Natura e verità. Sul nesso aristotelico tra etica e politica

De Chirico

Pietro Giuffrida

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Il potere padronale, sebbene gli interessi di chi è padrone per natura e di chi è schiavo per natura coincidano, si esercita per il vantaggio del padrone e solo accidentalmente soddisfa anche gli interessi dello schiavo, in quanto la sopravvivenza dello schiavo è essenziale per la sussistenza dell’autorità padronale (non è infatti possibile che venendo meno lo schiavo sussista il padrone).

Aristotele, Politica III.6, 1278b32-71

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1. Il nesso fra etica e politica

Quello di una connessione diretta tra verità e politica, in cui i due termini restino correlativamente definiti, costituisce, nell’ambito del pensiero aristotelico, un tema rischioso, caratterizzato da una coloritura ideologica, per via della tendenziale sovrapposizione tra ciò cui si riconosce verità, e ciò che si verifica per natura. Prima però di esaminare la relazione che è possibile ricostruire tra verità, natura e politica nel pensiero aristotelico, occorre fare una premessa, relativa al legame vigente tra le etiche aristoteliche, ed in particolare l’Ethica Nicomachea, e la Politica. Tema tutt’altro che immediatamente risolvibile, per la complessità dei riferimenti testuali che esso porta con sé, ma sopratutto per l’ampio dibattito che ha alimentato, e che ha raggiunto il suo apice recente durante la seconda metà del secolo scorso, all’interno della discussione sulla filosofia pratica di orientamento neoaristotelico.2 Non potendo qui eseguire una rassegna particolareggiata delle singole posizioni che hanno composto questo dibattito, è comunque possibile evidenziare un fondamentale elemento di discordia, relativo all’effettiva continuità del progetto teorico che si sviluppa tra l’Ethica Nicomachea e la Politica. La relazione tra questi due trattati è infatti determinante per stabilire se sia possibile o meno attribuire ad Aristotele la paternità di una filosofia pratica – come tale distinta non solo dalla filosofia della natura ma anche dalla teoria politica –, nella forma di un’etica indirizzata all’individuo umano come tale, a prescindere dalla particolare polis e dal particolare ordinamento costituzionale cui egli appartiene.

La posizione di chi ha sostenuto, in modo più o meno sfumato, la separazione tematica e metodologica dei due ambiti di ricerca, a favore di un’etica indipendente dalla politica, oltre ad avere delle precise ragioni storiografiche, sembra riflettere un generale imbarazzo degli interpreti nei confronti di una filosofia politica per molti versi incompatibile con le istanze moderne e contemporanee, in particolare relativamente ai temi della libertà individuale e dell’eguaglianza, su cui Aristotele sembra rimasto vincolato, secondo una celebre interpretazione hegeliana, allo spirito di un tempo ancora capace di riconoscere solo “la libertà dei pochi’.3 Separando l’etica aristotelica dalla teoria politica, si è infatti ottenuta un’etica per l’individuo, incentrata sui temi delle passioni e della felicità, della phronesis e della proairesis, oltre che sul momento pedagogico, individuando coerentemente il destinatario della pragmateia peri ta ethe nei singoli cittadini ateniesi, ma lasciando intravedere la possibilità di estenderla a tutti i componenti delle comunità politiche moderne.4

Rispetto a questa tendenza a marginalizzare il discorso politico a favore di un’individualizzazione dell’etica, a partire dagli anni ’70 si è assistito alla reazione di un fronte, altrettanto vario del precedente, che potrebbe essere idealmente raccolto sotto l’etichetta dell’aristotelismo ortodosso. In questo periodo sono stati infatti pubblicati numerosi studi finalizzati a sottolineare l’imprescindibile connessione tra l’Ethica Nicomachea e la Politica, intese come parti integranti di un unico discorso che non avrebbe relazione diretta con la moderna filosofia pratica e con un’etica immediatamente riferita ai singoli individui, cui sarebbe semmai connesso dalle strade tortuose di una lunga storiografia.5 Etica e Politica costituiscono in questo senso le tappe di una complessa lezione di politica, il cui destinatario può essere indicato nel governante e, ancora più precisamente, nel legislatore.6

