Come non leggere Žižek

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Paul Bowman

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Notate quanti testi nel presente volume seguono una simile strategia argomentativa. Prima mi imputano una posizione ridicolmente caricaturizzata, poi, quando sono costretti ad ammettere che molti passaggi nel mio lavoro contraddicono chiaramente la posizione descritta, non interpretano tale discrepanza come, prima facie, un segno dell’inadeguatezza della loro lettura, bensì come della mia incoerenza.

S. Žižek

Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito).

Wittgenstein1

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1. Leggere il romanzo

Dal punto di vista teorico, l’opera di Žižek è densa, agile, audace, frenetica. È anche un pensatore che sembra andare in cerca della controversia nei suoi scritti, sembra cercare la provocazione facendo dichiarazioni oltraggiose su ogni genere di argomento, indipendentemente da quanto delicato sia. Nulla sembra essere proibito allo sguardo analitico, diagnostico e polemico di Žižek. Sembra divertire [il suo pubblico] infrangendo tabù accademici. Di certo questa è almeno in parte la ragione per cui è così tanto letto.

Tuttavia, prendere coraggiosamente posizione, rompere eroicamente i tabù (i tabù accademici s’intende, dunque in modo fintamente eroico) e fare diagnosi, esprimere giudizi e condanne in modo sfrontato senza preoccuparsi di offendere delle sensibilità è un problema. Proporre un preciso sistema di valori e delle precise idee politiche è ben altro problema. Questa è la ragione per cui ritengo che la nuova lettura di Žižek da parte di Alan Johnson sia estremamente importante. In effetti, ciò che Johnson dimostra nel suo articolo, «La Teoria della Rivoluzione di Žižek: una critica»2, è che non soltanto le basi della teoria politica di Žižek sono per molti versi fortemente problematiche (molti lo sostengono da un po’ di tempo), bensì anche che, in un certo senso, è uno scandalo che chiunque occupi una qualsiasi posizione nella sinistra politica progressista possa continuare a leggere Žižek come se il suo lavoro si potesse effettivamente collocare da qualche parte nella sinistra politica progressista.

Johnson si preoccupa di presentare le caratteristiche chiave delle dichiarazioni politiche di Žižek rilasciate negli ultimi dieci anni e oltre, al fine di rivelare l’ossatura della teoria politica che Žižek espone. Le opinioni politiche di Žižek sono scandalose; a suo parere

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lo scandalo non risiede nell’insistenza sul fatto che un’alternativa globale debba essere tenuta aperta, ma nel modo in cui egli propone di realizzarla. Nel 2000 – nell’ambito di una dibattito con Ernesto Laclau e Judith Butler – decise di rinunciare alla democrazia, sia essa “radicale” o di altro tipo. Quel dialogo era cominciato con una dichiarazione condivisa di antitotalitarismo e di democrazia radicale, ma terminò con la presa di posizione di Žižek in favore del terrore, della dittatura e del fascismo di sinistra.3

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«Questo saggio non intende spiegare quello scandalo», scrive Johnson nell’incipit, bensì «soltanto affermare che di scandalo si tratta». A mio parere, è chiaro che lo faccia per chiedere la nostra attenzione riguardo al fatto ancora più scandaloso che si legga Žižek senza accorgersi delle sue inaccettabili idee politiche. È evidente che sia proprio l’interesse per questa situazione ad animare il progetto di Johnson. In effetti, in questo caso come in tutti gli altri, di certo il punto non è semplicemente il fatto che le opinioni politiche di qualcuno possano o meno essere scandalose. La questione seria riguarda, piuttosto, ciò che ne viene fatto di esse e da chi. In altre parole, l’impeto che muove Johnson a scavare nel pensiero politico di Žižek deve generare una più ampia consapevolezza e condurre ad affrontare il problema che studiosi, ricercatori e accademici in generale continuano a leggere Žižek in modo spesso acritico alla luce della spiegazione che lo stesso Žižek ha dato della sua teoria politica nel corso degli ultimi dieci anni. Essenzialmente, dunque, la questione che anima il lavoro di Johnson – che egli chiarisce citando Adam Kirsch – è che «quanto più ad alta voce [Žižek] plaude alla violenza e al terrore – specialmente il terrore di Lenin, Stalin e Mao… – tanto più viene accolto in modo indulgente dalla sinistra accademica che lo ha elevato a celebrità e centro di culto». Ciò che mi propongo di fare in risposta all’illuminante interpretazione fatta da Johnson della teoria politica della rivoluzione di Žižek è cercare di produrre nuovo interesse per gli attuali modi di leggere (o non leggere: consumare, gustarsi) Žižek all’interno di una comunità accademica che tende a pensare se stessa come piuttosto di sinistra e piuttosto democratica radicale e democratica progressista.

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2. Cecità e visione

Una possibile interpretazione, un modo per comprendere questa formazione interpretativa o questo contesto discorsivo generale e la sua ricezione acriticamente ospitale, sarebbe quello di ipotizzare che i lettori di Žižek semplicemente non abbiano notato esattamente quanto Žižek sia scandaloso o che non abbiano identificato e capito esattamente il motivo per cui Žižek sia scandaloso e, “pertanto”, non sono giunti ineluttabilmente alla conclusione che forse Žižek non dovrebbe più essere letto e sostenuto in modo così diretto. Naturalmente questa sarebbe un’interpretazione piuttosto pungente – poiché implicherebbe che molti lettori fedeli di Žižek in realtà non lo leggono in modo meticoloso, oppure non stanno allerta e non prestano attenzione alle implicazioni di ciò che concretamente Žižek sostiene nelle sue numerose digressioni, nei suoi incisi e nelle sue maestrali caricature o nelle ripetute e costanti osservazioni generali che regolarmente propone e su cui puntualmente ritorna.

Ora, per essere chiaro, non voglio dire che i lettori più ospitali di Žižek siano semplicemente dei fans privi di senso critico. Infatti, sebbene sia inevitabile che alcuni certamente lo siano, conosco numerosi studiosi “žižekiani” che sono lettori molto acuti, arguti, profondi e analitici. Eppure, penso che dato lo stile della sua scrittura – in particolare la modalità in cui egli passa da un argomento ad un altro e da un teorico ad un altro teorico, poi ad un altro argomento e poi ad un altro teorico su un altro argomento, e così via, in maniera apparentemente caotica – ci sarà sempre un certo grado di difficoltà nello stabilire esattamente, con estrema certezza, ciò che Žižek effettivamente dice; e ciò, forse, non a causa di una qualche mancanza prima facie o di incapacità da parte del lettore, e nemmeno a causa degli effetti di quella vecchia questione chiamata eccesso testuale e gioco del significante, ma forse perché la congruenza e la coerenza a cui Žižek si rifà è un effetto della sua lettura del “Reale” lacaniano, uno dei cui effetti sarà l’effetto dell’incoerenza coerente.

