Dominazione e lotta morale

Axel Honneth


Durante il corso della sua vita Hannah Arendt ha sempre compreso il Marxismo come una teoria del diciannovesimo secolo. Ha trovato nel lavoro di Marx una risposta rivoluzionaria a quella ‘questione sociale’ che i progressi nelle condizioni di vita del ventesimo secolo hanno portato a termine[1]. Mentre venti anni fa questa visione si è probabilmente trovata a scontrarsi con alcune correnti intellettuali, oggi Hannah Arendt si sarebbe trovata a far parte di una tendenza generale. Ovunque la teoria di Marx viene di nuovo fermamente posta nel passato come un edificio intellettuale del diciannovesimo secolo. Sembrerebbe che il periodo per una revisione sistematica del Marxismo abbia lasciato il passo ad una tendenza di svalutazione storicizzante. Per i teorici del sistema, il lavoro di Marx presenta una teoria che ha completamente frainteso la realizzazione delle società, in particolare la loro differenziazione funzionale;[2] per alcuni storici, la dottrina di Marx ed Engels è una critica romantica della rivoluzione industriale che inevitabilmente, in quanto dottrina dell’annichilimento, doveva condurre direttamente al totalitarismo comunista;[3] e, per i teorici dei movimenti sociali, Marx ha rappresentato il principale sostenitore di un movimento dei lavoratori i cui obbiettivi di produzione appartengono a un’epoca dei conflitti sociali ormai passata.[4] Infine, in aggiunta a quest’ampio panorama, gli ultimi anni hanno testimoniato la nascita di un genere di storia del Marxismo di carattere auto-critico. Qui Marx non è più visto da una distanza accademica, e la storia delle sue idee è descritta senza risparmio come una linea condannata al fallimento.[5] Per tutti comunque, il potenziale suggestivo della teoria Marxista si è chiaramente esaurito. Posto che il suo contenuto scientifico è stato refutato, le sue pretese politiche storicamente relativizzate e i suoi fondamenti filosofici resi oggetto di critica, il Marxismo è divenuto un oggetto per le reminiscenze degli storici delle idee. Vorrei porre la questione se vi sia qualcosa – e se sì cosa – che nonostante tutto rimanga di Marx e del Marxismo. Mi propongo di fare questo offrendo innanzitutto tre versioni di una critica redentiva del Marxismo (I); per essere sinceri, i tre tentativi hanno pretese scientifiche più modeste, come intendo mostrare in un secondo punto, di quelle che Marx aveva associato alla sua teoria (II); solo con la ricostruzione di questo nucleo riusciremo a denotare quali contenuti topici ancora conservi la teoria di Marx (III).

I
Oggi il Marxismo sembra sopravvivere nella sua forma tradizionale solo nel contesto della filosofia analitica. I pochi scritti con i quali negli ultimi anni si è promulgato un programma scientifico immutato del Marxismo si originano, pressoché senza eccezioni, nel tentativo di fornire un’interpretazione analitica del lavoro di Marx; le dottrine centrali che, come l’idea di struttura e sovrastruttura, fanno parte degli strumenti di lavoro del materialismo storico, sono state soggette ad analisi metodologiche e successivamente sviluppate ad un livello scientifico avanzato.[6] Ma gli sforzi metodologici del Marxismo analitico non si accordano minimamente ai risultati fattuali che producono; sono esattamente i principi centrali che assumono come garantiti ad essere l’odierno oggetto di una critica generale del Marxismo. Le prognosi empiriche del Marxismo sono riuscite a sostenere talmente poco la prova del tempo che la teoria stessa nel suo complesso è divenuta problematica. Di conseguenza, al di fuori del Marxismo analitico probabilmente non può essere trovata nessun’altra teoria che ancora cerchi di riprendere in forma acritica il progetto del materialismo storico. La tradizione del Marxismo autocritico, snodandosi da Karl Kosch fino ad Habermas attraverso Merleau-Ponty, sembra aver raggiunto un nuovo stadio (nuova fase): non sono più singoli aspetti della filosofia di Marx ad essere posti in questione ma il suo intero programma teoretico-sociale.[7]

Nel decennio passato è emersa un singola concentrazione di problemi come punto di riferimento comune per questo nuovo stato della critica: il funzionalismo economico che governa i principi impliciti del materialismo storico. Questo è diventato il punto focale della critica perfino per quei tentativi che si sforzano di recuperare i resti delle idee di Marx per utilizzarli nella teoria contemporanea. Procedono congiuntamente dall’idea per(secondo) la quale la teoria sociale di stampo marxista è stata finora incapace di superare i limiti impostigli dal riduzionismo economico del modello struttura-sovrastruttura; essi criticano quel principio perché considera le sfere non-economiche solo nella misura della loro applicabilità, in quanto espressioni di, o elementi funzionali nel, dominio dell’attività economica stessa.

