo […] Essi fanno del sovrano un ente fantastico e formato di elementi giustapposti […] Questo errore deriva … dall’aver preso per parti di questa autorità quelle che invece erano sue emanazioni[64].

 

Quanto alla questione se la volontà generale possa errare, ecco la risposta di Rousseau copiata da Marx:

 

La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica: non deriva però che le deliberazioni del popolo siano sempre ugualmente rette. Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede […]. Vi è spesso molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; questa mira soltanto all’interesse comune, l’altra all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono a vicenda, resta quale somma delle differenze la volontà generale. […] Ma quando si creano associazioni parziali a spese della grande, la volontà di ciascuna associazione diventa generale rispetto ai suoi membri, e particolare rispetto allo Stato: si può dire allora che non vi sono più tanti votanti quanti sono gli uomini, ma solo tanti quanti sono le associazioni[65].

 

Quanto ai limiti del potere sovrano, Marx ricopia in primo luogo la premessa roussoviana:

 

Se lo Stato o la città non è che una persona morale la cui vita consiste nell’unione dei suoi membri, e se la più importante delle sue cure è quella della propria conservazione, è necessario che esso abbia una forza universale e coattiva per muovere e disporre ciascuna parte nella maniera più conveniente al tutto. Come la natura dà a ciascun uomo un potere assoluto su tutte le sue membra, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutti quelli che sono come le sue membra; ed è questo stesso potere che, diretto dalla volontà generale, porta come ho detto il nome di  sovranità[66].

 

In secondo luogo la fondamentale limitazione proposta da Rousseau:

 

la volontà generale per essere veramente tale, deve esserlo sia nel suo oggetto che nella sua essenza; che essa deve partire da tutti per applicarsi a tutti; e che essa perde la sua rettitudine naturale quando tende a qualche oggetto individuale e determinato, perché allora, giudicando di ciò che ci è estraneo, non abbiamo nessun principio d’equità che ci guidi. […] Il potere sovrano, per quanto assoluto sacro e inviolabile sia, non passa e non può passare i limiti delle convenzioni generali, e che ogni uomo può disporre pienamente di ciò che dei suoi beni e della sua libertà gli è stato lasciato da queste convenzioni[67].

 

Marx passa a ricopiare i passaggi in cui Rousseau definisce l’atto con cui il popolo delibera su tutto il popolo:

 

[…] non può esserci volontà generale su un oggetto particolare. […] quando il popolo delibera su tutto il popolo non considera che se stesso; e se in questo caso una relazione si forma, questa è tra l’oggetto intero, considerato da un certo punto di vista, e lo stesso oggetto intero, considerato da un altro punto di vista, senza alcuna divisione del tutto. Allora la materia sulla quale si delibera è generale come la volontà che delibera. È quest’atto che io chiamo legge. Quando dico che l’oggetto delle leggi è sempre generale, intendo dire che la legge considera i sudditi come corpo collettivo e le azioni come astratte, mai un uomo come individuo né un’azione particolare. Così la legge potrà stabilire che vi siano privilegi, ma non può darne nominativamente a nessuno: la legge può costituire diverse classi di cittadini, stabilire anche i requisiti che daranno diritto a queste classi, ma non può nominare i tali o i tal’altri per esservi ammessi; essa può stabilire un governo regio e una successione ereditaria, ma non può eleggere un re, né nominare una famiglia reale: in una parola, ogni funzione che si riferisca a un oggetto individuale non appartiene al potere legislativo[68].

 

Da ciò deriva la definizione roussoviana di repubblica, che Marx riproduce:

 

[Io chiamo dunque] repubblica ogni Stato retto da leggi, qualunque sia la sua forma di amministrazione.

 

E aggiunge che «in der Anmerkung zu diesem Satze heißt es»[69]

 

che per essere legittimo non occorre che il governo si confonda con il corpo sovrano, ma che ne sia il ministro: allora la monarchia stessa è repubblica[70].

 

Marx passa poi a ricopiare il passaggio in cui è posta la necessità di un legislatore:

 

Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma da sé non sempre lo vede. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato[71].

 

Ed ecco come Rousseau ne definisce il compito in un altro estratto marxiano:

 

Colui che osa prendere l’iniziativa di fondare una nazione deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto ed isolato, in parte di un più grande tutto, dal quale questo individuo riceva in qualche modo la vita e l’essere, di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire una esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che noi tutti abbiamo ricevuto dalla natura. Bisogna … che egli tolga all’uomo le forze che gli sono proprie per dargliene altre che siano al di fuori di lui e cui non possa far uso senza l’aiuto di altri. Quanto più quelle acquisite sono grandi e durevoli, tanto più l’istituzione stessa è solida e perfetta: di modo che se ogni cittadino non è nulla, né può nulla se non per mezzo di tutti gli altri, e se la forza acquistata dal tutto è uguale o superiore alla somma delle forze naturali di tutti gli individui, si può dire che la legislazione ha raggiunto il più alto grado di perfezione a cui si possa arrivare[72].

 

Nei brevi estratti successivi Marx ricopia gli argomenti roussoviani sull’eccezionalità della figura del legislatore, che deve dare delle leggi a un popolo  rimanendo esterno e al di sopra della costituzione della repubblica, perché «chi comanda sulle leggi non deve comandare sugli uomini»[73]:

 

Quando Licurgo diede delle leggi alla sua patria, cominciò con l’abdicare al potere regio. Era consuetudine della maggior parte delle città greche affidare a stranieri l’istituzione delle loro leggi[74].

 

Dopo una serie di estratti di minor interesse dai 3 capitoli dedicati da Rousseau al popolo, Marx copia due passi di grande importanza dal capitolo 11 sui «Diversi sistemi di legislazione»:

 

Due oggetti principali (sc. Di ogni sistema di legislazione) la libertà e l’uguaglianza. La libertà, perché ogni dipendenza particolare è altrettanta forza tolta al corpo dello Stato; l’uguaglianza, perché la libertà non può sussistere senza di essa.
È precisamente perché la forza delle cose tende sempre a distruggere l’uguaglianza, che la forza della legislazione deve tendere sempre a mantenerla[75].

 

Infine Marx conclude gli estratti dal secondo libro introducendoli con queste parole : «Rousseau kömmt nun am Schluss des 2ten Buchs auf die division de loix». Ecco la sintesi che ci propone di ciò che deve essere fatto per dare miglior forma possibile alla cosa pubblica:

 

«[1] L’azione del corpo intero che agisce su se stesso, cioè il rapporto del tutto con il tutto, o del sovrano con lo Stato; e questo rapporto è composto da quello dei termini intermedi, come vedremo più oltre. Le leggi che regolano questo rapporto prendono il nome di leggi politiche, e si chiamano anche leggi fondamentali. […]
[2] relazione […] dei membri tra di loro, o con il corpo intero; e questo rapporto deve essere nel primo caso il più piccolo possibile, e nel secondo il più grande possibile; in modo che ogni cittadino sia in una perfetta indipendenza rispetto a tutti gli altri, e in una estrema dipendenza rispetto alla città […] da questo rapporto … nascono le leggi civili.
[3] relazione tra l’uomo e la legge, cioè quella di disobbedienza alla pena; e questo dà luogo all’istituzione delle leggi criminali, che, in fondo, sono non tanto una categoria speciale di leggi quanto la sanzione di tutte le altre.
[4] […] costumi, le consuetudini, l’opinione»[76].

 

Del terzo libro Marx trae una serie di estratti da 7 capitoli su 18. In primo luogo dal capitolo sul governo, i passi in cui Rousseau ne spiega la funzione nello Stato:

 

[…] il potere esecutivo […] non può appartenere alla generalità come legislatrice o sovrana, perché questo potere non consiste che in atti particolari che non sono di competenza della legge, né per conseguenza di competenza del corpo sovrano[77].

 

Il governo, continua l’estratto marxiano, è dunque «un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il corpo sovrano per la loro reciproca corrispondenza, incaricato dell’esecuzione delle leggi e del mantenimento della libertà sia civile che politica»[78]. Il rapporto che lega il governo al popolo non è un contratto, come voleva Pufendorf, ma un mandato: «lo Stato esiste per se stesso mentre il governo non esiste che per lo Stato»[79].

