Sofferenze ontologiche. Un approccio clinico al materialismo

Davide Tarizzo

giulio turcato 2

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1.

Esaminando i fenomeni sociali, possiamo mettere a fuoco il modo in cui la società funziona oppure il modo in cui la società non funziona. Nel primo caso si può parlare di un approccio operativo, nel secondo di un approccio clinico alla società. L’analisi clinica, infatti, studia le disfunzioni degli individui o delle collettività (si pensi all’epidemiologia), mentre l’analisi operativa studia le nostre performance ottimali. Adottando un approccio clinico alla società, scegliamo di concentrarci sulle disfunzioni e sofferenze sociali. Adottando un approccio operativo, invece, cerchiamo di capire in che cosa consista il buon funzionamento della macchina sociale. Se poi cerchiamo di capire in che cosa debba consistere questo buon funzionamento, e non soltanto in che cosa esso consista di fatto, entriamo nella sfera dell’analisi normativa. Un approccio operativo alla macchina sociale, in altri termini, può configurarsi come un approccio semplicemente descrittivo oppure come un approccio prescrittivo. Un approccio clinico, viceversa, non implica alcuna conoscenza descrittiva o prescrittiva del buon funzionamento della macchina sociale. Per studiare le disfunzioni sociali non occorre conoscere il segreto della salute sociale, basta riconoscere l’esistenza della sofferenza umana come materia dell’analisi sociale. Di qui un approccio specifico al materialismo, inteso appunto come materialismo delle sofferenze sociali, dei malesseri politici, delle patologie storiche.

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2.

Chiamerò “Teoria Critica” in senso lato qualunque teoria che adotti un approccio clinico ai fenomeni storici, politici, sociali. Data questa definizione, si possono elencare vari paradigmi di Teoria Critica. Ne discuterò tre: il paradigma marxiano, il paradigma nietzscheano, il paradigma freudiano. Associando questi tre paradigmi ai nomi di Marx, Nietzsche e Freud, non voglio sostenere che le idee e le teorie di Marx, Nietzsche e Freud siano determinanti per tutti gli autori che si possono affiliare ai rispettivi paradigmi. Questi tre nomi sono solo gli indici di tre diversi stili di Teoria Critica che tematizzano in maniera diversa il rapporto tra verità e storia, assumendo di riflesso tre diversi atteggiamenti nei confronti dell’ontologia.

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3.

Secondo il paradigma marxiano, ogni disfunzione e sofferenza sociale nasconde un preciso ed efficace funzionamento della storia. Di conseguenza, l’analisi sociale sfuma nella filosofia, o nella scienza, della storia. È la categoria di verità a consentire questo passaggio. Per esempio: la verità del capitalismo è il comunismo. Questa non è una tesi normativa che ci dice quale debba essere il buon funzionamento della società. È piuttosto una prognosi clinica. Dopo aver diagnosticato i malfunzionamenti della macchina sociale, noi li interpretiamo come sintomi del vero, inevitabile corso della storia. Il capitalismo sarebbe contrassegnato da violente e oggettive auto-contraddizioni, ragion per cui esso sarebbe necessariamente orientato verso il suo auto-oltrepassamento. In un’ottica del genere, la verità della storia risulta più forte di ogni infermità sociale. Il funzionamento reale della storia, il movimento reale della storia si cela sotto la superficie di ogni sofferenza sociale. Con le parole di Marx ed Engels, “il comunismo non è per noi uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale (die wirkliche Bewegung) che abolisce (aufhebt) lo stato di cose presenti”.

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3.1.

Questo tipo di Teoria Critica è ancora assai diffuso e influente. Per esempio, alcuni dei maggiori esponenti della biopolitica italiana possono essere rubricati tra gli ultimi profeti del vangelo secondo Marx. La differenza tra loro e Marx consiste solo nel fatto che la verità della storia non può essere più dedotta al giorno d’oggi da una sedicente interpretazione scientifica dei dati socio-economici. L’ontologia socio-economica di Marx, meglio nota con l’etichetta di “materialismo storico”, è ormai desueta e va sostituita da nuove cornici ontologiche, come quelle disegnate da Heidegger o Deleuze. Dopodiché il risultato non cambia. Se per Marx il comunismo rappresenta la verità ultima della storia, per Agamben la verità ultima della politica occidentale è rappresentata dall’homo sacer, per Negri la verità ultima del capitalismo tardo-moderno è rappresentata dalla moltitudine, per Esposito la verità ultima delle comunità politiche moderne è rappresentata dalla vita in quanto tale. In ognuno di questi casi, un preciso malfunzionamento delle nostre società – sia esso il muselmann, l’impero globale o la tanatopolitica – è integrato a un racconto storico che porta alla luce il subiectum ontologico della storia stessa. In sé e per sé la storia non può che rivelare e fare emergere gradualmente questo subiectum, che è il suo vero soggetto. Per Marx, e poi per Lukács e tanti altri, tale soggetto era il proletariato. Oggi esso può assumere vesti differenti, a seconda dei nostri gusti filosofici e della nostra personale inclinazione verso l’euforia politica o la melanconia politica (Negri o Agamben). Qualunque sia la nostra scelta, ad ogni modo, la Teoria Critica rimane qui inchiodata a un’ontologia del tipo prendere-o-lasciare ma questa ontologia, va precisato, non è più supportata da dati e interpretazioni di carattere (para)scientifico. Sembra galleggiare invece nel vuoto di un’enunciazione filosofica che, pur balbettante e smarrita sul piano delle referenze epistemologiche, pretende di proferire l’insondata verità della storia.

