Desiderio o bisogno di rivoluzione?

Daniel Bensaïd*

07ba145db8e3d1b0d1646d71584d241817c5e8Il partito dei fiori e degli usignoli è strettamente alleato della rivoluzione.  Heinrich Heine, De l’Allemagne

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Crediamo che una rivoluzione sia una soluzione netta e sappiamo che anche questo non è esatto. Troviamo qui delle semplificazioni grossolane delle cose. Paul Valéry

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È la stessa desiderabilità della rivoluzione ciò che oggi fa problema. Michel Foucault, 1977.

I

Qualche anno fa, la rivista Lignes ha pubblicato un’inchiesta sul «desiderio di rivoluzione» (Nuova serie, n° 4, febbraio 2001). Desiderio o bisogno di rivoluzione? Questo desiderio fittiziamente giovanile e vagamente sessantottino sprigiona l’acre profumo di un fiore appassito dimenticato su una tomba. Il desiderio e la voglia, ciò che resta quando l’iniziale slancio e l’entusiasmo della prima volta sono definitivamente esauriti: una velleità senza forza, una brama senza appetito, una pulsione di morte, un fantasma di libertà, un capriccio erotico.

Una soggettività asservita al sentimento non pratico del possibile.

Questo desiderio che crediamo liberato dai bisogni, in fondo, non è  altro che la versione consumista: la macchina desiderante è innanzitutto una macchina per il consumo. Essa è il riflesso rovesciato della merce esposta, che ammiccando seduce il cliente adescato dal sortilegio luminoso della vetrina.

La sostituzione del bisogno col desiderio ha una storia teorica che è quella della sostituzione del valore-lavoro con il valore-desiderio operata da Léon Walras nei suoi  Éléments d’économie politique del 1874. Con la soggettivizzazione marginalista del valore, «l’oggetto scaturisce dal desiderio». Per misurare il valore, l’economista Charles Gide rimpiazza quindi il termine troppo oggettivo di ‘utilità’ con quello di ‘desiderabilità’.

Consciamente o meno, Foucault si ispirava a questa tradizione quando, alla fine degli anni settanta, si chiese se la rivoluzione fosse ancora desiderabile1.

II

Quanto alla rivoluzione, è una storia lunga.

Jan Patocka individua nella stessa idea di rivoluzione «un tratto fondamentale della modernità». Tra il saggio di Chateaubriand su «le rivoluzioni» e quello di Hannah Arendt su «la Rivoluzione», questa idea s’introduce tra le fila della grande declinazione al singolare, dietro la Storia, il Progresso, la Scienza o l’Arte. Essa si iscrive nella nuova semantica dei tempi, dove il passato non chiarisce più l’avvenire, dove l’avvenire illumina il presente. Dopo la Rivoluzione francese, la Rivoluzione diviene allora il nome proprio delle aspettative delle speranze di emancipazione. Promossa a «locomotiva della storia», essa si getta verso il futuro con tutta la sua potenza metallica, fino a che il suo sogno meccanico s’infrange nel deragliamento delle carrozze per il bestiame.

Eretta a oscuro oggetto del desiderio feticista, questa rivoluzione mantiene un piede nel sacro. Essa avvolge ancora l’evento d’una sete di miracolo. Per discendere dalla trascendenza del desiderio (con la sua coorte di tentazioni e peccati) all’immanenza dei bisogni c’è voluto un lungo e lento lavoro di secolarizzazione, sempre contrastato e continuamente reiniziato. Col susseguirsi delle esperienze e dei tentativi, la rivoluzione è discesa a poco a poco dal cielo sulla terra, dalla rivelazione divina alla storia profana. Il mito si è fatto scalzare dal progetto.

«L’emancipazione del proletariato»,  scriveva Marx nel 1848, è «il segreto della rivoluzione del XIX secolo». Questo segreto rivelato recide in due la storia del mondo, separa il popolo da se stesso – classe contro classe , sconfigge il mito unitario della Rivoluzione e della Repubblica. Semina zizzania tra la prima e la seconda. Fa sgorgare dalla semplicità iniziale le complessità plurali delle rivoluzioni borghesi o proletarie, conservatrici o sociali. In una parola, questo segreto portato alla luce rivoluziona la rivoluzione: «Il 25 febbraio 1848 aveva dato alla Francia la repubblica, il 25 giugno le impose la rivoluzione. E rivoluzione significava dopo giugno: rovesciamento della società borghese, mentre prima di febbraio aveva significato: rovesciamento della forma dello Stato»2.

A questa determinazione sociale dei contenuti rivoluzionari, le esperienze della Comune di Parigi o dell’Ottobre 1917 hanno aggiunto la determinazione strategica della lotta per il potere: sciopero di massa ed insurrezione armata.

Al giorno d’oggi, tutto si svolge in senso contrario come se questo profondo movimento di secolarizzazione si fosse esaurito e come se, risalendo il tempo delle rivoluzioni verso la loro sorgente mitica, durante il cammino si abbandonassero le esperienze e i contenuti. Il dibattito strategico ha raggiunto, negli anni Ottanta, il suo grado zero. Allorché le rivoluzioni effettive portavano dei nomi di luoghi e di date, i luoghi sembravano condannati a scomparire nello spazio senza confini, le date si perdevano in un tempo pigramente dilatato in cui si commemora senza inventare. La prospettiva temporale si ritraeva in un eterno presente amministrativo.