Del secondo capitolo raccoglie i passi in cui Rousseau spiega che più i magistrati sono numerosi, più il governo è debole:

 

[…] se tutto il governo è nelle mani di un solo uomo, la volontà particolare e la volontà di corpo sono perfettamente riunite, e per conseguenza quest’ultima raggiunge il più alto grado di intensità possibile. […] il più attivo dei governi è quello di uno solo. Ist dagegen Gouvernement und legislative Gewalt vereint. … uniamo il governo all’autorità legislativa; facciamo del corpo sovrano il principe, e di tutti i cittadini altrettanti magistrati: allora la volontà di corpo, confusa con la volontà generale, non avrà maggior attività di essa, e lascerà alla volontà particolare tutta la sua forza […] sarà al suo minimum di forza relativa o attività[80].

 

Tuttavia Rousseau precisa, nel successivo estratto marxiano, che si riferisce alla forza relativa del governo e non alla sua rettitudine:

 

perché, al contrario, quanto più numerosi sono i magistrati, tanto più la volontà di corpo si avvicina alla volontà generale; mentre sotto un magistrato unico questa stessa volontà di corpo non è […] che una volontà particolare[81].

 

Del capitolo sulla divisione dei governi, Marx riporta una sintesi dello schema proposto da Rousseau:

 

Si distinguono le diverse specie o forme di governi per mezzo del numero dei membri che li compongono
… più cittadini magistrati che semplici cittadini … democrazia.
… il governo nelle mani di una minoranza … aristocrazia.

… il governo nelle mani di un magistrato unico dal quale tutti gli altri ricevano il loro potere … monarchia[82].

 

Del capitolo sulla democrazia, Marx ricopia il brano in cui si sottolineano la ragione della sua insufficienza: «il principe e il sovrano, essendo la stessa persona, non formano, per così dire, che un governo senza governo. […] Als Haupthinderniß der Demokratie führt Rousseau an daß das Volk von vedute generali auf oggetti particolari gewandt durch die Influenz der interessi privati negli affari pubblici, sich in der Eigenschaft als Gesetzgeber corrumpirt»[83].

Due passaggi di particolare interesse sul governo democratico invece sono tralasciati. Non sarà inutile riportarli:

 

A prendere il termine – scrive Rousseau – nella sua rigorosa accezione, non è mai esistita una vera democrazia, né esisterà mai. È contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata[84].

Se vi fosse un popolo di dèi, esso si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non conviene agli uomini[85].

 

Marx non  ricopia alcun passo a proposito della aristocrazia ed un breve passaggio sulla monarchia in cui Rousseau sottolinea che in essa «l’unità morale del principe è nello stesso tempo un’unità fisica, nella quale tutte le facoltà che la legge riunisce nell’altra con tanti sforzi qui si trovano naturalmente riunite»[86]. Marx non ricopia passaggi su pregi e difetti della monarchia.

Infine troviamo una breve citazione dal capitolo 8 («È il superfluo dei privati che produce il necessario della collettività. Da ciò deriva che lo Stato civile non può sussistere che in quanto il lavoro degli uomini renda al di là dei loro bisogni»[87]) e ampie citazioni dal capitolo15 dedicato ai deputati e rappresentanti, di cui senz’altro la seguente è la fondamentale:

 

L’intiepidimento dell’amor di patria, l’attività dell’interesse privato, l’immensa estensione degli Stati [le conquiste], l’abuso del governo, hanno fatto escogitare l’espediente dei deputati o rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione. È ciò che in certi paesi si osa chiamare il terzo stato. Così l’interesse particolare di due ordini è messo al primo e al secondo posto; l’interesse pubblico non è che al terzo. La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è quella stessa, o è un’altra; non c’è via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque né possono essere suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concludere nulla in modo definitivo. Ogni legge che non sia stata ratificata direttamente dal popolo è nulla; non è una legge. […] L’idea dei rappresentanti è moderna: essa ci deriva dal governo feudale, da questo iniquo e assurdo governo, nel quale la specie umana è degradata e il nome di uomo è disonorato[88].

 

Il IV libro del Contratto è ignorato da Marx, fatta eccezione per un passaggio del capitolo 2 che ritorna sul concetto di volontà generale. Il problema si pone nei confronti della libertà della minoranza, che dovrebbe essere allo stesso tempo libera e soggetta alle leggi alle quali non ha acconsentito. Ecco la soluzione nell’estratto marxiano:

 

Quando si propone una legge nell’assemblea del popolo, ciò che si domanda ai cittadini non è precisamente se essi approvino la proposta oppure la respingano, ma se essa è conforme o no alla volontà generale, che è la loro: ciascuno dando il suo voto esprime il suo parere; dal calcolo dei voti si trae la dichiarazione della volontà generale. Quando dunque prevale il parere contrario al mio, ciò non significa altro se non che mi ero ingannato, e che ciò che credevo essere la volontà generale non era tale[89].

 

Nell’insieme gli estratti marxiani dal Contratto sociale permettono di infrangere un durevole pregiudizio[90]: che Rousseau abbia costituito per Marx un modello quanto al suo proprio concetto di democrazia. È piuttosto vero il contrario. Se infatti riprendiamo brevemente i termini della problematica feuerbachiana attraverso cui Marx pensa la dialettica di democrazia e monarchia, prima, e di monarchia e repubblica, poi, risulta chiaro che la democrazia in quanto Verfassungsgattung è riappropriazione di quella essenza umana (e in quanto umana, politica) che si trova alienata tanto nella monarchia quanto nella repubblica, poiché proiezione di questa essenza in un oggetto, lo Stato, che si oppone come trascendente ed estraneo al popolo reale. E della democrazia intesa in questo senso in  Rousseau non v’è traccia, ma anzi Marx ritrova in Rousseau i termini chiave dell’alienazione dell’essenza umana nel patto sociale (l’alienazione totale di ciascun associato) a vantaggio della creazione di un ente metafisico che poi si oppone, come un che di estraneo (la volontà generale), agli individui che lo hanno creato[91].

Se dunque il Contratto sociale è stato per Marx un modello, lo è stato non per pensare la democrazia, del quale Rousseau fa una aperta svalutazione solo in parte ricopiata negli estratti marxiani, ma piuttosto la repubblica, negazione dell’alienazione monarchica nell’ambito astratto dello Stato, che lascia tuttavia intatti i contenuti della società (proprietà ecc.) e la separazione di pubblico e privato. Inoltre se Marx pensa la democrazia come verità della monarchia, come Gattung, in Rousseau questo ruolo è affidato alla repubblica, di cui la monarchia non è che una specie.

È necessario dunque cercare questo modello di democrazia altrove.

 

7.     Gli estratti marxiani dal Trattato teologico-politico

Proviamo a ipotizzare, seguendo l’indicazione negriana, che Marx abbia trovato questo modello in Spinoza. Negri, nel suo far riferimento a Spinoza, sembra pensare al modello democratico del Trattato politico, in cui nelle poche righe che ci ha lasciato ha definito l’imperium democraticum come omnino absolutum, assolutamente assoluto, del tutto assoluto. Tuttavia non esistono tracce di una lettura in quegli anni del Trattato politico, mentre esistono degli estratti marxiani dal Trattato teologico politico, che tuttavia non appartengono al medesimo periodo della redazione della Kritik e dei quaderni sulla storia francese: sono antecedenti di due anni, sono stati redatti nella prima metà del 1841[92]. Fanno parte di una serie di quaderni che comprende anche estratti dall’Epistolario di Spinoza, da Hume[93], da Leibniz[94] e un quaderno esclusivamente bibliografico dalla Geschichte der Kantschen Philosophie di Rosenkranz[95]. Fissiamo per il momento l’attenzione esclusivamente sugli estratti dal capitolo 16 del Trattato teologico-politico, quello in cui sono fissate le coordinate fondamentali della sua teoria politica (che Marx titola «fundamenta republicae»).

