Habermas, Honneth e il problema di una critica immanente del lavoro


Luca Micaloni

Università degli Studi RomaTre / Istituto italiano per gli studi filosofici
luca.micaloni@gmail.com

 
 
 
Abstract: This article offers a critical reconstruction of Axel Honneth’s arguments for an immanent critique of labour. After giving an outline of the significance, in regard to Honneth’s social theory, of two crucial distinctions set forth by Jürgen Habermas (namely, that between work and interaction and that between System and Lebenswelt), the Author shows how Honneth’s conception has shifted from the initial search for a ‘critical notion of labour’ focused on the characteristics of working activity to a critical view of the division of labour that hinges on the normative claims that are deemed to be inherent in modern labour market and that are conceived of as immanent and universal normative criteria. In the final section, the Author offers some critical remarks on Honneth’s analysis of the labour market and suggests that its normative criteria could prove to be neither immanent, nor universal.
 
Keywords: Honneth; labour; market; capitalism; immanent critique.
 
 
 
1. L’insufficienza esplicativa e normativa del concetto di lavoro
 
Nella critica di Habermas al paradigma del materialismo storico è contenuta l’idea secondo cui, nel misurarsi con la descrizione e l’analisi dei processi sociali, le prospettive che assegnano centralità alla dimensione della riproduzione materiale si dimostrano portatrici di una incauta sottovalutazione della dimensione normativa dell’interazione e dell’agire dei soggetti individuali e collettivi. La tesi di Habermas, occorre dire, non sorge creativamente da un vuoto originario, e anzi si inserisce nel solco del dibattito – che, nel periodo in cui egli scrive, ha già raggiunto estensione secolare – concernente la retta interpretazione del “materialismo” di Marx e l’adeguato inquadramento dello statuto e del ruolo che, in quella teoria, è assegnato alle “sovrastrutture” istituzionali, culturali, ideologiche. La questione relativa al maggiore o minore grado di autonomia ontologica e di efficacia causale delle sovrastrutture aveva sin dall’inizio interrogato i teorici marxisti. La criticità rappresentata in modo eminente dal celebre e prima facie assai rigido schema diadico struttura/sovrastruttura, delineato da Marx nella Prefazione del 1859[1], era destinata a produrre una animata – e irrisolta – diatriba intorno al senso dell’influenza determinante esercitata dalla realtà economica sugli altri livelli e settori della realtà sociale, da un lato, e sulla coscienza e sul comportamento degli agenti, dall’altro. La preoccupazione, già engelsiana, di smarcare la concezione materialistica della storia da un troppo rigido e semplicistico determinismo economico, postulando una realtà sociale articolata in «infiniti parallelogrammi di forze» e determinata solo «in ultima istanza» dalla produzione (Engels 1962, 40-41), trovava una risonanza di grande impatto storico e teorico nell’esigenza di “revisione” esplicitata da Bernstein (1968, 34), secondo il quale «le ‘forme giuridiche’ – ossia le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le concezioni religiose, ovvero i dogmi – vengono annoverate tra i fattori che agiscono sul corso delle lotte storiche e in molti casi ‘determinano in modo preponderante la loro forma’». Senza procedere in questa sede a una ricostruzione esaustiva del dibattito, che esulerebbe dagli scopi di questo saggio, basti considerare che la problematica legata a questo nodo aporetico non ha cessato di interrogare il marxismo teorico: si pensi soltanto, a titolo di esempio, alla variegata riflessione di Gramsci, o alla discussione di area francese suscitata dalle tesi di Althusser (1967; 1981; 1997) ancora sulla «determinazione in ultima istanza», nonché sulla relativa autonomia delle sovrastrutture, riprese originalmente da Poulantzas (1975; 1978; 1996) e, più recentemente, da Laclau e Mouffe (2011).

Oltre alla tendenziale riduzione monistica della sovrastruttura a compagine istituzionale e culturale ontologicamente dipendente e direttamente determinata dalla dimensione strutturale, la tipologia “marxista” (volgarmente intesa) di spiegazione dell’accadere storico e sociale contiene anche – in modo ora più reciso, come nelle varianti “strutturaliste”, ora più sfumato, come nelle prospettive che valorizzano con maggiore enfasi il ruolo della prassi – la pretesa di prescindere dall’intenzionalità degli agenti e dal tessuto delle loro attribuzioni di senso. Autonomia delle sovrastrutture e autonomia dell’attore sociale non procedono in parallelo: anche nelle prospettive che accordano alle sovrastrutture un più ampio margine di indipendenza, permane salda un’impostazione metodologica anti-individualistica, secondo la quale il fatto sociale non è riducibile alla somma complessiva delle azioni dei singoli agenti, e tanto i risultati delle azioni quanto i loro processi genetici sfuggono alla volontà e al controllo degli agenti e non possono essere adeguatamente spiegati ricorrendo alla loro razionalità o all’insieme delle ragioni e delle motivazioni da essi addotte (che pure mantengono un ruolo performativo necessario alla realizzazione del comportamento medio funzionalmente richiesto, che sarebbe difficilmente attuabile se le “cause reali” dell’azione fossero manifeste e disponibili all’accesso cosciente), e che anzi tra i più rilevanti compiti della teoria vi sia quello mettere a tema e indagare il sistema, variamente qualificato, dei vincoli strutturali e delle coazioni inconsce che insistono sulla percezione, sulla cognizione e sul comportamento degli agenti[2]. Rispetto a questo quadro teorico, dunque, la tesi di Habermas propone una duplice rivalutazione, che investe da un lato lo statuto e il ruolo delle sovrastrutture, dall’altro quello dell’intenzionalità e delle pratiche discorsive degli attori sociali.

Nel quadro specifico della Teoria critica della società, che al nome di Habermas lega una sua importante fase di sviluppo, la sottolineatura più o meno marcata dei vincoli “strutturali” posti dal modo di produzione è apparsa bisognosa di revisione anche nella misura in cui essa, oltre a essere portatrice di eccessivi costi descrittivi, esercitava i suoi effetti negativi sulle capacità critiche ed emancipative della teoria. Da questo punto di vista, una lettura “monistica” imperniata sul lavoro e sulla produzione rappresenta un freno all’elaborazione di una critica dei processi di riproduzione simbolica, delle dinamiche di interazione e comunicazione, dell’assetto e dello sviluppo dei quadri normativi, nella misura in cui il monismo comporta l’impossibilità di considerare la “sovrastruttura” come dimensione ontologica relativamente autonoma, o isolabile almeno metodologicamente, e vincola la critica al compito, necessario ma non sufficiente, di uno “smascheramento” da condurre sia nei confronti dell’ascrizione di autonomia a livelli sociali collocati invece in una posizione di ineludibile dipendenza genetica dai fattori strutturali, sia nei confronti dell’ascrizione di autonomia, razionalità e libertà agli agenti sociali (o, più radicalmente, anche della mera capacità di ricostruzione simbolica dei processi oggettivi e di ricognizione non distorta del proprio sé e della sua effettiva collocazione sociale).

