Epoché del corpo ed astrazione della mente. Echi marxiani nel lavoro post-moderno

Roberto Finelli


1.Economia del post-fordismo e filosofia del post-moderno

Post-moderno e post-fordismo, a chi si volge a considerare le strutture fondamentale del nostro vivere attuale, appaiono concetti profondamente connessi, non solo sul piano verbale per l’uso del prefisso temporale che connota entrambi i termini, ma per il loro intrinseco contenuto di senso: l’uno, il post-moderno, quale espressione, dal lato della storia delle idee e della coscienza riflessa, di ciò che l’altro, il post-fordismo, ha messo in campo sul piano dell’organizzazione del lavoro e della produzione della ricchezza economica. Dandosi così un  singolare parallelismo tra produzione nell’idea e produzione nella cosa, che, s’è detto in molti luoghi e da molti autori, consegnerebbe il tempo contemporaneo a un cambiamento epocale, per il quale si marcherebbe l’inizio di una nuova epoca della storia, segnata dalla discontinuità tra moderno e, appunto, «post»-moderno.

Secondo gli ideologi del postmoderno, sul piano della rappresentazione culturale, questo sarebbe il tempo storico in cui l’Essere, per esprimerci con le categorie sintetiche della filosofia, s’è fatto essenzialmente linguaggio: ossia il tempo in cui l’intera realtà, sociale e individuale, si sarebbe fatta, fondamentalmente, segno e comunicazione.

Dunque, una nuova epoca storica che conclude la materialità del moderno, giacchè la rete sempre più ampia di simboli e di informazioni che attraversa ormai la nostra vita, avrebbe reso la realtà extra-linguistica alcunchè di sempre più residuale e marginale, intessendosi invece il nostro esperire di una trama sempre più fitta di immagini, di informazioni, di messaggi e di codici, la cui interpretazione rimanda ad altri protocolli, ad altri testi, letterari o comunque di varia natura simbolica, nella continuità di un processo esegetico, In cui si sarebbero finalmente dissolti, secondo la classica lezione del decostruttivismo nietzscheano, i fantasmi identitari e assolutistici di categorie quali verità, realtà, oggettività. E secondo quanto obbliga a concepire una teorizzazione – sempre più dominante dei nostri giorni – postideologica dell’esperienza e della conoscenza umana, che si sarebbe finalmente affrancata da ideologie totalizzanti e sistemiche, da pensieri forti, per abbandonarsi all’onnipervarsività di un pensiero debole, capace di cogliere, proprio per la sua debolezza e fragilità, proprio per la lontananza da sé di ogni volontà di potenza e di assolutezza, i volti sempre relativi e cangianti dell’umano.

Un analogo passaggio epocale sembra essere avvenuto sul piano dell’economia, che nel passaggio dal fordismo al post-fordismo ha visto succedere ad un capitalismo ad accumulazione rigida, tipico della modernità, un capitalismo ad accumulazione, potremmo dire, flessibile 1: ossia un capitalismo basato su un nuovo modello di accumulazione, la cui base tecnologica è costituita dall’applicazione dell’informatica e delle macchine dell’informazione ai processi produttivi, a quelli della distribuzione e dei servizi, e dall’utilizzazione di una forza lavoro, la cui energia lavorativa non muove dal corpo e non è destinata alla manipolazione di oggetti materiali di lavoro, bensì nasce dalla mente e consiste di operazioni logico-calcolanti su dati alfanumerici. Una rivoluzione tecnologica, basata appunto sulla macchina dell’informazione che ha consentito una nuova organizzazione del tempo e dello spazio, la quale, secondo la felice connotazione di D. Harvey si esprime come una pesantissima e accelerata «compressione spazio-temporale» della  vita e del mondo[1]. Ovvero una riorganizzazione del tempo e dello spazio, che appunto ha offerto alla società mercantile capitalistica la possibilità storica di sviluppare una nuova tipologia del processo di accumulazione, capace ora di confrontarsi e di aggirare tutte le rigidità dell’accumulazione fordista.

La flessibilità e la mobilità, la maggiore velocità del tempo di rotazione del capitale, così come l’accellerazione del tempo di rotazione dei consumi e della durata dei beni, sono divenuti criteri con cui riorganizzare l’intero mondo economico, e rispettivamente i processi produttivi, la tipologia dei prodotti, i mercati del lavoro (perchè è di mercati e non di un solo mercato del lavoro che bisogna parlare), i modelli di consumo. In particolare, in quella che è stata già definita come un nuova epoca del «dopo-Cristo», si smantella ogni attenzione cristiana e solidale verso i diritti sociali e socialisti strappati dal movimento dei lavoratori ai possessori dei mezzi di produzione in un secolo e mezzo di conflitti e, compiuto il giro di boa, ci si volge all’indietro (apparentemente per andare avanti) in un ritorno all’aumento della giornata lavorativa come alla maggiore intensità di erogazione lavorativa in un medesimo tempo: in una curiosa e paradossale compenetrazione di modalità  dello sfruttamento (secondo la classica terminologia marxiana, rispettivamente del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo) finora storicamente differenziate che ora, invece si associano e si compenetrano.

Molto del resto è già stato scritto sull’applicazione della robotica e dell’informatica alla produzione, sui sistemi di gestione del magazzino just in time, sull’esternalizzazione di funzioni e servizi prima presenti all’interno del ciclo produttivo, sulla crescita del subappalto e delle attività di consulenza, sullo smembramento delle grandi unità produttive, sulla delocalizzazione delle imprese, sulla riduzione della durata di vita e consumo delle merci. Molto è stato scritto, insomma, sulla differenza tra il paradigma industriale del vecchio capitalismo, basato su una struttura meccanicistica, e il paradigma post-industriale del nuovo capitalismo, basato sulle reti di mercato, e molto è stato scritto, oltre che sulla frantumazione del mercato del lavoro, sull’utilizzazione del lavoro precario e a tempo determinato, del lavoro connesso con lo spostamento di masse enormi di emigranti, sulla grande riorganizzazione del sistema finanziario mondiale, coordinato per mezzo di telecomunicazioni istantanee, che ha visto, da un lato, la formazione di conglomerati finanziari e di intermediari di estensione mondiale, con un’enorme capacità di spostare denaro, e dall’altro un decentramento dei flussi finanziari attraverso la creazione di nuove borse e di mercati finanziari assolutamente nuovi, come quello dei fondi di investimento, o l’espansione di mercati finanziari già esistenti, come quello dei futures su merci o sui debiti a termine, che è stato verosimilmente, con la sua massima virtualità, la causa scatenante della crisi mondiale che stiamo attraversando.