Non sappiamo ancora cosa, in questa anemia dell’immaginario sociale, emerga dalla congiuntura: se un abbattimento passeggero a seguito delle pesanti sconfitte del secolo trascorso o piuttosto un nuovo rovesciamento dei tempi storici. Ne risulta, tuttavia, che l’idea rivoluzionaria tende a perdere la propria sostanza politica per ridursi a una posizione desiderante, estetica o etica, ad un giudizio di gusto o ad un atto di fede. Essa sembra come lacerarsi tra una volontà di resistenza senza prospettiva di contrattacco e l’attesa di un improbabile miracolo redentore; tra un pellegrinaggio alle sorgenti purificatrici d’una rivoluzione originaria e un desiderio crepuscolare di rivoluzione conservatrice, in cui le bandiere vellutate del consenso si fanno l’esatto contrario di una rivoluzione. Questo nuovo incantesimo malinconico è anche un  nuovo abuso, al quale occorre opporre un nuovo sforzo di storicizzazione ed un sussulto di politicizzazione.

In quanto «parte non fatale del divenire», la rivoluzione profana non emerge da una dinamica compulsiva dei desideri ma da una dialettica dei bisogni. Non obbedisce ai capricci del desiderio ma all’imperativo ragionato di cambiare il mondo – di rivoluzionarlo – prima che questo non collassi nel fragore degli idoli di cenere. Questo bisogno non è una passione triste, che si accanisce ostinatamente a soddisfare un vuoto irrimediabile, ma la passione gioiosa di una rivoluzione in permanenza, dove si intrecciano durata ed evento, le condizioni determinate della situazione storica e le incertezze dell’azione politica che si impegna a trasformare il campo dei possibili.

III

Il problema del termine rivoluzione è che esso ha tanto a che fare col mito (in senso soreliano) quanto con il concetto. Occorrerebbe, allora, iniziare districando i due significati (o provare a farlo). Si può dire, a grandi linee, che la rivoluzione (a partire dalla Rivoluzione francese) è divenuta la formula algebrica del cambiamento sociale e politico nelle società contemporanee. Da questo punto di vista, essa costituisce, nella terminologia prerivoluzionaria di Kant, «una profezia politica», «consapevole attesa dellavvenire», che organizza le volontà e struttura il loro orizzonte di attesa. Nella misura in cui essa apre la via ad un altro mondo possibile, questa idea è sempre altrettanto necessaria contro le rassegnazioni ordinarie, gli accomodamenti tattici e contro la dissoluzione della politica in zapping.

Nella stessa maniera in cui viene precisata dalla Rivoluzione francese, questa nozione di rivoluzione è anche legata all’elaborazione di una temporalità moderna, alla «semantica dei tempi storici» studiata da Koselleck e Goulemot3. Essa è quindi associata a dei sentimenti di accelerazione, di perfezionamento, di progresso. È questa rappresentazione del mondo che è diventata problematica a causa dello shock prodotto dalle catastrofi del secolo trascorso. Da questo momento possiamo comprendere come l’idea di rivoluzione non adempia più alla stessa maniera la propria funzione «mitica» (d’immagine indeterminata dell’avvenire, alla maniera con cui lo sciopero generale rappresenta per Sorel un’immagine indeterminata dell’evento strategico).

Col procedere delle esperienze, la nozione di rivoluzione si è finalmente fatta carico di un contenuto strategico effettivo. Ci fu un tempo in cui si discuteva praticamente di questi contenuti: insurrezione armata, sciopero generale insurrezionale, guerra popolare prolungata, dualismo del potere… Questi dibattiti sembrano oggi lontani, benché tendano a risorgere per effetto delle crisi sociali e delle guerre imperiali4. Troviamo a questo proposito numerose ragioni. Una, e non la meno importante, è espressa indirettamente in alcuni testi del sub-comandante zapatista Marcos. Se la strategia (almeno a partire da Bonaparte) è stata l’arte di concentrare ad un certo momento preciso tutte le proprie forze in un punto, nella dissoluzione degli spazi e nella disseminazione dei poteri, che ne è di questa concentrazione nell’epoca delle reti? Vasto dibattito. Se i militari sono celebri per essere sempre indietro di una guerra, i rivoluzionari sono sempre a una o due rivoluzioni di ritardo.

IV

La talpa persevera nelle idee e prosegue tranquillamente nel suo cammino: «Le grandi e folgoranti rivoluzioni devono essere precedute da una rivoluzione intima e silenziosa nello spirito dell’epoca, che non a tutti è visibile» 5. Fuori dalla portata di apparenti e apparenze, scava in silenzio, segretamente, quando tutto tace. Se la talpa è miope, l’epoca, di suo, è cieca di fronte a «la sua spinta, mentre continua a scavare all’interno»6.

Da Blanqui a Benjamin, passando per Stephen di Joyce, la ripetizione infernale delle sconfitte ha più dell’incubo da cui occorre risvegliarsi che non del sognare sereno.  La storia, com’è ben noto, tartaglia e balbetta. Di tragedia in farsa: dallo zio al nipote, da Napoleone il grande a Napoleone il piccolo. Di tragedia in tragedia: dai massacri del giugno 1848 a quelli della settimana di sangue 7].

Anche Marx riprende e ripete. Da un’allusione all’altra, il passato è chiamato a testimoniare. La Vecchia Talpa del 18 Brumaio resuscita così lo spettro del Re assassinato che si aggira sulla scena dell’Amleto. È sempre una storia di «scavi invisibili», di underground e di fantasmi, di percorsi e di passaggi: «La rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio»8. Essa gratta e corrode gründlich, in profondità, fino alla radice.

« Brav gewühlt, alter Maulwurf!», «Ben scavato, vecchia talpa!».