La discussione relativa alla maggiore o minore centralità da assegnare alla categoria analitica e al soggetto sociale del “lavoro” non ha, dunque, avuto luogo soltanto sul terreno della descrizione adeguata della realtà sociale e della fondazione della sua critica. Anche le prospettive di emancipazione basate sulla liberazione del lavoro dai suoi caratteri alienanti dovevano infatti apparire troppo parziali e ignare dell’eguale – o addirittura maggiore – importanza dei “processi di apprendimento”, di sviluppo e di liberazione che riguardano le relazioni intersoggettive e la dimensione normativa delle società. Non soltanto è venuto meno, nella storia e nella teoria, il ruolo privilegiato della classe lavoratrice nei percorsi di emancipazione; non soltanto non si dà più alcuna garanzia ontologica di un migliore accesso del gruppo sociale dei lavoratori salariati a una visione complessiva e critica della società[3]; la svolta, di natura più fondamentale, operata da Habermas in seno alla Teoria critica, consiste nel sottrarre al lavoro il ruolo di fulcro dell’identità personale e collettiva e di veicolo della realizzazione di sé, riconsegnandolo forse al più tradizionale registro semantico del travaglio e della pena, al ruolo di vincolo intrascendibile e strettoia necessaria della riproduzione di una vita umana bisognosa di reperire il proprio senso in una più fondamentale e promettente dimensione di interazione intersoggettiva. Mentre, dunque, nel “marxismo” il lavoro è alla base della riproduzione sociale, identifica il soggetto dell’emancipazione e definisce il principale requisito normativo di una condizione umana non alienata (e dunque costituisce anche la categoria centrale a partire dalla quale è possibile criticare l’alienazione) – mentre, cioè, il concetto di lavoro nel marxismo è ritenuto capace di stringere in unità sintetica le tre dimensioni e i tre compiti (descrizione/critica/emancipazione) di una teoria critica – esso si rivela essere, per Habermas, troppo sintetico, carente di distinzioni, fonte di ostacoli epistemologici che agiscono nei tre livelli.

È in questo orizzonte problematico, crediamo, che occorre inscrivere la genesi e lo sviluppo del confronto di Habermas con il materialismo storico[4], ed è alla luce di questo orizzonte che il destino teorico del concetto di “lavoro” nella teoria sociale critica recente diviene più adeguatamente comprensibile. È, inoltre, di nuovo rispetto a questo ordine di problemi che, nel presente saggio, intendiamo mettere a fuoco il modo in cui Honneth articola originalmente, in polemica con Habermas, una parziale rivalutazione del concetto di lavoro, per poi mutarne i termini e ricollocarsi – questa la nostra tesi – in una linea di sostanziale continuità con l’impostazione habermasiana.
 
 
2. La razionalizzazione si dice in molti modi. Habermas e la ricostruzione del materialismo storico
 
Tra i punti qualificanti del percorso intellettuale di Habermas, un ruolo di assoluto rilievo è svolto dal tentativo di delineare un’articolazione pluralistica delle forme di razionalità, mirando a conferire adeguato spazio e dignità normativa alla razionalità comunicativa e sociale, distinta dalla razionalità tecnico-strumentale ed economica. Sin dall’intervento giovanile intitolato Die Dialektik der Rationalisierung (Habermas 1954), Habermas propone di delimitare i campi di azione e le finalità specifiche delle diverse forme di razionalità, e suggerisce che i propositi di riforma sociale potrebbero opportunamente ispirarsi al criterio di una limitazione reciproca di quelle forme, che a partire dalla loro distinzione debbono idealmente temperarsi a vicenda. Ampliata e radicata nella distinzione metodologica ed epistemologica tra interessi tecnici, ermeneutici ed emancipativo-critici della conoscenza (Habermas 1968), questa traiettoria di pensiero trova un punto di approdo nel più articolato disegno sistematico della Teoria dell’agire comunicativo (Habermas 1980), in cui a un sistema relativamente «libero da norme» e alla sua logica di integrazione attraverso media «non comunicativi» come denaro e potere fa da contraltare una Lebenswelt modellata sull’ideale regolativo di una comunicazione «libera da dominio», campo di esistenza dei soggetti individuali e collettivi, del loro agire e di una prassi non vincolata alle finalità di riproduzione materiale[5].

Questa rapida e, occorre appena dirlo, non esaustiva ricognizione di una delle numerose linee di riflessione percorse da Habermas, fornisce tuttavia una iniziale indicazione di quanto poco, a suo giudizio, la dimensione del lavoro sia sufficiente a definire un adeguato criterio di indagine sociologica, o a rappresentare il perno di una teoria dell’accadere storico e una prospettiva di emancipazione sociale. Essa deve, dunque, assumere un’importanza via via più marginale, a fronte della preminenza ontologica ed esplicativa delle strutture normative e comunicative e del loro processo di sviluppo. Se, infatti, in una incorporazione forse unilaterale dei risultati teorici della Dialettica dell’illuminismo – ma anche della triade arendtiana ArbeitWerkHandlung (Arendt 2009) – il lavoro è ridotto ad azione strumentale, interesse tecnico e veicolo della Naturbeherrschung, allora le prospettive che assegnano al lavoro la capacità di veicolare la costituzione dell’identità personale e delle relazioni sociali, e in generale una più ampia ricchezza di senso e una capacità antropogenetica e formativa connessa al registro semantico della Bildung, rischiano di risultare, paradossalmente, funzionali all’indebita estensione della razionalità strumentale e alle pretese “coloniali” dell’integrazione sistemica e della riproduzione materiale. Il materialismo storico, parrebbe dire Habermas, fallisce dunque sia come descrizione della realtà, sia come teoria dell’emancipazione, nella misura in cui esso adotta il principio monistico del lavoro e della produzione, sottostimando la dimensione dell’agire, delle norme e delle relazioni comunicative, che costituiscono tanto un elemento intrascendibile di una descrizione affidabile della realtà sociale, quanto il principale presupposto del progresso sociale, a fronte dell’inservibilità pratico-morale di una dimensione poietico-produttiva dominata dall’agire strumentale e dall’interesse conoscitivo di tipo tecnico. L’obiezione, che si potrebbe a questo punto sollevare, secondo la quale il marxismo è pessimisticamente all’altezza del carattere quasi totalitario delle logiche e degli imperativi sistemici, non restituisce al marxismo neppure il merito scientifico della capacità di condurre un’analisi disillusa e spietata, perché il mondo della vita e la dimensione normativa, per quanto schiacciati e ridotti al minimo dall’invasività coloniale del sistema, continuano purtuttavia a sussistere come ineludibile elemento ontologico e come criterio esplicativo della realtà sociale. Le due dimensioni individuate da Habermas sono irriducibili, e l’aver individuato nella dimensione del lavoro il luogo di costituzione di un’identità personale ben formata (o deformata) e la possibilità formazione (o le ragioni della mancata formazione) di una coscienza collettiva capace di porsi come obiettivo l’instaurazione di relazioni sociali libere rappresenta un’ambiguità e un limite della tradizione marxista, che non ha saputo distinguere in modo sufficiente la πρᾶξις dalla ποίησις, lo sviluppo morale dallo sviluppo materiale, il progresso normativo dal progresso tecnico. Come già Adorno e Horkheimer (2002) avevano mostrato, lo sviluppo delle forze produttive non corrisponde infatti a un eguale sviluppo delle strutture normative, anzi è compatibile con un incremento della quota di dominio. Da questa idea di una dialettica della razionalizzazione e dei rischi teorici e storici di una pretesa autosufficienza della ragione strumentale Habermas trae l’ulteriore conseguenza di una biforcazione dei processi di sviluppo, e anzi suggerisce che vi sia una preminenza dell’evoluzione del quadro normativo – luogo almeno ideale, quando non effettivo, dell’agire comunicativo – rispetto ai mutamenti che investono le forme della riproduzione materiale delle società.
 