Ma, qui, ciò che più preme sottoporre all’attenzione è che in questo procedere parallelo, tra  filosofia del post-moderno ed economia del post-fordismo, il luogo dove il parallelismo si esplicita fino a farsi omologia, è nel concorrere di entrambe a produrre una comune teoria dell’emancipazione e dell’alleggerimento antropologico, per la quale la discontinuità epocale tra moderno e post-moderno si misura, sul piano delle idee, in una liberazione del pensiero narratologico dalla gabbia d’acciaio del pensiero sistematico, e, sul piano della prassi, in una  liberazione dell’attività umana dalla fatica e dalla rigidità del lavoro manuale, ossia in un passaggio da un’antropologia della penuria e della necessità a un’antropologia della libertà e della creatività. Infatti da parte dei più – non solo dagli imprenditori e dalle direzioni aziendali ma anche dai sociologi, dai sindacalisti, dai politici, dagli intellettuali di varia natura – ci è stato e ci viene detto che con la tecnologia informatica, e con la messa al lavoro non del corpo ma della mente, si è conclusa finalmente una storia lunghissima, che data dalla preistoria, di un’antropologia lavorativa connotata dalla fatica e dal gravoso confronto con la durezza del mondo materiale, e si è viceversa inaugurata l’epoca nuova di un lavoro cognitivo e creativo, basato sull’uso dell’intelligenza e della conoscenza e sul confronto agile e dinamico con un mondo di dati virtuali. Ci viene detto che il lavorare è ormai un comunicare, e che l’essenza della prassi, di quella che appunto una volta era la prassi materiale, oggi è il linguaggio: in una dematerializzazione dell’agire la cui conseguenza più rilevante sul piano politico e sociale consisterebbe nella possibilità di stringere in un general intellect discorsivo, in una rete di comunanza comunicativa, la massa dei nuovi lavoratori della mente. La nuova organizzazione del lavoro, basata sull’elaborazione, non di materia, ma di informazione, metterebbe dunque in campo una nuova tipologia di lavoro, consistente nell’elaborazione da parte di un’attività mentale di una materialità non materiale bensì virtuale e simbolica: ossia nella messa in campo di un’attività che, essendo intellettuale, sarebbe di natura signorile, in quanto non ha a che fare con la pesantezza e la naturalità del corpo. E che sarebbe contemporaneamente attività comunitaria e comune (per non voler dire comunista), in quanto, affrancata dalla materialità dei corpi e libera dalla strumentazione obbligata del macchinismo fordista, metterebbe tutti i cervelli in rete, producendo quell’intellettualità diffusa per la quale taluni, a cui non manca evidentemente la raffinatezza ironica dello scherzo, non si sono timorati di  richiamare, per indicare il grado di coesione comunitaria (per non voler dire comunista) della nuova moltitudine dei lavoratori della mente, il darsi oggi in atto del νους, dell’intelletto aristotelico, interpretato in chiave averroista, ovvero di un intelletto universale di cui partecipano, senza separazione alcuna, le menti d’ognuno.

Oppure, si dice, il superamento del grande sistema di fabbrica e dei sistemi di produzione in serie dei beni di consumo di massa ha generato un’individualità leggera e flessibile, lontana da ogni vincolo comunitario, la quale, avendo a che fare con una produzione di segni e di immagini, può ora fare della propria vita una scelta personale e costantemente rimodellabile, attraverso l’assunzione di molteplici ruoli, proprio perché non legata più a fissità di funzione corporea e materiale.

2. Dal comando del corpo al comando della mente.


Ciò che a mio avviso va invece considerato è che l’informazione, in un processo di lavoro capitalisticamente organizzato, non è mai solo descrittiva, ma è sempre anche prescrittiva; implica cioè un codice di senso predeterminato che obbliga la forza lavoro in questione a muoversi sempre secondo un contesto di possibilità già definite e strutturate. Non va dimenticato infatti che la caratteristica fondamentale delle nuove tecnologie è quella di collocare una serie enorme di informazioni al di fuori del cervello umano. Ora tale mente artificiale può valere come ampliamento di memoria a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo solo nel caso di attività private e ad alto contenuto di professionalità. In tal caso infatti la macchina informatica, con la moltiplicazione delle sue memorie e l’estensione delle sue banche dati, vale come intensificazione ed allargamento delle potenzialità fisiche e psichiche dell’essere umano. Ma nel caso dei processi lavorativi finalizzati alla produzione e circolazione di merci, alla produzione di servizi, alla informatizzazione di funzioni burocratiche pubbliche, la mente artificiale appare funzionare invece come mente esterna, che sistema e accumula le informazioni secondo un codice che implica contemporaneamente schede o disposizioni predeterminate di lavoro, ossia modalità flessibili ma predeterminate di intervento e di risposta da parte della mente del lavoratore non manuale.

Si vuole dire cioè che oggi è l’anima, per così dire, del nuovo lavoratore cognitivo, la sua intelligenza, sia come comprensione globale intuitiva che come attitudine logico-discorsiva, ad essere ora subordinata a un programma di senso e di operazioni già predefinite. Nel senso che proprio ciò che finora veniva definito come la caratteristica più personale e non omologabile del soggetto umano, proprio ciò che il fordismo teneva ben lontano dal campo di battaglia nel suo confronto di classe e nella sua organizzazione del lavoro (appunto le anime e le menti dei lavoratori) ora entra invece in un campo di fungibilità interagente, ma subalterna con la macchina dell’informazione. La quale per suo verso, accumulando enormi quantità d’informazioni alfanumeriche sulla base del linguaggio binario, dell’alternanza cioè di 0 ed 1,  riproduce il mondo reale eliminando da esso qualsiasi ambivalenza e contraddizione, secondo la riduzione identitaria che è propria di ogni linguaggio matematico-quantitativo. Matematizzazione e codificazione del mondo che, va aggiunto, dal lato del lavoratore cognitivo e della sua prestazione, richiede la cooperazione di una soggettività istituita ovviamente assai più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.