Da traduzione a trasposizione, da lapsus a slittamento, da Shakespeare a Schlegel, da Hegel a Marx, la vecchia amica si metamorfosizza, fino a sentirsi abbastanza forte da affrontare la superficie: «Spesso [lo Spirito] sembra che si dimentichi e si smarrisca; ma, opposto interiormente a se stesso, continua a lavorare interiormente, come dice Amleto dello spirito di suo padre: “Hai lavorato bene, brava talpa!”, finché, rinfrancato, scuote ora la crosta terrestre, che lo separava dal suo sole»9. Tra sottosuolo e superficie, tra scena e sipario, essa è l’immagine non eroica dell’abnegazione preparatoria, dei preliminari indispensabili, della fatica prima del debutto. Un agente della profondità della latenza. Una sorta di testo invisibile che scorre sempre sotto il testo visibile, che spesso lo corregge e a volte lo contraddice.

V

La rivoluzione interrompe il corso ordinario delle cose. Fa evento. «Se il XXI secolo fosse incapace di salvarsi dal XX, avremo ancora degli eventi?», si domanda Michel Surya. Le disillusioni del secolo breve avrebbero allora annientato la possibilità stessa di un evento, di qualsiasi natura esso sia?

Dopo la nostra caduta fragorosa nella modernità, «la rivoluzione fu il nome di questo evento che non è arrivato, dal quale dipendeva interamente il nome dell’evento; o, che è peggio, di ciò che è arrivato sotto forma della propria assoluta smentita. Se non vi è evento da salvare è perché l’unico che avremmo voluto poter salvare ne fu questa spaventosa metamorfosi»10.

Questa ferita inferta alla speranza peserà ancora a lungo sulle spalle delle generazioni a venire. Ancora a lungo offuscherà il futuro. Piuttosto che rassegnarsi a questa scomparsa che non ha lasciato nulla, c’è forse ancora il tempo per trasformare una perdita in un guadagno.

A condizione di desacralizzare e di laicizzare l’evento stesso.

Di sottrarlo alla teologia per renderlo alla storia ed alla politica profane.

Fino alla Grande Guerra, ogni politica riposava su questa possibilità dell’evento capace di opporre resistenza a «l’insidiosa nozione di legge storica» che minacciava di inghiottirla. All’indomani di questa prova, Paul Valéry si domandava già se lo spirito politico non avrebbe cessato di «pensare per eventi», e ci si fosse dimenticato di ripensare «come si deve» questa nozione fondamentale: «Ciascuna azione fa ormai risuonare una quantità d’interessi imprevisti d’ogni parte, essa genera la sua catena di eventi immediati». I suoi effetti «si fanno sentire quasi istantaneamente a qualsiasi distanza, ritornano immediatamente verso le loro cause, e non si smorzano che nell’imprevisto». Per questo motivo «la vecchia geometria storica e la vecchia meccanica non sono per nulla adatte»11.

La retorica postmoderna minaccia oggi l’evento in tutt’altra maniera. Dal balbettio esausto delle grandi narrazioni emerge il coro assordante delle merci ventriloque.

La storia si ritorce in un eterno presente. Lo spettro del Capitale infesta le rovine delle speranze affrante. Invece di scrutare all’orizzonte l’evento che non arriva mai, vedette e sentinelle intorpidite si lasciano vincere dal sonno.

Rifiutando la fatalità di una storia ridotta ad un’eternità commerciale, i discorsi filosofici sull’evento rispondono alle sue eclissi attraverso la sua celebrazione mistica. «Sorto dal nulla» esso si presenta allora come un cominciamento assoluto, un «puro preludio a se stesso», senza antecedenti o condizioni. Come il sempre agognato primo appuntamento nell’incontro amoroso appare allo stesso tempo improbabile e di una «evidenza immemorabile».

VI

Cosa varrebbe un incontro se non facesse vacillare le certezze e non distruggesse l’insidiosa tentazione di abituarsi all’ordine delle cose? Perché esso faccia ancora evento, occorre essere capaci di lasciarsi sorprendere e di mettersi totalmente in gioco nell’incertezza di ciò che sopraggiunge. Ma una rivelazione o un’illuminazione improvvisa non farebbero più evento. Privati di ogni logica storica, saremmo presto ridotti ad affidarci alla Provvidenza o al Destino affinché di tanto in tanto «sorga l’impossibile miracolo dell’evento». Una politica profana diventerebbe, allora, tanto impensabile quanto impraticabile.

Quel che fa storia «non dipende dalle qualità intrinseche dell’evento stesso ma dalla maniera in cui si rapporta alla situazione da cui emerge» 12. Nella condizione dell’uomo moderno, sottolinea Péguy, «l’attesa di niente», non coincide con «nessuna attesa». Ed il progetto senza risultato garantito «non coincide con una nullità di progetto». Esso chiama ad una responsabilità nei confronti del possibile. Pura iniziazione a se stesso, l’evento è allora «un fiorire del possibile nell’istante», «un debutto sulla scena del tempo»: «Niente è più misterioso di questi sconvolgimenti, di questi rinnovamenti, di questi profondi ricominciamenti. È il segreto dell’evento»13. Come nella rivoluzione, questi ricominciamenti e questi rinnovamenti implicano tuttavia che la tabula non sia mai rasa e che non si cominci mai da zero. «Si comincia sempre dal mezzo», amava dire Deleuze.