Marx ricopia in primo luogo la definizione spinoziana di diritto naturale:

 

Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e ad agire in un certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi a mangiare i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale [summo naturali jure] i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. […]
E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a ciò pieno diritto, e cioè, come detto, ad esistere e ad agire come è naturalmente determinato […].
Perciò, il diritto naturale individuale è determinato, non dalla sana ragione, ma dal desiderio e dalla  dalla forza [cupiditas et potentia][96].

 

L’essenziale dello jus sive potentia spinoziano è riprodotto da Marx: il diritto naturale non è un dover essere, un sollen, ma coincide con la necessità stessa della natura, un müssen: il diritto è la relazione che si istituisce a partire dal fatto di determinati rapporti di forza, il pesce grande ha il diritto di mangiare il pesce piccolo perché tali sono i rapporti di forza.

Veniamo agli estratti marxiani sulla nascita della società:

 

vedremo chiaramente che gli [uomini], per vivere in sicurezza e nel miglior modo, dovettero necessariamente unirsi e far sì da avere collettivamente il diritto che ciascuno per natura aveva su tutte le cose e che questo fosse determinato, non più dalla forza e dall’istinto di ciascuno, ma dal potenza  e dalla volontà di tutti insieme [ex omnium simul potentia et voluntate] [97].

 

Tuttavia questo convenire degli uomini attraverso un patto non ha luogo una volta per tutte, ma può in ogni momento venir meno, come precisa il successivo estratto marxiano:

 

Da ciò concludiamo che il patto non può avere alcuna forza se non in ragione dell’utilità, tolta la quale il patto stesso viene contemporaneamente annullato e resta distrutto[98].

 

Come è possibile allora che si costituisca una società «senza alcuna ripugnanza del diritto naturale»[99]? Ecco la risposta di Spinoza nell’estratto marxiano:

 

a condizione […] che ciascuno trasferisca tutta la propria potenza alla società, la quale deterrà così da sola il sommo diritto naturale su tutto, vale a dire il supremo potere [summum imperium], a cui ciascuno, o liberamente o per timore di castighi, dovrà obbedire. Questo diritto della società si chiama ‘democrazia’ [talis vero societatis jus Democratia vocatur], la quale si definisce, perciò, come l’unione di tutti gli uomini che ha collegialmente pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere [coetus universus hominum, qui collegialiter summum jus ad omnia, quae potest, habet][100].

 

Come naturale conseguenza della logica dello jus sive potentia, il supremo potere manterrà il suo diritto fino a quando manterrà la sua potenza:

 

Questo diritto di imporre tutto ciò che vogliono [poiché il potere della somma autorità non è soggetto a nessuna legge] soltanto fino a quando esse detengono effettivamente il sommo potere: perché, se perdono questo, perdono insieme anche il diritto illimitato d’imperio, il quale cade nelle mani di colui o di coloro che l’hanno conquistato e che sono in grado di mantenerlo[101].

 

Marx non ricopia il passaggio successivo in cui Spinoza afferma che è raro che un ordinamento democratico impartisca ordini del tutto assurdi, dato che da una parte  «è quasi impossibile che la maggior parte di un consorzio, se questo è grande, convenga in un unico assurdo» e dall’altra perché ciò è escluso dal principio e dal fine dell’ordinamento democratico, «che […] è quello di evitare gli assurdi dell’istinto e di contenere gli uomini per quanto è possibile entro i limiti della ragione, affinché vivano nella concordia e nella pace»[102]. Dunque, conclude Spinoza in un altro estratto marxiano,

 

in un regime politico nel quale è legge suprema la salute, non del sovrano, ma di tutto il popolo [salus totius populi], colui che obbedisce in tutto all’autorità non deve essere definito schiavo inutile a se stesso, ma suddito; e libera in sommo grado è quella repubblica che ha le sue leggi fondate sulla retta ragione, giacché in essa ciascuno può, se vuole, essere libero, ossia vivere integralmente secondo il dettame della ragione[103].

 

Infine un riga fondamentale nell’estratto marxiano:

 

[…] Stato democratico [imperium democraticum] […] mi pare il più naturale e il più conforme alla libertà che la natura consente a ciascuno[104].

 

Malgrado sia stato affermato da più interpreti una forte presenza spinoziana nel Contratto sociale[105], non è difficile cogliere gli elementi che hanno permesso a Marx di individuare in Spinoza e non in Rousseau il modello di una teoria della democrazia come Verfassungsgattung. Mentre infatti in Rousseau l’individuo è definito prima del contratto con quella vera e propria «endiadi metafisica che è  ‘la persona e i beni’(vera e propria ipostasi)»[106], e dunque l’individuo è una persona, un’entità astratta, libera, morale (il soggetto di diritto della tradizione giuridica borghese) ed il contratto è un’istituzione giuridica stipulata da libere volontà, e dunque lo Stato è un posterius rispetto agli individui-monadi, una costruzione artificiale, che genera un ente metafisico universale, la volontà generale, che diviene misura della rettitudine delle volontà particolari (una vera e  propria inversione soggetto predicato in termini feuerbachiani), in Spinoza gli individui che entrano nel patto sono del tutto immersi nell’immanenza della natura, tanto che il diritto di ognuno di essi è definito in termini di potenza ed il patto non dà origine ad un ente artificiale né sul piano sociale, poiché il convenire degli individui in società (societas) è soggetto, istante per istante, all’utilità degli individui stessi, né sul piano politico, poiché ogni forma di potere costituitosi all’interno della società stessa dura fino a che dura la sua potenza.

Leggendo il passo marxiano che dà luogo a quella che abbiamo chiamato una dialettica monca di monarchia e democrazia, ne abbiamo sottolineato l’ascendenza feuerbachiana. Ora è possibile metterne in luce la forte ascendenza spinoziana, se poniamo mente al fatto che Spinoza chiama democrazia il convenire stesso degli uomini in società e per questo il potere democratico è definito il più naturale: diviene allora chiaro perché, secondo Marx, la democrazia è la verità della monarchia, può essere concepita per se stessa, è Verfassungsgattung, «l’enigma risolto di tutte le costituzioni», forma (summa potestas) e contenuto (societas), essenza (societas) ed esistenza (summa potestas).

 

8.     Da Spinoza a Feuerbach: immaginazione e rivoluzione

Dunque il modello di pensiero politico che Marx oppone a Hegel a proposito del paragrafo sulla sovranità si rivela essere realmente la teoria politica spinoziana, seppur non nei termini esatti suggeriti da Negri. Non è dunque la sovranità in quanto ente metafisico astratto che si incarna nel corpo empirico del monarca (di cui verrà dedotta, provocando la feroce ironia di Marx, persino l’ereditarietà), ma è la societas, il corpo sociale, che dà luogo all’astrazione della summa potestas: il mondo è rimesso sui piedi, l’alienazione è superata ed al soggetto è restituita l’essenza piena che gli si era opposta come un oggetto estraneo che lo dominava, lo Stato.

Occorre tuttavia essere cauti, seguendo un’indicazione di Marilena Chaui in un articolo Marx e a democrazia (o jovem Marx leitor de Spinoza). Si deve resistere alla tentazione di fare una semplice comparazione tra Marx e Spinoza, dato che una «comparação, como diz Espinosa, è un conhecimento inadequado, immaginativo e abstrato, que apahna semelhanças e diferenças imediatas, sem alcançar a essência da coisa»[107]. Ossia, non si deve cadere in un errore ingenuo[108] nel proporre questa genealogia, errore che proverò a discutere nei seguenti termini: forse che l’inserimento a forza della teoria politica spinoziana dentro un quadro problematico feuerbachiano non conduce al misconoscimento dei termini stessi della teoria spinoziana? E questo misconoscimento non verte proprio sul concetto di immaginazione, misconoscimento che conduce Marx ad un concetto di democrazia prima e di rivoluzione poi come momento della trasparenza?