Ma è proprio in questa riduzione della coscienza e del lavoro mentale di massa ad operazioni precodificate di senso, che si colloca a mio avviso il passaggio dal moderno al postmoderno. Ossia nel passaggio, come i più sostengono, dalla materialità alla virtualità, dalla centralità che nella prassi economica assume, al posto del corpo, la mente: ma una mente, aggiungiamo noi, privata della sua profondità ed esposta a un gravissimo grado di eteronomia. Per dire cioè che il postmoderno coincide con una valorizzazione solo estrinseca ed apparente della soggettività. Coincide con lo svuotamento di una soggettività, la quale, proprio nel momento stesso in cui viene valorizzata e messa in campo, è obbligata invece a rinunciare alla sua autonomia e a quella verticalità di percezione e di giudizio che potrebbe attingere solo nella profondità del proprio corpo emozionale e nelle stratificazioni di senso della propria memoria. La produzione del capitalismo ad accumulazione flessibile, oltre che produzione di merci in cui spesso il software ha un rilievo assai più esteso dell’hardware, è contemporaneamente produzione di una soggettività capitalistica costruita ed educata a svolgersi assai più sull’asse orizzontale che non su quello verticale del proprio sé, se, per dirla assai in breve, con asse orizzontale della persona s’intende il rapporto sé-altri-da-sé e con asse verticale il rapporto sé-altro-di sé, cioè quella connessione mente-corpo, di cui, nella funzionalità e nella patologia, discorre in modo scientifico essenzialmente la psicoanalisi. E ciò proprio a partire dalla rivoluzione tecnologica della macchina dell’informazione, che rovescia in senso letterale il fordismo, per cui mentre nel taylorismo ciò che viene disciplinato e normalizzato (nel senso di essere condotto a norma) è il corpo, con l’espulsione della mente, nel postfordismo ciò che viene disciplinata e normalizzata è la mente attraverso l’espulsione dal processo produttivo del corpo.

Da tale produzione capitalistica di soggettività, da tale svuotamento dell’individualità a motivo dell’estinzione pressocchè totale della sua capacità di interiorizzazione, nel senso della sua capacità di sentirsi e riconoscersi, non può che derivare un superficializzarsi dell’esperire, un mutamento cioè storico-antropologico tendenzialmente radicale, secondo cui i contenuti della vita, sia individuale che collettiva, del mondo nel suo complesso, appaiono e vengono percepiti necessariamente come una superficie frammentata, fatta di momenti ed eventi fondamentalmente slegati fra loro, proprio perché non tenuti insieme da una struttura di profondità.

Così il post-moderno, la visione del mondo che afferma, come sopra ricordavo, che «l’Essere è fondamentalmente linguaggio», che non c’è nessuna realtà o verità oggettiva, così come non ci può essere alcun pensiero forte e sistematico, ma che viceversa tutto è segno da interpretare attraverso segni, è, legittimamente, l’ideologia del post-fordismo, in quanto è un modo di rappresentare e percepire il mondo che viene prodotto con lo stesso atto della produzione dei beni economici, materiali o immateriali che essi siano. Per cui potremmo dire che il post-moderno si caratterizza per la capacità dell’economico di produrre, oltre che la materialità delle merci, anche e direttamente il simbolico: in una sorta di cancellazione radicale della distinzione tra struttura e sovrastruttura che rafforza il nostro convincimento di quanto tale distinzione sia stata il nucleo verosimilmente più debole e più autocontradditorio delle pagine marxiane nell’Ideologia tedesca sul cosiddetto materialismo storico. Con il passaggio dalla fase storica dell’accumulazione rigida a quella dell’accumulazione flessibile, la produzione di capitale spiega viceversa perché il Marx maturo ha dato il titolo neutro ed impersonale di «Das Kapital» alla sua critica conclusiva dell’economia politica. Il capitale è una struttura sociale infatti tendenzialmente totalitaria, proprio a muovere dal fatto che la sua produzione è contemporaneamente: a) produzione di merci; b) produzione di rapporti sociali scanditi dalla disemmetria del plusvalore e del tempo di lavoro non pagato; c) produzione delle forme di coscienza con cui quell’asimmetria viene negata e dissimulata.

Una corrente della psicoanalisi contemporanea, quella che, lontana dalla seduzioni del lacanismo francese, ha fatto riferimento alla scuola inglese di M.Klein prima e di W.R. Bion dopo, è giunta a teorizzare la composizione dell’essere umano come istituita su due assi costitutivi di senso e di identità: un asse orizzontale formato dal rapporto di riconoscimento o di disconoscimento, di comunicazione o di distanza, con gli altri da sé e un asse verticale  di riconoscimento o di disconoscimento, di accoglimento o rimozione costituito dal rapporto, presente in ciascuno, tra mente e corpo, quale altro di sé. In una possibile integrazione dei due assi, consustanziali e compresenti tra loro ma pure eterogenei, per la quale l’apertura del mentale al corporeo-emozionale sarebbe intrinsecamente connessa con esperienze orizzontali di riconoscimento, quanto, viceversa, solo l’approfondirsi della mente nella profondità del proprio sentire affettivo-emozionale potrebbe garantire un rapporto orizzontale, non viziato da mimetismi e subalternità, bensì da reciproche simmetrie e individuazioni.

Nel nuovo tipo di lavoro, invece, il sistema «macchina informatica-forza lavoro» richiede, come s’è detto, un’espulsione generalizzata dagli spazi della produzione della corporeità emozionale: richiede una “liberazione” radicale della mente dal corpo che consegna la mente in  questione a una semantica decorporeizzata e anaffettiva.

3. La macchina come rapporto sociale.


Alla base di queste mie riflessioni sta una concezione della macchina per la quale essa va concepita, all’interno del sistema di valorizzazione del capitale, mai come cosa, bensì come parte di un sistema macchina-forza lavoro: un sistema a doppia uscita, per il quale  mentre da un lato si produce merce e qualsivoglia oggetto di lavoro, dall’altro si producono forme dell’identità umana e soggettività. Come tale la macchina implica in sé un rapporto sociale, una produzione antropologica che smentisce ogni concezione tecnico-positivistica del mezzo di lavoro quale mero strumento a disposizione di un soggetto. Tale sua natura sistemica è intrinsecamente legata all’uso valorizzante, in senso capitalistico, della forza lavoro, e le sue configurazioni tecnologico-sistemiche mutano secondo le diverse epoche della storia della scienza e insieme delle relazioni e dei poteri tra ceti e classi all’interno delle società capitalistiche.