Tuttavia, gli sforzi in vista una critica redentiva sostengono che, se il processo di riproduzione sociale deve essere adeguatamente analizzato, queste altre sfere di azione o campi funzionali debbano essere considerati rispetto alle loro logiche interne. Oggigiorno, la teoria sociale basata su Marx può riacquistare il suo potenziale critico solo se l’assegnazione della priorità funzionale alla sfera economica viene fatta cadere e il peso degli altri campi di azione riacquista la sua importanza: un’analisi nella quale i progressi di tutte le differenti sfere siano stati investigati come contributi all’unico sistematico obbiettivo della produzione materiale deve lasciare il passo a un programma di ricerca che investighi le interrelazioni storicamente contingenti di sfere d’azione indipendenti.[8]

Mentre i differenti approcci volti ad una critica redentiva del Marxismo voltano tutti le spalle al funzionalismo economico, le posizioni che adottano, al di là di questo accordo negativo, sono tutte differenti l’una dall’altra – differenze che emergono da diverse logiche di azione che ognuna ha sistematicamente aggiornato relativamente alla sfera della produzione economica. A seconda del problema che si assume come centrale per il Marxismo, altre sfere d’azione verranno inevitabilmente denotate, e dovranno quindi essere districate dalla morsa delle analisi economiche. Secondo la mia opinione, credo possano essere distinte tre versioni di siffatta critica redentiva del Marxismo. La prima denota nel Marxismo la mancanza decisiva di una teoria dell’azione collettiva; questa scorciatoia si suppone possa essere compensata ponendo le azioni strategiche di agenti individuali fuori dall’impianto funzionalista della teoria marxista, per poi analizzarle in riferimento solo alla loro logica interna. Dato che quest’analisi si rifà ai metodi della teoria dei giochi, chiamerò questa versione “Marxismo teoretico dei giochi”(a). Anche la seconda versione accusa la teoria marxista della mancanza di un adeguato concetto di azione collettiva; tuttavia, questa deficienza è presumibilmente compensata mediante la rivalutazione di logiche specifiche insite in tradizioni culturali e modelli interpretativi. Chiamerò questa seconda versione di una critica redentiva “Marxismo cultural-teoretico” (b). Infine, la terza versione ritiene che il vero problema del Marxismo risieda nella sua mancanza di una comprensione sufficientemente differenziata del potere sociale; questa deficienza si può apparentemente risolvere rimuovendo i meccanismi di formazione del potere sociale dai loro collegamenti funzionali ai processi di riproduzione economica e perseguendo invece la loro logica indipendente. Così questa terza versione potrebbe significativamente essere chiamata “Marxismo teoretico-del potere” (c).

Proverò ora a caratterizzare queste tre varianti di una critica redentiva del Marxismo in maniera più approfondita.

(a) L’esperienza storica che si cela dietro la revisione messa in atto da parte del Marxismo teoretico dei giochi è il disappunto nei confronti del potenziale esplicativo della teoria di classe marxista. Come strumento per spiegare l’azione collettiva da parte di gruppi sociali, il concetto di classi in Marx ha fallito fin dall’inizio. I tratti che aveva utilizzato per differenziare strutturalmente le singole classi erano euristicamente così deboli dal punto di vista delle situazioni vitali delle specifiche classi, che nessuna conclusione poteva essere tratta per comprendere il comportamento fattuale delle classi sociali.[9] Di conseguenza, una tendenza verso una forma di oggettivismo filosofico-storico ha sempre predominato nella tradizione che si è formata a partire da Marx:[10] l’azione di agenti collettivi era analizzata esclusivamente come l’esplicazione di compiti oggettivi predeterminati piuttosto che come un’acquisizione creativa. Il Marxismo teoretico-dei giochi reagisce a questa tendenza oggettivista nella teoria dell’azione Marxista nella modalità di un contro movimento. Il ricorso all’individualismo metodologico è inizialmente connesso all’obiettivo di oltrepassare l’oggettivismo pratico-teoretico per focalizzare le analisi sui progressi creativi di azioni individuali.[11] Tuttavia la struttura di riferimento della teoria dei giochi permette di considerare le azioni creative dei soggetti solo nella misura in cui tali azioni siano richieste per il perseguimento razionale-intenzionale dei propri interessi; il marxismo teoretico-dei giochi procede dunque partendo da agenti individuali reagenti a condizioni storiche con l’obiettivo strategico di ottimizzare le loro opportunità. Il gioco di agenti che calcolano reciprocamente i propri interessi è quindi usato per spiegare la formazione di quei piani di azione collettivi per mezzo dei quali i movimenti sociali di turno agiscono per modificare le condizioni storiche. Finora le analisi di questo tipo da parte della teoria dei giochi sono state applicate con un certo successo principalmente nelle analisi storiche dei conflitti sociali.[12] Nel frattempo, tuttavia, quest’approccio ha cominciato a incontrare reazioni critiche, dal momento che la restrizione categoriale dell’analisi ai piani d’azione calcolati degli individui necessariamente tralascia il contesto comunicativo dell’azione sociale.[13]