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4.

Secondo il paradigma nietzscheano, noi dovremmo mettere da parte ogni interpretazione ontologica della storia per adottare una prospettiva puramente genealogica. da questo punto di vista, disfunzioni e sofferenze sociali non nascondono un vero soggetto della storia, né sono i sintomi di un funzionamento sotterraneo della storia. Semmai essi rivelano la malattia da cui è affetta la storia in quanto tale, una malattia che si può descrivere con la formula: non esiste verità nella storia. Ogni volta che una situazione o congiuntura storica è tratteggiata come il sintomo di una verità ontologica che orienterebbe il corso della storia stessa, qualcuno sta mentendo oppure sbagliando. In questa prospettiva, il primo compito della Teoria Critica è quello di smascherare tali menzogne e tali sbagli, riducendoli a qualcosa di persino inferiore a una menzogna o uno sbaglio, giacché non esiste verità della storia che essi possano realmente distorcere con menzogne o con sbagli. Al massimo, essi possono distorcere e mascherare le nostre sofferenze. Tuttavia, al di sotto di queste sofferenze non si cela più nessuna verità, nessun orientamento sensato della storia, ma solo una malattia radicale della storia in quanto tale, che si dimostra allergica ad ogni condizione di salute. Noi possiamo quindi accostarci clinicamente al disordine della storia, possiamo ricostruirne alcuni frammenti genealogici, possiamo denunciarlo, ma non possiamo affrontarlo, trattarlo, curarlo. La fine della storia è fuori portata in questo caso, così come il senso ultimo della storia. Rimaniamo intrappolati nel mondo della storicità.

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4.1.

Tra i tanti esempi di Teoria Critica nietzscheana, ne discuterò un paio tra i più significativi: Adorno e Derrida. Nonostante l’apparente diversità, esistono punti di convergenza importanti tra i due. Per entrambi, la storia è malata e priva di verità; la storia non è che una sequenza di squilibri e malfunzionamenti. Chiaramente, per formulare una tesi simile a proposito della storia, qualcosa è richiesto: per sostenere che non esiste verità nella storia, e sostenere a ruota che la storicità stessa della storia risiede nel suo perenne sfalsamento, noi dobbiamo calare il nostro sguardo sulla storia nel suo insieme, sulla storia in quanto tale, sulla storia in generale. E tutto ciò non è senza conseguenze. A quel punto, infatti, diventa necessario esplicitare la logica generale, complessiva che regna sulla storia e la condanna a questo incessante sfalsamento. A seconda del contesto, la descrizione filosofica di tale logica può cambiare. Mentre Adorno parla di “dialettica negativa”, Derrida parla, com’è noto, di “decostruzione”. Comunque sia, in entrambi i casi la logica resta pressoché la stessa e si impone come qualcosa di storicamente vincolante. In altre parole, è solo perché questa logica è già sempre all’opera, è solo perché essa è dotata di una Wirklichkeit, di una effettività storica – sia essa l’effettività storica della dialettica negativa o quella della decostruzione – che Adorno e Derrida possono sostenere che la storia in generale è malata e vuota di verità. Ecco perché la dialettica negativa e la decostruzione non sono concetti astratti ai loro occhi. Al contrario, dialettica negativa e decostruzione, ciascuna a modo suo, realizzano la storicità stessa della storia. È solo per mezzo della dialettica negativa o della decostruzione che, secondo Adorno e Derrida, la storia storicizza se stessa, per dir così, disturbando il proprio corso e rompendo di continuo il suo rapporto con la verità. In tal senso, dialettica negativa e decostruzione effettuano la storicità della storia, producendone la “non-identità” (Adorno) o l'”aporia” (Derrida). Esse nominano la logica della storicità che accompagna come un’ombra il cammino della storia, compromettendone fatalmente ogni progresso. In ultima analisi, poco importa che questa logica sia definita una logica della “disgregazione” (Adorno) o una logica della “disseminazione” (Derrida). Ciò che importa è che questa logica segna in ogni caso l’orizzonte della storia, vale a dire i confini stessi, i confini interni della storia. Costeggiando questi confini, noi passiamo da una filosofia della storia a una filosofia della storicità. Anziché una fine o un soggetto della storia incontriamo qui il limite estremo della storia, che taglia fuori ogni vero compimento al pari di ogni vera soggettivazione della storia in quanto tale.

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4.2.

