Recensione a “Kritik von Lebensformen” di Rahel Jaeggi

Marco Marangio

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La globalizzazione ha permesso una crescente interconnessione tra gli stati per mezzo di rapporti commerciali sempre più fitti. Movimenti di merci e di denaro, che non conoscono quasi più nessuna vera restrizione, legano i destini di nazioni diversissime tra loro in un dialogo continuo che si svolgerebbe senza frizioni, se non venisse occasionalmente interrotto, ma mai reciso, da qualche conflitto tra particolarismi culturali e politici. In questo contesto di omogeneità mercantile assume d’altra parte un forte peso la disomogeneità delle culture che si incontrano e si scontrano sempre più spesso e sempre più velocemente nei nuovi canali di comunicazione. Nell’affermare se stesse di fronte alle altre, le tradizioni sempre più a stretto contatto a volte si avvicinano e si integrano, altre volte invece per difendere la propria integrità non trovano altra strada che il rifiuto dell’altro. Nelle grandi metropoli in particolar modo questo processo è infinitamente accelerato dalla presenza di migranti di tutto il mondo, che si ritrovano a convivere in moderne Babele di lingue, culture, modi e stili di vita anche molto diversi tra loro. Forse mai come oggi prima d’ora le persone, messe di fronte al diverso, sono stimolate a rivedere i propri principi e a mettere in discussione tutte le insufficienze che questo continuo confronto lascia emergere.

È lecito sottoporre questi processi di messa in discussione e trasformazione culturale ad un’analisi razionale o la loro complessità trascende il compito della riflessione? E se propendiamo a pensare che sia lecito, in che modo è possibile criticare una forma di vita? Con che metodo e su quali basi? Con questo tipo di questioni si confronta Kritik von Lebensformen1(451 p.), l’ultima fatica di Rahel Jaeggi, professoressa di filosofia pratica alla Humboldt Universität di Berlino.

Partendo dal rifiuto di un’approccio di stampo liberale al problema di cosa sia “la vita buona”, secondo il quale non bisogna immischiarsi nelle questioni private e nei conflitti di natura etica ma che anzi di fronte al «fatto della pluralità» (Rawls)2 si debba ritirare il giudizio e conservare un punto di vista neutrale o, come formula Habermas, «astenersi» dal dare «risposte vincolanti» sulle «questioni della condotta di vita personale e collettiva»3, Jaeggi intende riallacciarsi alla tradizione della teoria critica cercando nel contempo di affrancarla dall’eredità romantica-essenzialistica di origine marxiana, elaborando ulteriormente la distinzione introdotta da Honneth4 tra critica esterna e immanente.

In genere a favore della limitazione epistemologica al campo della morale propugnata da Habermas si fa perno sulla inevitabile parzialità delle ragioni di messa in discussione delle altrui o proprie posizioni etiche. Una critica delle forme di vita di un certo gruppo sociale comunque definito sarebbe cioè destinata a sfociare nell’arbitrarietà, essendo impossibile definire una norma comportamentale universalmente condivisibile. Nell’alveo della teoria critica l’«astensione nelle questioni etiche» sembra imporsi in questo modo come la soluzione migliore.

Di contro Jaeggi afferma l’«ineludibilità delle questioni etiche» e rivendica l’atteggiamento di parte della teoria critica come un suo valore aggiunto. Rivalendosi dell’intuizione hegeliana di un interdipendenza dialettica tra istituzioni e individui, Jaeggi fa notare che se da una parte è vero che nell’era moderna gli individui godono di una sempre più grande libertà dalle istanze della famiglia e della tradizione, ciò si accompagna al fatto che d’altra parte le loro possibilità di sviluppo individuale e di autodeterminazione dipendono in misura altrettanto maggiore da rapporti sociali di scambio e di interdipendenza sempre più complessi, che si incorporano nelle istituzioni statali e sociali in cui gli individui sono sommersi. Se non si tiene conto di questa complessità introdotta dalla modernità nel rapporto con l’universale, nota Jaeggi, si manca di vedere che le particolarità culturali che gli individui sostanziano, e nelle loro pratiche, le loro forme di vita, non sono un fatto semplicemente privato, ma già sempre «politicamente istituite e dipendenti da istituzioni pubbliche». Una rinuncia della critica in tali ambiti significherebbe quindi lasciare all’oscuro le ragioni politiche e sociali della formazione delle forme di vita e, ciò che più importa, rimanere inermi e incapaci di analizzarne i momenti di trasformazione.

Affinché quest’impostazione partigiana della teoria critica non cada cionondimeno nell’arbitrarietà, Jaeggi applica al concetto di forma di vita lo stesso metodo di una ricostruzione in chiave anti-essenzialista che già fu del suo Entfremdung5, libro di prossima pubblicazione in Italia e che ha fortemente contribuito a riaprire il dibattito intorno ad un concetto centrale della filosofia del Novecento, quello dell’alienazione, ma a lungo abbandonato anche a causa delle sue numerose insidie metafisiche e che qui vien definito come «disturbo nel processo di appropriazione del sé e del mondo», reimpostandone il sistema di riferimento normativo in senso anti-essenzialista.