 
3. Separazione o sussunzione? Il nesso tra lavoro e quadro giuridico-normativo dalla Realphilosophie jenese alla «ricostruzione» del materialismo storico
 
Uno dei testi in cui Habermas viene precisando il suo orientamento rispetto al concetto di lavoro è il breve intervento dedicato alla Realphilosophie jenese di Hegel e intitolato Lavoro e interazione (Habermas 1975a). Alla luce delle considerazioni finora svolte, non sorprende che l’interesse di Habermas per la filosofia dello spirito elaborata da Hegel nel periodo jenese muova alla ricerca di un’articolazione concettuale della prassi umana sottratta all’egemonia monologica del concetto di lavoro. Il testo di Hegel diventa per Habermas il luogo paradigmatico in cui ricercare tanto una fondazione storico-filosofica e teoretica delle indagini sino ad allora condotte sulla pluralità delle forme della razionalità e dell’agire, quanto un certo numero di premesse concettuali per il loro ulteriore sviluppo in una teoria articolata della differenza e della relazione tra dimensione tecnologico-sistemica e dimensione normativo-comunicativa della riproduzione sociale. Dalla lettura della filosofia jenese, e in particolare dalla sezione del 1805-1806 dedicata allo «spirito reale», Habermas ricava in primo luogo una sostanziale omogeneità tra l’impostazione hegeliana e la propria idea di una reciproca irriducibilità tra l’agire diretto all’elaborazione strumentale della natura esterna e l’agire diretto all’intesa intersoggettiva e alla negoziazione comunicativa delle norme: secondo tale prospettiva «non è possibile dedurre il lavoro dall’interazione, né l’interazione dal lavoro» (Habermas 1975a, 38). Inoltre, sarebbe ancora Hegel a istituire, in forza di una già ben radicata attenzione alla «società civile», una stretta correlazione tra la riproduzione materiale della vita di un “popolo” e il quadro di riferimento normativo entro il quale essa si svolge: «nel prodotto riconosciuto del lavoro […] si trovano congiunti il comportamento strumentale e l’interazione» (Habermas 1975a, 38). L’accento posto sul riconoscimento del prodotto del lavoro riflette l’interesse teorico di Habermas per la peculiare giuntura di agire tecnico-strumentale e agire normativo-comunicativo realizzata dal mercato moderno e dagli istituti giuridici a esso connessi. E si vedrà tra breve quanto, sul punto della valutazione positiva dei principi normativi del mercato, sussista tra Habermas e Honneth una relazione di sostanziale continuità teorica. Lo Hegel jenese riesce, secondo Habermas, ad accostarsi teoreticamente al «rapporto economico che il diritto privato ha con la moderna società civile» (Habermas 1975a, 44). Al contrario, nella matura filosofia del diritto, questo rapporto appare allentato, nella misura in cui il diritto «si costituisce indipendentemente dalle categorie del lavoro sociale e solo successivamente entra in rapporto con quei processi» (Habermas 1975a, 45), mentre a Jena era, per così dire, la stessa categoria di lavoro a svilupparsi “dialetticamente” in senso sociale e a trovare espressione e compimento nella dimensione giuridica: «nel sistema, la dialettica del lavoro ha perduto la sua centralità» (Habermas 1975a, 45).

Come esito dell’indagine concernente la relazione tra sviluppo tecnico-produttivo e sviluppo normativo Habermas non intende però proporre una semplicistica bipartizione del processo storico-sociale in due dimensioni del tutto indipendenti o, al massimo, comunicanti nella forma meramente esteriore della reciproca applicazione. Sebbene egli ritenga in ultima analisi insoddisfacente la teorizzazione del nesso tra lavoro e interazione offerta dallo Hegel jenese – e a fortiori la versione marxiana, nella quale l’interazione e il diritto sono consegnati alla sfera della sovrastruttura, che dipende ontologicamente dalla struttura ed ha, da un lato, il ruolo di garantire condizioni normative funzionali alla riproduzione della struttura, dall’altro quello di esprimerne in forma distorta e “ideologica” i caratteri – Habermas va, in questa fase, alla ricerca di una relazione tra lavoro e interazione, evitando di contentarsi di una loro distinzione e separazione. Vi sono invece, nella prospettiva habermasiana, significative indicazioni in favore di una sussunzione, inversa rispetto a quella operata da Marx, del processo di riproduzione tecnica sotto la dimensione normativa. Habermas ricerca, senza trovarla compiutamente in Hegel, una connessione organica tra lavoro e interazione, in cui il secondo termine è “architettonico” rispetto al primo e lo ricomprende. È in quest’ottica che la Realphilosophie jenese offre una traccia paradigmatica e manifesta una diretta fungibilità per lo sviluppo ulteriore dell’indagine habermasiana, nei luoghi in cui quest’ultima intraprende un tentativo di ricostruzione del materialismo storico[6] che sostituisce all’idea marxiana di una storia mossa dallo sviluppo delle «forze produttive» l’autonomia e la relativa preminenza dell’evoluzione delle «strutture normative». In primo luogo, infatti, Habermas si dichiara convinto «che le strutture normative non seguano semplicemente la linea di sviluppo del processo di riproduzione, né ubbidiscano semplicemente al modello dei problemi sistemici, ma che abbiano invece una storia interna» (Habermas 1979, 31): quelle che la tradizione marxista ha definito “sovrastrutture”, insistendo sulla loro dipendenza ontologica dalla struttura e sul loro statuto derivativo, hanno in realtà una storia interna e un autonomo processo di sviluppo, che non si limita a reagire ai “problemi” che sorgono a un più fondamentale livello strutturale e ad approntare funzionalmente soluzioni e strategie di stabilizzazione normativa degli attriti sistemici (cfr. Habermas 1975b); l’evoluzione delle strutture normative non è interpretabile come mera risposta funzionale, e va al contrario letta in primo luogo come dinamica interna ai processi di “apprendimento” normativo dei singoli e delle società – degli ostacoli, dei superamenti e delle fasi di sviluppo che individui e società attraversano[7]. In secondo luogo, Habermas compie un ulteriore, decisivo passaggio, sostenendo che «lo sviluppo di queste strutture normative fa da battistrada all’evoluzione sociale, poiché nuovi principi di organizzazione sociale significano nuove forme di integrazione sociale; e queste rendono a loro volta possibile la messa in opera delle forze produttive esistenti o la produzione di nuove» (Habermas 1979, 34). È dunque questa configurazione della relazione tra produzione e strutture normative a essere, per Habermas, anticipata nella costruzione jenese, dalla quale emerge che «il risultato della liberazione attraverso il lavoro rientra nelle norme in forza delle quali interagiamo gli uni sugli altri» (Habermas 1975a, 39).

