Editoriale: I LIMITI DEL DESIDERIO

Emanuele Profumi e Jamila M.H. Mascat        

 

MaciunasI concetti di bisogno e desiderio rinviano tradizionalmente a due distinte costellazioni del pensiero filosofico otto-novecentesco: da un lato il marxismo, storicamente incentrato sul tema dei bisogni e meno attento alle istanze del desiderio, dall’altro la psicanalisi e le teorie post-strutturaliste (di matrice francese, ma non solo), che valorizzando la centralità del desiderio hanno relegato in secondo piano la questione dei bisogni.  Nella riflessione contemporanea questa divisione parrebbe andare incontro ad un’ulteriore divaricazione. Dalla constatazione di tale divaricazione è nata l’intenzione di provare a sviluppare in questo numero di Consecutio Temporum un approfondimento congiunto delle nozioni di bisogno e desiderio, con l’obiettivo di ridefinire e riattivare le parentele possibili tra questi due termini fondamentali della filosofia politica, dell’antropologia filosofica, dell’etica e della psicanalisi.

Nella prima parte di questa introduzione la dicotomia desiderio-bisogno fungerà da filo conduttore  per esporre e opporre le traiettorie tematiche principali lungo cui si collocano alcuni dei contributi relativi alle sezioni Hegeliana e Marxiana. Nella seconda parte, invece, si proporrà di problematizzare attraverso il prisma del desiderio il valore politico del rapporto tra vita psichica e società attraverso alcuni degli articoli pubblicati nelle sezioni Freudiana e Storia delle Idee.

1. Etica dei bisogni e politica dei desideri

 Sembrerebbe che all’origine della contrapposizione dualistica tra bisogni e desideri appena illustrata si possa situare la filosofia hegeliana. Essa, infatti, è tanto filosofia del desiderio, imperniata sulla figura dell’autocoscienza desiderosa di riconoscimento – secondo la definizione fenomenologica che Robert Pippin approfondisce nel suo saggio, per l’appunto, das Selbstbewußtsein ist Begierde überhaupt  –  quanto filosofia dei bisogni attenta a individuare nel System der Bedürfnisse la matrice socio-economica fondamentale che permea la socializzazione astratta dell’universo borghese moderno.

In Hegel, tuttavia, e soprattutto nell’Hegel letto e interpretato da Kojève che può essere considerato l’artefice di una prima e fondamentale cesura dicotomica tra i due termini, desiderio e bisogno afferiscono a due sfere distinte – l’animale e l’umano, il corporeo e il linguistico, la natura e la cultura­ – di cui l’una rappresenta il superamento dell’altra. Eppure, benché distinti, all’interno della teoria hegeliana della vita etica bisogni e desideri esibiscono una matrice comune, la matrice della mediazione, manifestandosi sempre come istanze che per essere realizzate necessitano di alterità e socialità  – cioè di media e di mediatori -­ e rinviando costantemente l’individuo oltre i confini del sé autosussistente.

In Subjects of Desire (1999) Judith Butler muove dalla teoria hegeliana del riconoscimento per seguire il leitmotiv del desiderio attraverso un lungo segmento della ricezione francese di Hegel e oltre – da Kojève a Hyppolite, Sartre, Lacan fino a Deleuze e Foucault – arrivando, al termine di questo intricato itinerario, a interpretare il Soggetto come una finzione determinata proprio dal suo carattere desiderante. Lungo tale traiettoria è parallelamente possibile constatare due processi non del tutto separabili: da un lato lo scollamento che viene a prodursi tra desideri e bisogni  (gli uni, secondo Lacan, situati nell’ordine del simbolico e  inappagabili, gli altri ancorati al terreno della necessità fisiologica e perciò appagabili) e, dall’altro, il progressivo e significativo slittamento della connotazione del desiderio da mancanza a eccedenza, da espressione di una carenza (come nel caso dell’autocoscienza hegeliana che ha bisogno dell’altro per riconoscersi) a espressione di un surplus (come nel caso delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari).

Su questo approdo del desiderio deleuziano si innestano alcuni interrogativi importanti che chiamano in causa la valenza politica di tale desiderio.  Ne Il lusso del desiderio Paolo Godani ne solleva uno in particolare, che ha a che fare con la deriva eccedente dell’impulso desiderante, la quale rischierebbe di ‘svuotarlo’ fino a renderlo superfluo e perciò futile e vano.