Nella misura in cui «tocca sempre a qualcuno» e noi possiamo essere quel qualcuno, possiamo sperare di riuscire a perforare questo segreto e il suo mistero. Invece di celebrarlo come «pura possibilità del possibile», occorre allora ricondurre l’evento alle condizioni storiche che determinano il suo terreno. Se il miracolo appartiene all’ordine della fede, l’evento determina le condizioni d’una politica in forma di scommessa ragionata. Questa politica dell’evento rompe tanto con la routine di un «socialismo fuori dal tempo» quanto con le «leggi» rassicuranti di una storia determinista. La presa della Bastiglia non è razionalmente pensabile se non attraverso la crisi dell’Ancien Régime. L’insurrezione d’Ottobre senza la scossa della guerra e le specificità dello «sviluppo del capitalismo in Russia», che fanno del Paese l’anello debole dell’ordine imperiale. Lo sbarco del Granma senza la dittatura subalterna di una borghesia dipendente e corrotta. I decreti della volontà possono, quindi, accordarsi alle circostanze della decisione.

VII

Non si dà allora autentico evento se non nel punto critico in cui la memoria si raccorda all’attesa, in cui l’esperienza muove incontro ai fatti a venire. Atteso, esso sopraggiunge tuttavia contro ogni attesa. Allo stesso modo appare sempre prematuro, intempestivo, a controtempo. Ed è ciò che costituisce la sua forza. Acquista significato «a partire dal suo futuro» e dalle nuove possibilità che inaugura. Contiene in sé «le condizioni della propria intelligibilità». Solo la sua posterità è in grando di valutarne la novità. Perché esso risale alla radice dei possibili. Altera il loro orizzonte e proclama «una rivoluzione dei tempi»14.

Il tempo giornalistico, al contrario, è senza domani. Fabbrica seriale d’attualità e di cronaca, la produzione mediatica confonde la novità effimera con quella che farà storia. Il suo presente sempre ri-cominciato non s’iscrive più nella prospettiva di una durata che ne rivelerà il senso. A forza di titoli sensazionali, scoop e rivelazioni essa offre simulacri evenemenziali a basso costo. «Ancora una volta, lo strumento ci ha superati», constatava Karl Kraus. L’epoca «scambia così agevolmente l’edizione straordinaria per l’evento stesso»15che, malgrado il baccano fatto, le trombe della celebrità mediatica non fanno tremare più alcun muro.

Una politica dell’evento è un’arte strategica del controtempo. Necessariamente intempestivo, esso arriva però sempre troppo presto, e sempre troppo tardi. L’ora propizia è sempre prematura. L’idea moderna di rivoluzione appariva come un punto di sutura tra necessità storica e contingenza evenemenziale. Perché non solamente l’azione politica si espone a l’incertezza dei propri risultati, ma produce essa stessa le proprie contingenze. Come rendere conto di ciò? Attraverso l’hegeliana astuzia della ragione? La contingenza designa allora il tenue rapporto tra la fragilità del possibile e la consistenza dell’effettivo. Irriducibile al puro caso come alle lacune d’una conoscenza incompleta, essa s’inscrive nel cuore stesso della storia concepita come «l’atto attraverso il quale lo spirito si forgia sotto forma di evento»16. «La prova di questa contingenza» è un’esperienza spesso dolorosa delle irragionevolezze storiche: come conciliare l’incertezza dell’evento e la razionalità supposta dal concetto stesso di storia? Una storia senza eventi sarebbe altrettanto impensabile che un evento senza storia. Essa non diviene intellegibile che attraverso la «trama cangiante» di ciò che avviene, ma che sarebbe potuto non avvenire. La semplice realizzazione di uno scopo annunciato sopprimerebbe, al contrario, «il banco di prova della contingenza»17.

VIII

Di quale «necessità storica» l’evento è allora la parte aleatoria? Della necessità della lotta e del conflitto, poiché solo la lotta è prevedibile, non la sua conclusione. Il modo di produzione capitalista, insiste Althusser, non è generato dal modo di produzione feudale «secondo il regime della genesi o della filiazione/derivazione», ma scaturisce dall’incontro – tanto insolito quanto quello dell’ombrello e della macchina da cucito in una sala operatoria – tra denaro capitalizzato, forza lavoro formalmente libera e innovazione tecnica. L’evento è la forma di questa combinazione non necessaria.

L’istante decisivo «dove tutto sembra essere rimesso in questione» definisce quindi la politica come la «collusione nel cuore della storia» del virtuale, che è multiplo, e dell’attuale, che è unico. «Esiste l’imprevedibile, ecco la tragedia», constata Merleau-Ponty. Inoltre, bisogna davvero che questa libertà tragica, a costo di ritornare ad essere puro capriccio del desiderio, conosca i limiti che la congiuntura e le circostanze le assegnano. A differenza del santo o dell’eroe classico, che agiscono in un solo colpo, il militante profano affronta l’incertezza di una decisione, di cui il risultato rischia sempre di contraddire le sue proprie intenzioni. La fragilità dei giudizi politici e storici s’impone così come antidoto necessario alle tentazioni dogmatiche e dottrinarie esattamente come a quelle dell’indifferenza cinica.

Cambiare il mondo vuol dire interpretarlo per cambiarlo.

E anche cambiarlo interpretandolo.

IX

La storia strategica e il suo memoriale di possibili si distinguono così dalle banalità del fatto compiuto. Gli stessi storici per i quali l’evento risulta ovvio nel momento in cui si conforma al «senso» presunto dalla storia, cavillano sugli errori dei politici quando si tratta di andare controcorrente. Questo dà loro «la possibilità di ostentare la loro saggezza retrospettiva enumerando e catalogando gli errori, le omissioni, le gaffe».  Purtroppo, «questi storici si astengono dall’indicare la strada che avrebbe potuto permettere di condurre con equilibrio alla vittoria in un periodo rivoluzionario, o al contrario, d’indicare una politica rivoluzionaria ragionevole e vittoriosa in epoca termidoriana»18. Cancelliera del fatto compiuto, questa storia storica sacrifica il contingente al necessario, ed il possibile al reale.