Il surplus metafisico di questo passaggio ai confini della storia è patente e può essere descritto come il suo momento “utopico” (Adorno) o “messianico” (Derrida). Se la storia è vuota di verità, se la storia in generale è governata e sfigurata dalla logica della sua disgregazione/disseminazione, che è la logica della sua storicità, se la storia in quanto tale è la non-identità o l’aporia della storia in quanto tale, allora è la possibilità stessa della storia a essere revocata in questione dalla filosofia della storicità. Esiste la storia in quanto tale? Esiste la storia in generale? Benché la tentazione di rispondere affermativamente sia piuttosto forte una volta ammessa la Wirklichkeit della storicità, sarebbe però errato farlo dal punto di vista di Adorno e Derrida. In effetti, la storia non è, a loro avviso. Peggio ancora: nulla è. Poiché la logica della storicità, portata alle sue estreme conseguenze, non soltanto esclude la possibilità di un’ontologia storica ma finisce per invalidare qualsiasi assunto ontologico. Non è solo quella branca della filosofia nota come ontologia a essere chiamata in causa qui. È l’idea stessa di essere a tremare sotto i colpi inferti dalla logica della disgregazione/disseminazione. La postura anti-ontologica di Adorno e Derrida è più aggressiva di quella di Jaspers, che concedeva la fine dell’ontologia ma nutriva ancora fede nell’essere dell’essere. Per Adorno e Derrida, l’essere dell’essere si è sciolto sotto il sole della storicità. Né l’uno né l’altro ritiene che esso regga l’impatto con la logica della disgregazione/disseminazione. Dunque, se la storia non è, ai loro occhi, è perché nulla è. E la storia non è esattamente nello stesso senso in cui la storia è vuota di verità. La non-identità o l’aporia prevale sull’essere dell’essere, della verità, della storia, di tutto. Ma allora: cos’è la logica della storicità? Di cosa parliamo quando ne parliamo? Come possiamo discorrere di storicità se la storia in quanto tale non è? È a questo punto che il momento utopico o messianico si rivela l’anima di ogni filosofia della storicità. Per questa filosofia, infatti, sebbene la storia non sia, nondimeno la storia fa appello al proprio essere, si richiama a se stessa, ed è proprio grazie a questa evocazione della storia da parte della storia che la logica della disgregazione/disseminazione balugina e si impone come logica della storicità. Al cospetto di questa evocazione utopica o messianica non possiamo limitarci a dire che la storia non è – punto. Dobbiamo aggiungere che la storia non è ancora. Del resto, dicendo che la storia non è, noi non stiamo dicendo che la storia non può o non potrebbe essere in assoluto. Se lo dicessimo, diremmo ipso facto qualcosa che non siamo autorizzati a dire, facendo gravare ipoteche ontologiche, ancorché negative in questo caso, sulla storia stessa. È però la logica della storicità a vietarci di compiere un simile errore. È la stessa logica, di conseguenza, a decretare che la storia non è ancora.

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4.3.

Ergo, tutto ciò che noi possiamo dire dal punto di vista della logica della storicità è che la storia non è eppure la storia potrebbe essere. La storia non è eppure la storia potrebbe oltrepassare il suo non-essere e la sua non-verità. Tale è la promessa sussurrata dai filosofi della storicità. La forza persuasiva di questa promessa utopica o messianica si deve al fatto che in apparenza essa non avanza tesi sulla verità della storia in quanto tale. Si arrende, muta, davanti alla malattia della storia. Ciononostante, per immaginare che la storia si storicizzi disfacendosi e sfilacciando il suo rapporto con la verità, una tesi va comunque presupposta – la tesi dell’evocazione utopica o messianica della storia da parte della storia. Alla resa dei conti, è proprio perché la storia evoca se stessa o promette il suo stesso essere rimandando ad ogni tornante storico il compimento di questa sua promessa, è proprio per questo che la storia può storicizzarsi. In altre parole, da un punto di vista nietzscheano i due poli antitetici della logica della storicità, che sono la frammentazione della storia e la promessa della sua totalizzazione ontologica e veritativa, si specchiano l’uno nell’altro. Di più, si implicano a vicenda. E ciò significa che, malgrado tutto, la vecchie categorie metafisiche dell’essere e della verità serbano intatto il loro prestigio filosofico. Per esempio, le sofferenze storiche diventano comprensibili solo alla luce della non-verità della storia. Le sofferenze materiali, così come ogni altra sofferenza storica, finiscono puntualmente per testimoniare che la storia non è ancora. Finiscono per attestare il nostro non-essere storico. In tal modo, ogni disturbo o disordine storico può esser fatto risalire al nostro esilio metafisico dall’essere e dalla verità, senza con ciò contraddire i più tradizionali assiomi della filosofia e teologia occidentali. Ogni impasse storica finisce solo per mettere in evidenza la nostra non-verità storica, e questo anche se paradossalmente non esiste nulla al di là di queste impasse, anche se non esiste una verità della storia su cui parametrare la non-verità della nostra storicità, anche se non esiste ancora una verità che confuti e redima la nostra non-verità. È sufficiente tutto ciò? È sufficiente questo non esiste ancora (una verità della storia) per pensare le nostre sofferenze storiche? Date le premesse della filosofia della storicità, pare difficile rispondere di sì. Ogni risposta affermativa, a ben guardare, non può che essere posposta dalla logica stessa della storicità che dimostra la sua effettività, la sua Wirklichkeit, appunto posponendo all’infinito ogni vero compimento della storia così come ogni vero pensiero della storia e sulla storia. Di qui l’esito finale e la Stimmung di ogni filosofia della storicità: la storia è una scena folle e tragica; la storia non può raggiungere nessun approdo poiché non può nemmeno cominciare. Con le parole di Nietzsche, “Io sono tutti i nomi della storia”, ma solo perché io non sono ancora, noi non siamo ancora, e l’uomo resta “un ponte” tra l’inferno della storia e la sua redenzione metafisica, utopica o messianica che sia.