Ritornerò più avanti su questo. Per il momento vorrei semplicemente dire che un effetto inevitabile della varietà dei testi di Žižek e della loro natura evidentemente vacillante favorirà la nascita di qualche disaccordo tra i lettori – forse soprattutto perché Žižek combina le sue interpretazioni di una vasta gamma di teorici, filosofi e psicoanalisti in modo tale da sostenere che ciascuno di essi conferma ciò che gli altri sostengono. Come afferma Michael Walsh:

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In altre parole, non c’è discussione con un perfetto hegeliano; è una posizione che già-sempre anticipa (o a volte semplicemente “implica”) tutto ciò che di valore viene successivamente pronunciato. Per cui è con caratteristico piacere che, dopo aver citato dei paragrafi da Hegel, Žižek commenta: «C’è tutto in questo testo meraviglioso: dal motivo foucaultiano della micro-pratica disciplinare che precede qualsiasi insegnamento positivo, all’equazione althusseriana del libero soggetto con il suo assoggettamento alla Legge» (…). L’entusiasmo di Žižek è contagioso, cosicché ci si sente quasi scortesi nel dire che ciò che passa «dal motivo foucaultiano» all’«equazione althusseriana» difficilmente si può descrivere come un «tutto» e che in effetti non ci sia troppa differenza – Foucault fu allievo di Althusser, ed è citato dal suo maestro nella prima nota a piè pagina di Leggere il Capitale. Questo senso di inevitabilità pre-ordinata viene ribadito da Žižek in altre sue formulazioni preferite, il paradosso (…), il «nient’altro che» (l’intero pensiero di Lacan è racchiuso nel fatto che il Reale non è nient’altro che questa impossibilità dell’iscrizione”…) e la domanda retorica – «Non sono i capelli ricci e biondi l’esempio supremo di una caratteristica particolare che sorregge la relazione sessuale impossibile in Vertigo di Hitchcock? (…) Non è vero che possiamo trovare il massimo esempio di questa Cosa impossibile … nel tema della narrativa di fantascienza della Id-Machine? (…); Non è chiaro già in Kant che esiste un’autocoscienza trascendentale»?4

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Žižek corteggia e non corteggia la coerenza, in egual misura. Rispetto alla vasta gamma di affermazioni nell’ambito dell’opera di Žižek, e di conseguenza alla vasta gamma di risposte al suo lavoro, l’autore sloveno tiene aperte una o più vie di fuga per difendersi o per sostenere di essere stato frainteso. Un chiaro esempio è contenuto nelle pagine di un libro sull’opera di Žižek che ho contribuito a curare, un libro di saggi che si concludeva con una risposta dello stesso autore – una lunga postfazione intitolata Con difensori come questi, che bisogno c’è di detrattori?.5 Rispondendo a più di una decina di saggi che propongono varie critiche alle sue analisi, ai suoi metodi e alle sue conclusioni, Žižek riconosce molto poco, quasi nulla, e non accoglie nemmeno una delle numerose critiche sostanziali fatte al suo lavoro nel libro, sostenendo, invece, che tutti coloro che vi hanno contribuito lo hanno frainteso e rappresentato in modo scorretto, che sono stati aggressivi, offensivi, “violenti”, non accademici. Allo stesso modo, le recensioni che ne sono derivate e le discussioni online sul libro spesso hanno ribadito le impressioni di Žižek, sebbene a volte con termini decisamente meno misurati: coloro che hanno contribuito al nostro libro sono stati, a loro dire, lettori incompetenti, ciascuno dei quali ha interpretato Žižek in maniera completamente sbagliata6. … Di conseguenza, mi sorprende che se più di una decina di accademici di tutto il mondo, ciascuno dei quali lavora indipendentemente dall’altro e con nessun sentimento personale contro Žižek ha potuto trascorrere lunghi periodi di tempo a ricercare, analizzare e valutare il lavoro di Žižek e ha potuto, ciascuno, giungere a interpretazioni critiche che sono state poi ritenute totalmente scorrette, allora chiunque potrebbe [sbagliare].

Tutti i testi sono, dopotutto, fondamentalmente aperti. Ma questo significa forse che trovare la propria strada attraverso ragionamenti, riflessioni, analisi e prove deve essere un interminabile processo di continuo errore – tutta cecità e nessuna visione? È proprio impossibile sbrogliare [il pensiero] di Žižek? Può darsi. Certamente i diversi paradigmi poststrutturalisti o decostruzionisti propongono tutti diverse versioni. Naturalmente, lo stesso Žižek rifiuta tali paradigmi e fa costantemente ricorso a un modo di comunicare che sottintende che la verità e la visione possano essere direttamente apprese e chiaramente affermate dallo studioso. La scelta del titolo per il nostro libro – The Truth of Žižek – in questo senso fa il verso, sostanzialmente, all’espressione retorica preferita di Žižek: «Non è esattamente la verità di [x, y, o z]? – una (non)domanda retorica che implica che esiste una verità, o meglio una verità essenziale, di questa, quella o quell’altra cosa che si può conoscere e affermare». Essendo immersi nel poststrutturalismo e nel paradigma testuale della decostruzione, così come negli approcci discorsivi di Foucault, per non menzionare quelli dei primi alleati e collaboratori di Žižek, Laclau e Mouffe, questo tipo di affermazione Žižekiana sulla «verità» ci risulta inevitabilmente interessante e, allo stesso tempo, problematica. È stata una delle ragioni per cui abbiamo deciso di scrivere un libro di valutazioni e risposte critiche a Žižek. Infatti, data l’ontologia testuale della decostruzione e della teoria del discorso di Laclau, come si poteva rivendicare l’accesso alla conoscenza della verità? Il contributo al nostro libro di John Mowitt, Trauma Envy, suggeriva che si potrebbe comprendere la pretesa di Žižek di poter avere accesso alla verità – una verità che surclasserebbe tutte le altre – sulla base dello status che egli attribuisce al reale lacaniano, uno status che gli permette di considerare il suo specifico paradigma superiore a tutti gli altri attualmente disponibili, nella misura in cui la formazione discorsiva (post)poststrutturalista non può ammettere la possibilità di una “verità” fuori dal contesto. 7