La notevole difficoltà nell’accogliere una concezione della macchina, non come mero strumento, ma come rapporto sociale nasce – come molti altri luoghi della tradizione critica della contemporaneità che fa riferimento ai classici del marxismo – dalle contraddizioni e dalle ambiguità teoriche dello stesso Marx, il quale è pensatore, almeno a parere di chi scrive,   non unitario bensí composito, fino ad essere esito, nella sua stessa opera, di più e varie sedimentazioni teoriche. Nei testi marxiani è presente infatti una doppia teoria della Maschinerie. Da un lato opera la visione tradizionale e maggioritaria della macchina come strumento a disposizione di un soggetto che lavora – come mezzo dunque neutrale e cosale, comandato e mosso dall’essere umano – che si riassume nel concetto di «forze produttive», quale elemento continuo e accumulativi del progresso storico. Lo sviluppo delle forze produttive costituisce lo zoccolo duro più positivo della storia del genere umano, il luogo in cui il genere (Gattung) dell’homo faber deposita ed esprime le capacità e le virtù più elevate della sua specie e che, come tale, rappresenta il filo rosso della storia: elemento positivo della storia e della crescita della menschliche Gattung che si trova ad entrare in contraddizione, ad ogni passaggio tra epoche storiche, con i rapporti di produzione, ossia con le forme della proprietà e del diritto che comandano la divisione e la distribuzione dei beni prodotti. Questa tesi del divenire della storia, in cui si sintetizza il cosiddetto materialismo storico insieme all’altro principio geologico-edilizio di struttura e sovrastruttura, riposa su una concezione della macchina/strumento, il cui fondamento è la metafisica spiritualistica, presente ancora nel  Marx del Capitale come residuo del suo umanesimo giovanile, e fondata sull’antropocentrismo e sul principio dell’«essere umano di genere» (menschlische Gattungswesen), quale soggettività universalmente fabbrile, che attraverso la prassi lavoratrice modella e supera il naturale, secondo una propria natura intrinsecamente sovranaturalistica e non-finita.

4. «Technik» e «Technologie».


Tra le fonti che Marx ha a disposizione per studiare il processo lavorativo come relazione tra persone non mediata dal denaro, bensí mediata dal dominio (Herrschaft) c’è, come prima fra tutte, la tradizione della Technologie e del Cameralismus tedeschi. Ricordo che in un quaderno di estratti del 1851 il Marx che lavora al British Museum fa delle sintesi storico-tecnologiche delle opere di due tardocameralisti fondamentali nella storia della cultura politica e tecnologica della Germania del ‘700 come Johann Beckmann e il suo allievo H.M.Popp[2].

Il cameralismo è un sistema di pensiero e di pratiche politico-giuridico-amministrative che fiorisce nei paesi tedeschi in particolare nella prima metà del XVII° secolo. Legato alla Camera, in lingua latina, o alla tedesca Kammer , dove si conserva il tesoro del principe, raccoglie e sviluppa l’insieme minuzioso delle regole governative e amministrative attraverso le quali il principe assicura ordine e benessere ai suoi sudditi. La Cameralwissenschaft è l’insieme delle norme che caratterizzano la gestione insieme illuminata e paternalistica di uno Stato patrimoniale, in cui non c’è distinzione tra amministrazione del patrimonio del principe e amministrazione dello Stato. Ed è appunto la scienza giuridico-amministrativa, insegnata nelle Università tedesche a partire da Göttingen, che deve preparare i burocrati attraverso cui il principe governa un Polizeystaat, o Stato di Polizia, dove Polizey indica, non l’insieme moderno degli strumenti di repressione, ma, con riferimento al significato classico del termine, la cura del bene collettivo[3]. Nel superamento di una altständische Gesellschaft, di una società cioè organizzata per ordini o ceti (Stände), iscritta ancora nell’orizzonte medioevale e premoderno, lo Stato cameralista è l’espressione di una lotta vittoriosa di un potere che si fa centralizzato e monopolista rispetto alla molteplicità di poteri e di fonti giurisdizionali che caratterizzano appunto una società cetuale. E, diversamente dal futuro stato liberale, ha come finalità attraverso un politica massicciamente interventista, più che la libertà dei sudditi, il loro Wohlfahrt, il loro benessere, come vuole il nesso paternalistico figli-padre[4].

La Technologie è un ramo fondamentale della Cameralwissenschaft ed è costituita dall‘insieme di competenze che spettano al burocrate cameralista per organizzare nel modo più efficace i processi di lavoro e di produzione di beni, considerandoli, si noti bene, come l’assemblaggio di cose che devono essere ben composite e regolate. La Technologie ha per Bechmann e Poppe, ma anche per Marx, lo status delle scienze naturali (Beckmann è allievo di Linneo)[5] nella misura in cui esclude dal processo di lavoro la presenza di comportamenti e di variabili soggettive, studia la produzione come una combinazione di cose, le cui regole di funzionamento sono sotto il controllo e il dominio del solo scienziato-burocrate cameralista. Il Marx della maturità rigetta, com’è ovvio, il cameralismo come sistema politico-amministrativo paternalistico e premoderno, ma accoglie la Technologie come scienza moderna del processo di lavoro, appena questo cessa di essere considerato dal punto di vista del prometeismo della prassi e viene considerato dal punto di vista del capitalista di ridurre costantemente il lavoro vivo a lavoro disciplinato, normato ed astratto. Come scrive chiaramente nel primo libro del Capitale: «Il principio della grande industria di risolvere nei suoi elementi costitutivi ciascun processo di produzione, in sè e per sé considerato e senza tener nessun conto della mano dell’uomo, ha creato la modernissima scienza della tecnologia»[6]

Technologie va distinta da Technik, almeno nel contesto tedesco, pur se lo stesso Marx non usa sempre questi termini nella corretta distinzione. Ma si può evidenziare nelle pagine soprattutto del Capitale l’uso di Tecknik come termine maggiormente riferito alla relazione tra forza-lavoro e strumento di lavoro, in quanto insieme di mezzi di cui il lavoratore dispone per eseguire il proprio compito, e l’uso invece di Technologie come termine riferito alla descrizione del processo di lavoro in quanto processo naturale-oggettivo privo dell’intervento attivo della soggettività di attori sociali. Così la dislocazione che Marx compie dell’orizzonte naturalistico della Technologie dalla Cameralwissenschaft e dal Polizeystaat al capitalismo e alla grande industria gli consente di abbandonare l’umanesimo della filosofia della prassi della Deutsche Ideologie[7] e di inaugurare uno studio del processo di lavoro moderno in cui l’uso capitalistico della forza-lavoro, il suo uso e consumo, è istituito e attraversato dalla dimensione del dominio, dove per principio non entra la democrazia e la relazione reciproca tra soggettività.