(b) La medesima esperienza storica da cui trae informazioni il Marxismo nella sua declinazione di teoria dei giochi, fornisce anche le basi per il secondo approccio: il marxismo cultural-teoretico, che trova la sua dimora soprattutto in Inghilterra,[14] costituisce anch’esso una reazione al fallimento della teoria di classe Marxista. Dichiaratamente, nelle sue spiegazioni di tale fallimento essa assume una posizione di contrasto con la tendenza della teoria dei giochi, in quanto attribuisce le tendenze oggettiviste della teoria di classe marxista non a una scarsità di utilitarismo, bensì a un suo eccesso.[15] Nei termini delle sue premesse, l’approccio cultural-teoretico si accorda con quelle interpretazioni correnti che in qualche modo concordano con la critica della teoria marxiana effettuata da Parson.[16] Anch’egli procedeva dall’idea che la tradizione utilitarista si fosse problematicamente protratta nel lavoro di Marx e che, sulla scia di questa tradizione, Marx potesse esclusivamente determinare le azioni delle classi sociali nei termini di una modalità di perseguimento razionale di interessi. Si concludeva perciò che fin dall’inizio la sua teoria ha negletto tutte le convinzioni normative e i sentimenti morali verso cui i gruppi sociali fanno riferimento per indicazioni pratiche. Se il fallimento della teoria Marxista è spiegata in questa maniera, allora la revisione teoretica deve condurre in una direzione opposta all’approccio della teoria dei giochi: al centro dell’analisi devono essere poste non le deliberazioni individuali secondo una razionalità di scopo, bensì le norme collettive di azione. Perciò il marxismo cultural-teoretico prende come punto di partenza le norme e i valori di gruppi specifici per spiegare le azioni delle classi sociali; esso assume essere le pratiche e le usanze incarnate nelle culture quotidiane di gruppi specifici il luogo dove sono inscritte tali norme collettive di azione.[17] Fin’ora le analisi teoretico-culturali di questa sorta si sono rivelate di particolare successo nella trattazione della storia dei movimenti lavorativi.[18] Allo stesso tempo tuttavia quest’approccio è andato incontro a critiche, poiché è riuscito difficilmente a inserire le culture quotidiane analizzate in un contesto più ampio di processi d’integrazione istituzionale.[19]

(c) Infine l’approccio teoretico-del potere, che rappresenta la terza versione contemporanea di una critica redentiva del Marxismo, incarna l’esperienza storica di ciò che son divenute autonome burocrazia statali e apparati amministrativi. Da una parte lo sviluppo autoritario degli Stati nel socialismo dell’Europa dell’Est ha drammaticamente rivelato la possibilità un controllo statale supportato burocraticamente; dall’altra la continua stabilità politica delle società capitaliste occidentali ha inevitabilmente dato l’impressione di possedere tecniche di controllo perfettamente funzionanti. Esperienze di tal sorta, tuttavia, non potevano più essere riconciliate con la teoria Marxista del potere, nella quale tutto il potere politico era concepito come una dominazione di classe ancorata economicamente e articolata nella forma dello Stato. I dubbi che erano già stati sollevati in precedenza rispetto alla concezione Marxista sono ora cresciuti lungo un ancor più vasto fronte.[20] Una prima reazione a queste difficoltà può essere denotato nel dibattito inaugurato da Althusser sulla teoria Marxista dello Stato;[21] ma la questione su quanta autonomia abbia l’autorità politica è stata inizialmente affrontata solo all’interno dell’orizzonte marxista tradizionale. Solo dopo che la teoria sul potere di Foucault ha influenzato i dibattiti sulla teoria politica,[22] la discussione ha cominciato a svilupparsi in una direzione che ha condotto al Marxismo teoretico del potere. Sotto l’influenza di Foucault, il potere sociale è stato rimosso dal contesto funzionale di riproduzione economica e in questo rispetto ha premuto per essere un elemento indipendente dello sviluppo storico. Ogni ordine sociale poggia su tecniche di conservazione del potere che sono in grado di svilupparsi in accordo con leggi che possiedono una loro logica indipendente. Queste logiche di mantenimento del potere, ognuna distinta a seconda del tipo di mezzo che utilizza e la profondità del suo impatto, forma quindi il nucleo di questo tipo di teoria.[23] Per essere sinceri, fin’ora quest’approccio teoretico-del potere non sembra essersi ancora sviluppato molto sul piano di investigazioni empiriche sostanziali. Addirittura è incappato nel criticismo teoretico, dato che i processi sociali di mantenimento del potere si sono staccati cosi tanto dalle strutture d’interesse sociale da correre il rischio di essere affermati come sostanza indipendente dello sviluppo storico.[24]

Tutti e tre gli approcci quindi contrappongono un nuovo paradigma al tradizionale funzionalismo economico marxista: per cercare di spiegare lo sviluppo delle società, il primo ricorre principalmente ad una logica di competizione fra individui che calcolano i loro interessi, il secondo ad una logica inerente il tramandarsi intersoggettivo di norme collettive e tradizioni, il terzo infine ad una logica di implementazione e raffinamento del potere sociale. Più precisamente si può affermare che le differenze nelle prese di posizione metodologiche e nelle diagnosi dell’epoca corrispondono a quelle nei paradigmi di base assunti. Mentre gli approcci teoretico-dei giochi e cultural-teoretico procedono metodologicamente dagli orientamenti pratici del soggetto, l’approccio teoretico-del potere si riferisce a processi di meccanismi sistemici indipendenti dai soggetti; i primi due approcci pretendono di fornire una visione interna mentre il terzo una visione esterna delle società. Questa differenza negli assunti metodologici a sua volta determina il tipo di questioni diagnostiche che i differenti approcci possono affrontare rispetto ai processi sociali. Mentre le due alternative teoretiche-dell’azione svolgono ricerche su questioni come il potenziale conflittuale all’interno delle società contemporanee, nella terza l’attenzione è focalizzata sulla rapida crescita del potere che distingue il capitalismo odierno. Vista in quest’ottica, sembrerebbe che la tradizione teoretico-rivoluzionaria del Marxismo sia stata consegnata ad approcci come quello della teoria dei giochi o cultural-teoretico, mentre la sua tradizione legata all’aspetto teoretico-dei sistemi sia in mano all’approccio teoretico-di potere. Tuttavia, se questo fosse corretto, allora esattamente ciò che nel Marxismo formava originariamente un’unità teoretica sarebbe ora diviso in due parti, con i diversi elementi della teoria sociale marxista resi astrattamente contrastanti l’uno con l’altro nei vari approcci che cercano di salvare il Marxismo. Una breve rassegna delle aspirazioni che Marx aveva sistematicamente associato con la sua teoria confermerà questa conclusione.