Le diverse posizioni che hanno contribuito a definire questo spartiacque interpretativo sono varie e caratterizzate da numerose sfumature, spesso motivate da istanze storiche, oltre che immediatamente esegetiche, a ricorrere all’autorità dello Stagirita. In questo senso Franco Volpi ha evidenziato le ragioni che hanno portato all’elezione di Aristotele quale padre della filosofia pratica, sottolineando la necessità di reagire al particolare assetto che le discipline sociali hanno ricevuto sotto l’influenza di una determinata concezione scientifica, che ne faceva discipline destinate alla mera descrizione della realtà, determinando un decisivo impoverimento della loro possibilità di incidere sulla realtà descritta e mettendole nella sostanziale impossibilità di influenzare le strutture sociali oggetto di descrizione. Una rilettura dell’Ethica Nicomachea permetteva, in questo contesto, di argomentare a favore di una disciplina etica che, senza cadere in un immediato normativismo, restasse indipendente sia dalle scienze matematizzate che dalla filosofia teoretica, restituendo al sapere sull’agire umano la capacità di orentare, la possibilità di rimettere a fuoco il tema della formazione morale e intellettuale dei singoli individui.7

Sul fronte opposto, la ricucitura dello strappo insinuato tra etica e politica ha contribuito a rendere più inattuale e meno immediatamente utilizzabile il pensiero dello Stagirita, costringendo di fatto a evidenziare il carattere descrittivo del pensiero di Aristotele.8 Un descrittivismo di segno diverso rispetto a quello di tipo positivista cui ha reagito il neoaristotelismo, che niente ha a che fare con uno sguardo disinteressato o privo di pregiudizi, che aggira il rischio relativista, la tendenza a legittimare qualunque oggetto suscettibile di essere descritto, grazie ad una precisa selezione del punto di vista autorizzato a compiere la descrizione di ciò che è reale, assicurando così il risultato della descrizione attraverso la sua naturalizzazione, sottraendolo quindi, almeno in linea di principio, ad ogni possibile ritrattazione.9

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1.1 Quale descrittivismo?

Questa premessa ci porta in prossimità del problema che vorrei affrontare nel presente articolo. Sposando infatti l’interpretazione di chi riconosce nelle etiche e nella Politica un unico progetto teorico, in cui gioca un ruolo determinante un’istanza descrittiva sottratta al rischio del relativismo grazie alla selezione di un punto di vista socialmente qualificato ed alla naturalizzazione di una particolare concezione antropologica, si pone immediatamente la questione dell’effettiva utilità del pensiero aristotelico. Il passaggio indebito che conduce dal piano descrittivo al pianto normativo e prescrittivo, e che si determina con la naturalizzazione del punto di vista responsabile della descrizione del mondo e di ciò che ha diritto di cittadinanza all’interno della polis, sembra infatti costituire un’eredità scomoda, dagli esiti potenzialmente ideologici.10 La legittimazione della posizione subalterna di un’ampia fetta di popolazione, che potrebbe esser presa per una circostanza accidentale, legata cioè alla particolare collocazione storico del Filosofo, potrebbe rivelarsi al contrario il risultato coerente dell’applicazione del metodo descrittivo appena delineato, che in sede politica tende a istituzionalizzare e naturalizzare il risultato di una sapiente costruzione della posizione dominante.

Bisogna quindi verificare se all’interno del pensiero aristotelico sia possibile salvare i fenomeni, assumere la descrizione del mondo così come appare ad un determinato tipo umano, senza per ciò stesso cadere nei due rischi contrapposti di un relativismo acritico, come tale incapace di selezionare ciò che può essere incluso in una descrizione complessiva, e di una naturalizzazione del punto di vista incaricato della descrizione, che espone al rischio di una predeterminazione di ciò che ha intrinseca validità e ragion d’essere, e quindi all’espulsione di ciò che non rientra all’interno del criterio selettivo adottato. Il percorso che vorrei proporre non mira quindi alla scelta immediata tra le due opzioni dell’adesione o del rifiuto della relazione che Aristotele instaura tra kata physin e kath’aletheian, né al differimento della questione alla dimensione retorica della produzione del consenso. Entrambe le strade rischiano infatti di rinunciare ad un confronto critico con il pensiero aristotelico, in vista di una sua nuova appropriazione, mentre un esame più approfondito permetterebbe di riflettere sulle maglie strette del problema di una descrizione inclusiva della società. Da questo punto di vista si tratterà di rileggere la naturalizzazione ideologica della realtà descritta da Aristotele, anche nei suoi aspetti oggi palesemente irricevibili, non come l’esito incoerente di un metodo che può essere per il resto serenamente adottato, ma come la coerente conclusione del metodo, cui si può allora guardare per testare i rischi celati dietro istanze descrittive che non siano state criticamente esaminate.11 La questione sarà allora quella di verificare, sulla base del modello aristotelico, la possibilità di condurre una descrizione qualificata della realtà che, pur avendo l’aspirazione di tradursi in forma istituzionale, rinunci alla sua naturalizzazione, evitando di proporre una mera perpetuazione dello stato di cose già dato.