La produzione di lavoro astratto – il fatto cioè che ad ogni nuova generazione di lavoratori gran parte delle conoscenza, delle decisioni tecniche e dell’apparato disciplinare siano poste fuori del controllo della persona che concretamente effettua il lavoro –  appare quindi la categoria centrale del sistema teorico di Marx. Perché spiega sul piano economico l’origine reale, «praticamente vera», della teoria del valore-lavoro in quanto basata su lavoro astrattamente eguale, come spiega nello stesso tempo sul piano giuridico-politico il deficit strutturale, e  insuperabile nel capitalismo, di democrazia.

Ma paradossalmente proprio questo che è il luogo massimo del disconoscimento sociale per Marx è stato a sua volta profondamente disconosciuto nella storia dei marxismi europei, caratterizzata più da un’adesione al prometeismo di Marx e all’esaltazione dello sviluppo delle forze produttive che non dall’inaugurazione di una sociologia critica del processo di lavoro. Basti pensare, in modo assai sintetico, alla curvatura positivistica che affetta la cultura della IIª Internazionale, come alla singolare mescolanza che paradossalmente viene compiuta nell’opera di Lenin tra Marx e Taylor, come, infine, alle pagine, pure acute e intelligenti, di Gramsci su Americanismo e fordismo, nelle quali l’automatismo del lavoro a catena diviene addirittura un’occasione per la liberazione della mente.

Ma la coincidenza semantica che Marx ha posto tra Technologie e uso capitalistico della forza-lavoro non viene rivelata neanche dalla autori della scuola storica tedesca, né di prima né di seconda generazione, come Knies, Schmoller e Weber. In questi autori l’uso del termine Technologie scompare progressivamente a favore di quello di Technik e in particolare con Weber il termine Technik definisce l’insieme di mezzi che intervengono in ogni tipo di attività razionale. Nelle opere di Weber, mentre il termine Technik è onnipresente, quello di Technologie compare all’incirca dieci volte. Ed appunto Technik assume un valore né economico né sociologico, quanto a sociologia del processo di lavoro, bensì culturale. Nel senso che, una volta scelto come possibile comportamento di valore l’agire razionale rispetto allo scopo rispetto ad altre forme possibili di azione, la scelta dei mezzi più appropriati, calcolati secondo il minimo costo e il massimo risultato, è ciò che Weber definisce come un problema tecnico. Technik è sinonimo dunque in Weber di calcolo razionale e  concerne un rapporto tra qualsiasi soggetto dell’agire razionale e i suoi mezzi d’azione. Diviene una categoria di valore culturale, un segmento di un idealt-tipo dell’agire umano, che concerne più il rapporto soggetto-oggetto, uomo-natura, che non il rapporto uomo-uomo. Dove è evidente che in questa dilatazione di senso del termine e attraverso la sua collocazione di senso nell’ambito della scelta soggettivo-culturale tra diversi valori spirituali, ciò che viene meno è proprio l’attenzione marxiana alla  diversità degli attori sociali che entrano in gioco nel processo di lavoro.

Nella cultura tedesca a cavallo tra ‘800 e ‘900 la coppia semantica Technologie/Technik vede la diffusione sempre più ampia del lemma Technik nell’accezione weberiana. Con l’eccezione di Schumpeter  che nella sua Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung torna a leggere la Technik come l’azione di uno specifico e nuovo attore sociale, quale l’imprenditore, che si distingue dal capitalista, proprietario del capitale, e la cui azione consiste nella costante innovazione, quale capacità di combinare in modo sempre nuovo materie prime, macchine e lavoratori all’interno del processo produttivo, per competere sul mercato con gli altri capitalisti. Ma è appunto, nella cultura tedesca, la semantica weberiana di Technik a guidare la diffusione e la generalizzazione del termine. E tecnica sta qui a significare, non la specificità del processo capitalistico di lavoro con la sua asimmetria costitutiva di ruoli sociali, bensí l’insieme di mezzi a disposizione di un attore che calcola razionalmente, indipendentemente da particolari sistemi di credenze. Mezzi di un soggetto che, per la loro crescita, la loro progressiva concatenazione e il loro gigantismo, possono farsi essi soggetto e condurre a morte la cultura dell’Occidente. Sembra quasi superfluo aggiungere che la concezione heideggeriana della tecnica che trova in questo contesto semantico le sue radici non ha nessun punto né di conoscenza né di contatto con la concezione del Max maturo riguardo al processo di lavoro. Semmai ha punto di contatto critico con il prima Marx, teorico della praxis e dello sviluppo delle forze produttive. Ma nella teoria matura della Machinerie per Marx la macchina non è concepibile come una cosa, come un oggetto o mezzo di lavoro a disposizione di un soggetto produttore. La macchina è bensì sempre intrinsecamente connessa e correlata alla forza-lavoro, in un connessione che dà vita a un sistema organico di macchine e forza lavoro, che, come produce beni e merci vendibile e scambiabili, produce nello stesso tempo soggettività lavorative astratte e subalterne, ossia la soggettività capitalistica di massa.

Tale concezione della macchina coesiste in Marx, come dicevo, con una concezione più ingenua: in talune opere, soprattutto in opere giovanili, egli parla della macchina come cosa, come strumento, che potrebbe, in quanto strumento essere trasferita da un’organizzazione capitalistica a un’organizzazione comunista, e questa neutralità delle macchine ha costituito l’assunto teoricdella definizione leninista del comunismo – il taylorismo più l’elettrificazione e i soviet -, dove rimaneva sostanzialmente immutata la struttura organizzativa  e tecnologica della produzione capitalistica, mutandosi solo la struttura politica.

Invece, mettere a fuoco la teoria marxista della macchina, non come cosa isolata, ma come luogo e sedimentazione di un rapporto sociale – per la sua determinata connessione sistemica con un determinato uso della forza-lavoro – implica, appunto, tener ben presente la differenza semantica tra i due lemmi, Technik e Technologie, spesso sovrapposti ma per altro ben identificabili nella loro distinzione di significato, nell’opera marxista. Tanto che per tutti coloro che esaltano il postmoderno quale liberazione del lavoro e della soggettività, a muovere dalla sua tessitura informatico-virtuale, torna a ripetersi, vien voglia di dire, proprio l’effetto di deformazione ottica che si genera dalla sovrapposizione del campo semantico, cui rimanda la «tecnica», con quello cui rimanda la «tecnologia»: in una deformazione visiva che da sempre impedisce, a uno sguardo sulla modernità che pur si vorrebbe critico, di lacerare il velo di un deformante positivismo e di un’ottundente reificazione.