Qui si vuole sollevare un altro dubbio, speculare e simmetrico al precedente. Esso concerne il pericolo di un’ingenua feticizzazione del desiderio che pare profilarsi, attraverso uno spettro teorico vasto e variegato del dibattito politico contemporaneo –  che va dalla psicanalisi neolacaniana alla queer theory – nel momento in cui ci si richiama al carattere intrinsecamente  eccentrico (perché non coincidente con sé) e di conseguenza sovversivo del desiderio (contrapposto alla sfera del godimento o a quella del bisogno). Il problema di simili approcci è proprio quello di tralasciare di considerare la dimensione materiale dei desideri – sempre inscritti all’interno di regimi di potere/sapere – nonché il loro carattere mutevole e modificabile, e, come tale, suscettibile di prendere forma  attraverso configurazioni non univoche né determinabili a priori. In altre parole il cambiamento di segno del desiderio, da mancanza che demanda un riempimento (e che in tal senso si lascia ben coniugare con lo spirito della società delle merci e dei consumi) a eccedenza produttrice di scarto, non basta a garantire il carattere trasformativo e rivoluzionario dell’elemento desiderante.

Ogni connotazione eccedente del desiderio, inoltre, presuppone un’implicita, quanto discutibile, separazione del superfluo e del necessario, del soggettivo e dell’oggettivo, che rinvierebbe ancora una volta a una irremovibile linea di demarcazione tra il campo dei bisogni e quello dei desideri.

Una polarizzazione simile ricompare anche all’interno di un certo marxismo novecentesco, soprattutto francofortese. All’approfondimento della riflessione sviluppata da Marcuse sul tema dei falsi bisogni è dedicato il saggio di Marco Solinas (Sui paradossi della critica esterna. Marcuse, i bisogni indotti e i desideri di massa), che ripercorre l’analisi marcusiana della società del benessere contemporanea per metterne in luce impasse e debolezze. Nella condanna radicale della monodimensionalità socio-antropologica di epoca tardocapitalistica, Marcuse distingue i veri bisogni autentici dai cosiddetti falsi bisogni alienati, ovvero rei di alimentare l’adesione allo status quo  attraverso l’imborghesimento dei valori e delle condizioni di vita del proletariato, e colpevoli di liquidare così l’orizzonte rivoluzionario. Il discorso sviluppato da Marcuse, che per certi versi richiama da vicino la delegittimazione del lusso dei desideri accennata poc’anzi, fa appello ad una  logica trascendente per riscattare l’immobilismo del presente e rinnovare la prospettiva dell’emancipazione a partire dalla mobilitazione di forze esterne (o periferiche) rispetto al sistema. In ultima istanza, la ricerca di una strategia politica incentrata sull’esteriorità foriera di cambiamento ripropone, riconfigurandolo, il modello dell’interiorità libidinale capace di liberare l’umanità dalle costrizioni della civiltà classista, ipotesi questa già percorsa da Marcuse in Eros e civiltà (1955).

Sulla sfondo di quanto illustrato fin qui si profilano i limiti del desiderio (e del bisogno) che emergono all’interno di approcci teorici animati da una malcelata inclinazione alla trascendenza, alla ricerca di invarianti eccentriche e non integrabili nell’ordine esistente, le quali rischiano tuttavia di restituirci una guisa reificata e depauperata di entrambi i concetti.

Altra questione è quella della ricollocazione (rearrangement, termine preso in prestito da G.C. Spivak, parafrasando) dei bisogni e dei desideri, che muove da un’altro genere di considerazione: che cosa possiamo noi, soggetti di desideri e di bisogni?  Come dar forma a questi materiali da costruzione della psiche e della società in cui viviamo immersi?