In un certo senso, questa possibilità apre una strada per conferire al lavoro di Žižek un tipo diverso di coerenza o congruenza. Eppure, ogni volta che a Žižek è stata assegnata una posizione dai critici, in particolar modo quando questa è stata usata come base per una critica del suo lavoro, Žižek è sempre stato capace di aggirarla, sostenendo che quella posizione attribuitagli in realtà non è la sua (vera) posizione e che non corrispondeva a ciò che egli stava effettivamente dicendo. In altre parole, forse, così come per il Reale, non esiste alcuna posizione žižekiana. Questa è una possibilità che merita di essere presa seriamente in considerazione. Un’altra possibilità sarebbe quella di considerare che, vista la grande proliferazione dei suoi scritti su altrettanto svariati argomenti, non ci si dovrebbe aspettare alcuna coerenza: la semplice coerenza, regolare e ripetitiva nelle opere di un autore attraverso il tempo e lo spazio costituirebbe certamente evidenza di una non-lettura inflessibile e zelante di un unico testo, di un’unica questione, di un unico problema o dibattito. Dunque forse le incoerenze potrebbero essere considerate come la più grande forza e virtù dell’opera di Žižek. Forse Žižek mette in scena l’eruzione caotica del Reale oppure, (più pragmaticamente), la teoria di Foucault secondo cui l’idea storica e radicata dell’esistenza di un singolo autore coerente è una finzione sociale.8 Forse «l’autore Žižek» dovrebbe essere considerato come una barthesiana image dans le tapis dei testi che portano il suo nome. Probabilmente, allora, il miglior modo di interpretare Žižek sarebbe quello di dimenticare ogni volta ciò che sembra aver detto la volta precedente in cui lo si è letto e immergersi e godersi Žižek per ragioni diverse dalla coerenza complessiva – forse semplicemente per la varietà di esempi, aneddoti e per l’utilizzo provocatorio di teoria e filosofia, piuttosto che per qualcosa di realmente coerente. Forse Žižek è tutta suggestione, tutta provocazione, tutta critica senza coerenza…Forse.

Eppure sembra esserci coerenza negli scritti di Žižek. La stessa gamma di argomenti ricorre regolarmente. Gli stessi sentimenti, gli stessi collegamenti, spesso persino gli stessi passaggi e paragrafi e le stesse pagine si spostano da una pubblicazione a quella successiva. Queste coerenze possono essere enumerate, approfondite, interpretate. Alla luce di ciò, mi chiedo in che modo Žižek e il suo pubblico risponderanno alle provocatorie congruità che Alan Johnson ha individuato nella teoria politica prodotta da Žižek negli ultimi dieci anni. All’interpretazione di Johnson sarà accordata la caratteristica di lettura persuasivamente sistematica oppure essa sarà consegnata alla categoria di fraintendimento sintomatico? (Una volta che si è inclini a iniziare a considerare alcune cose come sintomi, sembra diventare molto difficile impedire tale tendenza che comincia a considerare tutto come sintomo.)

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3. La lettura di Žižek

Johnson cerca strenuamente di dimostrare che ciò che è più scandaloso di Žižek non è semplicemente il suo piacere visibile nell’infrangere presunti tabù accademici e nemmeno che i principali obiettivi dei giudizi più severi di Žižek siano i suoi lettori fedeli – coloro che si occupano di studi culturali,9 studi sul cinema, teoria culturale, filosofia continentale, teoria politica. Piuttosto, ciò che rende Žižek così scandaloso, secondo l’interpretazione di Johnson, è il fatto che la sua teoria politica sia basata innanzitutto su una cattiva interpretazione, profondamente problematica, dello spirito e dei fatti di alcuni eventi storici e, in secondo luogo, il fatto che le sue posizioni politiche siano esplicitamente anti-democratiche, autoritarie, totalitarie, cripto – o non troppo cripto – fasciste. Johnson dimostra in modo meticoloso e convincente la sua idea, pertanto non c’è bisogno che io ripercorra lo stesso terreno. Piuttosto che ripetere e ricapitolare Johnson, dunque, preferisco cominciare dalla sua osservazione circa il metodo tipico di Žižek e di là andare avanti in modo indipendente su un discorso equivalente, e allo stesso tempo diverso, rispetto alla questione che anima Johnson, ma che egli lascia largamente implicita: il problema della lettura di Žižek.

La Teoria della Rivoluzione di Žižek: una critica comincia con un chiarimento circa il modo più caratteristico di procedere di Žižek, il quale comincia spesso da una lettura sbagliata o parziale per poi proseguire immediatamente con una anfibologia, cioè un ragionamento distorto, al fine di arrivare a conclusioni che sono, per questo motivo, imprecise. Generalmente, dunque: Žižek prima rappresenta in modo scorretto o caricaturizza qualcosa, poi usa questa chimera in un ragionamento iperbolico o generico in cui si inseriscono argomentazioni fittizie da distruggere con le azioni violente di «radicali liberi»10 solerti, ossia personaggi/caricature che spesso Žižek rappresenta come eroi fallici coraggiosi (e violenti). Tutto questo accade regolarmente nei suoi scritti. Johnson comincia dall’esempio su cui Žižek fonda la sua teoria della rivoluzione, ma si potrebbero fornire numerosi altri esempi equivalenti su diversi argomenti. Io ne discuterò uno, uno dei più frequenti: la lettura che Žižek fa di uno dei suoi oggetti di disprezzo preferiti, ossia i «cultural studies».

Žižek utilizza l’espressione [cultural studies] quasi immancabilmente come modo sintetico per evocare tutto ciò che disprezza nel mondo accademico. Nel linguaggio di Žižek, cultural studies è l’espressione abbreviata per le ricerche all’ultima moda nell’intero ambito degli studi sociali, culturali e politici, delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. Questo avviene perché Žižek crede che gli studi culturali siano l’esempio delle tendenze di primo piano dell’accademia e (di conseguenza) dell’ideologia capitalista. Questa è la ragione per cui egli spesso sceglie gli studi culturali come oggetto di disprezzo.11 Tuttavia, il problema di Žižek rispetto all’interpretazione degli studi culturali sta nel fatto che egli non riesce mai a occuparsi dell’oggetto della sua critica, a nessun livello.

I rischi e la problematicità di tutto ciò vengono svelati in modo estremamente chiaro in un saggio scritto da Jeremy Gilbert, ancora una volta nel libro The Truth of Žižek.12 Nel suo saggio intitolato All the right questions, all the wrong answers – un titolo che racchiude l’opinione complessiva su Žižek emersa dalle pagine di The Truth of Žižek – Gilbert mostra disaccordo rispetto alle frequenti affermazioni e dichiarazioni di Žižek sugli studi culturali. Gilbert critica Žižek in modo molto puntuale, indicando diverse occasioni in cui si può dimostrare che la maggior parte delle dichiarazioni di Žižek, se non proprio tutte, sugli studi culturali, sono false, caricaturali, mendaci, male informate, piene zeppe di tutti gli stereotipi associati all’ala più a destra dei reazionari conservatori.13 Aggiungerei, inoltre, che esse sono tanto palpabilmente impregnate di risentimento e ostilità che, ammesso pure che qualcuna delle affermazioni che Žižek fa circa i “cultural studies” – rappresentati come deboli, teneri, effeminati, illusi e impotenti – abbia effettivamente un qualche fondamento, metterebbe Žižek chiaramente nella posizione di una sorta di bullo, uno di quelli che a scuola isola il ragazzo più ingenuo e cortese per attaccarlo, soltanto perché sarà quello che meno probabilmente risponderà ai suoi attacchi. (Sto integrando la parafrasi dell’argomentazione di Gilbert con delle mie idee).