La storia critica, invece, decifra l’evento dal punto di vista dell’intervento dei suoi attori. Libera le possibilità vincolate del fatto compiuto. Contro la forza implacabile delle cose, la prova della contingenza e l’incertezza della lotta aprono così uno squarcio nel tetro susseguirsi delle opere e i giorni.

Marx ha pensato la politica «dentro un orizzonte dilaniato tra l’aleatorio dell’incontro e la necessità della rivoluzione»19: «Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di una natura assai mistica se le “casualità” non vi avessero parte alcuna. Naturalmente queste casualità rientrano  nel corso generale della evoluzione e vengono a loro volta compensate da altre casualità. Ma sia l’accelerazione sia il rallentamento dipendono molto da  ‘casualità’del genere  tra cui figura anche quest’altro caso: il ‘caso’ del carattere delle persone che si trovano dall’inizio alla testa del movimento» 20.

Avendo abbandonato la filosofia speculativa della storia per la critica dell’economia politica, egli inscrive il suo senso acuto dell’evento – le guerre e le rivoluzioni- nella logica sistemica e le «leggi tendenziali» del Capitale. Contro il misticismo provvidenziale della storia universale,  riconosce il ruolo dell’incerto. Ma, appena riconosciuto, questo ruolo sembra subito essere neutralizzato da una meccanica dei contrappesi e delle compensazioni. Le “casualità” si annullano nella loro risultante prevedibile «nel quadro del cammino dell’evoluzione».

Le “casualità “ si cancellano in un’alternanza di accelerazioni e rallentamento. La singolarità dell’evento si perde nuovamente nella grande storia del progresso, e la contingenza politica si annulla nella necessità storica.

Questo ritorno della “ragione nella storia” non predispone a cogliere l’enigma di Termidoro e del suo ricorrere. L’intreccio enigmatico tra rivoluzione e contro-rivoluzione si riduce ad una differenza consolatrice tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria, la cui conclusione rimane, in fine, assicurata: «Le rivoluzioni borghesi passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l’un l’altro; gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l’estasi è lo stato d’animo d’ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il  culmine: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei suoi risultati del suo periodo di febbre e di tempesta 21. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo XIX, criticano continuamente se stesse; interrompono a ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare d’accapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte a esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: “Hic Rodus, hic salta!” Qui è la rosa, qui devi ballare!» 22.

Le rivoluzioni sociali fanno un passo indietro, ma solo per prendere meglio la rincorsa.

Se la rivoluzione iniziale risplende come un’alba meravigliosa, la contro-rivoluzione è obliqua e crepuscolare. Essa si svela in seguito. Troppo tardi. Quando è già consumata. Poiché rivoluzione e contro-rivoluzione non sono un semplice gioco di avanzamenti e retrocessione sullo stesso asse temporale. Non sono simmetriche. Esperto di reazione, Joseph de Maistre si è lasciato sfuggire il segreto: la contro-rivoluzione non è una rivoluzione in senso contrario, una rivoluzione presa all’inverso e contropelo, ma «il contrario di una rivoluzione».

X

Secondo Merleau-Ponty, le rivoluzioni sarebbero «vere come movimento» e «sbagliate come regimi». L’ordine istituzionale non sarebbe null’altro, secondo Mannheim, che «il residuo malefico» della speranza, utopica. In Badiou, Termidoro designa la cessazione dell’evento, tanto improvvisa e miracolosa quanto la sua irruzione, un «tradimento della fedeltà» piuttosto che una reazione storica e sociale. L’alternanza ricorrente dell’apertura evenemenziale e della sua chiusura burocratica confermerebbe, in tal modo, le intermittenze di una politica ridotta a rari istanti di epifanie.

Da Marx a Trotskji, la formula paradossale della “rivoluzione permanente” costituisce il nodo problematico tra evento e storia, tra rottura e continuità, tra l’istante dell’azione e la durata del processo. Merleau-Ponty sottolinea che in Trotskji la “ragione storica” non è più una divinità secolarizzata che conduce il treno del mondo. Sebbene la storia si emancipi così dalla teologia come dal determinismo economico, egli scorge sospettosamente, nonostante tutto, la traccia di una credenza e una fine annunciata.

In realtà, tutto dipende dalla maniera tramite cui il concetto di rivoluzione si articola con la storicità. In una prospettiva genetica, “la rivoluzione permanente” potrebbe benissimo costituire il goffo travestimento di una fede laica in un progresso garantito. Le nozioni ambigue di “superamento”  o di “transcrescenza” illustrerebbero allora l’interpretazione evoluzionista «di una rivoluzione in cui ciascuna tappa è contenuta in germe nella tappa precedente» 23.

Però, la “rivoluzione permanente” può anche assumere un significato contrario rispetto al gradualismo meccanicista (sinistramente rappresentato nella vulgata staliniana dalla cupa cronologia dei modi di produzione): un senso performativo e strategico. Essa esprime allora il legame ipotetico e condizionale tra una rivoluzione circoscritta in uno spazio-tempo determinato e la sua estensione spaziale («la rivoluzione mondiale») e temporale (che «si estende necessariamente attraverso decenni»). Il cambiamento rivoluzionario del mondo prende allora la dimensione di una «lotta intestina continua» del potere costituente contro la sua pietrificazione termidoriana.