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2 L’universo chiuso di Aristotele

Per condurre una ricerca sulla base dei presupposti fin qui precisati, si dovrà procedere calando il tema della verità nell’universo – naturale, culturale e politico – di Aristotele, a partire da una iniziale considerazione della dimensione circolare che egli ha attribuito al tempo e, di conseguenza, ai processi che nel tempo hanno luogo. La dimensione circolare, teleologicamente predeterminata, dei processi naturali segna una decisiva incompatibilità tra l’Universo chiuso di Aristotele e l’orizzonte indefinitamente aperto, eventualmente concepito come progresso lineare indefinito, in cui la contemporaneità sembrerebbe collocarsi. Come conseguenza di questa impostazione circolare, e quindi di una concezione teleologica in cui il fine ultimo dei processi non è soggetto a variazione, il tema della verità sembra destinato alla registrazione di uno stato di cose naturale, sempre già dato, non destinato ad un’evoluzione valoriale o culturale. La politica, se vincolata ad una tale dimensione, resterebbe determinata quale arte e tecnica dello status quo, ricerca di una posizione statica di equilibrio, pronta a giustificare le proprie condizioni materiali di possibilità in quanto funzionali ad un sistema in se stesso vero e naturale, razionale in quanto reale.

La rappresentazione dell’universo desumibile dalla fisica aristotelica – vale a dire da quel gruppo di opere che comprende almeno la Physica, il De Caelo ed i Meteorologica – rispecchia e porta alle sue estreme conseguenze quella che è la concezione greca di un universo avente carattere di finitezza ed intrinseca perfezione. Il kosmos è infatti ordinato, racchiuso da un limite esterno che gli conferisce una forma sferica, e dotato di un punto centrale, che coincide con il centro della Terra, attorno a cui ruotano i corpi celesti, eterni e divini. Nella sua perfezione l’Universo è eterno, privo, nel tempo, di un punto di inizio assoluto, così come di un limite finale, di un eschaton.12

Questa condizione globale dell’universo presenta però delle differenze circa il modo in cui l’eternità viene realizzata, a seconda che si guardi alla porzione di universo che si trova sotto la luna, o a quella che si trova compresa tra l’orbita della luna ed il cielo delle stelle fisse. In quest’ultimo caso i corpi celesti sono infatti impegnati in un movimento circolare eterno, che essi realizzano in modo naturale e non forzoso. Al contrario, nel caso del cosiddetto mondo sublunare, gli esseri viventi compiono una molteplicità di cambiamenti, necessari alla generazione di nuovi individui della medesima specie, all’accrescimento e al deperimento quantitativo, all’alterazione qualitativa ed allo spostamento nello spazio circostante.13 Non avendo qui la possibilità di descrivere oltre il sistema che tale complesso di cambiamenti sembra concertare, è tuttavia necessario ricordare che le varie forme di metabole permettono ai viventi di perpetrare la propria specie, ovvero la propria forma, trasmettendola di generazione in generazione a degli individui diversi, che al culmine della propria crescita costituiscono a loro volta dei perfetti rappresentanti della specie. Generazione, alterazione, traslazione e aumento quantitativo mettono in questo senso capo ad un processo che, visto nella sua globalità, corrisponde alla vita eterna dei viventi immortali, condividendo la medesima circolarità, pur dipanandola su una molteplicità di individui diversi e di movimenti parziali. La successione generazionale diviene in questo senso il modo dell’eternità propria della forma aristotelica.14