Sul terreno dischiuso da tale interrogativo – etico, politico e pedagogico insieme – si situa il discorso che Ágnes Heller ha cominciato a sviluppare quasi mezzo secolo fa nella sua ormai classica opera sulla Teoria dei bisogni in Marx (1973), a cui si deve il merito di aver arricchito e stimolato la riflessione su questo tema nella tradizione marxista. Operando una torsione etica fondamentale sul concetto marxiano di bisogno, concetto molteplice e non univoco come emerge proprio dalla ricostruzione analitica di Heller, la filosofa ungherese è riuscita a riqualificare tale nozione in senso non puramente economicista. In virtù della loro caratterizzazione plurale, in Marx i bisogni (necessari, naturali, sociali, reali, immaginari ecc.) si situano all’intersezione inestricabile di produzione economica e conservazione della specie, ricambio tra uomo e natura  e riproduzione della società, individuazione e socializzazione. Heller invita a valorizzare e coltivare i bisogni radicali, ovvero quei bisogni non immediatamente integrabili al capitalismo che pure emergono in seno alla società capitalistica.  Sebbene anche i bisogni radicali si traducano nella ricerca di una soddisfazione materiale, essi esprimono nondimeno una tensione oltre la sfera della semplice necessità che qualifica propriamente e positivamente l’agire umano. I bisogni radicali rinviano perciò ad un superamento del nomos capitalistico, oltrepassando la mera logica della quantità che lo caratterizza, verso un orizzonte etico razionale.

Il tema del doppio legame (double bind) tra la matrice tecnico-quantitativa e quella storico-qualitativa, entrambe all’opera nello sviluppo del mondo moderno, ritorna nel saggio di Heller qui pubblicato su Le tre logiche della modernità. Pur non concentrandosi sul tema classico della ricollocazione etica dei bisogni, l’autrice sviluppa in queste pagine un discorso sulle due principali tendenze dell’immaginazione (intesa non come facoltà individuale bensì come immaginazione sociale e collettiva): la tecnica, improntata alla logica del problem solving, e la storica, di ispirazione interpretativo-ermeneutica. Esse coabitano, talvolta configgono, in seno al moderno, e ne garantiscono il paradosso della libertà. I bisogni e il loro soddisfacimento, ricorda Heller nel suo articolo, non possono quindi essere abbandonati ad una logica meramente quantitativa: la quantità deve ritradursi in qualità. I bisogni sembrano dunque richiamare ad un operare congiunto delle due forme dell’immaginazione tecnica e storica in vista della sopravvivenza della democrazia.

A completare la riflessione sulla relazione tra bisogno e desiderio partecipano, infine, due contributi tematicamente affini pur nella diversità di prospettive: il saggio di Jodi Dean su Il desiderio comunista e l’articolo di Daniel Bensaïd intitolato Desiderio o bisogno di rivoluzione?.

Per Bensaïd il desiderio politico contemporaneo incarna l’espressione di un ipersoggettivismo malinconico in fuga dalla realtà; per Dean la malinconia della sinistra scaturisce dal tradimento  di coloro che rinunciano a desiderare e agire in vista della trasformazione del mondo. Per l’uno, il desiderio è sintomo, per l’altra è rimedio.

Privilegiando l’immanenza del bisogno alla trascendenza desiderio – una velleità senza forza, una brama senza appetito, una pulsione di morte, un fantasma di libertà, un capriccio erotico che  sprigiona l’acre profumo di un fiore appassito dimenticato su una tomba – Bensaïd punta il dito contro la deriva impolitica e velleitaria che minaccia l’immaginario della sinistra contemporanea per la quale il desiderio della rivoluzione ha sostituito la  prassi rivoluzionaria. Annoverato tra le passioni tristi che anelano ma non agiscono, il desiderio sopravvive pertanto come un surrogato della lotta politica. Per l’autore si tratta pertanto di reincorporare la strategia al desiderio, re-incarnare il desiderio nella storia  – la  storia lunga e non conclusa della rivoluzione – inscriverne l’euforia entro quella lenta impazienza militante che sola permette di percorrere questo sentiero.

Dean, invece, gioca il desiderio comunista contro l’arrendevolezza malinconica della sinistra di questo secolo. Tale desiderio si configura come desiderio di un vuoto, ovvero come desiderio di ciò che non è e che per essere necessita della negazione/abolizione dello stato di cose esistente. La scommessa politica, secondo l’autrice, riguarda i processi di soggettivazione di tale vuoto e del desiderio medesimo, che devono potersi articolare collettivamente: il desiderio comunista è, infatti, un desiderio comune ed è desiderio di un comune che non può che essere desiderato in forma collettiva e condivisa.

2. La  valenza politica della psicanalisi: il desiderio in questione

 L’antropologia psicanalitica è fonte continua di innumerevoli spunti e problemi filosofici e politici. Il tenore della discussione contemporanea in filosofia politica, mostra come chi si interessa dell’antropologia filosofica difficilmente possa rinunciare ad una rigorosa analisi di quanto segna in profondità la vita psichica, soprattutto nel suo legame con l’organizzazione, la costruzione, e la creazione della realtà sociale-storica.