XI

Il rapporto tra resistenza, evento e storia s’intreccia nella nozione strategica di crisi, laddove le faglie della normalità ed i fallimenti della routine trovano la loro massima espressione.

Etimologicamente, la crisi è un momento di decisione e di verità, quando la storia esita trovandosi dinanzi ad un bivio che apre a sentieri irti di «possibili laterali». Tema caratteristico della modernità, la crisi rappresenta il lato oscuro del progresso. Ha acquisito il suo significato attuale passando dal lessico medico a quello economico e poi politico. La “grande crisi” economica del ‘29 coincide stranamente con Il disagio della civiltà di Freud (1929), o La crisi delle scienze europee di Husserl (1935). Per Husserl “La crisi delle scienze europee” sta ad indicare che la loro scientificità è diventata incerta. Nella crisi sociale e politica, la legittimità delle istituzioni e la potenza dell’ordine stabilito sono a loro volta compromessi. Come se il disagio annunciasse la crisi, e come se la crisi si appropriasse delle diverse sfere della vita sociale ed intellettuale.

Il disagio è il momento critico della disillusione repressiva. Sintomo di un nuovo disagio della civiltà, il discorso disincantato della postmodernità diviene ora propizio alla “crudeltà melanconica” dell’azione senza scopo. La crisi, invece, è la parte attiva del disagio. In un batter d’occhio, la talpa intravede quindi la luce.

Da Marx a Lenin, la crisi ha assunto un significato chiaramente strategico. Essa designa ormai «il nodo evenemenziale» che sconvolge il campo dei possibili. Mette in chiaro gli antagonismi. Gerarchizza le contraddizioni. Combina i ritmi sociali e districa le appartenenze multiple 24.

Dall’inizio del XVII secolo, l’Europa non ha conosciuto, constata Marx, una rivoluzione radicale che non sia stata preceduta da una crisi commerciale e finanziaria:  le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese. Scoppia una epidemia sociale e la società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie. La crisi può ancora tardare di qualche settimana, ma deve scoppiare. 25. Si presenta dunque come il modo in cui «il conflitto deve essere costantemente sormontato» e come la forma sotto cui l’equilibrio spezzato viene violentemente ristabilito. Questa diagnostica non sfugge a ciò che Michel Dobry qualifica come «illusione eziologica». L’anteriorità della crisi commerciale rispetto alla crisi rivoluzionaria pare stabilire tra di esse un legame diretto, confermato dalla metafora medica dell’ «epidemia sociale».

Marx non si accontenta pertanto d’interpretare la successione cronologica come una relazione causale. Svela la logica intima delle crisi economiche e finanziarie. Ma la crisi economica non è, ancora, nient’altro che un freddo lampo, la forma “più astratta” e “senza contenuto” del possibile. Non è la causa meccanica delle crisi politiche, ma solo la loro condizione di possibilità. La trasformazione di una crisi in crisi rivoluzionaria dipende dall’attitudine degli attori a cogliere l’occasione strategica decisiva del momento. L’azione di una forza coerente dotata di un progetto chiaro diviene quindi una condizione decisiva per l’esito: «Perché la rivoluzione non nasce da ogni situazione rivoluzionaria, ma solo nei casi in cui, alle trasformazioni oggettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, anche in un periodo di crisi, non “cadrà” mai se non lo “si fa cadere”.» 26. Lenin mette così l’accento su una caratteristica essenziale delle crisi: la “de-soggetivazione” dei rapporti sociali e la de-fatalizzazione delle ‘leggi della storia’” 27.

L’esito della crisi si gioca a due o più protagonisti e i suoi attori prendono essi stessi consistenza attraverso “lo scambio di colpi”.

XII

Dalla metà degli anni sessanta, il mondo è caduto in un’atmosfera di crisi che le effimere riprese economiche non riescono a dissipare. L’avvenire sociale, ecologico, tecnologico, resta adombrato da inquietudini e pericoli. Indefinibile, la crisi si attarda. Il timore di una spaventosa fine si eternizza nel prolungarsi di uno spavento senza fine 28.

Si tratta di ben altro che di una crisi industriale o finanziaria: si tratta di un nuovo disagio della civiltà. Di una crisi globale dei rapporti sociali e dei rapporti dell’umanità con il suo stesso ambiente naturale, di uno sregolamento generale degli spazi e dei ritmi. La crisi della civiltà è una crisi di dismisura e di errata misurazione. Che dura e si protrae in un deterioramento senza esito. Negri ne deriva l’ipotesi secondo la quale le grandi crisi scomparirebbero con la modernità a vantaggio di una proliferazione postmoderna delle “piccole crisi” ramificate in rizomi.

Se è vero che le sovranità statuali si disgregano tra le maglie della rete imperiale, non è sorprendente che le crisi rapide e violente, che ruotano attorno obiettivi di potere identificabili, cedano il posto a lente crisi di «corruzione».

La nozione di crisi cambierebbe allora di senso e funzione. Non perforerebbe più la struttura, non sarebbe più una rottura nella continuità. Sarebbe ormai un tutt’uno con la storia. Coinciderebbe con la ”tendenza naturale della storia“. Ne sarebbe la stessa modalità 29. Ritroviamo qui gli accenti catastrofici che Negri pretendeva di evitare. Marx riteneva, più sobriamente, che il capitale diventasse una barriera per se stesso.

Questa contraddizione giunge oggi ad un punto critico.

Ma come venirne fuori?

