Guido Calogero ed Ernst Cassirer: un incontro a distanza

Roberto Finelli

1.Semanticità ed asemanticità del pensare umano.

Quando Guido Calogero, all’età di ventitre anni, si reca in Germania nel 1927, a spendere con  la frequenza di due semestri presso l’Università di Heidelberg la borsa di studio per il perfezionamento all’estero vinta presso il Ministero della Pubblica Istruzione, ha già composto nella sostanza la sua prima opera significativa, la quale è un’elaborazione della sua tesi di laurea sostenuta nel 1925 e che appare ora con il titolo i Fondamenti della logica aristotelica, per i tipi fiorentini di Le Monnier. Nello stesso anno, nel 1927, ottiene la libera docenza di Storia della filosofia, per divenire di lì a poco, nel 1931, all’età di soli ventisette anni, professore di ruolo nell’Università di Firenze, per passare poi, appena trentenne a Pisa, e insegnare sia alla Sapienza pisana che alla Normale[1]. E’ appena il caso qui di sottolineare la precocità, non solo accademica, quanto di produzione storiografica e teoretica del giovane Calogero e quanto tale precocità ebbe a segnare successivamente, anche drammaticamente, la sua intera vita.  Anche perché di ciò ha scritto assai bene con la finezza psicologica e l’acume teoretico che lo caratterizza Gennaro Sasso[2]. Mentre ciò che più preme ricordare è che il Calogero ventitreenne che si reca ad Heidelberg, dove seguirà per l’anno 1927-1928, corsi di Hoffmann, Klibansky, Jaspers e Rickert, ha già acquisito quel filosofema fondamentale e di lì irrinunciabile della sua visione del mondo, consistente in quella distinzione tra «logo apofantico» e «logo semantico», che attraversa l’interpretazione dell’intera logica aristotelica vista come giustapposizione e intreccio tra una «logica noetica» e una «logica dianoetica». Logo apofantico (o logo asemantico) e logo semantico significano rispettivamente pensiero senza linguaggio e pensiero con linguaggio, ovvero che altro sia un pensiero che pensa secondo immagini e rappresentazioni, secondo scene e figure, che pensi cioè non in parole ma in idee, «se intendiamo questo termine – come scriverà poi Calogero nelle pagine più tarde dell’Estetica – nel suo originario significato greco, di forma visiva dell’oggetto, di raffigurazione, presente all’occhio dello spirito, dell’immediato volto del reale»[3] e che altro sia un pensiero che si presenti come composizione di parole, in quanto quest’ultimo, connotato da una strutturale semanticità, quale rimando di un segno a un significato, in cui il destino dello strumento linguistico è quello di richiamare, oltre la sua immediata presenza, un altro contenuto mentale. Cioè che, di contro alla tesi dell’Estetica crociana dell’identità di intuizione ed espressione, una cosa sia l’«ideazione diretta», quale forma di un pensiero costituito essenzialmente di rappresentazioni visive e di contenuti asemantici, e una cosa sia l’«ideazione parlata»[4], in cui è la trama del linguaggio, con la sua valenza simbolica, a subentrare alla visiva intuizione delle cose. Che una cosa sia dunque il pensare in quanto ambito dell’intuizione e una cosa il pensare in quanto ambito della significazione-comunicazione. Ammettendo ovviamente Calogero che si dia molto pensiero in cui il contenuto semantico non sia immediatamente raffigurabile, perché costituito da concetti, come ad es. nell’espressione «Il pensiero classico concepì la divinità come adiafora ed autosufficiente»[5], dove è chiaro che i significati del logos nascono dallo stesso discorso che li genera, ma con la riaffermazione da parte del nostro che anche i concetti, ovvero i termini più astratti, più universali, che in prima istanza non sono oggetto di visione bensì sono prodotto di linguaggio, non possano che essere terminazioni, cioè rimandare alla fin fine, in ciascun parlante, proprio per la loro natura di segni che spingono oltre sé stessi, alla tesaurizzazione e alla sedimentazione, con diverso grado di stratificazione, di esperienze mentali asemantiche e concrete.