Al centro di una buona parte della riflessione contemporanea sull’interazione tra il piano psichico e quello sociale, c’è il problema e la rilevanza che il desiderio ha nella psicanalisi lacaniana. Ma anche, più in generale, la valenza politica della prospettiva pratico-teorica della psicanalisi.

Lo sostiene da tempo Slavoj Žižek, di cui pubblichiamo un breve saggio proprio sulla rilevanza del desiderio per la vita delle società contemporanee. Partendo da un’interpretazione della teorizzazione lacaniana, che lo porta a distinguere tra desiderio di verità e pulsione di un sapere “acefalo” volto alla soddisfazione e al godimento afono, il filosofo sloveno fa incontrare lo stesso Lacan con Heidegger, per denunciare il carattere mortifero della pulsione che si trova alla base della scienza moderna, secondo lui incapace di entrare in relazione con il portato simbolico della vita sociale perché mossa dalla jouissance che contraddistingue il reale e costituisce la fantasia fondamentale del soggetto. Anche per questo, egli può affermare, che la scienza è il primo discorso che è rigorosamente “non storico” , e che, sulla base della sua pulsione acefala, ignora la dimensione della verità.

Ma se Žižek ci consegna, ancora una volta e in positivo, un Lacan ormai ben lontano da Freud, Roberto Finelli ci spiega, implicitamente, come alla base di questa, come di altre operazioni filosofiche analoghe, ci sia una distanza profonda e originaria, tra il padre della psicanalisi e lo psicanalista francese. Seguendo una riflessione dalla forte valenza politico-teorica, Finelli traccia la linea di demarcazione tra i due psicanalisti ponendo l’attenzione sulla seconda topica freudiana (Es, Io, Superio): in questo momento Freud rende conto dell’incarnazione corporea dell’Es, l’insieme dei movimenti organici profondi del corpo che nello psichico si manifestano attraverso il gioco dei sentimenti di piacere e dispiacere. Tale scoperta, questa è l’interpretazione di Finelli, segna una distanza ontologica tra Freud e Lacan, legato, quest’ultimo, al problema dell’identità, del riconoscimento e del desiderio, che lo porta a focalizzarsi sullo stadio dello specchio, a ipervalorizzare la funzione scopica e a sottovalutare le altre funzioni corporee. Lacan sarebbe stato influenzato dalla lettura kojéviana di Hegel sul riconoscimento e sul desiderio, e avrebbe finito con l’assumere, reinterpretandola, la differenza ontologica di Heidegger in ambito psicanalitico. In questo modo avrebbe assunto la tesi di un primato antropologico del linguaggio umano nella formulazione teorica della psiche umana. Allontanandosi, così, dal profondo legame tra senso e corporeità, mente e corpo, di cui, al contrario, ci parla Freud.

Claudio Bazzocchi, invece, sposa alcune tesi neolacaniane (Lebrun e Melman) che muovono una critica alla società contemporanea soprattutto sulla base di una trasformazione intima del soggetto: il soggetto è diventato intero e compatto. L’indivisione è resa possibile dalla tecnica e dall’economia contemporanea, in grado di produrre oggetti atti a procurarci soddisfazione oggettuali e narcisistiche. La produzione massiccia di oggetti e gadget sempre più raffinati garantisce connessione virtuale, godimento intenso e continuo e fa sentire di poter accedere direttamente alle cose e agli altri senza bisogno di mediazione. Al soggetto dell’iperconsumismo dionisiaco che sarebbe in grado di aver fatto coincidere il soggetto con se stesso, di aver eretto il godimento a unica legge morale, e di avere l’illusione di un mondo totalmente manipolabile, Bazzocchi fa corrispondere una mutazione antropologica da cui risulta anche la crisi della democrazia e un’idea di libertà che non si nutre più di mediazione simbolica:  la crisi della democrazia che si configura a seguito di una filosofia morale che ci vuole funzionari del benessere in rapporto diretto con il godimento è anche crisi della politica come crisi della mediazione. La perdita di mediazione e conflitto è, ipso facto, la radice dell’antipolica e una scomparsa della politica, dove si afferma una società che sente di poter fare a meno, come ricorda anche Gauchet, del principio di autorità.