Vale la pena di analizzare nel dettaglio un aspetto dello scambio tra Gilbert e Žižek, non foss’altro perché mette anche in relazione le critiche di Žižek agli studi culturali con il suo interesse per il totalitarismo (l’oggetto dell’attenzione di Johnson), oltre che per il fatto che si collega direttamente alla questione della lettura (la lettura fatta da Žižek e la lettura di Žižek). Dunque consentitemi di citare Gilbert per intero:

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Prendiamo come esempio il testo di Žižek Did Somebody say Totalitarianism? Per cominciare, questo libro si apre promettendo di indagare il «problema» riguardante il fatto che le accuse di «totalitarismo» sono diventate irrefutabili e automaticamente condannatorie nel contesto di un certo clima intellettuale post-strutturalista. [Il libro] prosegue poi non facendo nulla di ciò, offrendo piuttosto una serie di riflessioni in uno stile grossomodo simile a un flusso di coscienza su alcuni usi della teoria psicanalitica per affrontare una serie di questioni intellettuali disparate e spesso sconnesse tra loro. Il libro non fa mai alcun tentativo di occuparsi della complessa storia intellettuale che conduce alla netta condanna del “totalitarismo” – la disillusione verso il partito comunista dopo il 1968, il rigore accademico di Lyotard e Lefort, l’influenza dell’anarchismo sui “nuovi movimenti sociali”, eccetera. Anziché tutto questo, ci vengono fornite osservazioni come la seguente: «Se in una conferenza sui cultural studies negli anni Settanta si chiedeva innocentemente a qualcuno «La tua linea di pensiero non è simile a quella di A. Arendt?», questo era un chiaro segno che si era in grossa difficoltà».14

Da una parte, questa è un’osservazione tesa a illustrare un punto generale riguardo il mutevole essere di moda dell’opera di A. Arendt nelle recenti decadi, da leggere in fretta e mettere da parte velocemente. Dall’altra, essa dà avvio a tutta l’argomentazione di Žižek secondo cui c’è qualcosa di «sbagliato» nei cultural studies che si registra nei termini del mutevole atteggiamento verso Arendt. Pertanto, se l’affermazione iniziale di Žižek circa questo cambiamento è priva di fondamento, allora solleva domande importanti sulle premesse di questa argomentazione – a prescindere dalla sostanza dell’argomentazione stessa. Dunque calma. Leggiamo di nuovo l’osservazione. Fermiamoci e riflettiamo. Soltanto una delle due risposte è realmente possibile qui: o l’accettazione silenziosa da parte di chi dà per scontato che questa osservazione sia ragionevole (perché è fatta in un libro scritto da una figura autorevole nell’ambito della teoria culturale, pubblicata da una casa editrice rinomata, stimata e di qualità), oppure una contestazione da chiunque conosca tutto dei cultural studies e della loro storia. Trovandomi nell’ultima categoria, mi sento in dovere di chiedere: di cosa diavolo sta parlando Žižek? Come è possibile che Žižek conosca ciò che «sarebbe successo» (con tale sicurezza da sapere che qualunque cosa sarebbe stata un «chiaro segno» di qualcos’altro) in una «conferenza di cultural studies negli anni Settanta»? C’era soltanto un posto nel mondo in cui si sarebbe potuto partecipare a una «conferenza di cultural studies negli anni Settanta»: l’Università di Birmingham – e a memoria di tutti (ho chiesto a diverse persone che erano lì) Slavoj Žižek non è mai stato presente a nessuna di esse. Žižek potrebbe avere ragione o torto circa questa importante osservazione. Non è questo il punto fondamentale, sebbene ci ritorneremo. La questione importante per il momento è che Žižek sta facendo un commento perentorio su qualcosa – le conferenze di studi culturali negli anni Settanta – senza offrire la benché minima ragione al lettore per mettere da parte il suo giustificabile scetticismo verso l’autorità di Žižek, per così dire. Per essere chiari su questa implicita supposizione: si presume (o almeno si spera) che il lettore conosca anche meno di Žižek l’argomento e che prenda per vera la sua parola. Questo genere di lettore viene ingannato per il bene di un’osservazione polemica di Žižek.15

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Žižek risponde dettagliatamente a Gilbert nella sua postfazione a The Truth of Žižek, Con difensori come questi, che bisogno c’è di detrattori?. In risposta all’osservazione principale di Gilbert sugli studi culturali «in senso stretto», questo è tutto ciò che Žižek dice:

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Bene, Birmingham certamente non era l’unico posto “al mondo” – essendo nato nel 1949 sono vecchio abbastanza per aver potuto seguire la scena intorno all’Europa a partire dagli anni Settanta dove, all’indomani degli eventi del 1968, stava fiorendo un’analisi critica di Sinistra dei prodotti culturali, soprattutto in Germania e in Francia, ma anche in America Latina. Sfortunatamente, a partire da quel momento, ricordo chiaramente alcune discussioni in cui dichiarare affinità con Arendt funzionava come infausto atto di accusa.16

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Con questo commento Žižek conferma la prima metà della tesi di Gilbert («Da una parte, questa è un’osservazione tesa a illustrare un punto generale riguardo il mutevole essere di moda dell’opera di Arendt nelle recenti decadi, da leggere in fretta e mettere da parte velocemente»); [Žižek] la conferma, tuttavia, come se Gilbert non l’avesse già sottolineata e allo stesso tempo come se [Žižek] tralasciasse tutto il resto che Gilbert dice in seguito – tutte le osservazioni importanti, l’intera critica essenziale che Gilbert avanza. La risposta di Žižek all’osservazione di Gilbert sul suo incessante polemizzare contro gli studi culturali (nello specifico: i cultural studies in senso stretto, e non una vaga “scena” intellettuale qualsiasi), ignora la questione centrale della critica che Gilbert sta chiaramente, insistentemente, deliberatamente e inequivocabilmente muovendo.

Il modo in cui Žižek non coglie il punto è molto preciso. Osserviamone le caratteristiche. Per prima cosa: Gilbert ovviamente non sta dicendo che Birmingham era «l’unico posto al mondo» negli anni Settanta. Sta affermando l’evidenza storico-istituzionale che esisteva «soltanto un posto nel mondo in cui si sarebbe potuto partecipare a una ‘conferenza sui cultural studies negli anni Settanta’».

Gli studi culturali, infatti, come entità disciplinare istituzionalizzata e così denominata – cioè gli studi culturali in senso stretto, ciò che si definisce studi culturali – furono così battezzati negli anni Sessanta all’Università di Birmingham, nel Regno Unito. Non fu prima degli anni Ottanta che si diffusero ampiamente attraverso l’istituzione di corsi di laurea, dipartimenti, centri, scuole, conferenze, associazioni, collane editoriali e così via, e non fu prima degli anni Novanta che una rapida evocazione dei cultural studies si potesse considerare come forma abbreviata per le tendenze generali delle scene intellettuali interne alle facoltà umanistiche – ossia non prima che a seguito della trasformazione istituzionale delle facoltà umanistiche, causata rapidamente, in larga parte, dalla proliferazione istituzionale dei centri e dei luoghi degli studi culturali.