II

Come ben sappiamo oggi, l’opera di Marx ha sistematicamente connesso le aspirazioni di una teoria dell’emancipazione con l’obiettivo di un’analisi della società; il suo intento era di analizzare, insieme al processo di integrazione sociale del capitalismo, le condizioni per il suo rivoluzionario rovesciamento. Nel suo progetto di fondere una teoria dell’emancipazione con l’analisi sociale, Marx era supportato da una filosofia della storia speculativa, il cui fondamento era il concetto di “lavoro sociale”. Per mezzo di quest’idea egli poté concettualizzare la formazione degli ordini sociali e lo sviluppo della libertà sociale come un unico processo.[25]

“Lavoro” per Marx è sempre qualcosa di più che la mera utilizzazione produttiva di energia. Ad esser sinceri, egli inizialmente assume criticamente la riduzione del concetto di lavoro alle categorie economiche per mezzo delle quali l’economia politica classica ha elaborato l’esperienza storica della rivoluzione industriale. Anche per Marx il lavoro è principalmente un’attività creatrice di valore e in tale misura la condizione costitutiva delle società di per sé. Però egli ha compreso il lavoro umano non solo come risultato produttivo, ma anche come evento formativo; egli ha sempre iniettato un aspetto teoretico-emancipativo nell’accezione economica del lavoro. Nel fare ciò era guidato, attraverso Hegel, dai motivi centrali di quell’espressiva antropologia che può essere considerata la principale realizzazione dell’ala Romantica dell’Illuminismo Tedesco risalente a Herder. In questa tradizione, come Charles Taylor,[26] seguendo l’esempio di Isaiah Berlin, ha mostrato, ogni azione umana è interpretata come mezzo di espressione dell’essenza di qualcuno; l’azione umana è quindi uno sviluppo della realizzazione attiva di un sé – un’autorealizzazione. Hegel adottò questo tema significativo e interpretò il lavoro come un processo di esternazione delle abilità umane.[27] Marx da parte sua, su questa falsa riga, addusse al lavoro in quanto attività economicamente definita, la dimensione di autorealizzazione umana. Questo gli permise di concepire anche le forme di azione strumentale che egli, in accordo con l’economia politica classica, riteneva essere il fattore cruciale della produzione, come un singolo evento espressivo. Il lavoro umano è quindi compreso come un processo comprendente sia il rendimento produttivo di una persona in quanto essere umano, sia l’esternazione dei suoi poteri essenziali: il lavoro è allo stesso tempo fattore di produzione ed evento espressivo. Pertanto, nel concetto di lavoro utilizzato da Marx sono combinati quegli aspetti che in seguito Hannah Arendt separerà nelle due tipologie di azione di lavoro e opera.

Solo con questo ingegnosa sintesi concettuale Marx fu in grado, almeno fino ad un certo punto, di innalzare nel suo lavoro il Romanticismo al livello della teoria sociale. Il modello espressivo del lavoro forma l’intelaiatura concettuale della sua critica complessiva del capitalismo. Nei suoi scritti giovanili così come nei suoi lavori maturi, Marx interpreta l’epoca storica del capitalismo come una formazione socio economica che strutturalmente intralcia o addirittura preclude l’auto-identificazione dei soggetti lavoratori nei loro prodotti, e così anche la possibilità di un’autorealizzazione.[28] La lotta di classe come relazione conflittuale tra capitale e lavoro è quindi la congiuntura mediante cui le forze per l’autorealizzazione compiono un rinnovato tentativo di resistenza ai poteri istituzionali del lavoro morto. Perciò, per Marx, la teoria del capitalismo è sempre qualcosa di più di una semplice analisi sociale; è anche la diagnosi storica di una relazione alienante e la prognosi sperimentale di un rovesciamento rivoluzionario.

Ho richiamato queste relazioni categoriali solo per porre l’accento sull’aspirazione sovrastante l’analisi Marxista sul capitalismo: il suo concetto di lavoro venato di Romanticismo assicura che il processo storico analizzato implichi una dimensione di razionalità, consentendo a Marx di comprendere un ordine sociale dato come anche come una relazione morale di lotta. Ora è esattamente il sovraccaricamento filosofico-storico del concetto di lavoro ad essere stato per molti anni il punto centrale dell’autocritica Marxista. I cambiamenti sociali avvenuti dai tempi di Marx hanno condotto innanzitutto e principalmente ad una piena consapevolezza delle asserzioni problematiche che tacitamente erano entrate nell’ingegnosa costruzione concettuale della sua teoria. In particolare due assunzioni empiriche sono state gradualmente messe in dubbio.