Spinti da alcuni passi del corpus aristotelico si potrebbe essere tentati di pensare che su questo schema perfettamente circolare si innesti, per quel che riguarda la storia umana, un tempo lineare, e con esso la possibilità di un progresso. Mi riferisco in particolare a passi come Politica I.2, dove Aristotele sembra tracciare le tappe che hanno condotto gradualmente da una sorta di preistoria alle tribù, ai villaggi, e quindi alla costituzione della polis, o ai numerosi passi, ben esemplificati da Metaphysica I, dove il Filosofo si colloca al culmine di una successione di pensatori che hanno compreso in modo unilaterale il compito della filosofia, le cui singole istanze devono essere ora raccolte e portate a compimento. Tuttavia sembra che anche queste descrizioni debbano essere ricomprese in una dimensione circolare, e non possano essere prese come indizi di una concezione storica lineare. Una prima ragione può in questo senso essere ricercata nella teoria delle catastrofi che, ciclicamente, dovrebbero pressoché azzerare il progresso umano. Tesi ricorrente nel pensiero greco, attestata sia in Platone sia in Aristotele, l’idea delle catastrofi riconduce a forma circolare il tentativo dell’umanità di divenire ciò che è, di realizzarsi in un modo di vita pienamente corrispondente alla propria forma, quasi trasformando l’intera collettività transgenerazionale in un unico individuo che, raggiunta la maturità, divenuto pieno esponente della propria specie, dà inizio alla generazione successiva prima di affrontare il deperimento insito nella propria natura.

Rileggendo i passi in cui Aristotele sembrava menzionare un progresso lineare, si è così indotti a far rientrare i prodotti culturali nella forma circolare tipica dei fenomeni naturali, ivi comprese le formazioni politiche cui gli uomini danno vita. Le singole tappe di questi processi sono intese da Aristotele come realizzazioni ancora parziali e immature di una forma definita che, nel presente storico dello Stagirita, possono essere raccolte, sintetizzate e condotte al proprio compimento. È questo il caso dell’indagine dei pensatori ionici che, cercando l’arché, hanno individuato esclusivamente la causa materiale, ma anche del nucleo di ogni comunità, individuato nella relazione uomo-donna, al cui interno sono ravvisabili in nuce le varie forme dell’autorità politica poi dipanate nelle poleis.15

Questa concezione dell’Universo non è estrinseca all’antropologia che può essere ricostruita sulla base delle opere biologiche, dell’Ethica Nicomachea e della Politica. La possibilità dell’uomo aristotelico di realizzare l’eudaimonia è infatti incardinata in una concezione complessiva degli esseri viventi, ricompresi all’interno di un palinsesto che va dalle divinità, viventi immortali, alle piante e, in un senso ancora diverso, agli elementi inanimati. In questo quadro, l’uomo non è solo l’unico tra i viventi mortali ad aspirare alla felicità oltre che al piacere, ma anche il solo a volgersi al modo di vita degli dei come ad un esempio da imitare.16

La complessiva dimensione di finitezza in cui si muove l’uomo comprende non solo lo spazio ed il tempo a sua disposizione, ma anche il complesso dei fini e delle possibilità cui egli aspira. L’uomo esiste come quell’essere che non può conseguire un effetto immediato – se non al termine di un processo diacronico le cui singole tappe devono essere singolarmente attraversate – né infinito, perché a differenza degli esseri immortali, i suoi teloi sono al contempo perata, limiti che orientano e delimitano il suo agire, quale che sia l’azione intrapresa.17 Questa limitazione non sembra accidentale ed estrinseca alla natura umana: data la dimensione prevalentemente diacronica e spazializzata dell’azione degli uomini, l’identificazione dei limiti è infatti la condizione di possibilità di un movimento consapevole ed orientato, efficace e piacevole.

È d’altra parte al fondo di questa dimensione finita che l’uomo può trovare l’eternità che gli compete, nelle due forme della riproduzione biologica e dell’adesione all’ideale intellettuale del dio aristotelico. Se infatti la riproduzione del padre nei figli permette di eternare la forma della specie, e quindi di «partecipare nella misura del possibile dell’eterno e del divino»,18 una seconda dimensione rinvia alla possibilità che resti traccia delle azioni di un singolo individuo che si sia distinto come eccellente.