Come vedremo, Honneth riterrà che l’impostazione di Habermas, alla quale pure occorre riconoscere il fondamentale merito di aver sottolineato l’importanza e l’autonomia dell’agire comunicativo e dell’interazione – colmando, almeno programmaticamente, il “deficit normativo” del materialismo storico – tralasci l’indagine e la valorizzazione degli aspetti più propriamente normativi del lavoro, favorendone una perniciosa assimilazione all’agire tecnico-strumentale. In seguito, tuttavia, anche Honneth abbandonerà in buona parte l’iniziale ricerca di un “concetto critico di lavoro”, facendo coincidere gli aspetti normativi del lavoro con un insieme di condizioni esterne all’attività lavorativa, cioè con il riconoscimento istituito e veicolato dallo scambio di prestazioni entro il quadro giuridico del mercato moderno – dislocando, per così dire, l’elemento normativo dalla produzione alla circolazione.
 
 
4. Dall’attività all’organizzazione. L’incompiuta riabilitazione del lavoro nell’opera di Honneth
 
Secondo una linea interpretativa che troverà piena espressione nel testo del 1985 Critica del potere, già nel saggio del 1980 Lavoro e azione strumentale Honneth (2011, 43-90) si mostra assai critico nei confronti delle rigidità connesse alla distinzione habermasiana tra sistema e mondo della vita: in primo luogo, tale distinzione esprimerebbe una sorta di “abbandono normativo” della dimensione economica, concepita come un terreno di integrazione sistemica relativamente impermeabile ai codici dell’integrazione sociale; in secondo luogo, essa conterrebbe un impoverimento del concetto di lavoro e una sua indebita assimilazione e riduzione all’agire strumentale. Secondo l’impostazione teorica di questo Honneth, al lavoro continuano invece a inerire i caratteri normativi di un’oggettivazione di sé non deformata, e l’attenzione di Habermas alle norme dell’intersoggettività comunicativa si accompagna a una colpevole sottovalutazione dei contenuti normativi dell’attività lavorativa. Nella riflessione di Habermas, rileva Honneth, «lo spettro delle forme di lavoro sociale» è «differenziato solo relativamente alla loro modalità di organizzazione sociale e non anche alla misura in cui esse soddisfano le condizioni di un’attività lavorativa non deformata» (Honneth 2011, 85). Occorrerebbe qui notare che una simile interpretazione può risultare fin troppo netta, almeno nella misura in cui, per Habermas, il problema dell’organizzazione sociale del lavoro ha potuto riguardare (almeno virtualmente) non soltanto la dimensione “esterna” della divisione sociale del lavoro, del diritto del lavoro, dei livelli salariali, etc., ma anche la dimensione “intrinseca” della razionalizzazione dei cicli produttivi e del modo di erogazione dell’attività, che ove ispirata ai soli criteri della razionalità tecnica ed economica e non contemperata dal criterio, egualmente fondamentale, della razionalità sociale, produce squilibri ed esiti “patologici”. Al di là dell’accuratezza interpretativa di Honneth[8], ciò che preme in questa sede porre in rilievo è la tesi secondo la quale
 

Un concetto critico di lavoro dovrebbe poter comprendere, a livello categoriale, la differenza tra un agire strumentale nel quale il soggetto lavoratore struttura e regola la sua attività secondo la sua iniziativa e in base al suo sapere, in un processo in sé dotato di senso, e un agire strumentale nel quale né il controllo dell’attività né la strutturazione di essa in rapporto all’oggetto sono lasciate al soggetto agente. (Honneth 2011, 85; trad. it. mod.)

Fissare questo punto, e in particolare questa configurazione dei requisiti di un’attività lavorativa non deformata, rappresentati dalla capacità di iniziativa autonoma, dalla possibilità di controllo dell’attività e dalla relazione teoretica e poietica che permette al soggetto di ritrovare sé nell’oggettività elaborata, consente di mettere a fuoco una rilevante transizione teorica intervenuta nel pensiero di Honneth sul piano della definizione dei caratteri normativi del lavoro e della loro fungibilità per la critica sociale. In anni successivi, infatti, una diversa interpretazione degli sviluppi del capitalismo contemporaneo in direzione di una economia “cognitiva” e la rilevazione dei conseguenti mutamenti riguardanti le caratteristiche empiriche delle prestazioni lavorative allontanano Honneth dalla formulazione di un punto di vista critico relativo alle caratteristiche “intrinseche” dell’attività lavorativa, conducendolo per una via autonoma a una posizione teorica dagli esiti non troppo diversi da quella adottata da Habermas, pure aspramente criticata nei primi lavori per il suo cedimento – comune, secondo Honneth, all’intera Teoria critica precedente – a un apparato categoriale di derivazione «funzionalistico-sistemica» (Honneth 2002). In altri termini, se da un lato Habermas ha dismesso la ricerca di un concetto critico di lavoro, dall’altro la “ripresa” honnethiana di quell’indagine cessa quasi immediatamente di investire il lavoro come attività, per indirizzarsi invece al lavoro come nesso di riconoscimento sociale mediato dal mercato[9] – una prospettiva, dunque, assai simile a quella che, come abbiamo visto, emergeva dalle considerazioni svolte da Habermas in merito alla filosofia jenese dello «spirito reale».

A fronte di una esplicita conferma e ripresa delle critiche da sempre sollevate nei confronti di Habermas, vi è dunque una discontinuità interna nello sviluppo della prospettiva di Honneth riguardo il concetto di lavoro e un suo “riallineamento” alle posizioni habermasiane. Nel saggio Lavoro e riconoscimento Honneth muove dalla constatazione della rarità dei punti di vista teorici attualmente impegnati a «difendere una concezione umana ed emancipativa del lavoro» (Honneth 2010, 19), e ritiene ancora che tale situazione culturale sia esemplificata in modo eminente «dal discorso habermasiano dell’autoregolazione “libera da norme” del sistema economico» (Honneth 2010, 21). Questa tesi parrebbe quindi disporsi in perfetta continuità con la prospettiva a partire dalla quale Honneth (1985) aveva criticato il decorso teoretico della Teoria critica – inclusa la traiettoria intellettuale di Habermas – e aveva posto l’esigenza di reperire in ogni settore della vita sociale – compresa, dunque, la dimensione economica e produttiva – i percorsi di costituzione normativa che passano attraverso l’agire e le pratiche discorsive dei soggetti coinvolti nei diversi “sottosistemi di azione” considerati, al fine di emendare la Teoria critica, tanto dalla postura rinunciataria legata all’idea di un’autoriproduzione del sistema, quanto dalla paternalistica visione dell’agente sociale come mero simulacro di soggettività, svuotato di ogni capacità di autonoma deliberazione e di resistenza agli imperativi sociali (cfr. Honneth 1985). Analoga continuità vi sarebbe rispetto al saggio del 1980, nel quale restava viva l’esigenza di reperire un «concetto critico di lavoro». Le caratteristiche di questo concetto critico, però, appaiono radicalmente mutate, in forza dell’esigenza, divenuta esplicita anche rispetto al tema del lavoro, di condurre una «critica immanente» che faccia perno su un criterio «intrinseco ai rapporti criticati stessi in quanto pretesa razionale giustificata» (Honneth 2010, 27). Ciò significa, in primo luogo, che il “criterio” deve essere in qualche modo già realizzato dallo sviluppo sociale; in secondo luogo, che esso deve essere giustificato, cioè dotato di una validità normativa universale e applicabile a ogni lavoro possibile. Posti questi requisiti, la via di una critica centrata sul modo di erogazione dell’attività lavorativa risulta essere non più percorribile, nella misura in cui essa non è né immanente, né universale.