(a) In primo luogo, Marx crede che il lavoro rappresenti sempre la condizione decisiva per la costituzione della società; solo per mezzo di quest’assunzione egli fu in grado di far derivare l’ordine sociale esclusivamente dalle correnti forme organizzative di produzione, e di conseguenza collegare il corso del genere umano al progresso nelle forze di produzione. Non solo le principali scoperte delle scienze sociali dopo Marx hanno reso questa iniziale pretesa empirica assai problematica;[29] gli stessi cambiamenti socio-strutturali nel capitalismo hanno rivelato in che misura forme di attività non strumentali siano costitutive nella riproduzione delle società.[30] Una tradizione auto-critica del Marxismo che parte da Merleau-Ponty attraverso Castoriadis fino ad Habermas tenta di mostrare come Marx pendesse verso il determinismo tecnologico, dato che aveva ridotto la storia progressiva degli esseri umani alla singola dimensione della produzione sociale.[31]

(b) In secondo luogo Marx doveva presumere che il lavoro sociale rappresentasse la risorsa fondamentale per la formazione della coscienza emancipativa; solo così egli poteva stabilire una connessione sistematica tra la critica all’economia politica e una teoria della rivoluzione di carattere pratico. In verità, Marx stesso fu in grado di sostenere questa seconda aspirazione empirica solo per mezzo di ulteriori assunzioni filosofico-storiche; per questo motivo la connessione interna fra lavoro ed emancipazione è sempre stata controversa nella tradizione Marxista.[32] Ma, soprattutto, la degradazione dell’attività lavorativa dovuta all’attuazione dei principi di efficienza produttiva tayloristi negli anni subito dopo la morte di Marx, rese finalmente chiaro che la forma capitalista di lavoro contiene in sé non tanto le forze emancipative dell’autocoscienza sociale quanto piuttosto il potenziale distruttivo dell’immiserimento psichico.[33] E così oggi la seconda aspirazione empirica contenuta nella categoria marxista di lavoro è apertamente discutibile; quasi nessuno è ancora convinto dell’effetto emancipativo del lavoro di per sé.

Esattamente problematiche esperienze storiche come questa hanno scosso, nel secolo successivo a Marx, i fondamenti filosofico-storici della teoria Marxiana. Anche se questo non è il caso esclusivo,[34] all’interno del Marxismo odierno si trova come conseguenza il fatto che il paradigma del lavoro sia stato infine largamente scardinato. A questo processo di auto-illuminazione del Marxismo hanno contribuito anche quei tentativi di critica redentiva che nel loro insieme rappresentano l’opposizione contro il funzionalismo economico del Marxismo tradizionale; solo facendo recedere sullo sfondo il paradigma del lavoro essi si trovano nella posizione di poter promuovere altre sfere sociali in relazione alla produzione, e renderle così il punto di riferimento per un’analisi della società capitalista.

Ad esser sinceri, nessuno dei tre approcci prende in considerazione le conseguenze degli spostamenti effettuati dai rispettivi paradigmi. Nel lasciar andare il paradigma del lavoro si perde anche la connessione teoretica-volta all’azione per mezzo della quale Marx era stato in grado di collegare la sua teoria dell’emancipazione al progetto di un’analisi sociale. Dato che le tre versioni della critica redentiva neglettono totalmente questo problema che ne scaturisce, non si trovano nemmeno a dover affrontare la questione riguardo quale impianto teoretico-volto all’azione potrebbe sostituire quello inerente la categoria di lavoro. Invece, ognuna di esse avanza come concetto essenziale per l’analisi sociale quel particolare tipo di azione che definisce le caratteristiche della sfera di azione che hanno privilegiato: cosi l’approccio teoretico dei giochi appoggia le azioni strategiche degli individui, il teoretico-culturale sostiene le azioni espressive di gruppi sociali, e infine la variante teoretica-di potere incoraggia a considerare le tecniche di potere radicate nelle istituzioni come concetto basilare per la teoria sociale. Nel fare ciò, al di là dei problemi che emergono dai loro rispettivi paradigmi, tutti e tre incappano in una difficoltà comune: non possono più colmare il divario fra teoria e azione apertosi una volta che il concetto di lavoro di Marx è sacrificato in quanto concetto centrale della teoria sociale marxista; i concetti di azione che offrono non sono sufficientemente complessi da supportare i requisiti sia di una teoria dell’emancipazione che di un’analisi della società. Perlomeno due ulteriori conseguenze derivano da ciò:

(a) Tutti e tre i propositi per salvare il Marxismo mancano di un sostituto per ciò che Marx chiamava “alienazione” o “reificazione”. Dato che i concetti base che essi stessi offrono non contengono più nessun aspetto inerente una teoria dell’emancipazione, essi non hanno nemmeno un criterio col quale misurare una socializzazione fallita o di successo. Di conseguenza non possono più sviluppare da soli un apparato sensorio col quale accertare quali aspetti del capitalismo abbiano fallito in un senso non-strumentale.

(b) Ma non è solo questo potenziale diagnostico, bensì anche tutto il potenziale normativo che svanisce in questi tre nuovi approcci al Marxismo. Poiché Marx riteneva il lavoro essere la sfera critica dell’autorealizzazione umana, egli poteva normativamente misurare il grado di giustizia di una società dalle opportunità che affidava per raggiungere l’autorealizzazione tramite il lavoro.[35] Se il concetto di lavoro è rimpiazzato da qualche altro concetto di azione, mancando qualsiasi componente normativo, allora la possibilità di una siffatta critica normativa è inevitabilmente persa. Così tutti e tre gli approcci sono costretti ad adottare un relativismo morale, dato che non possono stabilire da soli i criteri per mezzo dei quali il capitalismo contemporaneo possa essere criticato.