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Non bisogna limitarsi a pensare cose umane per il fatto di essere uomoni, né cose mortali per il fatto di essere mortali, ma rendersi immortali fin tanto che è possibile e fare tutto per vivere secondo ciò che di meglio abbiamo in noi.19

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2.1 Tra spinta ideale e registrazione del reale

La dimensione circolare costituisce una ragione di incompatibilità con la concezione storica e politica della contemporaneità non solo per via della teoria delle catastrofi con cui essa è connessa, né esclusivamente per la difficoltà che essa comporta nella tematizzazione di un progresso della cultura umana, ma sopratutto perché sembra condurre ad una sostanziale staticità i processi con cui l’uomo mette capo agli oggetti sociali e culturali. In altri termini, se si sceglie di stare alla lettera della concezione fisica di Aristotele portandola alle sue estreme conseguenze nel campo dell’attività umana, le differenze che individuano i singoli oggetti culturali devono essere tutelate e riconosciute vere per il fatto stesso che esistono. La descrizione di tutti gli esseri viventi, che ha come propria condizione teorica di possibilità l’estensione del modello antropologico a canone di comparazione di tutte le forme di vita, ha come analogo storico e culturale la ricognizione di tutte le forme costituzionali esistenti, che non sono destinate per Aristotele ad essere dissolte per l’avvento di uno stato ideale ma costituiscono delle differenze naturali. Ciò non significa che Aristotele non abbia avuto un intento riformatore nei confronti della società, come anche della filosofia, del suo tempo. Come osservato da Berti, la ricognizione delle doxai richiede anche una loro selezione, destinata a legittimare esclusivamente quelle che sono coerenti con gli endoxa, vale a dire con le opinioni condivise circa la natura della comunità politica.20 L’esclusione di un carattere meramente conservativo della filosofia politica deve però evidentemente andare di pari passo con l’osservazione del fatto che gli endoxa, già selezionati quali criterio di discriminazione delle apparenze che devono essere giustificate all’interno della descrizione complessiva della società, pur essendo il frutto di una selezione culturale, vengono poi assunti come differenze e parti costitutive di un’istituzione sociale avente carattere naturale.21

Per affrontare nel modo più corretto il tema di un possibile punto di equilibrio tra l’istanza descrittiva ed un eventuale intento riformatore, occorre ricordare il problema della tensione interna alla Politica stessa, in cui sono stati individuati contemporaneamente il carattere platonico della ricerca della costituzione migliore, e quello aristotelico della collezione delle differenze.22 Gran parte della Politica aristotelica, almeno nella forma in cui oggi leggiamo questo trattato, è infatti dedicata all’esame delle costituzioni effettivamente esistenti. Contemporaneamente però sembra possibile riconoscere, in particolare negli ultimi due libri del trattato, un impianto teorico differente, in continuità con l’approccio platonico della Repubblica, orientato alla definizione della costituzione migliore, non immediatamente corrispondente alle forme costituzionali già identificate, e che il vero politico avrebbe il compito di istituire.

Viene così a costituirsi una polarità tra due atteggiamenti, il primo votato a mantenere stabile la forma costituzionale, suggerendo gli accorgimenti necessari ad evitare la corruzione della costituzione ed il ribaltamento in quella sorta di doppio negativo che sono tirannide, democrazia e oligarchia rispetto al regno, al regime costituzionale (la politieia) ed all’aristocrazia, il secondo orientato a riconoscere la forma migliore, quasi ideale, in direzione della quale dovrebbero gradualmente conformarsi le istituzioni esistenti.23 La presenza di queste diverse tendenze interne alla Politica è stata interpretata in modi diametralmente opposti. È stato sostenuto che l’ultima parte della Politica sia palesemente aderente al platonismo, e quindi rappresenterebbe il nucleo più antico, cui poi sarebbero stati sovrapposti degli strati successivi, forse dei trattati originariamente indipendenti, che per il loro orientamento classificatorio potrebbero appartenere all’ultimo Aristotele.24 Ma si è anche reagito alle interpretazioni che, come quella presentata, condividono, pur con diversi esiti, le istanze del paradigma genetico ed evolutivo, evidenziando ragioni di ordine storico e biografico che potrebbero spiegare, più che un cambiamento di opinione da parte di Aristotele, la necessità di aderire e giustificare le diverse situazioni politiche che compongono il quadro storico di un turbolento IV secolo.25 La questione dei diversi strati della Politica ha però anche suscitato delle spiegazioni che, per evitare un abuso della dimensione storiografica, hanno tentato di ricostruire il contesto ed i destinatari delle lezioni che Aristotele ha verosimilmente tenuto in merito alla techne politike, con il risultato di evidenziare non una sola ma almeno quattro possibili finalità del trattato oggi a nostra disposizione. Pierre Pellegrin ha infatti isolato quattro possibili atteggiamenti del politico aristotelico nei confronti della realtà con cui ha a che fare, a seconda che l’istituzione politica debba essere 1) fondata e progettata ex novo, 2) curata, salvandola da una degenerazione, senza però avere la possibilità di modificare l’ordinamento costituzionale e la distribuzione del potere che di base la caratterizza, 3) riformata, modificando in modo sostanziale la costituzione della città 4) o, ancora, concepita nuovamente ma sulla base di una constatazione dei gruppi sociali effettivamente presenti e fra cui è necessario distribuire il potere.26