L’indistinzione di tecnica e tecnologia, con i  loro rispettivi ambiti semantici, che rimandano a prospettive di senso profondamente diverse, costituisce dunque, a mio avviso, un errore, se non l’errore capitale, di fraintendimento dell’essenza della modernità. Tale indistinzione, s’è detto, nasce fondamentalmente con Max Weber, attraverso il rilievo dato da questo autore alla sola tecnica e attraverso la rimozione, che si compie nella sua opera, del significato di ciò che era Technologie. Essa si sviluppa nella cultura tedesca, attraverso l’opposizione tra Kultur e Technik, Kultur e Zivilisation, Kultur e Mekanisierung, e trionfa nell’incomprensione del moderno imposta a tutto il ventesimo secolo dal celeberrimo discorso heideggeriano sulla tecnica.

La tecnologia, come Technologie, nasce, come ho ricordato, quale disciplina autonoma nelle università tedesche del XVIII secolo, nell’orizzonte premoderno del Polizeystaat, e il suo oggetto di studio è una sfera specifica di dominio e di controllo politico-economico: la conoscenza e la signoria che quell’attore sociale che è il burocrate cameralista (il quale non ha alcun corrispondente nelle istituzioni britanniche e americane) deve avere nei diversi rami del lavoro industriale, perché venga prodotta ricchezza nello Stato e il principe possa garantire ai suoi sudditi ordine e benessere. La Technologie si sviluppa all’interno della prospettiva oggettivistica delle scienze naturali, in quanto deve studiare il modo in cui oggettivamente il lavoratore, considerato come mera cosa o come mero strumento, si connette con i mezzi di lavoro.

Ben diverso è il significato di «tecnica», quale viene concepita e codificata nell’opera di Weber. Essa, nella sua accezione generale, designa infatti per il sociologo tedesco  non una procedura o una regola d’azione imposta socialmente, come nella Technologie, ma l’insieme dei mezzi utili al conseguimento di un fine da parte di un qualsiasi attore sociale, che calcola nel senso della produzione più efficace tra mezzi scarsi e scopo prescelto. Per dire cioè che nell’impostazione di Weber il lemma «tecnica» rimanda sempre a un impianto soggettivistico: è la capacità del soggetto moderno di scegliere economicamente la via più rapida ed efficace nella corrispondenza tra mezzi e fini.

Tale definizione di tecnica come riferita ad un impianto umanistico-soggettivistico ritorna nell’impostazione heideggeriana. Giacché a me sembra che il discorso heideggeriano sulla «tecnica» sia null’altro che una traduzione filosofico-ontologica dell’impostazione soggettivistica di Weber: con l’annesso rovesciamento per cui il soggetto prometeico e produttore si ritrova ad essere, esso medesimo, ridotto poi ad oggetto ed intrappolato in una gabbia d’acciaio. Assai singolare perciò, a me sembra, quanto segno di una profonda incomprensione dello status quaestionis, il rilievo che è stato dato a questo autore, quale presunto interprete originale della modernizzazione tecnica ed industriale. Tanto più che molta della intellettualità europea dell’ultimo quarantennio ha utilizzato il discorso heideggeriano sulla tecnica (senza tralasciare Nietzsche, che di quel di scorso è l’altra fonte ispiratrice), per abbandonare il marxismo, cui superficialmente aveva aderito, e traghettarsi per altri sentieri: per farsi di lì, come intramontabili maîtres à penser, pastori dell’Essere o cantori postideologici del postmoderno.

Torno a dire che tale distinzione rimane fondamentale e che la diversità di significato tra i due ambiti semantici ha fortemente contribuito a quella valorizzazione, a mio avviso, infondata del lavoro informatico, di cui dicevo all’inizio: la quale mette in scena, oggi, l’ironia più crudele del (post-)moderno, perché è come se tutti i valori più significativi, anche se indubbiamente minoritari, dei movimenti di protesta degli anni ’60 – i valori cioè dell’autonomia, della creatività, dell’individuazione e della realizzazione del sé -, si siano oggi sì realizzati, ma nella forma di una autonomia e di una un’autenticità del tutto amministrate, e perciò prive di ogni interiorità di senso.

5. Una produzione di «vuoti a perdere».


Infine un’ultima considerazione sulla connessione intrinseca che s’è data, nell’intero mondo occidentale ma particolarmente nella recente storia italiana, tra svuotamento/distruzione della scuola pubblica e formazione della nuova forza-lavoro mentale necessaria al funzionamento del capitalismo postmoderno. Alla produzione di una soggettività capitalistica, come quella messa al lavoro dalla macchina dell’informazione, concorre infatti in modo fondamentale una scuola che ha visto perdere progressivamente ogni istanza di formazione umanistica e di approfondimento del passato, come di ogni seria e accurata preparazione nel campo scientifico.

Accanto alla distruzione del liceo, ridotto a un contenitore vuoto di mero intrattenimento di masse giovanili, salvo ovviamente l’eccezione di singole situazioni, s’è associata nell’ultimo decennio la cosiddetta riforma universitaria del «3+2» (laurea triennale + laurea magistrale) che ha spento ogni margine di studio serio nelle università, consegnando la popolazione studentesca a una miriade di esami dimidiati, di moduli, di corsi brevi che non consentono, nel loro vorticoso susseguirsi, alcuna profondità e alcuna interiorizzazione, né di concetti né di grandi visioni storico-interpretative. Al massimo, quando funziona sufficientemente, l’Università pubblica svolge le funzioni di un liceo. E questo dice moltissimo sulla funzione effettiva dell’intero impianto educativo, il cui fine progettato, non importa quanto intenzionalmente o meno, da politici, da educatori e da tecnici della scuola, è stato quello di produrre dei «vuoti a perdere», delle menti cioè incapaci di profondità e autonomie interiori e volte solo all’assimilazione di un sapere già codificato e di facile assimilazione: ovvero di menti capaci di muoversi con una certa disinvoltura nel contesto linguistico-comunicativo delle nuove tecnologie informatiche ma antropologicamente private di qualsiasi attitudine critica.