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5.

Secondo il terzo paradigma di Teoria Critica, quello che propongo di chiamare il paradigma freudiano, noi non dovremmo né sottovalutare troppo i nostri articoli di fede ontologica, come ci invitano a fare gli esponenti del paradigma nietzscheano, né accettare un credo ontologico univoco, come ci invitano a fare gli esponenenti del paradigma marxiano. Da un punto di vista freudiano, la storia non è né il deserto dell’ontologia né il giardino dell’ontologia, né l’ordinata attualizzazione della verità né la spettralizzazione utopico-messianica della verità. Più sobriamente, secondo Freud, la storia andrebbe vista come una serie discontinua di “verità storiche”, che corrispondono ad altrettante fantasie ontologiche o ad altrettanti fantasmi ontologici. In tal senso, la storia pare costellata di finzioni vere, se così possiamo dire, che sono strutturalmente ambigue, equivoche, double-face. Da una parte, nella misura in cui qualcuno ritiene che il suo mondo storico sia l’unico possibile e le cose non potrebbero stare altrimenti, una finzione vera è dotata di un certo lustro ontologico. Dall’altra, tuttavia, nella misura cui qualcuno comincia a soffrire e a non reperirsi in quel medesimo mondo storico, la stessa finzione vera si incrina e attesta un fallimento ontologico. La nozione di fantasma ontologico indica entrambi gli aspetti e gli effetti di una finzione vera, o “verità storica”. Va da sé, in virtù di quanto appena detto, che il paradigma freudiano della Teoria Critica non promuove alcun relativismo o storicismo ontologico, del genere che è stato assai di moda in filosofia fino a pochi anni or sono (Gadamer, Rorty, Vattimo). In un’ottica freudiana, i fantasmi ontologici non sono relativi, effimeri, questionabili a causa della loro singolarità storica e dell’impatto polemico che esercitano l’uno sull’altro. Non è dall’esterno, sotto la pressione di altre verità storiche, che una data verità storica è costretta a denunciare la sua finitezza e problematicità, secondo la Teoria Critica freudiana. Piuttosto, è dall’interno, in virtù del suo intrinseco disfunzionamento, che una verità storica, la nostra o qualsiasi altra, decade a semplice fantasma ontologico. È sempre in ragione di precisi e costitutivi difetti strutturali che essa si mostra in piena luce come un costrutto pato-ontologico. Di qui il compito primario della Teoria Critica da un punto di vista freudiano: individuare una verità storica, che riluce come una verità ontologica, e ridurla a una formazione clinica, a un fantasma pato-ontologico. Per far questo è necessario comprendere le ragioni per cui questa verità non riesce a essere, provocando invece la caduta, il decadimento di quell’essere che essa era supposta fondare e garantire.

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5.1.

Benché la psicoanalisi costituisca il terreno privilegiato di questo approccio puramente clinico alla Teoria Critica, farò qui due esempi tratti da ambiti disciplinari diversi. In tal modo dovrebbe essere più facile mettere a fuoco la dimensione paradigmatica di quella che chiamo la Teoria Critica freudiana. Come ho chiarito fin dall’inizio, il nome di Freud – un po’ come il nome-del-padre di Lacan – funge in questo caso da punto di capitone: non significa nulla, eppure è altamente significativo. Per farla breve, Freud è stato il primo a capire che il nostro essere è intessuto di materia onirica e non c’è nulla al di là di questa materia che è tutto ciò che noi siamo. Come Lacan avrebbe poi perfettamente colto e articolato, l’approccio freudiano alla questione dell’essere taglia i ponti con la tradizione. Da un’angolatura freudiana, non si tratta di scoprire o svelare la verità del nostro essere. Nè si tratta di sprofondare nella non-verità e nel non-essere della storia in quanto tale negando ogni attualità, Wirklichkeit, all’essere e alla verità. L’assioma ontologico del paradigma nietzscheano, secondo il quale l’essere non è ancora, è totalmente difforme dall’assioma ontologico del paradigma freudiano, secondo il quale l’essere non è vero. Basandoci sulla caratterizzazione kantiana della verità in termini di necessità e universalità, potremmo dire che per Freud e tutti gli autori che si potrebbero includere nel paradigma freudiano della Teoria Critica l’essere è ciò che è supposto incarnare o materializzare la verità ma sistematicamente fallisce nella prova, non riuscendo a soddisfare i requisiti di necessità e universalità che lo farebbero essere veramente, che lo farebbero essere vero. In tal senso, per la Teoria Critica freudiana l’essere corrisponde sempre a una verità storica circoscritta e limitata: una verità che è storica proprio perché il suo essere è infettato dalla contingenza e particolarità del suo incarnato, della sua “attualità”, della sua materialità.