Due modalità del pensiero, quella asemantica e quella semantica, o nel linguaggio di Calogero interprete di Aristotele, quello della logica noetica e quello della logica dianoetica, che si organizzano rispetto a due diversi principi, che sono rispettivamente il principio di determinazione e il principio di contraddizione, o meglio, il principio che evita la contraddizione. Il primo che ci dice che legge inevadibile e necessaria del nostro pensare è che, quale che sia il contenuto del nostro pensiero, esso non può mai essere l’infinito o l’indeterminato, bensì sempre un determinato che è tale proprio perché lascia fuori di sé l’intero campo di ciò che esso non è, dove l’identità è sinonimo di determinatezza e il non essere sinonimo di alterità. «Lungi dal Tutto, e dal Nulla, – scriverà Calogero nelle Lezioni di filosofia – sono sempre legato al Qualcosa»[6].  Il secondo principio, principio dianoetico di contraddizione, o principio dell’onestà disserente come anche poi lo chiamerà Calogero, che esorta a chi compone e costruisce giudizi a non mutare durante l’esposizione l’«apofasi» in «catafasi» o viceversa, ovvero a vietare di porre ciò che si è costituito come  affermazione o negazione rispettivamente, e al contrario, come negazione o come affermazione.

Tutto ciò per dire, di nuovo a proposito della precocità intellettiva e interpretativa di Calogero, che egli certamente non giunse sprovveduto sul piano sia teoretico che storico-filosofico, malgrado la giovane età, all’incontro diretto con la cultura tedesca, quale sperimentò nei due semestri trascorsi ad Heidelberg, in modo specifico con gli studi di filosofia antica di Ernst Hofmann e con l’orizzonte culturale del neokantismo mediatogli da Rickert, Raimond Klibansky e, per quello che qui maggiormente interessa, dal pensiero di Ernst Cassirer.

2. Una concezione magico-arcaica del linguaggio all’origine della filosofia.

E’ infatti è sull’influenza che su Calogero può aver avuto l’opera di quest’ultimo che a mio avviso lo sguardo va maggiormente fissato. Giacché nella Philosophie der symbolischen Formen, in particolare nel volume II°, vengono svolte delle considerazioni sulla compenetrazione, nell’antico pensiero presocratico, tra linguaggio e realtà, tra simbolo e cosa simboleggiata, la cui analogia, anzi la cui pressocchè identità, con le tesi calogeriane esposte prima negli Studi sull’eleatismo del 1932 poi nei dei saggi di filosofia antica, composti tra il 1933 e il 1935 ed entrati  a far parte del tardo volume sulla Storia della logica antica, volume I, L’età arcaica,  pubblicato solo nel 1967, risulta, a mio avviso, evidente, per non dire indubitabile.  Nel complesso degli scritti di Calogero i riferimenti a Cassirer, a dire il vero, sono assai laconici e poco numerosi. Viene citato più volte negli Studi sull’eleatismo, ma non in riferimento alla Filosofia delle forme simboliche, bensì al saggio minore del 1925, Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon. Mentre nella Storia della logica antica viene citato due volte, la prima insieme all’Hoffmann autore di Die Sprache und die archaische Logik a proposito della «forte influenza esercitata dal motivo linguistico sulla logica arcaica»[7], la seconda da solo e quale autore della Filosofia delle forme simboliche. Ma la scarsezza delle citazioni non contraddice il rilievo, su cui per primo ha riflettuto anche qui con acume e originalità, Gennaro Sasso[8], della sostanziale affinità tra le tesi del filosofo amburghese, già elaborate nel 1923, e quella che sarà l’interpretazione calogeriana del cominciamento della filosofia greca, espressa in forma più ellittica prima con gli Studi sull’eleatismo e poi, inframmezzate da molti anni e da molte cose nella vita di Calogero, in forma più distesa ed esplicita nelle pagine della Storia della logica.