Vediamo in primo luogo il fraintendimento del concetto spinoziano di immaginazione. Scrive a proposito Marilena Chaui:

 

Espinoza não  è iluminista ‒ para ele a religião não è absurda ­­­­‒ nem é especulativo ‒ para ele a verdade e racionalidade da religião não se encontra nela mesma. Além disso, diferindo profundamente de Feuerbach, não considera, come este, a religião forma da alienação da essência humana exteriorizada e projetada na essência fantástica de Deus. Para ele, a religião cristaliza os efeitos da superstição, que projeta uma imagem do homen numa imagem fantástica de Deus; portanto igualmente distante da essência de ambos. Por outro lado, a antropologia espinosana, pondo o homen como modificação finita de atributos infinitos da substância, não é um humanismo, como o é a filosofia feuerbachiana. A origem da superstição não é um erro do entendimento nem uma ampliação desvairada da sensibilidade, mas a paixão: o medo […] e a esperança […], paixões produzidas pela dispersão dos acontecimentos cujas causas permanecem ignoradas e pela fragmentação temporal que os homens não podem dominar. Essa passividade diante de forças que não compreendem e não controlam os levam a invocar finalidades ocultas, a crer numa racionalidade insondável e numa atividade externa cujo suporte é a vontade transcendente de Deus, asylum ignorantiae[109].

 

L’immaginazione spinoziana non è semplice errore, non è una semplice forma di conoscenza, ma Lebenswelt, intesa non in senso husserliano come l’orizzonte precategoriale di senso nel quale già da sempre siamo, ma come il mondo immediato come noi lo percepiamo e lo viviamo, all’interno delle pratiche e delle ritualità che lo costituiscono: l’immaginazione è fatta di parole, rappresentazioni, concetti, passioni, gesti, condotte, pratiche, interdetti, che non possono essere l’oggetto di un semplice disvelamento, della riappropriazione dell’essenza generica in essi alienata.

Abbiamo sottolineato l’importanza degli estratti marxiani dal capitolo XVI del Trattato teologico-politico per la costruzione del concetto di democrazia della Kritik, una societas in cui il potere non si presenta come un che di estraneo e di astratto, lo  Stato trascendente, ma come un effetto, sempre revocabile, ad essa immanente. Tuttavia l’inserimento del concetto spinoziano di democrazia in una problematica feuerbachiana produce, come detto, un fraintendimento: nella semplice inversione soggetto-predicato, nel disvelamento, si perde la potenza teorica di ciò che Althusser ha giustamente chiamato il materialismo dell’immaginario spinoziano.

Se riprendiamo nel loro complesso gli estratti dal Trattato teologico-politico potremo forse trovare qualche indicazione in questo senso. Come è  noto Matheron ne ha sottolineato il carattere di montaggio[110]. Marx non si limita a copiare dei passi, ma costruisce un ordine attraverso i passaggi che ricopia che non è l’ordine che Spinoza ha dato alla sua opera. Comincia con il ricopiare dei passi dal capitolo VI, continua con i capitoli XIV e XV, poi inverte l’ordine dei capitoli più propriamente politici, andando a ritroso dal XX al XVI, per poi passare ai capitoli dal VII al XIII ed infine ricopia passi dei capitoli dall’I al V. è possibile da questa ridisposizione dell’ordine dei capitoli del testo unitamente all’analisi del ritmo delle presenze e delle assenze del testo di Spinoza dentro gli estratti di Marx intravedere qualcosa come un’interpretazione? Senza voler entrare nei dettagli, si può avanzare la tesi secondo cui Marx opera attraverso gli estratti una riduzione di complessità del testo di Spinoza. Produce, attraverso la ridisposizione e i tagli, una pura contrapposizione tra verità ed errore che ha una sua perfetta simmetria nel campo della politica nella contrapposizione tra Stato della ragione, della libertà, e Stato della religione, dell’obbedienza, laddove Spinoza pensa l’errore in termini di immaginazione e passione e dunque assegna una funzione politica alla religione. Esempio di questa riduzione di complessità è l’eliminazione di ogni riferimento al credo minimo, quindi alla positività della religione e dell’immaginazione, cui fa da contraltare il fatto che dei capitoli sulla storia ebraica sono ricopiati solo i riferimenti negativi allo Stato ebraico come Stato dell’obbedienza. Ecco il significativo ritaglio di Marx di un passaggio del capitolo XVII del TTP:

 

tutta la loro vita (degli ebrei) era una esercizio continuo di obbedienza [continuus obedientiae cultus erat][111].

 

Se dunque si volesse provare a indovinare l’interpretazione marxiana di Spinoza, che si intravede appena attraverso questi estratti, si potrebbe azzardarla in questi termini: da una parte l’errore, il falso, detiene il potere rendendo gli uomini schiavi delle passioni, dall’altro la verità diviene governo democratico per esprimere la massima creatività della ragione umana, secondo un modello molto simile a quel celebre «farsi mondo della filosofia», parola d’ordine comune agli hegeliani di sinistra dell’epoca. Ed in questo senso iniziare dal capitolo VI, dal capitolo sui miracoli, significa iniziare dal luogo del testo spinoziano in cui questa logica binaria appare più forte, in cui verità ed errore, filosofia e religione,  sembrano contrapporsi in modo assoluto:

 

sono dunque – scrive Marx ricopiando Spinoza – totalmente sul piano dello scherzo coloro i quali, allorché ignorano una cosa, ricorrono, per spiegarla, alla volontà di Dio; il loro è un ridicolo modo di confessare l’ignoranza[112].

 

Ora, questa lettura binaria del Trattato nei termini della contrapposizione di verità ed errore e di Stato democratico e Stato confessionale è confermato dal quasi totale disinteresse di Marx per il capitolo XVII, il capitolo più machiavelliano dell’opera di Spinoza, quello in cui i concetti forgiati nel capitolo precedente vengono fatti funzionare per comprendere la ‘verità effettuale’ della storia singolare di un popolo, il popolo ebraico. Non esempio negativo di uno Stato dell’obbedienza contrapposto, secondo l’‘immaginazione della cosa’ allo Stato della libertà, la democrazia, ma esempio reale, nella misura in cui realitas e perfectio in Spinoza si identificano. Ed in questo esempio l’immaginazione ha un ruolo politico decisivo e rinivia ad un altro capitolo straordinario, quasi completamente trascurato negli estratti marxiani, il quinto capitolo sui riti. Qui, in termini strettamente machiavelliani, viene descritto il ruolo sociale e politico dell’immaginazione:

 

Fatte queste considerazioni generali, veniamo ora allo Stato ebraico [Hebræorum respublica]. Subito dopo il loro esodo dall’Egitto, gli Ebrei non erano più vincolati al diritto di alcun’altra nazione, onde essi potevano imporsi nuove leggi a piacere [novæ leges ad libitum sancire], ossia crearsi un nuovo ordinamento giuridico [nova iura constituere], stabilire il proprio dominio politico [imperium] dove avessero voluto occupare  le terre che avessero preferito. Di nulla tuttavia essi erano meno capaci, che di costituirsi un saggio ordinamento giuridico e di esercitare collegialmente il potere [imperium], poiché erano tutti di ingegno rude e logorati da una penosa schiavitù. Il potere, pertanto, dovette rimanere nelle mani di uno solo, capace di comandare a tutti gli altri e costringerli con la forza, e infine prescrivere leggi e poi interpretarle. E Mosè riuscì facilmente a conservare questo potere, perché eccelleva sugli altri per divina virtù, del cui possesso da parte sua riuscì a convincere il popolo, dimostrandola con molte testimonianze […]; valendosi, dunque, della virtù che lo distingueva, egli istituì i diritti divini e ne impose l’osservanza al popolo: ma nel fare ciò egli pose la massima cura affinché il popolo facesse il suo dovere, non per timore, ma spontaneamente; e a ciò lo costringevano specialmente due motivi: cioè, l’indole irriducibile del popolo (che non sopportava di essere piegato soltanto con la forza), e l’incombente minaccia della guerra, per il buon esito della quale è necessario che i soldati siano esortati con le buone, piuttosto che atterriti con minacce e castighi: giacché allora ciascuno cerca di distinguersi per atti di valore e coraggio, invece di preoccuparsi soltanto di evitare le punizioni. Per tal motivo, forte  della sua abilità [virtus] e del comandamento divino, Mosè introdusse la religione nello Stato [religionem in Rempublicam introduxit], affinché il popolo facesse il suo dovere non tanto per timore, quanto per devozione. In seguito egli li legò a sé con dei benefici, e in nome di Dio promise loro molte cose per il futuro, e non impose loro leggi troppo severe […]. Per far sì, infine, che il popolo, il quale non era in grado di governarsi da solo, pendesse dalle labbra del governante, non lasciò sussistere nessun caso in cui uomini così avvezzi alla schiavitù potessero agire a loro piacimento: nulla infatti il popolo poteva fare senza essere nello stesso tempo tenuto a ricordarsi della legge e ad eseguire gli ordini che dipendevano dal solo arbitrio del governante. Non a piacere, ma in ottemperanza ad una certa e determinata disposizione di legge, si poteva arare, seminare, mietere e persino mangiare e vestirsi; e nemmeno era lecito radersi i capelli e la barba, far festa, né in assoluto alcun’altra cosa, se non nei termini dei precetti e dei comandamenti stabiliti nella legge; non solo, ma dovevano affiggere sulle porte, tenere nelle mani a avere davanti agli occhi certi segni  che li richiamassero di continuo all’obbedienza[113].