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5.2.

Lungi dall’essere l’acquisizione della sola psicoanalisi, questa idea è presente anche in altri autori e altre ricerche che nulla o poco hanno a che fare con la psicoanalisi. Di solito, non è resa esplicita. Di solito, inoltre, non ne viene colta la portata autentica, quella di un assioma ontologico rivoluzionario. Nondimeno, è questa l’idea che sta dietro alcune delle analisi più innovative che sono state svolte negli ultimi decenni nel campo della Teoria Critica. Si prenda ad esempio il concetto di “ontologia dell’attualità” o “ontologia critica di noi stessi” elaborato da Foucault. Sebbene questi amasse presentarsi come un genealogista nietzscheano, il suo progetto di “ontologia critica” consente, e forse esige, una lettura differente. Esso allude in primo luogo alla possibilità di cambiare il nostro essere, contravvenendo così alla necessità e universalità dell’essere, o alla verità dell’essere. Simultaneamente, esso allude anche al modo in cui noi possiamo cambiare il nostro essere: non da fuori, guardando alla nostra verità storica da un altro luogo, abitato da una verità ulteriore, bensì da dentro, riconoscendo ogni volta la difettosa necessità e deficiente universalità della nostra verità storica. L’assunto implicito di tutto questo discorso foucaultiano è che l’essere cambia. È proprio perché l’essere è passibile di cambiamento che possiamo parlare di una “ontologia critica di noi stessi”. Ciò detto, l’essere non va confuso col cambiamento in quanto tale. L’essere non è un sinonimo del divenire – e qui sta la parziale divergenza tra Foucault e un certo Deleuze (o una certa rilettura di un certo Deleuze). Se l’essere fosse il cambiamento, se l’essere fosse il divenire, dovremmo spiegare in che cosa consiste l’essere di questo divenire, dovremmo dire che cosa resta sempre uguale nel divenire e che cosa rende questo divenire Uno, un solo divenire, un solo subiectum – chiamato “divenire” – soggiacente a tutti i cambiamenti. Impresa già tentata in passato, impresa niente affatto facile, forse impossibile a compiersi, e comunque superflua ai fini di un’analisi storica e sociale come quella di Foucault che insiste sulle differenze, sulle soglie di discontinuità anzichè sulle costanti storiche. Dunque, sebbene l’essere sia soggetto al cambiamento, l’essere, per Foucault, non va identificato con il cambiamento o il divenire in quanto tale. L’essere, quantomeno nella prospettiva della “ontologia” foucaultiana, cambia o diviene in un modo assai specifico, che è il fallimento o il decadimento dell’essere: il collasso dell’essere. Detto altrimenti, l'”ontologia critica di noi stessi” non si ispira all’idea di un essere-divenire in costante mutamento, bensì all’idea che l’essere sia intrinsecamente instabile, squilibrato, malato, giacchè l’essere è ciò che non è mai in grado di soddisfare i requisiti del suo stesso essere vero, che sono necessità e universalità. Il compito della Teoria Critica, da questo punto di vista, è quello di individuare volta per volta una certa malattia dell’essere, riducendo ogni verità ontologica a una verità storica, dividendo l’essere dalla propria verità, additando la caduta dell’essere. Così facendo, secondo Foucault, otteniamo due risultati: i) ci avvediamo delle incongruenze ontologiche da cui siamo affetti, rendendoci disponibili per nuove configurazioni dell’essere di cui non possiamo anticipare, per altro, i contorni; ii) ci veniamo a trovare in una posizione in cui possiamo interpretare e curare, decifrare e sedare, almeno in parte, i nostri disturbi e disordini storici. Lacan avrebbe descritto questo processo come un “attraversamento del fantasma”. Per restare più aderenti al dettato foucaultiano, potremmo parlare di un “attraversamento critico di noi stessi”, o di un “attraversamento dei nostri fantasmi ontologici”.

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5.3.