Storicamente, le critiche del lavoro in quanto forma di attività hanno fatto riferimento al modello “estetico” di un’auto-oggettivazione non alienata, basato in ultima istanza sul paradigma dell’attività artigianale (cfr. Honneth 2010, 22). Il paradigma “estetico-artigianale” è stato però reso obsoleto, da un lato, dalla progressiva rimozione o limitazione delle possibilità di controllo tecnicamente esercitabile dai lavoratori sui processi di lavoro; dall’altro, dalla comparsa e poi dalla sempre maggiore estensione di forme di attività senza «opera», di prassi lavorative che non danno luogo a prodotti, ma a un tessuto non tangibile (sebbene lato sensu materiale) fatto di linguaggio, affetti, comunicazione, relazioni[10]. Ne segue, allora, che un concetto critico di lavoro non può più assumere come fondamentali i requisiti del controllo e della relazione con l’oggetto. Ne segue, inoltre, che «una critica dell’organizzazione del lavoro capitalistica avanzata in nome dell’ideale dell’artigianato» appare «segnata dal difetto di adottare un punto di vista meramente esterno» (Honneth 2010, 24). Una critica che non parta dall’effettività esistente e dalle dichiarazioni di principio da essa avanzate, confrontando così realtà e ideale normativo non come due dimensioni reciprocamente esteriori, ma come elementi, per così dire, rispettivamente attuali e potenziali della stessa forma di vita, è destinata a proporre una cattiva utopia, incapace di incidere sui concreti processi storici.

Né può valere, a garanzia di radicamento nell’immanenza, la prova “testimoniale” offerta dalla rilevazione empirica delle opinioni e delle rivendicazioni dei soggetti coinvolti nelle attività lavorative, che spesso ancora insistono sul contenuto e sulla qualità dell’attività. Honneth accoglie infatti il rilievo mosso da Habermas[11], secondo il quale le rivendicazioni legate al concetto artigianale dell’attività lavorativa non sono traducibili in norme universalizzabili e moralmente giustificabili (Honneth 2010, 27), e anzi conducono a una forzatura illegittima, consistente nel voler «subordinare ogni attività finalizzata, in quanto tale, al modello dell’artigianato» (Honneth 2010, 26). Mentre nel saggio del 1980 la prospettiva di Habermas appariva insufficiente nella misura in cui si limitava a una considerazione dell’organizzazione del lavoro escludendo una valutazione del “contenuto” dell’attività, ora la situazione è sostanzialmente ribaltata. Secondo Honneth, infatti, l’impasse della critica immanente del lavoro è superabile «se, con Habermas, distogliamo lo sguardo dalla struttura dell’attività lavorativa per volgerlo alle norme inerenti all’organizzazione del lavoro» (Honneth 2010, 26), vale a dire, alla ripartizione di compiti produttivi differenziati all’interno della società e alla “connessione” del lavoro “diviso” operata dal «mercato del lavoro capitalistico»[12], e se – questa volta contro Habermas – riconosciamo che il mercato ha a fondamento «una serie di norme morali» che gli consentono di «svolgere anche la funzione dell’integrazione sociale» (Honneth 2010, 27).

Secondo Honneth, il quadro normativo entro cui le diverse attività si svolgono e ricevono connessione contiene «norme morali che sono già insite, come pretese razionali, nello stesso scambio sociale di prestazioni» (Honneth 2010, 24) e che, a differenza di quelle legate alle attività lavorative stesse e al loro “contenuto”, si dimostrano: a) generalizzabili e moralmente giustificabili; b) presenti nell’effettività dei rapporti sociali esistenti, e dunque utilizzabili per una critica immanente. Il contenuto dell’attività lavorativa, il modo in cui essa concretamente si svolge, non è dunque né oggetto né criterio della teoria sociale critica, per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, per la difficoltà di reperire un concetto unitario e sufficientemente comprensivo di «attività lavorativa», e dunque per la difficoltà che deriva dalla pretesa di generalizzare e rendere universalmente valide rivendicazioni normative connesse a un singolo genere (o a un gruppo finito e non esaustivo di generi) di attività, o circoscritte alla specificità di contesti di interazione particolari che non possono legittimamente aspirare a una validità sociale universale. In secondo luogo, per il requisito dell’immanenza, che determina preliminarmente l’oggetto possibile della critica, limitandone l’estensione a ciò che, o come dato di fatto o come invocazione di principio, è già realizzato o avanzato come pretesa normativa dalla società considerata e dal suo sviluppo culturale e istituzionale.

Secondo lo schema che Honneth attribuisce alla filosofia del diritto di Hegel, tali pretese normative sono essenzialmente due: «Il nuovo sistema di mercato […] può pretendere una approvazione normativa soltanto sotto le due condizioni per cui: primo, il lavoro richiesto fornisca perlomeno un minimo salariale; secondo, l’esecuzione dell’attività assuma una forma che possa essere riconosciuta come contributo al bene comune» (Honneth 2010, 32). Non è, pertanto, necessario ricorrere a principi universali esterni rispetto alla situazione di fatto: «è sufficiente mobilitare quelle norme implicite inserite nella costituzione del mercato del lavoro moderno» (Honneth 2010, 33), che «anche se vengono abrogate di fatto, non perdono però la loro validità» (Honneth 2010, 32). Un ulteriore passo in avanti della ricerca sociale, con Hegel oltre Hegel, è rappresentato poi dal tentativo, condotto da Durkheim, «di identificare nelle strutture stesse della nuova organizzazione del lavoro capitalistica le condizioni che potrebbero condurre a una mutata coscienza dell’appartenenza sociale», cioè a una «solidarietà […] che deve fluire […] dalla realtà economica» (Honneth 2010, 34).

Nonostante questo accento sull’implicita struttura normativa delle relazioni di scambio vigenti nel mercato capitalistico, Honneth mantiene però, di nuovo attraverso la riattivazione di alcuni motivi teorici tratti da Durkheim, l’interesse nei confronti di una «richiesta di un lavoro sensato e ricco qualitativamente» (Honneth 2010, 35). Questa nozione di «senso» si determina ulteriormente come capacità di ricomporre mentalmente il processo complessivo, tanto della singola attività, quanto del «lavoro sociale» aggregato, globalmente considerato: solo in tal modo il lavoratore «è consapevole di servire a qualcosa» (Honneth 2010, 35) e non perde di vista la propria connessione con l’intero. La ricostruzione del ‘senso’ da parte del lavoratore sembrerebbe dunque dipendere, secondo queste formulazioni, dal grado di «trasparenza della divisione del lavoro sociale» (Honneth 2010, 35), sulla quale si fonderebbe la possibilità di accedere a un grado accettabile di consapevolezza del sistema di interdipendenze e connessioni multilaterali – locali e globali – in cui ogni attività si inserisce. La specifica domanda di riconoscimento relativa a questo sottosistema di azione riguarderebbe l’ottenimento di un livello adeguato di stima sociale del contributo apportato alla riproduzione sociale dalla prestazione erogata[13].
 