Così come in quello anche in questo suo ultimo lavoro Jaeggi muove una critica al razionalismo insito nella concezione di stampo hegeliano di un rapporto vincolante tra Essere e Dover-Essere e che la teoria critica, a suo modo di vedere, ha ereditato dalla filosofia della storia di Marx. Il Dover-Essere non va pensato come un percorso già scritto in potenza nell’Essere e al quale questo, attuandolo, si deve adeguare, ma piuttosto come un orizzonte progettuale di senso rispetto al quale l’Essere, ovvero la forma di vita presente, interpreta e affronta i problemi con cui le condizione storiche della sua stessa formazione lo mettono a confronto nel presente.6

Nel definire il concetto di forma di vita Jaeggi intraprende una dettagliata disamina delle possibili accezioni del termine e procedendo per successive esclusioni e delimitazioni caratterizza le forme di vita come «fasci di pratiche sociali» a «carattere normativo». Da questo concetto sono quindi escluse le semplici abitudini e modi di fare. Diversamente dalle mode poi le forme di vita non scompaiono se vengono generalizzate e, piuttosto che la loro diversità, tendono ad affermare la propria superiorità sulle altre forme di vita. Diversamente dagli stili di vita, che tendono a influenzare tutte le componenti della società, esse sono fortemente legate al luogo e alla funzione sociale di chi le mette in pratica. Non tutti possono essere operai, come non tutti possono essere capitani d’industria ma soprattutto nessuno può essere entrambi. Infine le forme di vita non sono «strettamente codificate» né «istituzionalmente vincolanti» ovvero sono sistemi aperti con capacità reattiva e adattiva.

Il carattere normativo delle forme di vita vien meglio definito sulla scorta delle ricerche di von Wright e l’esclusione che le forme di vita possano essere comprese come un insieme di convenzioni. Jaeggi cerca invece di mostrare la necessità di considerare la loro normatività in un senso allo stesso tempo funzionale ed etico. La ragione per cui le pure convenzioni non hanno valore costitutivo rispetto alle forme di vita, è che una loro violazione non implica la cessata appartenenza alla stessa. In altre parole le sono indifferenti. A costituire le forme di vita e così il suo criterio di appartenenza è invece, prosegue Jaeggi rifacendosi di nuovo ad Hegel, un’insieme di norme interne alla forma di vita stessa. Queste prescrivono sia funzionalmente “cosa” debba essere fatto, sia eticamente “come” questo qualcosa debba essere fatto. Violare queste norme non significa per la forma di vita non rispettare un criterio imposto dall’esterno, bensì non rispettare le proprie stesse esigenze etiche e funzionali e quindi in primo luogo «non corrispondere al proprio stesso concetto» e in secondo luogo mancare di «realizzare» il proprio orizzonte progettuale.

Le forme di vita appaiono in tal modo simili alle figure della volontà della filosofia pratica hegeliana, ovvero come conformazioni sociali nelle quali la risoluzione di una contraddizione tra la norma e il fatto è sempre seguita dall’apparire di una nuova contraddizione, che diviene visibile solo nella nuova configurazione. Le forme di vita non sono mai date, ma sempre risultato dei problemi che hanno già affrontato. In questo senso Jaeggi propone di trattarle come delle «istanze di soluzione di problemi». Il tipo di problemi, o contraddizioni, non sono di carattere universale e non saranno conseguentemente del tipo la cui interpretazione possa darsi in maniera oggettiva, giacché la loro apparizione così come la loro soluzione soggiunge sempre all’interno di una situazione già caratterizzata da problemi, esigenze e strategie di soluzione pregressi, propri di quella particolare forma di vita. La loro analisi non può quindi che dar luogo ad un circolo ermeneutico, che esclude ogni riferimento di controllo esterno che renda possibile giudicare in maniera neutrale del successo o insuccesso della forma di vita stessa.