Tra i tanti prodotti di “verità storiche” che sono stati oggetto delle analisi di Foucault la biopolitica merita qualche approfondimento. Capire di che cosa si tratta consente di marcare ancora meglio la differenza tra Foucault e la biopolitica italiana di questi ultimi anni. Secondo Foucault, nella biopolitica non è imprigionata una verità ontologica – né la verità dell’homo sacer né quella della moltitudine – bensì un fantasma ontologico, che ha molto a che vedere con il fantasma ontologico-politico della libertà moderna. L’orizzonte delle ricerche foucaultiane è decisamente più vasto di quello delineato dalla politica nazista o dalle metamorfosi del tardo-capitalismo occidentale. Le indagini di Foucault sulla biopolitica coprono l’intera storia della società moderna dal Sei-Settecento in avanti. Sono dunque indagini che si muovono in un orizzonte temporale analogo a quello in cui si muove Marx quando tenta di ricostruire le origini e gli sviluppi della società capitalistica. E anche l’obiettivo è in fondo analogo: spiegare l’intrinseca instabilità e le disfunzioni delle moderne società di mercato. Certo, Foucault non accetterà mai le teorie di Marx sulla vera evoluzione della società moderna e sul vero soggetto di questa evoluzione storica, il proletariato. Così come non accetterebbe oggi di sostituire il buon vecchio proletariato con un nuovo soggetto storico quale la moltitudine, che agli occhi di taluni teorici dovrebbe mantenere in vita il nucleo veritativo profondo del marxismo. A ben vedere, Foucault è più interessato invece alle patologie costitutive della società moderna, da lui vista come una società che non può essere vera o non può attingere fino in fondo alla propria verità. Per questa e per altre ragioni, le ricerche foucaultiane sulla “biopolitica” – che è una delle possibili definizioni della patologia ontologico-politica della società moderna – potrebbero essere messe in sequenza con quelle di altri pensatori, per esempio con quelle di Karl Polanyi sulle origini storiche e i congeniti malfunzionamenti delle società di mercato.

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5.4.

Notoriamente, la società moderna è fondata sull’idea di un contratto sociale siglato da individui liberi. Sottoscrivendo tacitamente un simile contratto, questi individui si raccolgono in società e autorizzano, legittimano lo Stato, che costituisce l’impalcatura giuridico-politica della società moderna. Dovere dello Stato, da questo punto di vista, è in primo luogo quello di assicurare, coltivare, incrementare la libertà originale, naturale, ontologica dei suoi cittadini, che sono al tempo sudditi e sovrani dello Stato. In tal modo, società e Stato, individui liberi e Stato finiscono per presupporsi a vicenda, sebbene questa loro mutua presupposizione finisca presto per diventare un problema. Biopolitica, per Foucault, è per l’appunto il nome di questo problema. Molto in breve, ci imbattiamo qui in una sorta di double bind. Da una parte, lo Stato è concepito fantasmaticamente come il risultato di un contratto stipulato da individui liberi, dimodoché la società degli individui liberi appare come l’origine stessa dello Stato. Dall’altra, lo Stato è visto come ciò che assicura, coltiva, incrementa le libertà individuali, dimodoché la società degli individui liberi appare come un prodotto, o sottoprodotto, dello Stato. Ma cosa viene prima? Lo Stato o la società? Lo Stato o la libertà individuale? In realtà, non c’è soluzione per tale dilemma, che giace al cuore della politica moderna. Se diciamo che viene prima lo Stato, dobbiamo rinunciare alla tesi ontologica sul primato della libertà individuale. Se diciamo che viene prima la libertà, resta da spiegare come fa lo Stato ad assicurare e produrre qualcosa, la libertà, che è supposta esistere anche prima di esso e a prescindere da esso. Dal momento che si tratta a tutti gli effetti di un double bind, l’unica via d’uscita è una soluzione schizofrenica, sulla quale Foucault attira la nostra attenzione. Da una parte, urleremo ai quattro venti che lo Stato assicura e produce libertà solo nella misura in cui limita il più possibile la sua azione di governo e restringe al massimo il suo raggio di intervento nella società. Dall’altra, assisteremo ammutoliti all’espandersi simultaneo dell’azione di governo e al moltiplicarsi esponenziale degli interventi dello Stato volti ad assicurare e produrre concretamente libertà. Da una parte l’ideologia o la dottrina del liberismo, dall’altra la pratica quotidiana della biopolitica. Benché si tratti di fenomeni che si contraddicono, occorre vedervi i due lati complementari della politica moderna nella prospettiva di Foucault. E su entrambi i versanti qualcosa prende inevitabilmente a zoppicare. Per quanto riguarda la libertà, che nella società moderna affiora nel rovescio della coazione statale, si apre la domanda su quale possa essere realmente il significato positivo di una libertà originaria, naturale, ontologica e pre-contrattuale. Ancora una volta, non esiste risposta univoca e risolutiva. La libertà individuale, che costituisce l’essere stesso dell’individuo moderno, non fa che lampeggiare come una luce fioca su cui si allunga sistematicamente l’ombra del Leviatano. La libertà dell’individuo moderno rimane come sospesa per aria, al tempo stesso incitata e impedita, esaltata e vilipesa dai dispositivi governamentali volti a garantirla, coltivarla, incrementarla. Per quanto riguarda lo Stato, che dovrebbe limitare il proprio raggio di intervento nella società e tuttavia deve moltiplicare i suoi interventi per potere assicurare e produrre concretamente la libertà degli individui, esso finisce per lottare contro se stesso, mascherando il proprio ruolo e delegando i propri compiti ad agenzie terze. Di qui la transizione verso lo stato di diritto, o il rule of law, che caratterizza lo sviluppo dello Stato moderno, sempre alle prese col fantasma fondativo di uno Stato-basato-sul-Contratto, ma di qui anche quella particolare piega dell'”arte di governo” dei moderni che conduce alla formazione e al progressivo potenziamento di un gigantesco Stato ombra, composto di una infinità di autorità para-statali, o di agenzie opportunamente autorizzate, cui viene affidato il compito di governare la popolazione per conto, o in nome, dello Stato. In un certo senso, questa svolta biopolitica – di cui le politiche deregolatorie e neo-liberali dei nostri giorni rappresentano l’estrema illustrazione, da cui viene posta infine in dubbio la legittimità stessa dello Stato – non sono altro che la piena e logica realizzazione dello Stato moderno, agli occhi di Foucault. Né la libertà individuale né lo Stato moderno sono infatti nullificati, annientati da questa sorta di collasso ontologico che li caratterizza entrambi. Né l’una né l’altro sono spazzati via dalla caduta dell’essere che punteggia la loro esistenza storica. Al contrario, questo fallimento ontologico, nell’ottica di Foucault, è ciò che consente a entrambi di sussistere ancora: è appunto in virtù del fatto che la loro consistenza ontologica è strutturalmente intaccata che la libertà individuale e lo Stato moderno riescono a cambiare, ad evolversi, e a sopravvivere sempre a questa loro incessante metamorfosi storica. In tal senso, i disturbi e disordini ontologici da cui sia l’una che l’altro sono affetti non aprono la strada a una verità storica ulteriore, ma mostrano semmai la patologia costitutiva del nostro presente, che si prolunga nel tempo. È solo fallendo che la nostra libertà individuale e lo Stato cui noi diamo corpo giungono all’essere, perché è solo destituendosi a vicenda che la società degli individui liberi e lo Stato moderno acquistano una fantasmatica tenuta ontologica. È solo collassando l’una di fronte all’altro che essi paradossalmente sono – più di niente e meno di qualcosa.