 
5. Universalizzabilità e immanenza. Alcune ipotesi critiche
 
In conclusione, vorremmo tentare di indicare alcune criticità che ineriscono le formulazioni di Honneth, tematizzando alcuni limiti che, a nostro giudizio, insistono sulla legittimità dell’applicazione, tanto del requisito dell’immanenza della critica, quanto del requisito dell’universalizzabilità dei suoi criteri normativi. Le “obiezioni” che intendiamo avanzare possono essere utilmente ripartite in tre rubriche. Nella prima, intendiamo revocare in questione le ragioni dell’abbandono della ricerca relativa a un concetto critico di lavoro centrato sul modo empirico di erogazione dell’attività, e suggerire la necessità di ulteriori indagini volte a reperire un concetto di lavoro unitario, immanente e universale. Nella seconda, vorremmo tematizzare alcuni possibili difetti dell’immagine honnethiana del mercato capitalistico come veicolo di integrazione sociale. Nella terza, vorremmo infine proporre la tesi secondo cui la teoria sociale di Honneth contiene un’auto-limitazione censoria della critica immanente della modernità – critica che potrebbe essere condotta a un livello di maggiore spregiudicatezza teorica e radicalità “politica”.
 

a) Il passaggio da una critica dell’attività lavorativa a una critica dell’organizzazione del lavoro è mediato dalla tesi secondo cui è «fuorviante sostenere che tutte le attività socialmente necessarie vengano di per se stesse ad assumere una forma organica di compiutezza del tipo dell’attività artigianale» (Honneth 2010, 26). Si tratta, tuttavia, di un possibile non sequitur: dalla proposizione secondo cui il modello dell’attività artigianale non è “immanente” alle attività lavorative attualmente date nella produzione contemporanea e non è normativamente “universalizzabile” a tutte le attività lavorative, non è univocamente deducibile la proposizione secondo cui occorre allora spostare la ricerca dei principi normativi dall’attività lavorativa alla divisione del lavoro e al mercato dello scambio di prestazioni (i quali sarebbero invece, contrariamente quelli dell’attività artigianale, principi tuttora vigenti e anche moralmente giustificati, e dunque soddisferebbero sia il criterio dell’immanenza, sia il criterio dell’universalizzabilità). La teoria sociale potrebbe ancora volgersi alla ricerca di un concetto unitario, normativamente connotato, di attività lavorativa – la cui immanenza, peraltro, potrebbe agevolmente trovare riscontro nel conflitto sociale che, nei vari settori d’impiego, investe la dimensione “ergonomica” (e non di rado soggetta a una razionalizzazione di carattere coercitivo) dei ritmi di lavoro, dei tempi di erogazione delle prestazioni, dei movimenti e dei gesti effettuati, la durata delle pause, etc. Si tratta di livelli di negoziazione normativa immanenti e universalizzabili, nella misura in cui riguardano, in tutto o in parte, ogni tipologia di attività lavorativa; e si tratta aspetti normativi non riducibili né alla definizione dei livelli salariali, né alla stima sociale del contributo apportato dalla singola prestazione, né alla “trasparenza” della divisione del lavoro: si tratta anzi di aspetti centrati sul modo di erogazione dell’attività. La ricerca di un concetto generale di attività lavorativa, capace di fondare rivendicazioni universali riguardanti il contenuto dell’attività e il suo svolgimento, non può essere dichiarata con troppa facilità conclusa e impercorribile. Come sostengono Deranty e Smith nella discussione della psicopatologia “psicodinamica” del lavoro elaborata da Cristophe Dejours (2009, 2010), «egli ha mostrato che l’attività lavorativa ha un significato normativo non soltanto in senso esterno, per esempio nella misura in cui può influenzare il benessere di un soggetto (in termini di ‘condizioni di lavoro’). Essa ha anche (e secondo Dejours, soprattutto) un significato normativo interno, in relazione a quello che può essere chiamato il lato ‘ergonomico’ del lavoro» (Deranty, Smith 2012, 59)[14].

Oltre a questo programma “forte” di recupero di un concetto critico di attività lavorativa, potrebbe rivelarsi fruttuoso anche percorrere la via di un impegno ontologico più “debole”, che svincolasse la commensurabilità delle diverse forme di attività dalla loro suscettibilità di essere sussunte sotto uno stesso e univoco concetto. «Lavoro» può dirsi in molti modi, oppure può dirsi secondo “somiglianze di famiglia”, capaci di fondare, se non i requisiti normativi comuni a ogni attività lavorativa possibile, almeno criteri di universalità “regionale”, con validità circoscritte a specifici settori e tipologie di attività. Una strategia ulteriore potrebbe dunque mirare a salvare le rivendicazioni normative legate al contenuto dell’attività, attenuando per via “ontologica” la rigidità della dicotomia tra universalità e particolarità delle pretese morali[15].
 

b) In secondo luogo, e restando questa volta all’interno del concetto normativo di lavoro delineato da Honneth, si deve notare che l’idea di connessione sociale, la cui ricostruzione starebbe alla base della possibilità “durkheimiana” del lavoratore di assegnare un “senso” alla propria attività e di sviluppare una solidarietà sociale, poggia su una visione unilaterale e irenica della struttura normativa del mercato capitalistico. Secondo la rilettura di Durkheim fornita da Honneth, la divisione del lavoro deve essere organizzata in modo tale che «da ogni singolo posto di lavoro si possa avere una visione di quale tipo di correlazione cooperativa sussista tra la propria attività e quella di tutti gli altri occupati», ai fini dello sviluppo in ogni singolo di un’adeguata «coscienza dell’appartenenza sociale» (Honneth 2010, 35). In quest’ottica, il mercato del lavoro capitalistico rappresenta il terreno di un incontro che ha luogo non tra classi o funzioni economiche, tra agenti che scambiano merci, bensì tra soggetti che scambiano prestazioni e possono, attraverso la multilateralità dello scambio, pervenire a un’idea più adeguata dell’articolazione della produzione sociale complessiva, e dunque sviluppare disposizioni solidali grazie alla raggiunta coscienza del contributo apportato alla produzione complessiva dagli altri membri della società. Il tentativo di sottolineare la funzione di integrazione sociale svolta dal mercato produce un’artificiosa collocazione dei partecipanti allo scambio su un piano di relazione paritario e orizzontale, rimuovendo le asimmetrie strutturali a partire dalle quali i soggetti accedono al mercato e la differenziazione funzionale dei loro ruoli: la controparte diviene partner, la strategia è risolta in comunicazione, il conflitto in cooperazione. L’analisi dello scambio ne rivela i tratti di un’interazione basata su norme e orientata all’intesa, nella quale non compare più alcuna rigida suddivisione degli agenti in agenti che vendono “prestazioni” (o meglio capacità di fornire prestazioni) e agenti che, in quanto possessori di capitale in grado di anticipare salari, le comprano. Ai fini di un’immagine teorica adeguata della relazione di scambio, crediamo, la ripartizione degli agenti in compratori e venditori di “prestazioni” dovrebbe almeno essere colta nella sua dipendenza dalla struttura dei rapporti sociali di produzione tra classi.