Alla luce di quest’ultima interpretazione – che assume come destinatario della Politica il nomoteta, l’uomo di stato responsabile della redazione della costituzione – il problema della naturalizzazione della descrizione di cui è fatta oggetto la polis può sembrare mitigato. Le singole realtà politiche non possono essere riformate radicalmente se non in casi eccezionali, che permettono il ricorso ad un modello costituzionale che Aristotele identifica come il migliore in termini assoluti. Tuttavia nella maggior parte dei casi questo modello ha funzione esclusivamente regolativa, nel senso che esso non può essere realmente instaurato a prescindere dalle condizioni storiche preesistenti, sebbene sia necessario tenerlo in considerazione per curare le costituzioni degenerate nel loro doppio negativo. Caso per caso, l’azione del politico è limitata e istruita dalla determinatezza storica in cui deve agire, e dal carattere della cittadinanza di cui deve regolare la vita. Rinunciando al tema della città ideale per quello della migliore costituzione possibile, sia essa intesa in termini assoluti o in relazione alle condizioni date, le singole realtà acquisiscono un’intrinseca ragion d’essere, una propria intelligibilità, facendo emergere il compito limitato e parziale di condurre alla conformità con la propria natura ed alla coerenza con i propri principi costitutivi. Da questo punto di vista il passaggio dalla constatazione di ciò che esiste alla naturalizzazione di ciò che viene ammesso come vero sembra vivere in uno spirito inclusivo, destinato ad abbandonare un universale astratto. Tutto questo d’altra parte non comporta un superamento del problema iniziale, dato che le condizioni materiali di possibilità dell’organizzazione politica vengono ricercate, individuate ed accettate così come esse si presentano.

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3. La lancia spuntata del descrittivismo aristotelico

La situazione al limite dell’aporia in cui ci troviamo con Aristotele è in qualche modo tipica di ogni descrittivismo non relativista, ovvero di ogni istanza che cerchi una descrizione qualificata ed in qualche modo selettiva e normativa? L’esigenza di orientare la descrizione a partire da un punto di vista determinante, comporta l’elezione di un ‘esperto’ del settore, al cui orientamento culturale e sociale farà seguito un criterio di selezione dei fenomeni veri e naturali. Così stando le cose, l’impostazione aristotelica ci permette forse di scongiurare un ricorso acritico al descrittivismo, ovvero di renderci consapevoli della provenienza sociale e culturale, etnica e geografica, del punto di vista che rende possibile la descrizione. Ciò non dovrebbe determinare una semplice rinuncia all’istanza descrittivista, che andrebbe però volta per volta progettata in modo da evitare non solo ricadute relativiste, ma anche di arroccare la propria posizione attraverso una sua naturalizzazione. Da questo punto di vista descrivere, restituire verità ai fenomeni osservati, vuol dire inserirli in una descrizione complessiva del mondo, che renda giustizia del fatto che essi esistono ed istruiscono la prassi concreta nostra e dei nostri concittadini. Un atteggiamento inclusivo, connesso all’esigenza di mantenere aperto l’orizzonte del possibile, in vista non di una superfetazione caotica di strati e accessori culturali, ma di una loro continua e vitale interconnessione organica, che ormai può essere ottenuta solo all’intesezione di più punti di vista. L’istanza descrittivista potrebbe cioè mantenere viva la tensione verso un’unità che si presuppone – anche quando essa non è in vista – dietro alle manifestazioni molteplici e sconcertanti. Anche in questa versione la filosofia rischia di poter esclusivamente registrare il reale, rinunciando a qualsiasi istanza critica, ovvero senza poter più selezionare ciò che è vero. Perso il punto di vista del sophron, ed avendo rinunziato ad un punto di vista incondizionato di tipo platonico, l’unico criterio può infatti essere circostanziale, relativo alla possibilità che i singoli fenomeni mostrino di poter essere accordati all’idea di un’unità complessa ed articolata, ovvero alla loro compatibilità con uno status quo che non può essere radicalmente lacerato da alcuna novità radicale, ma neppure dal male egemonico di chi cerca in modo più o meno globale di controllare la totalità riducendola ad una cattiva unità.