 

Per utilizzare una terminologia anacronistica, ciò che Spinoza descrive all’opera nella storia del popolo ebraico è una microfisica del potere. L’introduzione della religione nello Stato non si riduce infatti alla semplice credenza da parte del popolo dell’investitura divina di Mosè, ma ha invece luogo come costruzione di un rete diffusa e pervasiva che convoglia l’immaginario religioso nel pulviscolo della società: i riti producono disciplina iscrivendo la legge, il senso, nella prassi quotidiana dei corpi e imponendo una segnaletica dell’obbedienza che è allo stesso tempo cemento della comunità.

Ora è evidente che una concezione di questo genere dell’immaginazione non si presta ad una semplice inversione soggetto-predicato: il popolo non è alienato nello Stato ebraico, ma è costituito in esso in quanto tale.

A mio avviso, proprio questo fraintendimento del concetto spinoziano di immaginazione porta Marx a pensare la democrazia in termini di trasparenza e, attraverso una serie di metamorfosi concettuali, lo condurrà ad una concezione analoga della rivoluzione, laddove Spinoza, seguendo una volta di più Machiavelli, insegna che «tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai»[114].

 

9.     Dalla democrazia alla rivoluzione

Seguiamo brevemente l’evolversi dei testi marxiani. Abbiamo visto che nella Kritik la democrazia viene intesa come il riappropriarsi da parte della società dell’essenza alienata dell’uomo generico che si oppone ad essa come un che di estraneo, come un ente astratto e trascendente, lo Stato. Nella Questione ebraica, celebre testo del ‘passaggio al comunismo’ e di qualche mese successivo alla Kritik, la contrapposizione di democrazia e repubblica  prende la forma dell’opposizione tra emancipazione sociale ed emancipazione politica. L’emancipazione politica distingue l’homme dal citoyen:

 

La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse, né sottoporle a critica. Essa si comporta verso la società civile, verso il mondo dei bisogni, del lavoro, degli interessi privati, del diritto privato, come verso il fondamento della propria esistenza, come verso un presupposto  non ulteriormente fondato, perciò come verso la sua base naturale. Infine l’uomo, in quanto è membro della società civile, vale come uomo vero e proprio, come l’homme distinto dal citoyen, poiché è l’uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l’uomo politico è soltanto l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allegorica, morale. L’uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell’individuo egoista, l’uomo vero solo nella figura del citoyen astratto[115].

 

Modello di questa astrazione, come nella Kritik, ma questa volta in maniera esplicita, è il Rousseau del Contratto sociale, ed in particolare un brano sul legislatore che Marx aveva già ricopiato negli estratti del ’43:

 

L’astrazione dell’uomo politico è descritta esattamente da Rousseau nel modo seguente: «Colui che osa prendere l’iniziativa di istituire un popolo deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto ed isolato, in parte di un più grande tutto, dal quale questo individuo riceva in qualche modo la vita e l’essere, di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire una esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che noi tutti abbiamo ricevuto dalla natura. Bisogna che egli tolga all’uomo le forze che gli sono proprie per dargliene altre che siano al di fuori di lui e cui non possa far uso senza l’aiuto di altri»[116].

 

Con l’emancipazione sociale, che Marx chiama anche emancipazione umana, si porrà invece fine a questa scissione tra l’individuo egoista e il cittadino, la persona morale:

 

Solo quando il reale uomo individuale riassume in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è divenuto ente generico, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue «forces propres» come forze sociali, e perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana [menschiliche Emanzipation] è compiuta[117].

 

Per questo la questione ebraica non deve essere pensata in termini di emancipazione politica, ma di emancipazione sociale, umana:

 

Un’organizzazione della società che eliminasse i presupposti del traffico, cioè la possibilità del traffico, renderebbe impossibile l’ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe come un vapore inconsistente  [fader Dunst] nella vitale atmosfera reale della società [in der wirklichen Lebensluft der Gesellschaft][118].

 

L’emancipazione sociale eliminerebbe dunque i presupposti reali su cui si fonda la coscienza religiosa dell’ebraismo. La riappropriazione dell’essenza alienata del genere farebbe scomparire la questione ebraica in quanto tale.

Nelle «Glosse critiche all’articolo di un prussiano», scritto nel ’44 in occasione della rivolta dei tessitori slesiani, Marx traduce l’emancipazione sociale in termini di rivoluzione:

 

Una rivoluzione sociale [soziale Revolution] si trova dal punto di vista della totalità [des Ganzen] perché ­­­­–  se pure ha luogo solamente in un distretto industriale – essa è una protesta dell’uomo contro la vita disumanizzata, perché muove dal punto di vista del singolo individuo reale, perché la comunità [Gemeinwesen], contro la cui separazione da sé l’individuo reagisce, è la vera comunità dell’uomo, l’essenza umana[119].

 

La rivoluzione sociale dunque è pensata secondo lo stesso modello della democrazia della Kritik, come svelamento, inversione soggetto predicato, riappropriazione del Gattungswesen umano, della suo Gemeinwesen, benché nei testi del ’44 l’alienazione non sia individuata solo nella forma astratta della politica, ma nella stessa organizzazione individualistica della società.

Nella celebre «Introduzione» al 18 Brumaio Marx tornerà sulla questione della rivoluzione sociale, comparandola con le rivoluzioni moderne. Scrive:

 

La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo [wie ein Alp] sul cervello dei viventi e proprio quando sembra  ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio  e venerabile travestimento e con queste prese a prestito la nuova scena della storia del mondo [die neue Weltgeschichtszene]. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzione del 1789-1814 indossò successivamente i panni della repubblica romana e dell’impero romano; e la rivoluzione del 1848 non seppe far di meglio che la parodia, ora del 1789, ora della tradizione rivoluzionaria del 1793-95[120].

 

La «rivoluzione sociale»  aprirà secondo Marx una nuova epoca, poiché essa non trae «la propria poesia dal passato, ma solo dall’avvenire». Nelle precedenti rivoluzioni l’evocazione del passato aveva un effetto di dissimulazione rispetto al contenuto reale della rivoluzione:

 

[…] per  quanto poco eroica, sia la società borghese, per metterla al mondo erano però stati necessari l’eroismo, l’abnegazione, il terrore, la guerra civile, la guerra tra i popoli. E i suoi gladiatori avevano trovato nelle austere tradizioni classiche della repubblica romana gli ideali e le forme artistiche, le illusioni di cui avevano bisogno per dissimulare a se stessi il contenuto grettamente borghese delle loro lotte e per mantenere le loro lotte e per mantenere la loro passione all’altezza della grande tragedia storica. Così, in un’altra tappa dell’evoluzione, un secolo prima, Cromwell e il popolo inglese avevano preso a prestito dal vecchio Testamento le parole, le passioni e le illusioni per la loro rivoluzione borghese[121].