Coerentemente con il passaggio da un concetto normativo di attività lavorativa a un concetto normativo di divisione del lavoro, è rimossa in favore della relazione di scambio anche l’analisi dell’impiego concreto, all’interno dei cicli produttivi, delle prestazioni scambiate sul mercato. In seguito a questa mancata assunzione della distinzione economico-politica tra produzione e circolazione[16], il lato economico dello scambio è ridotto a relazione di scambio monetario contenente un’implicita pretesa di equità distributiva. Mancando l’articolazione tra la cessione temporanea della forza-lavoro in cambio di una contropartita monetaria, da un lato, e l’uso della forza-lavoro finalizzato alla produzione di valore, dall’altro, la violazione del principio di equità non è attribuita al rapporto di dominio che ha luogo nella sfera della produzione, né è connessa “dialetticamente” al formale rispetto dell’equità – non è, cioè, fatta dipendere, come nella teoria marxiana della valorizzazione del capitale, dalla discrasia che intercorre tra il valore della forza-lavoro, acquistata al suo valore, e il (plus)valore prodotto dalla prestazione lavorativa effettivamente erogata; infine, tanto la critica del rapporto di produzione, quanto la critica del lavoro alienato, sono trascese in direzione di una critica della distribuzione della ricchezza materiale e simbolica, che culmina nella rivendicazione normativa di salari dignitosi e nella richiesta di riconoscimento del valore (in senso etico) delle prestazioni[17]. L’adozione di questa prospettiva teorica risulta possibile, naturalmente, solo se si abbandona non soltanto l’impostazione marxiana, che leggeva le relazioni di scambio a un tempo come necessità funzionale delle relazioni di produzione, come loro modo di espressione e come loro “velo” dissimulante, ma anche quella habermasiana, nella quale il mercato capitalistico poteva ancora essere considerato dal punto di vista dell’integrazione sistemica, e si vincola invece la critica sociale alla valutazione positiva della funzione del mercato come medium di integrazione sociale, veicolo di garanzie giuridiche e del reciproco riconoscimento delle prestazioni (cfr. Honneth 2010, 37)[18].
 

c) In terzo luogo, se, come abbiamo sostenuto, restano esclusi dalla prospettiva di Honneth tanto il carattere storicamente contingente e non-naturale del mercato capitalistico, quanto il modo peculiare in cui il sistema capitalistico deve specificare e articolare la relazione tra produzione e scambio è possibile domandarsi se, nell’impostazione di Honneth, non sussista una problematica auto-limitazione della critica immanente a una “critica compatibile”. La legittimazione del mercato moderno e dei rapporti di produzione capitalistici, e la sostanziale accettazione del distillato dell’impianto hegeliano della società civile delineato nei Lineamenti di filosofia del diritto rischiano di rappresentare la proiezione teoretica di un’acquiescenza politica, disposta a diagnosticare come “paradossi” e “deformazioni” patologiche soltanto quei tratti effettivi la cui “terapia” potrebbe avvenire all’interno di una compatibilità con la struttura ultima delle relazioni sociali vigenti. Una critica sociale più “risoluta” ma non meno immanente potrebbe invece mirare a evidenziare come i principi normativi avanzati e poi disattesi dalla modernità, oppure sviluppati in modo paradossale o distorto, sono realizzati in modo ancora troppo parziale da quello che Honneth sembra assumere come modello di una realizzazione che si avvicina alla compiutezza. Come anticipato sopra a proposito della distinzione tra connessione dei lavori nella produzione e connessione realizzata nello scambio, una critica immanente potrebbe efficacemente valersi della distinzione tra i due livelli, misurando da una diversa angolazione lo iato che separa le dichiarazioni di principio effettivamente elevate dall’organizzazione sociale capitalistica, da un lato, e la loro effettiva realizzazione, dall’altro. Potrebbe, cioè, restituire pregnanza alla dinamica attraverso cui la dichiarata (e giuridicamente assicurata) uguaglianza connessa alla rappresentazione ordinaria delle relazioni mercantili di scambio presuppone in realtà una radicale disuguaglianza, poggiante sulla diseguale distribuzione della proprietà e del controllo dei mezzi di produzione che spetta alle diverse funzioni sociali (o classi). Ove si accetti questa premessa, le provvisorie stabilizzazioni del conflitto sociale su condizioni di lavoro, livelli salariali e di Welfare che dal punto di vista di Honneth risulterebbero accettabili, non soltanto non intaccano la relazione di dominio realizzata nella forma stessa del rapporto tra capitale e forza-lavoro, ma neppure consentono di problematizzare fino in fondo l’effettività della realizzazione dell’eguaglianza – di sviluppare integralmente, cioè, la critica immanente dei principi normativi e delle concrezioni istituzionali della modernità. Si determina così il paradosso di una critica della modernità che si vuole immanente e tuttavia circoscrive oltremodo il riferimento a uno dei concetti normativi fondamentali storicamente espressi dall’epoca borghese, appunto quello di égalité.

Per analoghe ragioni, può apparire arbitraria, e utilizzata ad hoc secondo la necessità momentanea di articolazione metodologica e teorica, la periodizzazione delle fasi storiche del capitalismo. Honneth ripropone infatti l’ideale normativo della forma di compromesso sociale raggiunta dalle socialdemocrazie occidentali nel secondo dopoguerra[19]. Le esigenze metodologiche della critica immanente, che impongono secondo Honneth di prendere atto degli sviluppi storici e rendono esteriormente utopica una critica dei processi di lavoro, consentendo al massimo rivendicazioni basate sul riconoscimento legato al salario e alla stima sociale della prestazione, non sembrano avere la stessa cogenza rispetto alla destrutturazione neoliberale del compromesso socialdemocratico che, pur storicamente superato, mantiene agli occhi di Honneth una validità normativa compatibile con l’immanenza della critica[20]. Honneth mostra, a dire il vero, una germinale consapevolezza di questa criticità, e giunge a domandarsi se le attuali condizioni economiche non debbano costringere la teoria a “retrocedere” dall’eticità alla moralità, da una critica immanente a una critica esterna – appunto, vista la difficoltà di reperire criteri normativi validi nell’immanenza delle vigenti configurazioni istituzionali e nelle loro attuali tendenze evolutive (cfr. Honneth 2015, 234-235). Rimane, in ogni caso, poco chiaro il criterio in base al quale è possibile stabilire che determinati principi normativi sono stati relegati dallo sviluppo storico a un punto di vista “meramente esterno” mentre altri principi sono effettivamente contenuti nell’immanenza delle relazioni sociali vigenti. La ripartizione dei concetti critici in concetti esterni ed immanenti, la distinzione tra critica immanente e “costruttivismo morale” appare in ultima analisi dipendente da una preliminare opzione teorico-politica – da una presa di posizione assiologica, gabellata per “neutrale” questione di metodo.

Resta, infine, il legittimo dubbio che un compromesso sociale ispirato all’architettura, sia pure attualizzata, della filosofia del diritto hegeliana sia, in ogni caso, di necessità vincolato a una dimensione geografica ristretta e poggi costitutivamente sulla non-estendibilità all’intero genere umano, e non soddisfi, pertanto, un criterio di universalizzabilità rigorosamente inteso. Già lo Hegel dei Lineamenti non mancava infatti di rilevare come le crisi economiche trovassero un valido antidoto in ultima analisi soltanto nella proiezione coloniale (Hegel 2006, § 246-248) e come la difesa del benessere di un singolo Stato fosse suscettibile di evolvere in aperta contesa bellica tra Stati (Hegel 2006, § 337). Se questa prospettiva hegeliana è corretta, e se è corretta l’impostazione hegeliana che concepisce esplicitamente e marcatamente il benessere di uno Stato come benessere di uno Stato particolare[21], si può allora avanzare l’ipotesi che l’ideale “socialdemocratico” proposto da Honneth possa violare non soltanto, come adombrato sopra, il requisito metodologico della critica immanente, ma anche quello della “universalizzabilità” normativa – risultando poco sensato generalizzare sul terreno morale un contenuto che non soltanto non è attualmente effettivo, ma non conserva neppure la possibilità logica di realizzarsi in futuro.
 