La costruzione della realtà grazie agli strumenti dell’antropologia psicanalitica, e la rilevanza politica, non solo teorica ma anche pratica, che questa disciplina medica ha, viene trattata nel lungo saggio di Emanuele Profumi sul filosofo psicanalista Cornelius Castoriadis. La ricostruzione critica di Profumi ci consente di cogliere come questo pensatore post-freudiano abbia valorizzato la pratica psicanalitica per rendere conto dell’autonomia individuale, e come venga messo al centro di questa prospettiva il lavoro di Freud, così da tracciare una nuova strada metapsicologica per rinnovare la psicanalisi pur conservandone i principi e i suoi insegnamenti maggiori. Utilizzando numerosi inediti, Profumi sottolinea l’intreccio fortissimo tra pensiero politico e prospettiva psicanalitica all’interno dell’intera opera di Castoriadis, ne individua i punti di forza ma anche le difficoltà, tanto sul piano politico, quanto su quello psicanalitico. Erich Fromm, Hannah Arendt e Piera Aulagnier, servono per individuare i limiti della proposta castoriadisiana: le tesi sulla monade psichica e sulla centralità del movimento istituente su quanto è già istituito costituiscono, allo stesso tempo, l’originalità e la fragilità di una riflessione che salda psicanalisi e politica sul piano pedagogico. O meglio, su quello di una paideia rivoluzionaria.

L’opera dello psicanalista greco-francese è anche l’oggetto privilegiato del contributo di Fabio Ciaramelli, che torna sul tema del desiderio, per indicare in che modo, questo importante filosofo, abbia sviluppato una profonda riflessione antropologica sull’origine del desiderio come affermazione di una fantasia alienante, quella dell’essere pieno. In altre parole, a partire dai suoi scritti giovanili, anche Ciaramelli si concentra sulla principale tesi psicanalitica di Castoriadis: l’esistenza di una monade psichica originaria. E sottolinea la centralità dell’elaborazione del lutto all’interno della sua prospettiva pratico-teorica. L’irrealizzabilità della pretesa dell’immaginazione radicale  – dominata dalla figura fantasmatica d’un desiderio a priori realizzato  – conferma che la caratteristica fondamentale di quest’ultimo è la sua dismisura (la hybris della tragedia attica) – così come l’esprime in forma esplicita non solo la tragedia classica, su cui Castoriadis si dilungherà in molti passi dell’opera matura, ma anche la tragedia moderna. Ciaramelli è convito che, grazie a tale centralità, ci venga consegnata una filosofia in grado di evitare l’esclusione reciproca tra desiderio e nomos.

Nel saggio di Godani, invece, la questione del desiderio è problematizzata a partire dalla relazione con il bisogno. Una ricostruzione critica della storia del concetto ci permette di cogliere come l’idea del desiderio veicolata da Lacan si fondi su una pura negatività, un buco di non essere in mezzo all’essere, di matrice Hegelo-heiddegero-sartiana, alla base della quale esso è stato fatto giocare contro il bisogno e la necessità. Il desiderio, insomma, è stato rivendicato da una visione idealistica e dialettica come un lusso da contrapporre al bisogno, per affermarne la natura simbolica e squisitamente psichica che lo riduce a un supplemento immaginario di fronte alla mancanza costitutiva del reale. Sulla base di questa premessa Godani affronta il nesso tra desiderio e godimento, di cui si occupano anche Bazzocchi e Žižek, per muovere una critica alle posizioni filosofiche che li vorrebbero disgiungere: tanto nell’opposizione di desiderio e bisogno, quanto in quella di desiderio e godimento, ciò che viene cancellato è la presenza (comunque incancellabile) del desiderio.

 

I contributi che abbiamo trattato in questo breve excursus rivelano una tendenza importante nel dibattito contemporaneo circa la rilevanza politica del desiderio. La riflessione post-lacaniana, così come quella neomarxista ed hegeliana, tracciano, in modi diversi, dei confini precisi in cui ricollocare la natura e la portata politica del desiderio. In quest’ottica, riconsiderare l’importanza del bisogno, tanto sul piano psichico quanto su quello sociale, sembra essere una delle strade maestre per una futura, e più equilibrata, indagine filosofica e politica.

 

 

 

 

 

 

 

 

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