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Riferimenti bibliografici

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1Trad. it. (lievemente modificata) Viano 2008, p. 255. Cf.: ἡ μὲν γὰρ δεσποτεία, καίπερ ὄντος κατ’ ἀλήθειαν τῷ τε φύσει δούλῳ καὶ τῷ φύσει δεσπότῃ ταὐτοῦ συμφέροντος, ὅμως ἄρχει πρὸς τὸ τοῦ δεσπότου συμφέρον οὐδὲν ἧττον, πρὸς δὲ τὸ τοῦ δούλου κατὰ συμβεβηκός (οὐ γὰρ ἐνδέχεται φθειρομένου τοῦ δούλου σῴζεσθαι τὴν δεσποτείαν).

 

2Per una prima ricognizione delle diverse posizioni che hanno composto il dibattito intorno al neoaristotelismo, cfr. Vegetti 1989, Volpi 1993, Berti 1992, 2008a, ed i contributi in Aubenque, Alland, Stark et al. 1964.

 

3 Cfr. Hegel 1941.

 

4 Cfr. Bien 1985

 

5Per una ricostruzione delle ragioni storiche che hanno favorito la nascita del neoaristotelismo, cfr. Volpi 1993.

 

6Per una prima ricognizione della posizione descritta si vedano Cashdollar 1973, Bodéüs 1993 (originariamente pubblicato nel 1982) e Pellegrin 1993b. Rispetto alle due posizioni contrapposte fin qui delineate occorre segnalare una terza via prospettata da in Enrico Berti in diversi studi, molti dei quali ora raccolti in Berti 2008a (si vedano in particolare i contributi segnalati nella bibliografia del presente articolo). Lo studioso ha infatti osservato la possibilità di accostare Aristotele alle istanze della moderna filosofia pratica a patto di distinguere accuratamente due accezioni della nozione di ‘ragion pratica’, la prima individuata in una forma di ragione (la dianoia praktike) e di scienza (la politike episteme) avente come fine la comprensione teoretica dell’oggetto etico/politico, la seconda rinvenuta invece nella phronesis, che ha invece come proprio coronamento e conclusione non una conoscenza ma un’azione (praxis) e che, a differenza della prima, non può decidere del fine ma solo dei mezzi dell’azione. La scarsa attenzione prestata a questa distinzione è secondo Berti alla base di una frettolosa giustapposizione della ragion pratica sulla phronesis, il cui esito ultimo è un’interpretazione che fa di Aristotele un conservatore incapace di promuovere un cambiamento sociale e politico.

 

7Cfr. Volpi 1993. Nella medesima direzione si veda anche Vegetti 1989.

 

8Un simile esito è per esempio riscontrabile in Nussbaum 2011.

 

9Cfr. Vegetti 1989, 180-1: «[…] per Aristotele non si tratta di programmare alcuna trasformazione, perché già la città, le leggi, la famiglia sono perfettamente adeguate a svolgere, in modo spontaneo e quasi naturale, il lavoro di condizionamento formativo e conformante sui futuri soggetti morali».

 

10È il problema della così detta Legge di Hume, spesso chiamata in causa contro la tendenza a passare dal piano descrittivo al piano normativo. Cfr. su questo tema Berti 2008b.