Abbiamo conosciuto numerosi imperi decadenti e molte civiltà in rovina. La storia non è un lungo e placido fiume. Non ha un lieto fine assicurato. L’alternativa tra liberazione o barbarie, posta all’inizio del secolo scorso, è più incalzante che mai. Da guerre mondiali a bombardamenti atomici, da genocidi a disastri ecologici, la barbarie ha preso diverse lunghezze di vantaggio. Se la crisi non è ancora l’evento, essa ne è la manifestazione della possibilità concreta. Il suo esito non è già stabilito in anticipo. La crisi appare ben altro che un semplice “tornante storico”: come un grande passaggio, una ramificazione cruciale, dove si incontrano le necessità della situazione e la contingenza dell’azione.

La catastrofe può essere ancora scongiurata. Se…

Non c’è altro da fare se non investirsi nel processo. È il lavoro stesso della talpa.

XIII

Hegel evocava la rivoluzione «intime e silenziosa» che prelude all’apparizione di uno spirito nuovo. Attraverso le irragionevolezze della storia, lo scavare astuto della talpa tracciava secondo lui la via della Ragione. La talpa non ha fretta. «Non ha da affrettarsi». Ha bisogno della «lunghezza del tempo» e ha a disposizione «un tempo sufficiente». Non si ritira per andare in letargo, ma per scavare. Le sue deviazioni e i suoi dietrofront la conducono là dove vuole spuntare. Non scompare, è solo che non la si vede più.

Questa metafora della talpa sarebbe, secondo Toni Negri, condannata dalla postmodernità: «Sospettiamo che la vecchia talpa sia morta» 30. Il suo scavare farebbe spazio alle «ondulazioni infinite del serpente» e alle lotte tra rettili. Questo verdetto si fonda ancora sull’illusione cronologica secondo cui la postmodernità succede ad una modernità confinata nei musei dell’antiquariato. Ma la talpa è ambivalente: insieme moderna e postmoderna. Impegnata con fare discreto nei suoi «rizomi sotterranei» e, d’improvviso, tuonante dal suo cratere.

Con il pretesto di rinunciare alle grandi narrazioni storiche, i discorsi filosofici della postmodernità sono propizi ai mistici ed ai mistagoghi: una società che non ha più profeti, ha degli indovini, diceva Chateaubriand.  È la caratteristica propria ai periodi di reazione e restaurazione. Dopo i massacri del giugno 1848 e il colpo di stato del 18 brumaio di Napoleone il piccolo, il movimento socialista fu così colpito da “cristolatria” 31.

All’affermazione mistica e divinatoria, Pierre Bourdieu oppone la parola condizionale, preventiva e performativa, del profeta: «Come il prete è implicato nell’ordine ordinario, allo stesso modo il profeta è l’uomo delle situazioni di crisi, dove l’ordine stabilito vacilla e l’avvenire è completamente sospeso» 32.

Il profeta non è un prete, né un santo. Ancora meno un indovino, piuttosto uno stratega.

Per scongiurare la crisi, le resistenze senza progetti e le scommesse su un’ipotetica salvezza evenemenziale potrebbero non bastare. Occorre restare saldi allo stesso tempo e sulla logica della storia e sull’improvvisazione dell’evento. Restare disponibili alla contingenza del secondo, senza mai perdere il filo della prima. È la sfida stessa dell’azione politica. Ché lo spirito non progredisce in un tempo vuoto, ma «in un tempo infinitamente pieno, rimepito di lotte» 33. E di eventi di cui la talpa prepara l’avvento.

Con lenta impazienza. Con una pazienza frettolosa.

La talpa è un animale profetico.

 

*Il testo è inedito e redatto probabilmente nel 2007. Presenta alcune lacune nei riferimenti delle citazioni che  sono state solo parzialmente colmate dai traduttori: Guido Grassadonio e Serena Devillanova, con l’aiuto di Giulia Prinetto. L’originale francese è disponibile online sul sito danielbensaid.org (http://danielbensaid.org/Desir-ou-besoin-de-revolution?lang=fr). Ringraziamo Sophie Bensaïd per averci permesso di pubblicarlo.