In altre parole, la domanda è la seguente: prima degli studi culturali «in senso stretto» esistevano gli studi culturali «in senso stretto»? Molto in generale, si potrebbe dire di sì, forse, qualcosa di simile. Ma se si volesse rispondere a questo genere di domanda con più precisione o rigore, si dovrebbe dire di no, non proprio, non così come si intendono, e certamente potrebbe solo sembrare che esistessero «gli studi culturali prima degli studi culturali» da una posizione non-auto-riflessiva post-studi culturali. Detto in altro modo: prima che i paradigmi, gli approcci, i temi, gli orientamenti e i discorsi degli studi culturali egemonizzassero la scena intellettuale, avevano forse i paradigmi, gli approcci, i temi, gli orientamenti e i discorsi degli studi culturali già egemonizzato la scena intellettuale?

In precedenza dicevo – in realtà [lo dicevo] nello stesso libro che contiene lo scambio Gilbert-Žižek – che questa tendenza di Žižek a introdurre velocemente qualcosa (sia esso un dibattito, una questione, un’entità o un problema complesso) utilizzando affermazioni generali e sintetiche è sia una forza che una debolezza del suo lavoro.17 Da un lato, infatti, gli permette di sfoderare velocemente e in forma teatrale qualunque dibattito di lungo corso e attuale. Questo vuol dire che, piuttosto che reinventare la ruota, Žižek dà per scontato che noi sappiamo ciò di cui sta parlando. Dall’altro lato, tuttavia, ciò provoca tutta la violenza concettuale e di rappresentazione di ogni altra spiegazione o rappresentazione riduttiva. Da un lato, dunque, per alcuni questo costituisce parte del fascino del lavoro di Žižek: illustra velocemente polemiche storiche, disaccordi disciplinari e i modi di leggere i filosofi e teorici l’uno contro l’altro. Dall’altro lato, tuttavia, come nell’esempio che Gilbert propone, procede spesso secondo un metodo del tutto problematico di non lettura, non impegno, non riflessione e non ricerca o scavo per scoprire se le cose stanno come Žižek sostiene che stiano in una rapida sintesi.

In questo esempio, allora, l’osservazione specifica di Gilbert è che, negli anni Settanta, esisteva realmente una scena degli studi culturali, ma non era quella a cui si riferisce Žižek o nel luogo in cui egli la colloca. Da un lato, di nuovo, questo conferma semplicemente che Žižek utilizza il termine cultural studies per riferirsi alle tendenze generali o alle formazioni discorsive del discorso di sinistra all’interno delle discipline umanistiche e intorno ad esse – il che ci riporta direttamente alla critica che Gilbert propone sin dal principio, cioè che «questa è una osservazione tesa a illustrare una questione generale … da leggere in fretta e mettere da parte velocemente». Dall’altro lato, però, non affronta affatto la reale sfida di Gilbert a Žižek – il mettere in dubbio la (persistente, sbagliata) lettura e rappresentazione dei cultural studies data da Žižek, nello specifico la sua insistenza ad hominem e ad nauseam che ci sia qualcosa di «sbagliato» nei cultural studies. In altre parole, se Žižek non si riferisce mai agli studi culturali «realmente-esistenti», allora perché si riferisce sempre agli studi culturali?18

Al di là della questione specifica della lettura sbagliata e della diffamazione compulsiva degli studi culturali che Žižek fa da lungo tempo, il motivo principale per cui riporto nuovamente l’attenzione su questo tema è per aggiungere legna sul fuoco che Alain Johnson certamente ha acceso nella sua critica alla teoria della rivoluzione di Žižek. Come vediamo in questi e in altri esempi equivalenti, infatti, Žižek ha una tendenza a utilizzare solo una porzione delle informazioni salienti riguardanti una questione o un’entità, per poi mancare il problema centrale e occuparsi di ciò che si presenta come uno stereotipo ridotto o riduttivo in un’argomentazione generica. Per questo possiamo dire che il metodo di leggere di Žižek sia un modo formalizzabile o esprimibile via formule di lettura sbagliata. E direi che si verifica ad ogni livello: o quantomeno dal livello della frase a quello del libro. Al livello della frase, lo vediamo nella riduzione che Žižek opera del nocciolo essenziale della frase di Gilbert sugli studi culturali negli anni Settanta («C’era soltanto un posto nel mondo in cui si sarebbe potuto partecipare a una “conferenza di studi culturali negli anni Settanta”: l’Università di Birmingham …»). Questa non è la frase intera, ma è il suo nocciolo essenziale. Žižek la riduce a «Birmingham certamente non era l’unico posto “al mondo”». A livello più ampio, a livello dell’intero libro, lo vediamo nel seguente esempio: Simon Critchley ha scritto una breve prefazione al libro The Truth of Žižek intitolata Perché Žižek deve essere difeso.19 Con questo titolo Critchley mostra la sua posizione generosa rispetto all’opera di Žižek (che, come dicevo precedentemente, è rappresentata al meglio nell’affermazione del titolo di Gilbert: cioè il fatto che Žižek ponga tutte domande corrette ma giunga a risposte tutte sbagliate). Nessun altro nel libro, tuttavia, ha affermato di procedere sotto il titolo di Critchley. Era quello di Critchley. Tutti gli altri avevano titoli diversi, eppure ciò che Žižek raccoglie e utilizza nella sua intera risposta al libro è il sentimento annunciato nel titolo di Critchley. Di qui il titolo di Žižek: «Con difensori come questi, che bisogno c’è di detrattori?». Di qui anche un altro problema: nessuno tranne Critchley ha minimamente affermato di essere incline a difendere Žižek. Eppure Žižek procede come se questa fosse la linea di tutti. Nel suo contributo, pertanto, Žižek torna sempre a scherzare con questa supposizione iniziale, come se i suoi critici non stessero attuando la loro dichiarata missione di difenderlo. Per esempio:

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Gilbert mi «difende» rimproverandomi per due questioni fondamentali: i miei libri «mostrano un livello di erudizione che sarebbe considerato pietoso persino nel lavoro di un laureando»; e poi, io sarei «uno scrittore il cui metodo è evidentemente male informato, inaccurato e frequentemente ironico riguardo le eredità delle Nuove Sinistre».20

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Inutile dire a questo punto che questi rimproveri in realtà non costituivano affatto le difese di Žižek da parte di Gilbert. C’erano sì alcune questioni su cui Gilbert cercava di difenderlo che, tuttavia, sono piuttosto diverse da quelle a cui Žižek fa riferimento in questo passaggio.