 
 
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Note al testo
 
[1] Cfr. Marx (1974).
[2] Questo programma di ricerca trova uno sviluppo sistematico – non esente da nodi critici – nei lavori di Pierre Bourdieu. Per una valida introduzione al pensiero di Bourdieu, cfr. Shusterman (1999); Grenfell (2008); Paolucci (2011); un’opportuna sottolineatura degli aspetti più strettamente filosofici legati ai concetti chiave del sociologo francese è contenuta in Aiello (2016).
[3] Come invece ancora in Lukács (1991).
[4] Con il quale, occorre notare, Habermas si sforza di restare in relativa continuità: «Ricostruzione significa nel nostro contesto che una teoria viene smontata e ricomposta in forma nuova per raggiungere meglio il fine che si è posta (Habermas 1977, 11). E ancora: «L’analisi della dinamica di sviluppo è impostata ‘materialisticamente’, in quanto fa riferimento ai problemi sistemici generatori di crisi nell’ambito della produzione e della riproduzione; e questa analisi rimane impostata ‘storicamente’, in quanto deve cercare le cause dei cambiamenti evolutivi nell’intero arco delle circostanze contingenti» (Habermas 1977, 36).
[5] Si tratta, è bene rimarcarlo, di due condizioni (libertà da norme e libertà da dominio) che non si ritrovano mai in forma pura nelle due dimensioni del sistema, da un lato, e del mondo della vita, dall’altro.
[6] Cfr. Habermas (1979, 11-48, Introduzione. Il materialismo storico e lo sviluppo di strutture normative) e Habermas (1979, 105-153, Per la ricostruzione del materialismo storico).
[7] Cfr. i saggi Sviluppo morale e identità dell’io (Habermas 1979, 49-73) e Possono le società complesse formarsi un’identità razionale? (Habermas 1979, 74-104).
[8] Sulla quale si può, in questa sede, soprassedere, nella misura in cui è in discussione non tanto la lettura honnethiana di Habermas, quanto la proposta teorica di Honneth stesso.
[9] Resta tuttavia, tra le due prospettive, almeno una differenza non trascurabile: Habermas ha di mira il riconoscimento del prodotto del lavoro, mentre Honneth insiste maggiormente sul riconoscimento del valore sociale della prestazione lavorativa.
[10] Cfr. Honneth (2010, 26): «Rispetto alla maggioranza delle attività che oggi rientrano ad esempio nel settore dei servizi, non è difatti certamente chiaro che cosa dovrebbe significare il fatto che esse debbano mirare, di per se stesse, ad un compimento autonomo, puramente oggettivo e oggettivante: qui infatti non viene costruito un prodotto nel quale si potrebbero riflettere le abilità acquisite; piuttosto, in esse si reagisce con quanta più intraprendenza possibile alle richieste personali o anonime corrispondenti alle prestazioni richieste dal servizio offerto».
[11] Cfr. Honneth (2010, 25): «Habermas mi criticò perché con una tale modalità probatoria […] da puri fatti inerenti desideri e richieste ne avrei dedotto la loro giustificabilità morale».
[12] Con «organizzazione del lavoro» Honneth non intende dunque riferirsi alla configurazione dei cicli produttivi e delle concrete operazioni lavorative – siano esse “manuali” o “intellettuali” – ma alla divisione sociale del lavoro.
[13] Per una critica del ‘principio di prestazione’ nella teoria honnethiana del lavoro, cfr. Connolly (2016); Deranty (2018).
[14] È assai rilevante, in questo saggio, l’opportuna sottolineatura degli aspetti “interni” del riconoscimento del lavoro, accanto agli aspetti “esterni” che prevalgono nella lettura fornita da Honneth, e all’interno degli aspetti “interni” la distinzione tra il riconoscimento relazionale proveniente dai pari e dai superiori, da un lato, e la portata normativa autonoma della qualità “ergonomica” dell’attività lavorativa, dall’altro.
[15] Va, crediamo, in questa direzione la recente riflessione in campo psicologico e filosofico-sociale sulle patologie legate al lavoro e sui disturbi dell’identità personale che dipendono da distorsioni inerenti l’attività lavorativa. Cfr. ancora Deranty (2018); cfr. anche Petersen, Willig (2004).
[16] Su questo punto, concordiamo con i rilievi mossi da Borman (2009, 936), il quale tuttavia, pur sottolineando come il modo di produzione capitalistico costituisca un impedimento strutturale all’espansione di alcune non trascurabili dimensioni del riconoscimento («capitalism systematically thwarts such recognition through its organization of both production and exchange») e allo sviluppo multilaterale della personalità umana, e pur ponendo maggiore attenzione di Honneth al “contenuto” e alle concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, continua a ritenere – secondo un’impostazione che ci appare in ultima analisi continua con quella di Honneth – che «the achievement of full personhood and […] of genuine intersubjectivity depends upon the attainment of recognition for one’s place in the social division of labour» (corsivo mio).
[17] Su questo punto, la nostra lettura concorda con quella di Deranty (2016, 53): «Honneth approaches injustices and pathologies of modern work solely from the perspective of how they contravene the expectations that underpin individuals’ participation in the labor market as an institution. The phenomenology of unjust or exploitative or alienating work practices falls out of the purview of the new framework. Honneth still refers empirically to pathologies of work, but their significance is only indirect: they matter as indices of a failure in regard to a moral promise, failures that can be read off hermeneutically in terms of claims and expectations, but that are no longer significant in and of themselves, for what they actually do to people». Per una difesa, centrata sul saggio del 1980 Lavoro e agire strumentale, dell’impostazione di Honneth e della sua capacità di fornire un concetto critico di attività lavorativa, cfr. invece Smith (2009).
[18] Analoga l’impostazione proposta in Honneth (2015). Anche la riflessione sull’idea di socialismo (Honneth 2016) si sgancia dal requisito di un diverso rapporto di produzione, per delineare dal punto di vista normativo una forma della relazione interumana che permetta il pieno dispiegamento del riconoscimento sul piano “allargato” della solidarietà sociale.
[19] Cfr. il saggio Paradossi del capitalismo (Honneth 2010, 55-76).
[20] Si potrebbe inoltre notare come le stabilizzazioni socioeconomiche indicate da Honneth abbiano subito una radicale erosione, certo in forza di fattori politici, ma anche di dinamiche e cicli economici non pienamente governabili; come, dunque, l’ideale normativo finisca inevitabilmente per urtare contro un’oggettività nomologica che dipende dal sistema economico in quanto tale e non da questa o quella sua variante; come, allora, tale oggettività rimanga sottratta alla deliberazione normativa, finché la discussione pubblica investe le singole varianti del sistema e non il sistema nella sua interezza e nella sua validità di fondo.
[21] Cfr. Hegel (2006, § 337): «Il benessere (Wohl) sostanziale dello Stato è benessere di uno Stato particolare nel suo interesse determinato, nella sua situazione determinata e nelle circostanze esterne altrettanto peculiari […] così come il fine nel rapporto con gli altri Stati, e il principio per la giustizia delle guerre e dei trattati, non è un pensiero universale (filantropico), ma è il benessere realmente offeso o minacciato nella sua particolarità determinata».
 
 
 

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