Soprattutto in Italia si è trattato di eliminare l’anomalia dei suoi istituti di formazione che, a partire dalla riforma di Giovanni Gentile, costituivano nel secondo dopoguerra del ‘900 un’eccezione di rilievo rispetto all’omologazione scolastica dell’intero mondo occidentale al modello anglo-americano che, con la formula del positivismo scientifico e concreto contro l’umanesimo e lo storicismo astratti, già da tempo s’era socialmente imposto nell’intero Occidente come modello egemone di trasmissione educativa, secondo il quale l’addestramento al saper fare deve superare ogni forma, non immediatamente utilizzabile, di mero sapere.

Né è un caso che tale opera di modernizzazione (o meglio di postmodernizzazione) dell’apparato scolastico-universitario in Italia sia stato perseguito e guidato dal personale politico e specialistico-pedagogico dell’area degli ex-comunisti, che hanno conquistato il loro trasformismo da stalinisti-democratici a liberal-democratici proprio attraverso questa opera di demolizione della scuola/Università pubblica (insieme all’altra grande riforma, di carattere americano-occidentale, compiuta nell’ambito politico, con il passaggio dalla rappresentanza dal proporzionale al maggioritario, che è valso come introduzione al berlusconismo nel nostro sistema politico-sociale).

Dire che la storia d’Italia sia stata profondamente condizionata, nel bene e nel male, dalla storia del Partito Comunista Italiano è cosa ovvia. Ma poche riflessioni ci sono state su cosa si sia giocato d’assai significativo nella storia della scuola e della formazione pubblica almeno a partire dal ’68 nel nostro paese.

Il togliattismo aveva infatti significato difesa e sviluppo della democrazia, sociale e politica, ma a muovere da un marxismo storicista che, per la fragilità o, a dir meglio, per l’inconsistenza del suo apparato teorico, aveva accettato completamente il modello di sviluppo economico e antropologico del capitalismo e dell’americanismo. Da questo punto di vista l’opposizione prima e la repressione poi, da parte della rappresentanza storica e istituzionale dei ceti popolari, nei confronti delle istanze, confuse ma sollecitanti, dei movimenti studenteschi e giovanili del ’68, è stata, nella sostanza, totale e radicale. Con la conseguenza che la problematica di nuove forme di trasmissione del sapere, legate alla possibilità di una scuola e di una Università qualificate e di massa, è durata lo spazio di un mattino, che ha visto alla fine gli studenti fuoriuscire dalle Università e trasformarsi rapidamente in formazioni politiche con destinazione operaia. Anche perché appunto l’umanismo storicista del togliattismo, istituito com’era sul mito illuminista e giovanil-marxiano della continuità e del progresso della storia, per quanto si era mostrato incapace di comprendere, se non di prevedere, le trasformazioni tecnologiche e sociali sul piano dell’economia, era stato del pari del tutto insufficiente a mettere a fuoco un programma di riforme scolastiche e formative che valessero a coniugare insieme, appunto, scolarizzazione e formazione universitaria di massa con una trasmissione di sapere di alta qualificazione.

Del resto tra la cultura veterocomunista, basata sull’unico valore dell’eguaglianza collettiva, e le movenze anti-autoritarie e di realizzazione di sé proprie dei movimenti giovanili di protesta, quali già si erano sviluppate pienamente e originalmente durante gli anni ’50 e ’60 negli Stati Uniti, s’è data, fin dall’inizio, una contraddizione insanabile: fino a quando gli stalinisti democratici, per mantenersi come ceto politico professionale e privilegiato e per farsi accogliere come classe dirigente, non hanno esitato a far proprie tutte le versioni più dequalificate e mercantilistiche dell’individualismo borghese, promuovendo, come si diceva, la distruzione della scuola e dell’Università italiane. Rimarrà a conforto storico della loro condotta, solo lo sciagurato consenso con cui la quasi totalità dei docenti universitari italiani ha accettato, spesso con inopinato entusiasmo, la modernizzazione e l’adeguazione al modello occidentale-europeo dei nostri corsi di studio.

Ma della fabbrica dei vuoti a perdere e della produzione di un homo informatico-linguisticus riderà, dal cielo della storia, soprattutto il vecchio Marx: per vedere confermata, con un futuro a posteriori, quella dottrina del «lavoro-astratto», da lui concettualizzata e definita quale principio fondamentale di un capitalismo, il quale, a ben vedere, rimane immutevole nel funzionamento di fondo della sua struttura, quali che siano le possibili variazioni delle sue forme di accumulazione e i suoi passaggi da moderno a postmoderno.

Così nella produzione di lavoro astratto – in tale vuotezza d’esistenza e d’individuazione – viene meno il riconoscimento democratico per Marx. Ma il limite, come sappiamo da Hegel, non separa mai le questioni e gli ambiti, bensì li connette e li unisce. Vale a dire che la questione fondamentale della democrazia, quale il Marx del Capitale l’ha implicitamente formulato, non è quella di un potere politico che dall’esterno possa condizionare il sistema macchine-forza lavoro bensì è quello dell’estensione del diritto e del dovere del reciproco riconoscimento che possa spezzare la produzione di lavoro e di soggettività astratte. Ben al di là dunque di ogni distinzione tra agire comunicativo e agire strumentale.

Per concludere io credo che l’eredità che Marx ha lasciato alla tradizione democratica europea non si limiti al lascito negativo di una critica estremistica del diritto e dello Stato come luoghi solo di un’eguaglianza formale e apparente ma includa soprattutto il limite interiore, strutturale e sempre più espansivo, che il lavoro astratto e il suo vuoto d’individuazione pone al politico moderno e alla sua capacità, effettiva o meno, di autonomia. Il Marx del Capitale ha individuato nelle astrazioni economiche, e non in quelle politiche, la capacità di generare i nessi moderni di socializzazione. Tale dislocazione dell’astratto dal giuridico-politico all’economico,  che ha luogo nel passaggio di Marx dal pensiero della giovinezza a quello della maturità, continua a bussare alla porta e a porre problemi ai teorici della democrazia e dell’autonomia del politico.