  1. Sulla «rottura marginalista» e la suo eco filosofica, estetica e letteraria,  si veda l’appassionante volume di Jean Joseph Goux, Frivolité de la valeur, Blusson, Paris 2002
  2. L’autore non ritiene necessario citare l’opera da cui è tratto il passo. Si tratta del celebre attacco de Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di Marx (NdT)
  3. Reinhart Koselleck, Futuro e passato: Per una semantica dei tempi storici,  Marietti, Genova 1986 e L’Expérience de l’histoire, Gallimard/Le Seuil, Paris 1997. Jean-Marie Goulemot, Le Règne de l’histoire, discours historiques et révolutions,  Albin Michel, Paris 1996
  4. L’eco degli ultimi libri di  Toni Negri  e Michael Hardt (Impero, 2003) o di John Holloway (Cambiare il mondo senza prendere il potere, 2004) testimonia in una certa misura questo cambiamento. Su questo tema si veda il mio libro Un monde à changer. Mouvements et Stratégies (Textuel, Paris 2003)
  5. G.W.F. Hegel, Scritti teologici giovanili, a cura di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1977, vol. 1, p. 311
  6. G.W.F. Hegel,  Lezioni sulla storia della filosofia (Citazione non rintracciata; trad. nostra, NdT)
  7. Episodio che segna il tragico epilogo della Comune di Parigi [NdT
  8. Karl Marx, 18 Brumaio di Luigi Bonaparte,  Editori Riuniti, Roma 2001 (prima edizione 1964)
  9. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze, La Nuova Italia, 1979, vol. 4, pp. 411-412. «Well said, od Mole», diceva Hamlet. « Brav alter Maulwurf ! Wühlst so hurtig fort ! », traduce Schlegel («prontamente e ben scavato, brava vecchia talpa!). «Brav gearbeitet, wackerer Maulwurf» («Ben lavorato, brava talpa!»), interpreta Hegel. «Brav gewühlt, alter Maulwurf !» riassume Marx, la cui l’idea di scavare (wühlen) aggiunge al semplice lavoro hegeliano un un tocco sovversivo. Su queste trasformazioni della talpa, cfr. Martin Harries, «Homo alludens. Marx’s Eighteenth Brumaire», in New German Critique, autunno 1995
  10. Michel Surya, articolo di cui non è stato rintracciato il titolo apparso in La Quinzaine Littéraire, 1 agosto 2000
  11. Paul Valéry, Regards sur le monde actuel, Parigi, Folio, 1996, p. 17. (Edizione italiana non consultata per la traduzione: Paul Valery, Sguardi sul mondo attuale e altri saggi, Adelphi, Milano 1994, NdT)
  12. Slavoj Žižek , The Ticklish Subject, Verso, London 1999, p. 141.(L’autore cita direttamente la versione originale in inglese. L’edizione italiana, qui non consultata per la traduzione, è Slavoj Žižek , Il soggetto scabroso: trattato di ontologia politica, Milano, Cortina, 2003 NdT)
  13. Charles Péguy, ClioGallimard, Paris 1942p. 170 e 228 (Edizione italiana non consultata per la traduzione, Charles Péguy, Clio: dialogo della Storia con l’anima pagana,  Milella, Lecce 1994, NdT)
  14. Cfr. Claude Romano, L’événement et le temps, Puf, Paris1999
  15. Karl Kraus, La grande époque, Rivages, Paris1999
  16. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Bari 2004, § 346
  17. Bernard Mabille, Hegel, l’épreuve de la contingence,  Aubier, Paris 1999
  18. Pierre Naville, Trotski vivant,  Éditions Maurice Nadeau, Paris 1988, p. 85
  19. Louis Althusser, «Pour un matérialisme de la rencontre», op. cit. (Nota incompleta dell’autore. Dovrebbe riferirsi a «Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre» in Louis Althusser, Ecrits philosophiques et politiques. Stock/Imec, Paris 1994, t. 1, pp. 539-579,  NdT)
  20. Karl Marx, «Lettre à Kugelmann», Correspondance, XI, Éditions sociales, Paris 1985, p. 186. (Lettera a Kugelmann, 17 aprile 1871; trad. nostra, NdT)
  21. Nella traduzione francese usata dall’autore l’espressione è mantenuta in tedesco: Sturm und Drang (NdT)
  22. Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparteop cit., p. 53
  23. Lev Trotskij, La Révolution permanente, Parigi, Gallimard, coll. Idées, 1964 (Edizione italiana non consultata per la traduzione, Lev Trotskij, La rivoluzione permanente, Mondadori, Milano 1971, NdT)
  24. Pur rifiutando l’idea della crisi come momento di chiarificazione e di verità, Michel Dobry analizza egregiamente alcuni tratti caratteristici delle crisi politiche come l’unificazione multisettoriale tendenziale delle logiche settoriali, l’accentuazione dell’interdipendenza tattica delle decisioni, «la desettorizzazione congiunturale dello spazio sociale», la riduzione dell’autonomia dei settori sociali nelle congiunture di forte fluidità politica, la «semplificazione dello spazio sociale», o ancora «la monodimensionalizzazione dell’identità personale» oltre la moltiplicità dei ruoli. Si veda Michel Dobry, Sociologie des crises politiques,  Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, Paris 1992
  25. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, Einaudi, Torino 1970
  26. V. I. Lenin, Il fallimento della seconda internazionale (Edizione italiana di riferimento rintracciabile qui http://www.bibliotecamarxista.org/lenin/volume%2021/len21fal.htm. NdT). In Storia e coscienza di classe, Georg Lukacs ha radicalizzato questo attegiamento soggettivista: «Ciò che distingue qualitativamente le crisi decisive, le crisi “ultime” del capitalismo dalle precedenti non è quindi una semplice conversione della loro estensione e profondità, della loro quantità in qualità. O meglio: questa conversione si manifesta per il fatto che il proletariato cessa di essere semplice oggetto della crisi e si è pienamente sviluppato l’interno antagonismo della produzione capitalistica» (Passo caro all’autore, che ricorre in almeno altri due saggi. In questo caso non indica la pagina esatta della citazione. La traduzione italiana riportata, che si distanzia un po’ da quella francese, anche se non a livello contenutistico, è rintracciabile in G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1967, p. 304, NdT)
  27. Su questo si veda Michel Dobry, op. cit., p. 154
  28. L’autore gioca qui a parafrasare un passo di Marx. Cfr. K. Marx Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit, p. 179 (NdT)
  29.  Empireop. cit., pp. 458 e 465 (Edizione italiana non consultata per la traduzione, Toni Negri e Michael Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2000, NdT)
  30.  Ibid., p. 89
  31. Gustave Lefrançais, Souvenirs d’un révolutionnaire, Tête de feuille, Paris 1971, p. 191
  32. Pierre Bourdieu, «Genèse et structure du champ religieux», in Revue française de sociologie, 12, 1971, p. 331
  33. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit. (Citazione non rintracciata; trad. nostra, NdT)
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