Quanto detto sopra fornisce uno schizzo sufficientemente chiaro dei compiti che si presentano a qualsivoglia tentativo di rivitalizzazione del Marxismo.

III

Ognuno dei tentativi sopra delineati volti ad una critica redentiva del Marxismo pone il suo sguardo molto più in basso di quanto non abbia fatto Marx nella sua teoria del capitalismo. D’altra parte, gli obiettivi di Marx non possono essere più realizzati nella maniera che lui intendeva, dato che i mezzi concettuali che aveva sviluppato sono diventati da allora discutibili. In che modo, quindi, possiamo oggi cercare di riprendere le sue idee senza sistematicamente fallire nel raggiungimento degli obiettivi teoretici che si era preposto? In altre parole, come possiamo nuovamente comprendere una teoria dell’emancipazione e un’analisi del capitalismo all’interno della stessa teoria sociale, dato che il paradigma marxiano del lavoro non può più fungere da connessione categoriale fra i due? Al fine di indicare perlomeno un primo passo in questa direzione, comincerò dando un’altra occhiata alla soluzione proposta da Marx stesso; le premesse sulle quali il suo concetto di lavoro poggia senza dubbio ci consentono di riformulare le sue idee ad un livello più astratto, e quindi di renderle ancora una volta fruttuose per il presente.

La convinzione che un essere umano possa raggiungere un’identità soddisfacente solo esperendo la realizzazione integrale del proprio lavoro è una premessa di base implicita al concetto di lavoro marxista. La “dignità” o il “rispetto” di una persona, termini che Marx non ha esitato ad utilizzare in diversi punti del suo lavoro, presuppongono che attraverso il lavoro autonomo un individuo possa dare una forma visibile alle proprie abilità. È questa concezione di “un’estetica della produzione” che serve come impianto normativo per rafforzare le diagnosi di Marx su reificazione e alienazione. Il capitalismo aliena il soggetto da se stesso perché, con la sua compulsione ad accumulare, crea un imperativo economico che distrugge esattamente quel carattere del lavoro inteso come realizzazione che è il presupposto di una corretta formazione identitaria.[36] A questo riguardo, Marx non percepisce la lotta di classe meramente in termini di conflitto strategico per l’acquisizione di beni o di potere di comando; piuttosto egli rappresenta una sorta di conflitto morale nel quale una classe oppressa lotta al fine di raggiungere le condizioni sociali per il suo rispetto. Di conseguenza Marx non vede la distribuzione ineguale di oneri e onori come causa soggiacente che innesca la lotta di classe di per sé; piuttosto, l’ineguale distribuzione procura un tale effetto solo alla stregua del fatto che risulti come distruzione unilaterale delle condizioni per un’identità sociale. L’interpretazione filosofico-storica che fornisce l’intelaiatura complessiva all’interno della quale è radicata l’analisi di Marx sulla società di classe capitalista, incorpora quindi una prospettiva che deriva non dalla logica del lavoro ma dalla logica del riconoscimento (Sorel/Gramsci): sotto le condizioni economiche del capitalismo il processo di mutuo riconoscimento tra esseri umani è interrotto perché un gruppo sociale viene privato precisamente di quelle precondizioni necessarie per ottenere rispetto. Questa premessa –che oggi porremmo in una teoria dell’intersoggettività – rimane celata nel lavoro di Marx dato che egli restringe il suo concetto di identità umana ad una descrizione produttivista. È solo perché Marx considera l’esperienza della realizzazione integrale del lavoro di un individuo essere la presupposizione centrale per il rispetto di sé in quanto essere umano che non diviene mai chiaro che il suo vero obiettivo è rappresentato dalle condizioni sociali per il riconoscimento reciproco fra soggetti.

Per  rendere questa prospettiva socio-filosofica fruttuosa per il presente, dobbiamo quindi invertire quella mossa concreta attraverso cui Marx ha legato le condizioni per la formazione dell’identità umana al suo concetto di lavoro. Le condizioni concrete per l’ottenimento del rispetto ed il riconoscimento individuale sono soggette a cambiamenti storici e culturali; ciò che invece possiamo considerare un caratteristica immutata nel corso della storia, tuttavia, è il fatto che gli individui debbano sempre lottare per le condizioni sociali sotto le quali poter raggiungere riconoscimento e rispetto.[37] Per mezzo di questa formulazione più astratta, le intuizioni di Marx possono essere nuovamente utilizzate in una teoria sociale contemporanea. Ma in tal caso non possiamo più considerare il nucleo ortodosso del marxismo come un metodo specifico, com’era per Lukács, o neanche un certo insieme di premesse sociologiche. Piuttosto il nucleo è solamente un prospettiva filosofico-storica: ossia quella che denota uno sviluppo sociale dal punto di vista delle lotte per il riconoscimento sociale. Bisogna ammettere che siffatto pensiero di base di filosofia della storia richiede in termini teoretici molto più di quanto non sembrerebbe ad un primo sguardo; contiene perlomeno due presupposti teoretici per i quali devono essere ancora forniti argomenti scientificamente validi. Innanzitutto deve essere mostrata esistere una moralità storicamente reale negli sforzi dei soggetti per ottenere rispetto di sé. La forza guida che è al lavoro nei conflitti pratici e stimola lo sviluppo sociale dovrebbe essere questa lotta per raggiungere le condizioni per un riconoscimento sociale. Per poter asserire questo sarebbe necessario in secondo luogo specificare le condizioni sociali che nelle rispettive società conducono ad un danneggiamento del rispetto di sé. Deve essere possibile descrivere forme di organizzazione sociale come relazioni specifiche di riconoscimento danneggiato se si vuole provare a dimostrare plausibilmente che è la lotta per il riconoscimento che apre la strada al progresso morale. Un’analisi dei sentimenti suscitati dal rispetto ferito e riconoscimento danneggiato, sentimenti che formerebbero il materiale motivazionale vivo nella lotta per ottenere le condizioni sociali per il riconoscimento, formerebbe la connessione teoretica in grado di legare i due fili dell’approccio.[38]