Questa concezione della macchina coesiste, in Marx, con una concezione più ingenua: in talune opere, soprattutto in opere giovanili, egli parla della macchina come ‘cosa’, come strumento, che potrebbe, in quanto strumento, essere trasferita da un’organizzazione capitalistica a un’organizzazione comunista, e questa neutralità delle macchine è stata la base della definizione leninista del comunismo – il taylorismo più l’elettrificazione e i soviet –, dove rimaneva sostanzialmente immutata la struttura organizzativa e tecnologica della produzione capitalistica, e mutava solo la struttura politica. A proposito, invece, della concezione della macchina come luogo di un rapporto sociale, e quindi della macchina da non intendersi mai nel suo isolamento di ‘cosa’, ma sempre nella sua connessione sistemica con la forza lavoro, svolgo ora delle riflessioni sulla differenza dei due lemmi, Technik e Technologie, ‘tecnica’ e ‘tecnologia’, nell’opera di Marx. Per concludere vorrei dire che, per tutti coloro che esaltano il post-moderno, informatico e segno linguistico, come liberazione del lavoro e della soggettività, si ripete a mio avviso l’effetto di deformazione ottica provocato dalla sovrapposizione di ciò che è tecnica a ciò che è tecnologia, che da sempre impedisce, a uno sguardo sulla modernità che pur si vorrebbe critico, di lacerare il velo di un deformante positivismo e di un’ottundente reificazione. L’indistinzione di tecnica e tecnologia, dei loro rispettivi ambiti semantici, che rimandano a prospettive profondamente diverse, costituisce a mio avviso un errore, se non l’errore capitale di fraintendimento dell’essenza della modernità. Quest’indistinzione nasce fondamentalmente con Max Weber, attraverso il rilievo dato alla sola tecnica, e attraverso la rimozione, nella sua opera, del significato di ciò che era Technologie; essa si sviluppa, nella cultura tedesca, attraverso l’opposizione tra Kultur e Technik, Kultur e Zivilization, Kultur e Mekanisierung, e trionfa nell’incomprensione del moderno imposta a tutto il ventesimo secolo dal celeberrimo quanto a mio avviso inopinato discorso heideggeriano sulla tecnica. La tecnologia, come Technologie, nasce invece come disciplina autonoma nelle università tedesche del XVIII secolo, nell’orizzonte premoderno del cosiddetto Polizeistaat, o stato di polizia, e il suo oggetto di studio è una sfera specifica di dominio e di controllo politico-economico: la conoscenza e la signoria che quell’attore sociale che è il burocrate cameralista (il quale non ha alcun corrispondente nelle istituzioni britanniche e americane) deve avere nei diversi rami del lavoro industriale, perché venga prodotta ricchezza nello Stato, e il principe possa garantire ai suoi sudditi ordine e benessere. La Technologie nasce dunque nell’ambito del cameralismo tedesco immediatamente premoderno e si muove, come visione delle cose, all’interno della prospettiva oggettivistica delle scienze naturali, perché deve studiare il modo in cui oggettivmente il lavoratore si connette con i mezzi di lavoro. Ben diverso è il significato di ‘tecnica’, come viene concepita e codificata nell’opera di Weber; essa, nella sua accezione generale, designa infatti per il sociologo tedesco non una procedura o una regola d’azione imposta socialmente, come nella Technologie, ma l’insieme dei mezzi utili al conseguimento di un fine da parte di un qualsiasi attore sociale, che ‘calcola’, nel senso della produzione più efficace fra mezzi scarsi e scopo prescelto. Questo per dire cioè che nell’impostazione di Weber il lemma ‘tecnica’ rimanda sempre a un impianto soggettivistico: è la capacità del soggetto moderno di scegliere economicamente la via più rapida ed efficace nella corrispondenza di mezzi e fini. Questa definizione di tecnica come riferita ad un impianto soggettivistico ritorna pari pari nell’impostazione heideggeriana: il discorso heideggeriano sulla tecnica, a mio avviso, è null’altro che una traduzione dell’impostazione soggettivistica di Weber.

Karl Marx, nella sua opera, ha fatto riferimento, attraverso lo studio di autori come Beckmann ed altri, fondamentalmente all’ambito semantico della tecnologia tedesca, e la Technologie tedesca è appunto lo studio non soggettivistico, ma oggettivistico, del modo in cui si combinano forza lavoro e mezzi di lavoro. Credo che questa sia una distinzione fondamentale, e che la sovrapposizione di senso tra questi due ambiti semantici abbia generato questa valorizzazione, a mio avviso, infondata del lavoro informatico, il quale rappresenta forse, in questo momento, l’ironia più crudele del moderno, perché è come se tutti i valori per cui noi antichi sessantottini abbiamo lottato, i valori dell’autonomia, della creatività, della libera realizzazione dell’individuazione, siano oggi realizzati, ma nella sorta di una autonomia e autenticità amministrate.

* Questo testo, presentato come relazione a un convegno organizzato a Napoli nel 2009 dalla rivista di filosofia on line «Kainos» (www.kainos-portale.com) all’interno del ciclo Le parole del Novecento, è stato pubblicato poi nel volume Lavoro, merce, desiderio, a cura di G. Brindisi e E. De Conciliis, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 137-144.


[2] La prima edizione degli Exerpte di Marx, concernenti la letteratura tecnologica a partiure dagli studi londinesi del 1851, è in K. Marx, Die technologisch-historischen Exzerpte, H.P. Müller (hrsg.), Ullstein, Frankfurt/M., 1981.

[3] Cfr. H. Maier, Die ältere deutsche Staats- und Verwaltungslehre (Polizeiwissenschaft). Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Wissenschaft in Deutschland, 2. Auflage, München 1980 (1966): in particolare la prima parte “Stände und ‘gute Polizei’ im älteren deutschen Staatwesen” (pp. 33-91). Ma si veda anche la voce Polizei in C. Rotteci, C. Welker, Staats-Lexicon, Bd. XII, Altona 1841.

[4] Cfr. su ciò P. Schiera, Dall’arte di Governo alle Scienze dello Stato. Il Cameralismo e l’assolutismo tedesco, Milano 1968. Dello stesso autore cfr. le voci Cameralismo, Società per ceti, Stato di Polizia, in Dizionario di Politica, a cura di N. Bobbio. N. Matteuccu, G. Pasquino, Torino 1992.

[5] Il testo più significativo sull’argomento è di G. Frison, Linnaeus, Beckmann, Marx and the foundation of tecnology. Between natural and social sciences: a hypothesis of an ideal type, in «History and Tecnology», 1993, vol. 10, pp. 139-160. Cfr. dello stesso autore anche Technical and technological innovation in Marx, in «History and Technology», 1988, vol. 6, pp. 299-324.

[6] K. Marx, Il capitale, libro primo, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 533.

[7] Sull’iscrizione di tutta la produzione marxiana prima del Capitale in una cornice spiritualistico-essenzialistica, da filosofia della storia, e non da scienza della storia, mi permetto di rinviare al mio Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

  1. Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, p. 9
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