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4. Ridere di Žižek

Nel seguire la struttura che tanto regolarmente hanno, si può dire che le argomentazioni di Žižek siano piuttosto simili a delle storielle. Forse, in effetti, questa è un’altra delle ragioni per cui Žižek piace così tanto. Piuttosto che essere preoccupati come me, Jeremy Gilbert o Alan Johnson delle caratteristiche che Žižek attribuisce a questioni come i cultural studies, la politica, la rivoluzione e così via, presumibilmente altri lettori potrebbero essere più distratti (disinteressati?) e potrebbero semplicemente divertirsi o ridere per il modo che Žižek ha di ridicolizzare problemi sociali così grossi come gli sprovveduti «multiculturalisti tolleranti liberali», i «decostruzionisti postmodernisti» annacquati, gli sventurati «cognitivisti e positivisti», gli ingenui «nuovi movimenti sociali», le femministe consumiste viziate, i gay e i neri narcisisti oppure qualunque altro termine detestabile che Žižek sceglie tanto frequentemente per disprezzo – termini esecrabili che, vale la pena sottolinearlo, sono quelli tipicamente scelti dal pensiero della destra reazionaria e conservatrice, piuttosto che quelli di ogni sinistra diversa dalle più tiranniche. Certamente, dunque, alcuni potrebbero semplicemente sorridere e di certo il fatto che Žižek ridicolizzi le minoranze e alcune posizioni potrebbe inevitabilmente giungere come una ventata di aria fresca o come un rilascio di una certa pressione annidatasi nei lettori di sinistra, causata dal loro dover sempre mantenere rispetto serio e sobrio verso così tante questioni degne per la maggior parte del tempo… Presumibilmente ci saranno anche lettori che interpretano una qualche versione del cliché «è divertente perché è vero». Ci saranno invece altri che credono che Žižek stia semplicemente dicendo le cose come stanno.

Prima di arrivare al problema del prendere sul serio Žižek, forse c’è bisogno di porsi questa domanda: che cosa significa o preannuncia il ridere o l’annuire per qualcosa? Secondo la teoria di Freud, “stare” allo scherzo è la prova di ciò che Freud definisce «conformità psichica di vasta portata». In altre parole, se ridiamo della battuta razzista, è perché siamo razzisti o perlomeno perché siamo stati momentaneamente portati a diventarlo nella misura in cui siamo coinvolti nella pianificazione ed elaborazione della battuta. Nella caratterizzazione dei «motti di spirito tendenziosi» di Freud, infatti, cioè battute sessiste, razziste, oppure ostili ed aggressive per altre ragioni, chi ascolta viene reclutato (interpellato) come co-cospiratore nella ridicolizzazione o nella vittoria sull’oggetto si scherno – un oggetto che, secondo Freud, è in realtà un oggetto di desiderio, risentimento, paura o preoccupazione.21

In altre parole, il divertimento per la battuta “tendenziosa” deriva da un desiderio normalmente non detto di “ottenere” qualcosa che altrimenti non potremmo “avere”. Pertanto, le bionde vengono rese stupide e di conseguenza colpite simbolicamente perché non si possono “avere” nella realtà; i neri vengono puniti simbolicamente perché non andranno via, ecc. Ogni nostro scoppio di risa segnala il rilascio delle nostre “inibizioni” represse (per usare le parole di Freud). Queste “inibizioni” sorgono dentro di noi (se effettivamente sorgono) non appena qualcuno si china verso di noi e ci dice: “Hai sentito quella della bionda che è andata allo show del ventriloquo?”, o qualcosa del genere. Al sentire queste parole, se l’ascoltatore è stato effettivamente interpellato o reclutato con successo nella scenetta, sorgono tutte insieme certe “inibizioni” e il senso di divertimento, attesa, nervosismo e persino desiderio che ne derivano – perché capiamo che si tratterà di qualcosa di un po’ “spinto”, un po’ “tabù” – e ci prepariamo, come molle elastiche, a rilasciare tutto ciò in uno scoppio di risa. Come sostenevano notoriamente Adorno e Horkheimer, si sorride sempre quando passa una qualche paura. Ci sono diverse ragioni per cui la paura sorge durante la barzelletta: le barzellette sono cospiratorie, irrispettose, spinte. Abbiamo paura di parlare delle bionde o dei neri perché ci preoccupiamo di essere rimproverati oppure, soprattutto, del fatto che il nostro divertimento per desideri socialmente inaccettabili possa diventare oggetto di rimprovero. Per questo motivo la battuta finale risulta essere una liberazione e un sollievo.

Cosa stiamo accettando, allora, quando ridiamo, sorridiamo o annuiamo alle visioni della verità di Žižek per quel che riguarda questo o quell’aspetto del multiculturalismo liberale tollerante, quando questo argomento o gruppo è considerato da Žižek come sintomo di una sorta di ideologia malvagia? Forse nulla. Forse infrangere le proibizioni ritenute “politicamente corrette” osservando che gli stessi esponenti della correttezza politica non sono liberi da pregiudizi (la tolleranza non può tollerare l’intolleranza, per esempio); forse osservare che gli usi e le dimensioni “ideologiche” del mondo verosimilmente degno di “correttezza politica” (il suo uso nella repressione macropolitica della “vera” alterità, per esempio; come quando le regole delle società “tolleranti” vengono utilizzate per criminalizzare le regole e le pratiche di culture e società “intolleranti”); forse divertirsi per questi e altri generi di “critica dell’ideologia” žižekiana non ci renderà necessariamente “oppositori” della correttezza politica in quanto tale. Di certo possiamo ridere di noi stessi ogni tanto e questo non significa che siamo fino in fondo oppositori di noi stessi oppure ostili a noi stessi o alle nostre attività. Dunque forse apprezzare la critica della sinistra, di ciò che è liberale, postmoderno, tollerante, multiculturale, eccetera che Žižek propone non significa che siamo oppositori di nulla di tutto questo. Ma Žižek lo è?

Per ripetere le parole di Johnson, la risposta sembrerebbe essere sì. Sembra esserci un’abbondanza di prove nei testi di Žižek che lo dimostrano – specialmente sotto forma di battute, scherzi, aneddoti, diagnosi (“ideologiche”) e così via, sebbene ci sia anche prova del fatto che Žižek occasionalmente smetta di sorridere e offra rassicurazioni serie del tipo «ovviamente, non sono contro tutti coloro che può sembrare io abbia attaccato così a lungo fin qui» – in un modo che ricorda i due studenti bianchi nella commedia hollywoodiana Soul Man che sono soliti scambiare battute razziste a distanza dai neri prima di rivolgersi velocemente verso di loro dicendo: «Ehi, senza offesa! D’accordo?».

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5. Il sintomo asintotico dell’ideologia

Alan Johnson segue un filone nel pensiero di Žižek: la sua teoria della rivoluzione, così come si è sviluppata da quando fu esplicitamente annunciata per la prima volta oltre una decina di anni fa. Johnson interpreta le dichiarazioni di Žižek sulla rivoluzione politica in modo tale da sostenere che ciò che Žižek afferma è allineato al totalitarismo dal punto di vista etico e politico. Dato ciò, aggiungo che il fatto che una parte di pubblico consideri Žižek “uno di noi” vuol dire che i lettori di Žižek, in realtà, non leggano Žižek. Il fatto che ciò che Johnson definisce come lo scandalo delle dichiarazioni politiche di Žižek non sia stato recepito come scandalo dal suo pubblico è il problema che anima il lavoro di Johnson.