A mio avviso, un paradigma del riconoscimento così elaborato potrebbe essere un degno successore, seppur ad un livello più astratto, del paradigma di lavoro in Marx. In esso la teoria dell’emancipazione e l’analisi della società possono essere connesse ancora una volta in una teoria dell’azione; i contenuti pratici di tale processo di lotta per il riconoscimento sono costituiti da norme morali, norme per mezzo delle quali il capitalismo può essere criticato in quanto relazione sociale di un riconoscimento danneggiato.

(traduzione di Robert Gianni)


[1] Cfr. Hannah Arendt, On Revolution, GreenWood, London 1982, cap.2; trad. it. Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009

[2] Niklas Luhmann, “Kapital und Arbeit, Probleme einer Unterscheidung,” in Johannes Berger (Ed.), Die Moderne-Kontinuitäten und Zäsuren, Soziale Welt, Sonderband 4, Göttingen, 1986, pp.57 sgg.

[3] Cfr. Ernst Nolte, Marxismus und Industrielle Revolution, Stuttgart, 1983

[4] Cfr. Klaus Elder, “A New Social Movement?,” Telos, No.52, 1982, pp.5 sgg.; cfr. anche Alain Touraine, Le voix et le regard, Paris 1978

[5] Cfr. Otto Kallscheuer, Marxismus und Erkenntnistheorie. Eine Politische Philosophiegeschichte, Frankfurt am Main 1986; Martin Jay, Marxism and Totality, Oxford 1984

[6] Cfr. G. A. Cohen, Karl Marx’s Theory of History: A Defence, Oxford, 1978; per un’eccellente discussione intorno a quest’opera, cfr. Anton Leist, “G. A. Cohens materialistische Geschichtstheorie: Einige Einwände. Überblick zu einer Diskussion”, Analyse und Kritik, 4, 1982, pp.131 sgg.

[7] Cfr. Tom Long, “Marx and Western Materialism in the 1970s,” Berkeley Journal of Sociology, vol. XXV, 1980, pp.13 sgg. Tuttavia, si devono prendere in considerazione anche le contro-tendenze, come il ritorno del Marxismo nella sociologia Americana; cfr. Michael Burawoy, “Introduction: The Resurgence of Marxism in American Sociology,” American Journal of Sociology, vol.88, 1982, pp.1 sgg.; per un’interessante panoramica sul dibattito inerente il Marxismo cfr. anche Ernst Nolte, “Marx und Marxismus in den USA, Großbritannien und Frankreich 1980-1984,” Neue politische Literatur, 1, 1985, pp.5 sgg.

[8] Cfr. Johann Arnason, “The Crisis of Marxism,” Thesis Eleven, 1, 1980; e il suo “Reconstruction, Deconstruction: Habermas and Giddens on Marx”, Thesis Eleven, 9, 1985

[9] Questo è anche il problema introdotto da quegli autori che hanno cercato di espandere o ricostruire la teoria di classe di Marx per mezzo del modello di classe Weberiano; compara ad esempio Frank Parkin, Marxism and Class Theory: A Bourgeois Critique, New York, 1979; Anthony Giddens, The Class Structure of the Advanced Societies, London, 1981

[10] Su questo punto cfr. Jean Cohen, Class and Civil Society. The Limits of Marxian Critical Theory, Amherst, 1982, part 1

[11] Adam Przeworski, “Methodologischer Individualismus als Herausforderung der marxistichen Theorie“, Prokla, 62, 1986, pp.120 sgg.; Jon Elster, “Marxism, Functionalism, and Game Theory: The Case for Methodological Individualism”, Theory and Society, 11, 1982, pp.453 sgg. Per una panoramica di questo approccio di teoria dei giochi, cfr. Scott Lash e John Urry, “The New Marxism of Collective Action: A Critical Analysis”, Sociology, 18, 1984, p.33 sgg.

[12] Cfr. per esempio, Adam Przeworski, Capitalism and Social Democracy, Cambridge, 1985

[13] Ad esempio, Anund Haga, “Interaktion und Intentionalität. Bemerkungen zum Versuch, die Sozialwissenschaften spiel- und entscheidungstheoretisch zu rekonstruieren“, in Dieter Böhler et. al. (Ed.), Die Pragmatische Wende, Frankfurt am Main, 1987, pp.91 sgg.

[14] Sulla storia teoretica che conduce a quest’approccio, cfr. Lesley Johnson, The Cultural Critics. From Matthew Arnold to Raymond Williams, London, 1979. Da una parte, E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, London, 1968; dall’altra Raymond Williams, Culture and Society 1780-1950, London, 1968, sono di importanza paradigmatica per quest’approccio. Per una buona panoramica sul dibattito contemporaneo in Inghilterra, cfr. Stuart Hall, “Cultural Studies and the Centre: some problematics and problems” in Stuart Hall, et al. (Ed.), Culture, Media, Language, London, 1980, pp.15 sgg.