 

La rivoluzione sociale liquiderà invece ogni «fede superstiziosa nel passato»:

 

Per prendere coscienza del proprio contenuto, la rivoluzione del secolo decimonono deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti: prima la retorica [die Phrase] sopraffaceva il contenuto; ora il contenuto trionfa sulla retorica [über die Phrase][122].

 

Non solo dunque la rivoluzione produrrà una società trasparente a se stessa, ma lo stesso atto rivoluzionario sarà un momento di trasparenza. Ora, questo modello di rivoluzione che produce trasparenza e che è essa stessa trasparenza nel suo compiersi è il necessario effetto teorico della problematica feuerbachiana del disvelamento. È precisamente questa trasparenza della società e della rivoluzione che il concetto spinoziano di immaginazione rende impensabile.

 

10.  Conclusioni

Ritorniamo ora sulla lettura marxiana del concetto di democrazia spinoziana. Ora, se si pensa la teoria politica spinoziana attraverso il modello dell’inversione soggetto-predicato, del popolo (o moltitudine, a questo livello non fa nessuna differenza) inteso come soggetto pieno che vede la sua essenza generica (Gattungswesen) alienata in un oggetto estraneo che gli si presenta contro e di cui è sufficiente riappropriarsi, per vederlo dissolversi nel nulla, si perde, certo, la teoria spinoziana della costituzione del potere attraverso l’immaginazione e gli affetti, la religione e i riti, la superstizione e il conflitto. Ma si perde anche la specificità della teoria spinoziana dell’imperium che non è appunto lo Stato inteso come potere estraneo che si oppone alla società, astrazione e alienazione della sua essenza, ma piuttosto come «conjunto articulado de instituições», «como a totalidade das instituições de uma sociedade, ou seja, que exprimem o direito natural de uma sociedade como essentia particularis»[123], cioè, se comprendo bene la lettura di Rocha, come gramsciano Stato integrale, Stato cioè inscindibile dalla società poiché essa esiste solo attraversata dai rapporti di forza e mai come essenza pura, trasparente, incontaminata.  Non è forse in ciò che Spinoza si dimostra l’unico vero erede di Machiavelli?

Certo, Negri ci dice che la teoria della democrazia assoluta e dell’alienazione è idealistica rispetto ai tempi di Marx, ma che invece diviene perfettamente vera rapportata ai nostri tempi, ai tempi che, per dirla in due parole, sono i tempi del general intellect predetti da Marx nel Frammento sulle macchine dei Grundrisse[124]. L’affermazione, anziché gettare luce su Spinoza o su Marx, mi sembra gettare luce su Negri stesso e su un forte elemento feuerbachiano presente nel suo pensiero non solo nella sua definizione del potere costituente come un ‘dio vivente democratico’ ma anche nell’inversione soggetto-predicato che egli propone rispetto al general intellect, da potere estraneo che si oppone all’uomo a essenza generica umana. In questo passaggio manca a mio parere la politica come invenzione e organizzazione, come intervento strategico nella congiuntura, come guerra di posizione e guerra di movimento, costruzione di egemonia, manca la virtù in senso machiavelliano.

 

 

 

 


[1] A proposito notano Finelli e Trincia nella «Nota filologica» al testo: «Il manoscritto della Kritik si presenta sotto forma di un blocco per appunti, composto di 39 Bogen (fogli di 4 facciate) staccati e sovrapposti, di 19 x 32 cm., a cui manca la copertina e il primo Bogen. È noto che il commento critico marxiano delle Grundlinien hegeliane ha inizio con il § 261 e quindi lascia singolarmente fuori i precedenti paragrafi sullo Stato, a partire dal § 257, che esponendo la concezione hegeliana dello Stato in quanto tale, doveva necessariamente costituire, unitamente con i successivi, oggetto dell’interesse di Marx. È questa la ragione intrinseca che conferma che il primo Bogen (verosimilmente assai importante) deve essersi perso […]» (R. Finelli, F.S. Trincia, «Nota filologica», a K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, Roma, Edizioni dell’Ateneo,  1983, p. 13).

[2] Cfr. M. Rossi, «La datazione della Kritik», in Id., Marx e la dialettica hegeliana, vol. 2, Roma, Editori Riuniti, 1963, pp. 295-301. Per un resoconto del dibattito sulla datazione cfr. R. Finelli, F.S. Trincia, «Nota filologica», cit., pp. 19-29.

[3] K. Marx, Aus der Kritik der hegelschen Rechtsphilosophie, Marx Engels Gesamtausgabe, hrsg. von D. Rjazanov, Abt. I, Bd. 1, HBd. 1, Frankfurt, Engel, 1927, pp. 401-553.

[4] N. Merker, Nota dell’editore a Marx Engels, Opere (da ora MEOC), vol. 3, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. VI. Per un commentario della Kritik cfr. l’edizione Finelli-Trincia cit., pp. 243-694, ma anche M. Cingoli, Il giovane Marx I (1842-1843), Milano, Unicopli, 2005, pp. 43-164. Cfr. anche S. Mercier Sosa, Entre Hegel et Marx. Points cruciaux de la philosophie hégélienne du droit, Paris, L’Harmattan, 1999, e E. Balibar, G. Raulet (éds.), Marx démocrate. Le manuscrit de 1843, Paris, PUF, 2001.

[5] Cfr. L. Althusser, Pour Marx, Paris, Maspero, 1965, tr. it. di F. Madonia, Roma, Editori Riuniti, 19742.

[6] «Ho criticato il lato mistificatore  della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa, quando era ancora la moda del giorno» (K. Marx, «Nachtwort zur zweiten Auflage», a Das Kapital, Berlin, Dietz, 1962, p. 27, tr. it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 19808, p. 44).

[7] «[…] è evidente come nasca qui [nella Kritik] la coscienza di quel nuovo metodo dialettico-materialistico in quanto dialettico-sperimentale (galileiano) che sarà applicato all’indagine (storico-dialettica) del Capitale […]» (G. della Volpe, «Gli scritti filosofici postumi del 1843 e 1844 (La critica materialistica dell’a priori)», In Id., Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 143.

[8] A. Negri, «Prefazione», a K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, con aggiunte di Clio Pizzingrilli, Quodlibet, Macerata, 2008, p. 7.

[9] Ivi, p. 8.

[10] Ivi, p. 9.

[11] Cfr. M. Rossi, «I presupposti della Kritik», in Marx e la dialettica hegeliana, vol. 2, cit., pp. 302-322. Cfr. anche R. Guastini, Marx. Dalla filosofia del diritto alla scienza della società, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 145-162.

[12] Cfr. il mio «La critica di Arnold Ruge alla filosofia del diritto hegeliana», ACME, vol. XLVI (1993), fascicoli II-III, pp. 37-62 e la bibliografia ivi discussa.

[13] K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in MEGA, Abt. 1, Bd. 2, Berlin, Dietz Verlag, 1982, pp. 23-24, tr. it. in G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. di G. Marini, Bari-Roma, Laterza,  1987, p. 222.

[14] Ivi, p. 24, tr. it. di G. della Volpe, in MEOC, vol. 3, cit., p. 26.

[15] Ivi, pp. 24-25, tr. it. cit.,  ibidem.

[16] Ivi, p. 25, tr. it. cit., ibidem.

[17] Ivi, p. 26, tr. it. cit., pp. 27-28.

[18] Ivi, pp. 26-27, tr. it. cit., p. 28.

[19] Ivi, p. 27, tr. it. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., pp. 224-225.

[20] Ivi, p. 27, tr. it. in MEOC, vol. 3, cit.,  p. 29.

[21] Ivi, pp. 27-28, tr. it. cit., p. 29.

[22] Ivi, p. 28, tr. it. in G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 225.

[23] Ivi, p. 28, tr. it. in MEOC, vol. 3, cit.,  p. 30.

[24] Ibidem, tr. it. in G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 225.

[25] Ibidem, tr. it. in MEOC, vol. 3, cit., p. 30.

[26] Ivi, pp. 28-29, tr. it. in G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 225. Nella riga successiva, non ricopiata da Marx, Hegel aggiunge: «Ma è noto quali fraintendimenti vi si sono congiunti, e il compito della considerazione filosofica è di comprendere appunto questo divino» (G.W.F. Hegel, Grundlinien der philosophie des Rechts, in Id., Gesammelte Werke, Bd. 14, hrsg. von K. Grotsch und E. Weisser-Lohmann, Hamburg, Felix Meiner, 2009, p. 233, tr. it. cit., pp. 225-226).