L’esistenza o prevalenza di tale non-lettura è scandalosa secondo Johnson perché Žižek viene “letto” molto ampiamente nei circoli intellettuali e accademici da persone che sono in grande maggioranza dichiaratamente democratiche, di sinistra, liberali, progressiste, tolleranti e competenti dal punto di vista teorico. Žižek, infatti, viene letto da critici culturali, ricercatori, studiosi e studenti di cinema, cultura, società, razza, genere, classe, etnicità, soggettività, eccetera – da accademici che lavorano nell’ambito delle tradizioni di studio della sinistra culturale, della politica e dell’identità. Eppure Žižek non nasconde il suo disprezzo per le posizioni di sinistra – che spesso egli condanna per essere patetiche e spregevoli, «rassegnate e ciniche», liberali, tolleranti, decostruzioniste e multiculturaliste. In effetti, Žižek disprezza apertamente le battaglie e i movimenti della sinistra democratica attualmente esistenti e, in modo particolare, l’intera formazione discorsiva e l’orientamento del pensiero e della teoria culturale e politica ad essa associati. Pertanto, così come Johnson dimostra in che misura, da più di dieci anni, Žižek abbia ormai apertamente abbracciato una posizione anti-democratica di rigido volontarismo autoritario, si potrebbe facilmente costruire una lista ancora più lunga delle sue condanne di tutto quello che è associato alla teoria e alla politica della sinistra progressista. Eppure molte persone vicine proprio a quella sinistra sembrano amarlo. Le sue conferenze fanno il tutto esaurito. I suoi libri vanno a ruba – acquistati dalle stesse persone che ci si aspetterebbe che fossero disgustate dalle sue dichiarazioni e condanne. Noi. Perché succede?

Con metodo forense, Johnson mette abilmente a nudo le coordinate principali delle dichiarazioni politiche di Žižek. Mettendo da parte le molte digressioni, gli aneddoti, le “battute”, gli incisi e le diagnosi confuse, le dichiarazioni e le condanne che costituiscono il fulcro dei testi di Žižek (e che certamente aiutano a incrementare la sua popolarità), Johnson rivela la struttura delle dichiarazioni politiche di Žižek: a suo parere si tratta di «blanquismo selvaggio» di tipo totalitario. In altre parole, egli è contrario all’impulso e all’orientamento dominante del pensiero culturale, politico, umanistico e sociale contemporaneo in generale e a quello degli studi culturali in particolare.

Ho già accennato alla peculiarità della situazione attuale in cui da un lato c’è l’enorme popolarità di Žižek nell’ambito degli studi culturali, mentre dall’altro lato c’è il disprezzo manifesto e costante da parte di Žižek per gli studi culturali.22 Un’altra caratteristica peculiare di questa situazione è che, accanto al fatto che Žižek sceglie quasi regolarmente di criticare aspramente gli studi culturali nelle pagine e nei paragrafi di apertura dei suoi libri e articoli (e che questi libri e articoli sono consumati da persone che lavorano all’interno degli studi culturali o vicino ad essi), esiste un movimento contrario in cui Žižek spesso scrive commenti di sostegno sulle quarte di copertina che affermano ripetutamente che, finalmente, c’è un libro che «riscatta gli studi culturali». Il problema, però, rimane il motivo per cui Žižek rimane tanto letto nell’ambito disciplinare che disprezza così tanto.

La posizione di Žižek rispetto agli studi culturali è equivalente – forse persino strutturalmente identica – alla posizione che Johnson delinea circa Žižek rispetto alla teoria politica. Il suo metodo consiste nel cominciare da una lettura sbagliata, continuare con una caricatura, costruire un binario generico per poi distruggere lo spauracchio chimerico che ha inventato. E tuttavia viene letto. La mia idea è che questo accade perché Žižek si occupa delle “grandi” questioni in modo acceso e sintetico. Žižek si occupa di tutto, dall’Olocausto alla cibertecnologia, dalla politica ai più arcani aspetti della teologia e della filosofia continentale, e spesso lo fa attraverso esempi tratti dalla cultura pop contemporanea e del cinema. Pertanto, per dei lettori abituati a un metodo d’analisi molto più misurato e meticoloso, tutto ciò è piuttosto piacevole. In questo senso, l’effettiva ostilità di Žižek verso gli studi culturali o la politica democratica risulta secondaria rispetto alla vivacità dei suoi testi oppure è qualcosa che si può perdonare perché [Žižek] offre molto di più.

In altre parole, la coerenza fondamentale che sottende al lavoro di Žižek viene tralasciata o perdonata a causa dell’assortimento di esempi interessanti e storielle da lui fornite. Di certo, però, l’orientamento fondamentale, o la tendenza dominante del discorso di qualcuno, ha importanza. Di sicuro fa la differenza – ammesso che quel che riguarda la lettura e la scrittura accademica produca una qualche differenza. Di sicuro perlomeno tale perdono o dimenticanza da parte dei lettori indulgenti equivale ad una sorta di lettura sbagliata, non-lettura o lettura parziale. Questo punto di vista spinge Johnson ad approfondire le dichiarazioni di Žižek da lui frequentemente ripetute sull’azione politica: perché di certo ha importanza che tutto ciò stia accadendo nei circoli accademici e intellettuali senza essere chiaramente segnalato per quello che è: problematicamente volontarista, violento, anti-democratico e totalitario.

Offrendoci questa interpretazione, penso che Johnson aggiunga peso ad una crescente risposta [critica] al lavoro di Žižek, di cui mi piace riconoscere che The Truth of Žižek è stata una prima pubblicazione importante. Adesso ci sono numerosi esempi di recensioni sempre più critiche a Žižek. Alcune di queste includono la seguente: innanzitutto, Žižek sembra essere preoccupato perlopiù dall’attuale trasformazione “multiculturale” del mondo socio-politico. Da uomo bianco e da accademico, la decostruzione di questo posto di potere sembra essere la sua primaria preoccupazione – di qua il suo malumore contro gli intellettuali LGB, non bianchi, non tradizionali (si veda il contributo di Leigh Claire La Berge).

Un’altra riguarda il fatto che la posizione politica di Žižek non si può distinguere o slegare da una posizione che potrebbe giustificare il terrorismo. Un’altra ancora riguarda il fatto che, come abbiamo visto, nonostante Žižek ponga «tutte le domande giuste», il problema è che lui giunga a «tutte le risposte sbagliate». Questo avviene perché, come osserva in modo analogo Johnson (così come hanno osservato altri, tra cui Critchley, Laclau e Chow), Žižek interpreta la realtà socio-politica come se esistesse semplicemente un “corpo politico”, e come se le visioni psicoanalitiche (o i dogmi) riguardanti la soggettività e il comportamento potessero essere collegati direttamente con il mondo macropolitico. Di certo Žižek antropomorfizza e lacanianizza tutto, incluso i processi senza soggetto, ma, nonostante ciò, non interpreta il mondo attraverso un paradigma psicoanalitico coerente. Piuttosto, Žižek utilizza termini e concetti incongruenti, reciprocamente incompatibili e incoerenti che non illustrano in modo nitido e non producono visioni chiare e interessanti così come egli crede e cerca di persuaderci che faccia. Nello specifico, per esempio, Žižek associa Lacan a Marx che poi associa a Hegel, come se tutti loro si adattassero bene l’un l’altro senza alcun residuo o contraddizione. [Žižek] lo fa al fine di produrre una macchina analitica che, a sua volta, produce visioni di verità che un critico culturale virtuoso sa individuare per poter dire la verità al potere. Inoltre, nell’interpretare il suo compito come quello di dire la verità al potere, Žižek presumibilmente si identifica troppo con il potere che è il suo oggetto d’analisi e che forse lui stesso cerca di occupare, diventare o possedere. Se questo sia proprio vero oppure no, certamente sembra essere vero che con i suoi investimenti sulla superiorità del Reale lacaniano, Žižek rivendica il diritto a un registro di verità che a suo parere spazza via tutti gli altri: il Reale caotico.