[15] Fra gli altri, cfr. David Lockwood, “The weakest Link in the Chain? Some Comments on the Marxist Theory of Action”, Research in the Sociology of Work, 1, 1981, pp.435 sgg.

[16] Fra gli altri, cfr. Jeffrey C. Alexander, Theoretical Logic in Sociology, London, 1982, vol. II, capp. 3, 6

[17] E. P. Thompson, Plebische Kultur und Moralische Ökonomie, Frankfurt am Main, 1980

[18] Casi esemplari sono E. P. Thompson, The Making of the English Working Class; il suo “Die ‘Sittliche Ökonomie’ der englischen Unterschichten im 18. Jahrhundert,” in D. Puls et. al., Wahrnehmungsformen und Protestvehalten, Frankfurt am Main, 1979, pp.13 sgg.; Birgit Mahnkopf, Verbürgerlichung. Die Legende vom Ende des Proletariats, Frankfurt am Main, 1985

[19] Cfr. Jürgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol.2 Il Mulino, Bologna 1997; Anthony Giddens, “Out of the Orrery: E. P. Thompson on consciousness and history,” nel suo Social Theory and Modern Sociology, Oxford, 1987, pp.203 sgg.; A. Giddens, “Literature and Society: Raymond Williams” nel suo Profiles and Critiques in Social Theory, London, 1982, pp.133 sgg.

[20] Cfr. Barry Smart, Foucault, Marxism and Critique, London 1983, cap.1

[21] Louis Althusser, “Ideology and Ideological State Apparatuses”, in Essays on Ideology, London 1983

[22] Rappresenta un esempio paradigmatico di ciò, l’opera di Nicos Poulantzas, State, Power, Socialism, London 1978

[23] Cfr. B. Smart, Op. cit., p.53; cfr. anche Stefan Breuer, “Foucaults Theorie der Disziplinärgesellschaft“, in Leviathan 3, 1987, pp. 319 sgg.

[24] Axel Honneth, Critica del Potere, Edizioni Dedalo, Bari 2002, capp.5-6; Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1997, cap.10

[25] Cfr. Axel Honneth, “Lavoro e azione strumentale”, in questo volume.

[26] Charles Taylor, Hegel, CUP, Cambridge 1975, part 1; Isaiah Berlin, Vico and Herder: Two studies in the History of Ideas, London & New York, 1976

[27] Cfr. Ernst Michael Lange, Das Prinzip Arbeit, Frankfurt am Main, 1980, pp.24 sgg.; Manfred Riedel, “Hegel und Marx. Die Neubestimmung des Verältnisses von Theorie und Praxis,” nel suo System und Geschichte, Frankfurt am Main, 1973, pp.9 sgg.

[28] Cfr. Axel Honneth, “Lavoro e azione strumentale”; Georg Lohmann, “Gesellschaftskritik und normativer Maßstab“, in A. Honneth e U. Jaeggi, Op. cit., pp. 234 sgg.

[29] Cfr. J. C. Alexander, Op. cit., pp.75 sgg

[30] Cfr. Claus Offe, “Arbeit als soziologische Schlüsselkategorie?” nel suo “Arbeitergesellschaft.” Strukturprobleme und Zukunftsperspektiven, Frankfurt am Main, 1984, pp.13 sgg.

[31] Maurice Merlau-Ponty, Le avventure della dialettica, Mimesis, Milano 2008; Cornelius Castoriadis, The Imaginary Institution of Society, Kathleen Blavney, trans. MIT Press, Cambridge MA 1987, parte 1; Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, Laterza, Roma-Bari 1983

[32] Cfr. Thomas Meyer, Der Zwiespalt in der Marxischen Emanzipationstheorie, Kronberg 1973; Andreas Wildt, “Produktivkräfte und soziale Umwälzung,” in A. Honneth e U. Jaeggi, Op. cit., pp.206 sgg.

[33] Cfr. ad esempio Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital: The degradation of Work in the Twentieth Century, Monthly Review Press, New York 1974; e, su Bravermann, A. Honneth, “Lavoro e interazione strumentale”.

[34] György Märkus, Die Welt menschlicher Objecte. Zum Problem der Konstitution im Marxismus,” in A. Honneth e U. Jaeggi, Op. cit., pp.12 sgg.

[35] George G. Brenkert, Marx’s Ethics of Freedom, London 1983, parte 2; Otto Kallscheuer, “Gerechtigkeit und Freiheit bei Marx”, Prokla, 65, 1986, pp.121 sgg

[36] Cfr. la ricostruzione estremamente precisa di questa posizione in Andreas Wildt, die Anthropologie des frühen Marx, Studien-brief Fren Universität, Hagen 1987

[37] Limito qui il campo ai riferimenti bibliografici essenziali: per un riassunto sui punti di vista di una teoria della socializzazione, cfr. Jürgen Habermas, “Stichworte zur Theorie des Sozialisation”, in Kultur und Kritik, Frankfurt am Main, 1973, pp.118 sgg.; da un punto di vista filosofico, cfr. Andreas Wildt, Autonomie und Anerkennung, Stuttgart, 1982, pp.259 sgg.

[38] Cfr. per un esemplare modello di ciò, Barrington Moore, Injustice: The Social Basis of Obedience and Revolt, London 1979

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