[27] K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, cit., p. 29, tr. it. cit.,  p. 31.

[28] Ibidem.

[29] Ibidem, tr. it. in G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit.,  p. 226.

[30] G.W.F. Hegel, Grundlinien der philosophie des Rechts, cit., p. 234, tr. it. cit., p. 226.

[31] K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, cit., p. 29, tr. it. cit., p. 31.

[32] Ibidem, tr. it. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit.,  p. 226.

[33] Ibidem, tr. it. in MEOC, vol. 3, cit.,  pp. 31-32.

[34] Ibidem, tr. it. in G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit.,  p. 226.

[35] Ivi, pp. 29-30, tr. it. in MEOC, vol. 3, cit., p. 32.

[36] Ivi, p. 30, tr. it. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit.,  p. 226.

[37] Ibidem, tr. it. in MEOC, vol. 3, cit.,  p. 32.

[38] Ibidem, tr. it. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit.,  p. 226.

[39] G.W.F. Hegel, Grundlinien der philosophie des Rechts, cit., p. 234, tr. it. cit.,  p. 226.

[40] K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, cit., p. 30, tr. it. cit.,  p. 33.

[41] Ivi, pp. 30-31, tr. it. cit., p. 33.

[42] Guastini scrive giustamente che «il senso delle molte metafore di Marx sembra, alla fine, non essere altro che questo: egli chiama nella Kritik, ‘democrazia’ quella stessa cosa che chiama, nella Judenfrage, ‘emancipazione umana’, ossia la ricomposizione del dualismo di Stato politico e di società civile, e dunque la ‘dissoluzione [Auflösung] di entrambi come tali» (R. Guastini, Marx. Dalla filosofia del diritto alla scienza della società, cit., p. 216).

[43]K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, cit., p. 31, tr. it. cit., pp. 33-34.

[44]  Sull’ ‘ontologia del popolo’ di queste pagine marxiane cfr. il commento di R. Finelli, F.S. Trincia, «Democrazia, Stato e popolo», in K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., pp. 367-396.

[45] L. Althusser, Sur Feuerbach, in Id., Ecrits philosophiques et politiques, édité par F. Matheron, vol. II, Paris, Stock/IMEC, 1995, p. 189, tr. it. di M. Vanzulli, Milano, Mimesis, 2003, p. 47.

[46] Ibidem.

[47] Senza peraltro rilevarla, Igoin esprime perfettamente  la dipendenza del discorso di Marx dalla problematica feuerbachiana: «Le jeune Marx situe la réalisation totale de l’homme générique dans la démocratie réelle qu’il oppose à la démocratie formelle, ce ciel politique aussi aliénant que le ciel religieux» (A. Igoin, «De l’ellipse de la théorie politique de Spinoza chez le jeune Marx», Cahiers Spinoza, 1 (1977), p.  215).

[48] K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, cit., pp. 31-32, tr. it. cit.,  pp. 34-35.

[49] L. Feuerbach, Vorläufige Thesen zur Reformation der Philosophie, in Gesammelte Werke, hrsg. von W. Schuffenhauer, Berlin, Akademie Verlag, 1970, p. 247, tr. it. di N. Bobbio, in Principi di filosofia dell’avvenire, Torino, Einaudi, 1979, p. 53.

[50] K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, cit., pp. 32-33, tr. it. cit., pp. 35-36.

[51] L. Feuerbach, Vorläufige Thesen zur Reformation der Philosophie, cit., 245, tr. it. cit., p. 50.

[52] Ivi, p. 259, tr. it. cit., p. 64.

[53] Sulla relazione Marx Spinoza cfr. M. Chaui, Marx e a democrazia (o jovem Marx leitor de Spinoza, in E. De Lima Figueredo (ed.), Por que Marx?, Rio de Janeiro, 1983, pp. 257-292; Y. Yovel, «Marx’s Ontology and Spinoza’s Philosophy of Immanence», Studia spinozana, 9 (1993), pp. 217-227; H. Seidel, «Spinoza und Marx über Entfremdung – ein komparatistischer Versuch», Studia spinozana, 9 (1993), pp.  229-243; M. Rubel, «Marx à la rencontre de Spinoza», Cahiers Spinoza, 1 (1977), pp. 7-28; A. Igoin, «De l’ellipse de la théorie politique de Spinoza chez le jeune Marx», cit., pp. 213-216-228; M. Rubel, «Marx à l’école de Spinoza. Contribution à l’etiologie de l’alienation politique», in E. Giancotti (a cura di), Spinoza nel 350° della nascita, Napoli, Bibliopolis, 1985, pp. 381-399. Su Marx e Rousseau cfr. in particolare G. della Volpe, Rousseau e Marx, Roma, Editori Riuniti, 1957 e, più recentemente, L. Vicenti (éd.), Rousseau et le marxisme, Paris, Publications de la Sorbonne, 2011. Sul triangolo Marx, Spinoza e Rousseau cfr. E. Balibar, «Le Politique, la Politique. De Rousseau à Marx, de Marx à Spinoza», Studia spinozana, 9 (1993), pp.  203-215.

[54] K. Marx, «Aus Jean Jacques Rousseau: Du contrat social», in Marx Engels Gesamtausgabe (da ora MEGA2), Abt. 4, Bd. 2, Berlin, Dietz Verlag, 1981, p. 91, tr.it. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, tr. it. di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1984, p. 23 [quando necessario, ho modificato la traduzione]. Per un’interpretazione differente degli estratti marxiani da Rousseau cfr. F.S. Trincia, «Marx lettore di Rousseau (1843)», Critica marxista, 23 (1985), 5, pp. 97-127, ora in Id., Normatività e storia. Marx in discussione, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 39-71. Cfr. anche J. Guilhaumou, «Marx, Rousseau et la révolution française», in  L. Vicenti (éd.), Rousseau et le marxisme, cit., pp. 95-110.

[55] Ibidem, tr. it. cit., p. 24.

[56] Ivi, p. 92, tr. it. cit., pp. 24-25.

[57] Ivi, p. 92, tr. it. cit., p. 28.

[58] Ivi, p. 93, tr. it. cit., p. 34.

[59] Ibidem.

[60] Ivi, p. 94, tr. it. cit., p. 34.

[61] Ibidem, tr. it. cit.,  p. 37.

[62] Ibidem.

[63] Ibidem, tr. it. cit., p. 39.

[64] Ibidem, tr. it. cit., pp. 39-40.

[65] Ibidem, tr. it. cit., p. 42.

[66] Ibidem, tr. it. cit., p. 44.

[67] Ivi, p. 97, tr. it. cit., pp. 45-47

[68] Ivi, pp. 95-96, tr. it. cit., p. 53.

[69] Ivi, p. 96.

[70] Ibidem, tr. it. cit., p. 54.

[71] Ibidem, tr. it. cit., p. 55.

[72] Ibidem, tr. it. cit., p. 57.

[73] Ibidem.

[74] Ivi, pp. 96-97, tr. it. cit., p. 58.

[75] Ivi, p. 67, tr. it. cit., p. 71 e 72.

[76] Ivi, p. 98, tr. it. cit., p. 75.

[77] Ivi, p. 98, tr. it. cit., p. 80.

[78] Ibidem, tr. it. cit., p. 81.

[79] Ivi, p. 99, tr. it. cit., p. 84.

[80] Ivi, p. 99, tr. it. cit., p. 88.

[81] Ivi, pp. 99-100, tr. it. cit., p. 89.

[82] Ivi, p. 100, tr. it. cit., p. 91.

[83] Ivi, p. 100, tr. it. cit., p. 92.

[84] J.-J. Rousseau, Du contrat social, in Id., Ecrits politiques, Verona, Cofide, 2001, p. 202, tr. it. cit., p. 92.

[85] Ivi, p. 203, tr. it. cit., p. 94.