Di certo sembra che sia la coerenza in Žižek a causare tanti problemi. I lettori che cercano di trovare coerenza in Žižek, identificando le tendenze, le reiterazioni e le ripetizioni che popolano i suoi scritti altrimenti pericolanti, oppure provando a seguire la linea degli scenari e delle costruzioni argomentative di Žižek (vedi Valentine 2007 per un esempio eccellente) “rivelano” una posizione žižekiana che è tanto semplice da sembrare caricaturale, oppure si annodano intorno a se stessi. Io colloco il mio lavoro e quello di Johnson nella prima categoria e sono consapevole che questo mi porti ad essere ampiamente suscettibile dell’accusa di cattiva interpretazione.

Lo stesso Žižek ha a lungo sostenuto l’idea che il pensiero stesso che ci dovrebbe essere coerenza è una sorta di fantasia strutturale o di sintomo lacaniano. Da questo punto vista, pertanto, accusare Žižek di incoerenza potrebbe non essere una vera e propria critica. Al contrario, forse riscontrare coerenza potrebbe rappresentare un vero problema. Certamente le interpretazioni che cercano di realizzare una lettura congruente o coerente di Žižek vanno incontro a dei problemi. Tuttavia, non cercare di farlo – nonostante ogni tentativo di leggere Žižek sulla base della coerenza o congruenza finisca sempre con la dimostrazione di essere molto suscettibili dell’accusa che non sia una lettura completa, coerente, o congruente, ma piuttosto, nel migliore dei casi, asintotica di una lettura di Žižek – forse potrebbe essere una questione molto più grave.

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Traduzione: Floriana Bernardi.

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*Questo articolo è stato pubblicato in «Global Discourse: An Interdisciplinary Journal of Current Affairs and Applied Contemporary Thought», vol. 2, n. 1, 2011: Examining the Contemporary Relevance of Marxism. L’autorizzazione alla presenta traduzione è stata gentilmente concessa dall’autore.

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Riferimenti bibliografici

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1[NdT] Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1998, § 6.54.

2Alan Johnson , Žižek’s Theory of Revolution: A Critique, in «Global Discourse: An Interdisciplinary Journal of Current Affairs and Applied Contemporary Thought», Volume 2 del 2011.

3 Ivi, nota a piè di pagina nr. 1

4 M. Walsh, Slavoj Žižek (1949–), in Julian Wolfreys (a cura di), The Edinburgh Encyclopaedia of Modern Criticism and Theory, Edinburgh University Press, Edimburgo 2002,p. 391.

5 S. Žižek,With Defenders Like These, Who Needs Attackers?, in P. Bowman e R. Stamp(a cura di), The Truth of Žižek, Continuum, Londra 2007

6Le reazioni iniziali sulla blogosfera nel 2007-2008 mostravano che le persone non solo avevano letto per prima la Postfazione di Žižek, ma anche che la loro lettura del libro si era fermata lì. Nel momento in cui stavo scrivendo la bozza per questo articolo (19 maggio 2011), mi sono ritrovato invischiato, ancora una volta, in una discussione (sintomatica?) stranamente familiare e interamente prevedibile con i membri di un gruppo Facebook chiamato Žižek Studies, i quali si schierano “con Žižek” e contro il resto di coloro che hanno contribuito al volume The Truth of Žižek, non soltanto perché questi ultimi attaccano Žižek sul “personale”, ma anche perché sono “feticisti”. Ho cercato di sottolineare l’ironia/auto-contraddizione del loro replicare alle accuse che muovono ed anche che per questo dovrebbero essere contro Žižek” poiché, nella sua Postfazione, egli stesso rifiuta ogni tipo di analisi “caratteriologica”. Tutto questo è stato vano, a quanto pare.

7 J. Mowitt, Trauma Envy, in P. Bowman e R. Stamp 2007, pp.117-142

8M. Foucault, What is an Author?, in Language-Counter-Memory, Practice, Cornell UP, 1977

9 [NdT] Sulla scelta traduttiva preponderante dell’espressione inglese «cultural studies» con quella italiana «studi culturali» si legga la Nota della Curatrice a pag. XIX-XX del libro di Paul Bowman, Studi Culturali. Teoria, intervento, cultura pop, Progedit, Bari 2012.

10[NdC: Guido Grassadonio] «Free radicals» nell’originale inglese. Probabilmente l’autore usa il termine come un gioco di parole fra «radicale» in senso politico e l’uso chimico e medico del termine «radicale libero». I “radicali liberi” svolgono nel nostro organismo il ruolo di “guastatori”, un po’ come i rivoltosi nella società contemporanea.

11 P. Bowman, Cultural Studies and Slavoj Žižek, in C. Burchall e G. Hall (a cura di) New Cultural Studies: Adventures in Theory, Edinburgh University Press, Edimburgo 2006, pp. 162-177

12 Sto facendo così tanto uso del “mio stesso” libro non per incoraggiarne le vendite – l’intero libro è disponibile online gratuitamente – ma perché è un riferimento imprescindibile in cui trovare diverse critiche essenziali a Žižek e leggere le sue relative risposte.

13Gilbert, J. All the Right Questions, All the Wrong Answers, in P. Bowman e R. Stamp (2007), pp. 61-80

14La citazione di Žižek è tratta da, S. Žižek, Did Somebody Say Totalitarianism?: Five interventions in the (Mis)use of a Notion, Verso, Londra 2001

15Gilbert 2007 (op. cit.), pp 63, 64.

16Žižek, S., With Defenders Like These, Who Needs Attackers?, in P. Bowman e R. Stamp 2007, (op. cit.), pp. 197-254

17P. Bowman, The Tao of Žižek, in P. Bowman e R. Stamp, 2007, pp. 27-44.

18 Ho risposto nei dettagli a questa domanda in diverse occasioni, cfr. Bowman 2006, 2007, 2008. Lo stesso fa Jeremy Gilbert nel saggio di cui stiamo discutendo qui.

19[NdT] Titolo originale: Why Žižek must be defended.

20S. Žižek in Bowman, Stamp, 2007, pp. 216, 217

21S. Freud, Jokes and their Relation to the Unconscious, Penguin, Londra 1976

22 Cfr. Bowman 2006.

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