 

11Da questo punto di vista mi trovo in disaccordo con quanto sostenuto in Berti 2008d circa la possibilità di separare una parte ideologica della politica aristotelica, vale a dire quella in cui il Filosofo si presta ad una giustificazione della particolarità storica in cui è radicato anche al costo di entrare in contraddizione con assunti fondamentali del suo pensiero, da quanto resterebbe invece pienamente recuperabile. Vorrei in altri termini insinuare il sospetto che le due parti selezionate da Berti siano in realtà in piena continuità, e che il metodo aristotelico abbia un’intrinseca tendenza a naturalizzare il punto di vista da cui si esercita la descrizione. Ciò conferisce alla descrizione stessa non tanto un carattere conservatorio, ma il rischio di lasciare nascosto il passaggio dal verosimile al naturale.

 

12Sulla dimensione circolare del movimento eterno dell’Universo, cfr. Physica VIII. Il tema della circolarità del tempo è esplicito in De Caelo I.3; Meteorologica I.1; ma anche Politica II.9, 1269a5 e VII.10, 1329b25 ss.

 

13Lo schema delle quattro specie di metabole è presente in molte opere aristoteliche, ma esso è fatto oggetto di esplicita trattazione in particolare in Physica V.1-3. Questo schema ha riscontro nell’analisi di tutti i movimenti degli esseri dotati di un principio interno, ovvero dei viventi naturali, e può essere quindi rintracciato anche alla base del De anima ed in gran parte delle opere biologiche. In questo senso mi permetto di rinviare a Giuffrida 2012.

 

14Cfr. in questo senso King 2001.

 

15Sulla circolarità cronologica al cui interno si inscrive la storia della polis, cfr. Vegetti 1989, 184 e ss., ma anche Berti 2008d.

 

16Cfr. Ethica Nicomachea X.7, 1177b25 ss.; X.8 1178b20 ss.

 

17Ciò vale notoriamente anche per l’attività intellettuale. Cfr. per esempio Ethica Nicomachea X.4, 1175a3 ss.

 

18Cfr. De anima II.4, 415a30 ss.: ἵνα τοῦ ἀεὶ καὶ τοῦ θείου μετέχωσιν ᾗ δύναται.

 

19Cfr. Ethica Nicomachea X.7, 1177b31-4: οὐ χρὴ δὲ κατὰ τοὺς παραινοῦντας ἀνθρώπινα φρονεῖν ἄνθρωπον ὄντα οὐδὲ θνητὰ τὸν θνητόν, ἀλλ’ ἐφ’ ὅσον ἐνδέχεται ἀθανατίζειν καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ.

 

20Cfr. Berti 2008b, 43.

 

21Cfr. in questo senso Lloyd 1993. Nei termini tipici del dibattito della seconda metà del ’900, Aristotele avrebbe in questo senso violato la così detta legge di Hume, che considera indebito il passaggio tra il piano descrittivo ed il piano normativo (cfr. Berti 2008d).

 

22Questo problema trova una fondamentale formulazione in Jaeger 1935. Lo studioso tedesco sosteneva in proposito che gli ultimi due libri dell’attuale Politica sono in realtà da considerare il nucleo più antico del trattato, redatto al tempo in cui l’influenza del platonismo su Aristotele era un dato inaggirabile. La prima parte dell’Politica sarebbe stata invece redatta in un secondo tempo, ed il trattato avrebbe infine raggiunto la forma attuale quando lo stesso Aristotele avrebbe deciso di riunire i suoi studi sulla medesima materia, anteponendo alle due parti un primo libro di carattere introduttivo. Dopo la diffusione del volume di Jaeger, sono pressoché innumerevoli i contributi che hanno tentato di confermare o di contrapporsi all’interpretazione proposta. Nelle note successive si farà riferimento alle opzioni interpretative che sono state qui adottate. Per una prima rassegna dei problemi relativi all’unità della Politica aristotelica, si veda il saggio introduttivo a Pellegrin 1993a.

 

23Su questa tensione interna al pensiero aristotelico, cfr. Vegetti 1989, 200 e ss.

 

24Cfr. Jaeger 1935, p. 348 ss.

 

25In questo senso cfr. Kahn 1990.

 

26Cfr. Pellegrin 1993b, in particolare p. 12 e ss. L’autore elabora la propria interpretazione sulla scorta di una rilettura di Politica IV.1, 1288b10-35. Sotto diversi punti di vista la posizione di Pellegrin è solidale con quella avanzata da Bodéüs 1993.

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