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5.5.

Questa non è la fine della storia, ad ogni modo. In primo luogo, perché la riduzione della nostra verità storica a un fantasma ontologico che genera specifici disturbi e sofferenze ontologiche dimostra che la nostra verità storica è una verità contingente, o una finzione vera, sprovvista di necessità e universalità; la nostra verità storica è destinata pertanto, prima o poi, a cedere il passo a qualcosa di diverso, anche se questo qualcosa non può essere previsto e prefigurato dal filosofo della storia o dallo scienziato sociale, le cui pretese al giorno d’oggi non possono arrivare a tanto. In secondo luogo, e qui viene il ruolo più fertile e produttivo della Teoria Critica, una volta che la nostra verità storica è stata ridotta a una finzione vera possiamo affrontare meglio le sue patologie, senza farci stregare dalla promessa di un altrove utopico-messianico che per “noi” rimane inaccessibile, né farci sedurre dall’idea opposta che un altrove, storico-effettuale in questo caso, sia per “noi” accessibile sin d’ora dal luogo che abitiamo. In proposito, i lavori di Foucault continuano ad offrire una mole di esempi utili: la sua critica della psichiatria, della criminologia, dell’economia, della biologia o della filosofia occidentale non indulge mai nella tentazione di scavalcare il nostro mondo storico. Con maggiore modestia, ma anche con maggiore efficacia, Foucault sembra piuttosto orientato a domare, per così dire, i nostri fantasmi ontologici, in modo tale da temperare almeno in parte le sofferenze che se ne sprigionano. Perfino le sue ultime ricerche sull’etica e la cura di sé, apparentemente fuori asse rispetto alle ricerche precedenti, potrebbero e forse dovrebbero essere lette come un tentativo di allargare o curvare le possibilità esistenziali all’interno, e non all’esterno, del nostro mondo storico, andando a depistarne alcuni sentieri interrotti, sepolti sotto le foglie secche della nostra tradizione. Per inciso, Foucault non è stato né il primo né l’unico a scorgere nella Teoria Critica una forma di cura e trattamento dei nostri fantasmi ontologici. Lasciando stare Freud e Lacan, che meriterebbero un lungo discorso a parte, un altro ricercatore che pare essersi mosso in questa direzione è Polanyi, le cui indagini sulla storia generale dell’economia anticipano per molti versi quelle foucaultiane sulla biopolitica.

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5.6.