L’adesione di Cassirer al neocriticismo si esprime, com’è noto, nell’espulsione dal criticismo di Kant di ogni possibile permanenza naturalistica e realistica. In una trasvalutazione e in una ricollocazione della kantiana cosa in sé da limite esterno a limite interno del processo conoscitivo, attraverso la triplice lettura e definizione che ne darà in particolare nell’Erkenntnisproblem, e più complessivamente in una antropologia basata sulla trasformazione del mondo passivo ed empirico delle impressioni in un mondo attivo di espressione e creatività spirituale. Il dato fisico, materiale, naturale nel soggetto umano vive costantemente risignificato, compreso e interpretato alla luce di un’attività di senso e di forma autonoma – sia essa il linguaggio, la conoscenza scientifica, il mito, l’arte, la religione – che trasvaluta il contenuto sensibile quale simbolo di una funzione organizzativa appunto non sensibile ma spirituale e simbolica. In una articolazione di forme simboliche il cui insieme organico costituisce l’intero mondo della cultura umana, ma la cui organicità neppure si sottrae a un tendenziale disporsi gerarchico a mano a mano che si proceda verso quell’agire simbolico per eccellenza che è la scienza, in cui ogni dato sensibile viene non solo risignificato secondo una logica altra ma addirittura dissolto nel suo consistere fisico in quanto risolto in un puro fascio di relazioni. Ma ciò che qui interessa maggiormente sottolineare è la tesi della originaria indistinzione tra parola e cosa[9], tra simbolo e simboleggiato che per Cassirer caratterizza sia la genesi del linguaggio sia la costituzione del pensiero mitologico e magico. Nel primo volume delle Forme simboliche Cassirer scrive infatti: «la prima riflessione sul mondo nel suo complesso è caratterizzata appunto dal fatto che per essa linguaggio ed essere, parola e significato non si sono ancora separati tra loro, ma appaiono ad essa come un’unità indivisibile»[10]. «La parola non è designazione e denominazione, non è un simbolo spirituale dell’essere, ma è essa stessa una parte reale di esso. La visione mitica del linguaggio, che ovunque precede la visione filosofica, è da cima a fondo contrassegnata da questa equivalenza di parola e cosa. Per essa nel nome di ciascuna cosa è racchiusa la sua essenza. Alla parola e al suo possesso si legano immediatamente effetti magici»[11].  Svolgendo in forma di storia l’assunto teoretico fondamentale del suo neokantismo, per cui l’attività dello spirito muove dalla natura, dall’oggettività, dall’empirico, dal presupposto di un mondo esterno ma solo per collocare immediatamente al di là di esso la propria attribuzione, autonomamente spirituale, Cassirer vedeva un mondo prefilosofico, un mondo mitico, per il quale il linguaggio non poteva che apparire inizialmente come qualcosa di esterno, di dato, di oggettivo rispetto alla sfera di parlanti. Insomma il linguaggio, invece che animato da una sua funzione arbitrariamente e convenzionalmente simbolica, ancora come cosa, anzi identico alla cosa significata, in una inscindibile unità con essa. Come testimoniava, per eccellenza, il suo uso magico, per il quale l’uso e il possesso della formula magica era in grado di spostare e modificare la realtà. Per la visione mitica, scrive Cassirer, «nel nome di ciascuna cosa è racchiusa la sua essenza. Alla parola e al suo possesso si legano immediatamente effetti magici. Chi si rende padrone del nome e sa usarlo, acquista così anche il suo dominio sullo stesso oggetto e lo fa proprio con tutte le forze che sono in esso. Tutta la magia della parola e del nome poggia sul presupposto che il mondo delle cose e quello dei nomi siano un’unica realtà perché costituenti un unico nesso di azione e in se stesso individo. La medesima forma di sostanzialità e di causalità vige in ciascuno di essi e li lega tra loro in un tutto in se stesso chiuso»[12]. Per la mentalità magica l’identità tra nome e cosa, tra simbolo e simboleggiato è tale che il linguaggio ha una funzione, prima che simbolica e denotativa, pratica e performativa, perché appunto è suono/cosa/azione che agisce, modificando e trasformando lo stato delle cose. «Mito e linguaggio, afferma Cassirer, si trovano in continuo e reciproco contatto; i loro contenuti si appoggiano e si condizionano reciprocamente. Oltre all’immagine magica vi è la parola magica, il nome magico, che forma parte integrante della concezione magica del mondo. Ma anche qui il presupposto decisivo è che parola e nome non hanno soltanto una funzione espressiva, ma racchiudono in sé l’oggetto stesso e le sue potenze reali. Anche la parola e il nome non già indicano e significano, ma sono ed agiscono»[13]. Ora in questa sede non interessa approfondire troppo, come pure si dovrebbe, i problemi e le difficoltà della riflessione cassireriana. Legate non tanto a una qualche facile sovrapposizione tra magia e mitologia, pure presente nel testo delle Formen, che per altro, si accompagna, si potrebbe obiettare, nell’impianto di quei primi due volumi, alla consapevolezza da parte del filosofo amburghese di una chiara distinzione, nell’evoluzione cronologica della storia, tra magia e mito. «Il mito, scrive Cassirer nel primo volume delle Formen, non appena supera la fase della più primitiva ‘prassi’ magica, che si sforza di ottenere un effetto particolare mediante l’applicazione di un mezzo particolare, e che quindi collega un singolo a un altri singolo nell’immediato operare, sia pure in una forma ancora così rozza e imperfetta, già penetra, così facendo, in una nuova sfera dell’universalità. In quanto forma conoscitiva è essenziale ad esso, come ad ogni altra conoscenza, il processo verso l’unità. Se le entità e le forzr spirituali nelle quali vive il mito debbono essere dominabili dall’agire dell’uomo, esse debbono già mostrare in se stesse certe determinazioni permanenti […]. Quanto più il pensiero mitico procede nel suo cammino, tanto più le singole forze demoniache cessano di essere mere ‘divinità del momento’ o ‘divinità particolari’; tanto più si rivela tra di esse una forma di subordinazione, una forma di organizzazione gerarchica»[14]. Anche perché l’aporia maggiore dell’opera di Cassirer appare collocarsi altrove, ossia nel rapporto tra il tempo della diacronia storica e il tempo senza tempo della struttura trascendentale che attiene ad ogni forma del simbolico, in quanto ne definisce la funzione specifica in cui il simbolo informa ed elabora il dato della vita immediata, in modo appunto specifico e difforme da quello di tutte le altre forme. Vale a dire che la filosofia della cultura di Cassirer soffre della compresenza e della incongruenza in essa di due tempi, quello storico e diacronico da un lato dello sviluppo progressivo dalla magia, attraverso il mito, la religione, alla scienza moderna e il tempo logico e sincronico, dall’altro, della pari dignità e legittimità trascendentale di tutte le forme simboliche, quanto alla capacità di ciascuna di trascendere l’esperienza come impressione e di tradurla nell’esperienza come espressione. Anche perché ciò rimanda al quesito di fondo di come si possa dare un’impressione che sia originariamente immune da interpretazione ed espressione, come pure deve teorizzare, senza darne spiegazione sufficiente, Cassirer con l’intero neokantismo, affinché su quell’embrione di vita passiva, di frammento interiorizzato di cosa-in-sé, possa accendersi e svilupparsi in tutta la ricchezza del simbolico la vita come spirito e come cultura.