[86] K. Marx, «Aus Jean Jacques Rousseau: Du contrat social», cit., p. 100, tr. it. cit., p. 98.

[87] Ibidem, tr. it. cit, p. 107.

[88] Ivi, pp. 100-101, tr. it. cit., p. 127.

[89] Ivi, p. 144.

[90] Per una ricostruzione della lettura del rapporto Rousseau Marx nel dopoguerra italiano cfr. A. Burgio, «Le commentaire marxiste de Rousseau en Italie», in L. Vincenti (éd.), Rousseau et le marxisme, cit., pp. 45-61.

[91] Trincia, leggendo gli estratti del capitolo 6 del I libro, giunge invece alla conclusione opposta secondo cui «l’unità del corpo collettivo, il fatto che esso tragga dall’atto di associazione il suo io comune, la sua vita, la sua volontà, configura un soggetto unitariamente sociale e politico che, nella forma di un tutto composto di parti indivisibili, Marx può interpretare come assai simile al soggetto unico della sua filosofia politica nella Kritik, il ‘popolo’ come ‘intero’ e come ‘concreto’» (F.S. Trincia, Normatività e storia, cit., p. 66).

[92] K. Marx, «Exzerpte aus Benedictus Spinoza: Opera ed. Paulus» MEGA2, Ab. IV, Bd. 1 («Exzerpten und Notizen bis 1842»), 1976, pp. 233-276. Marx estrae i passi di Spinoza dall’edizione Paulus: Benedicti de Spinoza, Opera quæ supersunt omnia, Iterum emenda curavit, præfationes, vitam auctoris, nec non notitias, quae ad historiam scriptorum pertinent addidit Henr. Eberh. Gottlob Paulus Ph. ac. Th. D. huius Prof. Ord. Ienensis. Volumen prius. Ienæ in bibliopolio Accademico 1802. Volumen posterius. Cum imagine auctoris. Ienæ in Bibliopolio Accademico. 1803.

[93] K. Marx, «Exzerpte aus David Hume: über die menschliche Natur» (MEGA2, Ab. IV, Bd. 1, pp. 213-232).

[94]  K. Marx, «Exzerpte aus Leibniz’ Werke», ivi, pp. 183-212.

[95] K. Marx, «Exzerpte aus Karl Rosenkranz: Geschichte der Kantschen Philosophie», ivi, pp. 277-288

[96] K. Marx, «Exzerpte aus Benedictus Spinoza: Opera ed. Paulus», cit., p. 240, tr. it. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di A. Droetto e E. Giancotti, Torino, Einaudi,  1972, pp. 377-378 [ho modificato la traduzione dove necessario].

[97] Ibidem, tr. it. cit., pp. 379-380.

[98]  Ibidem, tr. it. cit., p. 381.

[99] B. Spinoza, Tractatus Theologico-politicus, in Opera, Bd. 3, hrsg. Von C. Gebhardt, Heidelberg, Winters, 1925, p. 193, tr. it. cit., p. 382 (parole non ricopiate da Marx).

[100] K. Marx, «Exzerpte aus Benedictus Spinoza: Opera ed. Paulus», cit.,, p. 240, tr. it. cit., p. 382.

[101] Ivi, pp. 240-241, tr. it. cit., p. 383.

[102] B. Spinoza, Tractatus Theologico-politicus, cit., p. 194, tr. it. cit., p. 383.

[103] K. Marx, «Exzerpte aus Benedictus Spinoza: Opera ed. Paulus», cit., p. 241, tr. it. cit., p. 384.

[104] Ivi, p. 240, tr. it . cit., p. 384.

[105] Cfr. in particolare M. Francès, «Les rèminiscences spinozistes dans le Contrat social de Rousseau», in Révue philosophique de la France et de l’Etranger, 76 (1951), pp. 61-84. Cfr. anche P. Vernière, Spinoza et la pensée française avant la révolution, Paris, Presses Universitaires de France, 1954, p. 481 e sgg.

[106] G. della Volpe, Rousseau e Marx, cit., p. 24. Per una lettura complessiva in questo senso cfr. A. Illuminati, J.J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, Milano, Il Saggiatore, 1977.

[107] M. Chaui, Marx e a democrazia (o jovem Marx leitor de Spinoza, cit., p. 268.

[108] Perfetto paradigma di questa ingenuità mi sembra l’interpretazione di Miguel Abensour, La démocratie contre l’état. Marx et le moment machiavélién, Paris, PUF, 1997. Abensour interpreta la democrazia della Kritik come una creazione continuata del popolo (creazione che non genera lo Stato, ma è precisamente contro lo Stato), e vede l’origine di questo concetto in Machiavelli e Spinoza, senza tuttavia che i due autori compaiano nel testo se non come vaghi fantasmi, privi della benché minima consistenza concettuale.

[109] Ivi, p. 280.

[110] «[…] si tratta di un vero e proprio montaggio, che segue una linea direttrice molto precisa: nelle due prime parti, gli estratti possono benissimo essere letti l’uno dopo l’altro, e quando uno di essi comincia con nam o con itaque, anche se è separato da quello che lo precedeva nel Trattato, la congiunzione, tranne un’eccezione conserva un senso; se così non è nella terza parte [è perché] Marx, qui, non cerca più di ripensare lo spinozismo: il compito per lui è terminato; quel che ora chiede al testo del Trattato sono dei materiali che possono confermare le analisi teoriche già fatte, e poco gl’importa l’immenso lavoro col quale Spinoza stesso è riuscito a ottenerli» (A. Matheron, «Il Trattato teologico-politico visto dal giovane Marx», in K. Marx, Quaderno Spinoza 1841, a cura di B. Bongiovanni Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 155 e 194).

[111] K. Marx, «Exzerpte aus Benedictus Spinoza: Opera ed. Paulus», cit., p. 240, tr. it. cit., p. 432.

[112] Ivi, pp. 234, tr. it. cit., p. 156.

[113] B. Spinoza, Tractatus Theologico-politicus, cit., pp. 74-75, tr. it. cit., pp. 131-132.

[114] N. Machiavelli, Discorsi, I, 6 in Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Milano, Sansoni, 1993, p. 86.

[115] K. Marx, «Zur Judenfrage», in Marx Engels Werke, Bd. 1, Berlin, Dietz, 1956, pp. 369-370, tr. it. in Marx Engels Opere, vol. 3, cit.,  pp.181-182.

[116] Ivi, p. 370, tr. it. cit., p. 182.

[117] Ibidem.

[118] Ivi, p. 372, tr. it. cit., p. 184.

[119] K. Marx, «Kritische Randglossen zu dem artikel eines Preußen», in Marx Engels Werke, Bd. 1, cit., p. 408, tr. it. in Marx Engels Opere, vol. 3, cit., p. 223.

[120] K. Marx, Der achzehnten Brumaire des Louis Bonaparte, in Marx Engels Werke, Bd. 8, Dietz Verlag, Berlin 1960, p. 115, tr. it. (che abbiamo talvolta modificato) a cura di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 7-8

[121] Ivi, p. 116, tr. it. cit., p. 9.

[122] Ivi, p. 117, tr. it. cit., p. 11.

[123] A. Rocha,  Espinosa e a inteligibilidade da história. Ensaios sobre a liberdade e a democracia no Tratado Teológico-Político,  Tese apresentada ao Departamento de Filosofia da Faculdade de Filosofia, Letras e Ciências Humanas da Universidade de São Paulo sob orientação da Profa. Dra. Marilena de Souza Chauí, pp. 86-92.

[124] Per una lettura del pensiero di Negri in cui si  mostra la profonda interconnessione dei temi della democrazia della Kritik e del lavoro vivo del Marx maturo cfr. J. Read, «The Potentia of Living Labor»: Negri and the Practice of Philosophy», in T. Murray, A.-K. Mustapha (eds.), The philosophy of Antonio Negri, vol. II, London- Ann Arbor, Pluto Press, 2007, pp. 28-51. In particolare scrive: «For Negri, Marx’s later writings on political economy which develop the idea of living labor complete and answer the question of democracy and human liberation which preoccupied Marx in his youth» (ivi, p. 47).

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