In estrema sintesi, anche Polanyi ritiene che le società moderne siano congenitamente malate. Questo perché gli Stati moderni, che forniscono l’imprescindibile cornice politica per lo svolgimento delle attività economiche, sono stritolati in un dilemma che discende dal fantasma ontologico-politico delle società moderne, il fantasma ontologico-politico del liberalismo: libero commercio in un libero mercato. Da un lato, lo Stato moderno, che è uno Stato nazionale, supervisiona i mercati e controlla dall’alto le transazioni economiche; mediante appositi provvedimenti legislativi e amministrativi, lo Stato assume il ruolo di garante dei mercati e di regolatore dei mercati; non solo, gli Stato battono anche moneta, quelle monete nazionali con cui gli scambi commerciali vengono effettuati. In tal modo, essendo il denaro una merce alla pari di ogni altra nelle odierne società di mercato, lo Stato, oltre a svolgere il ruolo di regolatore dei mercati, assume parimenti il ruolo di giocatore, di player sui mercati nazionali e internazionali. Per esempio, lo Stato, emettendo più o meno moneta, può manipolare il prezzo della valuta nazionale e svalutarla, se lo ritiene, a beneficio delle esportazioni nazionali e del Prodotto Interno Lordo. Dall’altro lato, tuttavia, la finzione vera delle società liberali, in cui le idee di libero commercio e di mercati auto-regolati tendono a prevalere su tutto il resto, si oppone con forza a ogni interferenza dello Stato nelle attività economiche. Di conseguenza, il ruolo dello Stato tende a essere il più possibile contenuto e ridotto. Mentre Foucault si concentra sugli effetti domestici delle politiche “neo-liberali”, Polanyi getta luce sui loro effetti internazionali, insistendo sugli squilibri che tali politiche prima o poi scatenano. Per esempio, agli Stati nazionali viene impedito di svalutare la propria moneta, così da consentire alle società di mercato dei diversi paesi di fiorire e svilupparsi in un libero mercato internazionale slegato da ogni interferenza statale e perfettamente in grado di auto-regolarsi. Ieri, il gold standard; oggi, l’euro. Come Polanyi osserva, questo fantasma di una società di mercato globale che si auto-regola da sola potrebbe funzionare e rilasciare effetti positivi se e solo se le economie nazionali di tutti i paesi coinvolti fossero più o meno omogenee. Sfortunatamente così non è ed ecco la ragione per cui l’effetto di quel fantasma ontologico che è il mercato globale auto-regolantesi è il collasso delle economie più deboli, che alla fine trascinano nello stesso disastro le economie più forti. Ieri, la grande depressione; oggi, la crisi dell’eurozona. Pronunciandosi contro credenze diffuse e consolidate, Polanyi sostiene che sarebbe sbagliato immaginare che tali crisi, fallimenti, collassi siano da attribuirsi al fatto che le nostre società si distaccano momentaneamente dalla loro verità storica. A conti fatti, va preso atto del contrario: più le nostre società aderiscono alla loro verità storica, più esse conoscono crisi, fallimenti, collassi. Ma è questo il modo il cui le nostre società sono. Restando incollate ai propri fantasmi ontologici, tali società falliscono eppure sopravvivono ogni volta al loro fallimento, che è la materializzazione patologica e ripetitiva del loro stesso essere, puramente fantasmatico. Ogni volta che perdono, queste società vincono, malgrado le apparenze. Vincono la propria supposta indipendenza dallo Stato e priorità sullo Stato. Vincono e dimostrano la propria realtà, la propria esistenza – pesante ed evanescente, ontologica e fantasmatica – dinanzi allo Stato.

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5.7.

La lezione che si può trarre dalle riflessioni di Foucault e Polanyi sulla architettura ontologico-fantasmatica delle società moderne è più o meno la stessa in ultima analisi. a) Lo Stato è il requisito essenziale affinché le società moderne possano vedere la luce e svilupparsi; senza l’impalcatura giuridico-politica dello Stato moderno la nascita e la crescita di queste società non sarebbero state possibili. b) La verità storica dello Stato moderno è condizionata però pesantemente dalla finzione vera delle società moderne, che è la finzione vera di una società composta di liberi individui o di liberi mercanti; in ogni caso, alla società è assegnato qui un fantasmatico primato ontologico sullo Stato. c) Da questi fantasmi ontologici circa la società di liberi individui o di liberi mercanti discende la verità storica dello Stato moderno, da intendersi invariabilmente come uno Stato-basato-sul-Contratto. d) Il primato ontologico della società sullo Stato impone di limitare al massimo l’intervento dello Stato nella vita della società, andando così a intaccare potenzialmente le fondamenta istituzionali delle società moderne. e) Di qui l’intrinseca instabilità e i disordini ontologici che incombono sulle comunità politiche moderne: come gestire la contrapposizione strutturale, ontologico-fantasmatica tra società e Stato? È questa la domanda che travaglia l’intera storia politica della modernità.

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6.

Sullo sfondo delle analisi di Foucault e Polanyi, possiamo concludere che il liberalismo – e la sua implementazione storica, la biopolitica – non offre risposte conclusive alla domanda che travaglia da cima a fondo la storia politica della modernità. In realtà, il liberalismo è la domanda stessa, alla quale le varie soluzioni politiche del nazionalismo, del socialismo, del separatismo, del fascismo offrono altrettanti tentativi di risposta. Lo studio della domanda e di tutte le risposte che le sono state opposte nel corso della modernità potrebbe definirsi la Teoria Critica dello Stato moderno. A mio avviso, questo è il senso, o quantomeno l’orientamento di fondo, che Foucault attribuiva alle sue ricerche sulla “biopolitica”. Come ho cercato di mostrare, per portare avanti il suo lavoro dobbiamo anzitutto tornare a interrogarci sul suo, e sul nostro, approccio clinico all’ontologia e al materialismo. Cosa significa essere? Cosa significa soffrire?

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