A questo punto Jeaggi affronta la questione di quale tipo di critica possa far emergere le contraddizioni nelle forme di vita, affinché queste non si impongano senza essere tematizzate. Questa non sarà ovviamente di tipo esterno, ovvero la sua applicazione non consisterà nell’individuazione di una contraddizione tra le pratiche di una certa realtà sociale e una teoria normativa che trascenda questa realtà stessa. Riemergerebbero le stesse difficoltà epistemologiche che determinano l’«astensione etica». A questo punto, e qui sta forse il contributo più importante del testo, Jaeggi introduce una distinzione tra critica interna e critica immanente. La prima cerca di appianare una contraddizione tra una norma ideale interna ad una realtà concreta e quella realtà stessa, facendo pressione affinché la realtà si sforzi di adattarsi all’ideale o che semplicemente lo abbandoni. Jaeggi denuncia la natura conservatrice di un tale procedimento e ne individua la causa nel fatto che considera norma e fatto come dei momenti separati. Per adottare un metodo volto invece alla «trasformazione» delle forme di vita, Jaeggi sceglie di elaborare una critica immanente. Al pari di quella precedente questa trova all’interno della forma di vita stessa il suo punto di ancoraggio. Il suo criterio di giudizio però non solo non è «caduto dal cielo», ma non è neppure il frutto di un’arbitraria decisione o assunzione di valori condivisi. Esso fa piuttosto riferimento alle norme di per sé depositate ed inscritte nelle pratiche sociali che costituiscono la forma di vita stessa. In questo modo l’istanza normativa e l’istanza reale vengono considerate nel loro rapporto dialettico di stimolo reciproco potenzialmente senza fine. Sia nel senso che la critica non prescrive né tanto meno cerca di trovare alcun telos a cui la loro dialettica tenderebbe, sia nel senso che il suo compito non consiste nel fare opera di riconciliazione tra le due ma al contrario nel tematizzare le crisi in cui incappano, o detto in altro modo, a dar continuo fermento al sorgere delle contraddizioni. Il compito di questa critica, continua Jaeggi, non consiste quindi solo nel trovare ma anche nel «produrre» la contraddizione nella forma di vita, perché essa non si irrigidisca sulle posizioni valoriali già acquisite entrando prima o poi inevitabilmente in crisi con se stessa.

A questo punto diventa chiaro, che ciò che Jaeggi vuol sottoporre a critica non è tanto il risultato quanto il processo. Processo che, sulla scorta delle riflessioni di Dewey e di MacIntyre, Jaeggi vuole pensare come un «processo di apprendimento». Il successo o l’insuccesso della forma di vita che nella critica viene esaminato non dipende tanto dal risultato positivo o negativo del tentativo di soluzione dei problemi, ma dipende soprattutto dalla razionalità del processo di trasformazione con cui si è giunti a quella soluzione. Razionalità che la critica giudica quindi sullo sfondo della storia delle soluzioni ai problemi da cui la forma di vita è sorta.

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Kritik von Lebensformen è un testo che val sicuramente la pena di essere letto e risulterà ancora più interessante per coloro i quali si sentano in qualche modo legati alla tradizione della teoria critica e credano ancora nelle potenzialità dei suoi sviluppi futuri. Si sente d’altro canto la mancanza di una trattazione della dimensione politica che una critica delle forme di vita dovrebbe inevitabilmente portare con sé. Non pare plausibile che un metodo rivolto alla trasformazione delle strutture d’interpretazione etiche possa esimersi dal confrontarsi con le conseguenze concrete che tali trasformazioni potrebbero avere sui dibattiti etici, sulle strategie politiche e sui metodi di fondazione e d esercizio del potere. Il Libro della Jaeggi insomma, se di una pecca vogliamo parlare, è quella di non spingersi oltre il piano teorico, riuscendo tuttavia in questo, è ciò che rappresenta la sua forte potenzialità, a sviluppare una teoria che potrebbe contenere in nuce le basi di uno possibile sviluppo nel campo delle scienze sociali di nuovi strumenti d’analisi atti allo studio delle dinamiche trasformative di forme di vita di gruppi sociali concreti.

In questo lavoro Jaeggi spende lodevolmente molte energie nel chiarificare i suoi concetti di forma di vita, di problema, di crisi, così come il suo concetto di normatività e di etica. Su alcuni aspetti si possono certo nutrire delle riserve, ma la precisione con cui li sviluppa, con particolar riferimento al concetto di critica immanente, si dimostrerà in futuro, mi sembra lecito pensarlo, oltremodo feconda anche senza abbandonare un piano puramente teorico.

Dalla lettura di questo libro si potrà ricavare un interessante metodo per impostare i problemi e per criticare le forme di vita, per rendere accessibili e chiare le ragioni per cui qualcosa non funziona e del perché non sia bene che funzioni in quel particolar modo e per comprendere, infine, che anche se ci troviamo a nostro agio nella nostra forma di vita, ciò non significa per forza che possiamo dire di conoscerla.

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1R. Jaeggi, Kritik von Lebensformen, Suhrkamp, Berlino 2014.

2Cfr. J. Rawls, liberalismo politico (1993), traduzione di A. Ferrara, G. Rigamonti, C. Spinoglio, P. Palminiello, Einaudi, Torino 2012.

3Cfr. J. Habermas, Astensione giustificata. Esistono risposte postmetafisiche alla domanda sulla “vita giusta”? In Id., Il futuro della natura umana (2001), J. Habermas, a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2010.

4Cfr. A. Honneth, Lavoro e riconoscimento. Per una ridefinizione (2008), in Capitalismo e riconoscimento, a cura di M. Solinas, Firenza University Press, Firenze 2010.

5R. Jaeggi, Entfremdung. Zur Aktualität eines sozialphilosophischen Problems, Campus, Francoforte sul Meno 2005.

6Per maggiori dettagli su questa ricostruzione del metodo della teoria critica si rinvia l’articolo della Jaeggi Il punto di vista della teoria critica pubblicato in questo stesso numero.

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