Quello che qui preme rilevare è altro, è l’intensità dell’analogia con la tesi cassireriana dell’indistinzione tra realtà e parola che appare caratterizzare gli scritti di filosofia antica composti da Guido Calogero, dopo il soggiorno tedesco, a cavallo tra gli anni ’20 e ’30: si pensa naturalmente alle numerossime voci composte per l’Enciclopedia Italiana, agli Studi sull’’eleatismo e ai diversi saggi sulla filosofia presocratica composti entro il 1935 e che entreranno poi a far parte, come s’è già ricordato, del più tardo primo volume della Storia della logica antica. «E’ noto, scrive Calogero, come la mentalità primitiva non distingua il significante dal significato, almeno nel senso che considera il primo sullo stesso piano di realtà proprio del secondo. La parola è pari alla cosa, in quanto ha la stessa esistenza e potenza della cosa. […] Come la distinzione della verità soggettiva dalla realtà oggettiva non è un’esperienza originaria ma il risultato di un processo storico, così l’estrazione della verità necessaria dalla sua contingente veste linguistica, la consapevolezza che il pensiero giusto è uno ma molte sono le parole che possono esprimerlo, si vien realizzando solo attraverso un prolungato corso di riflessioni, all’inizio del quale essa è ancor sostanzialmente ignota»[15]. Orbene è parimenti noto, possiamo aggiungere noi, anche a chi, da non specialista, frequenta gli studi di filosofia antica, quanto tale tema dell’indistinzione tra struttura del reale e sua espressione semantica, tra logos come esito del leghein, nel senso del raccogliere, in cui si stringe e si sintetizza la legge della realtà, e logos, come luogo del leghein, in quanto dire e comunicare – tale tema della coalescenza arcaica – si sia fatto in Guido Calogero un criterio irrinunciabile, per non dire il canone per eccellenza della sua interpretazione del mondo antico, sia in sede storiografica che in sede teoretica, a partire almeno dall’esegesi dell’essere di Parmenide, quale principio ontologico in cui precipita e si sedimenta l’ipostasi e l’assolutizzazione della semanticità del verbo essere.

Ma analogia non significa identità. Calogero giunge, come si diceva, con una caratterizzazione filosofica già avviata e in parte già consolidata all’incontro con la cultura tedesca e in particolare con l’orizzonte storiografico e teoretico del neocritismo. Cosicché le sollecitazioni che accoglie da Cassirer sul tema del linguaggio vengono curvate in una cornice categoriale già propria e personale.

La differenza che si dà tra Cassirer e Calogero, e che giustifica a mio avviso la definizione del loro incontro ideale come un incontro a distanza, è quella tra un filosofo della cultura, in cui la struttura teoretica delle forme simboliche obbliga, abbiamo visto problematicamente, a una distensione di quelle medesime forme nell’evoluzione diacronica della storia, e un giovane filosofo che, addestrato alla scuola gentiliana dell’atto puro e alla pienezza di una luce della coscienza che non ammette gradi preconsci o prelogici, si occupa, assai meno di Cassirer, della storia del pensiero magico e mitologico, dedicando tutta la sua attenzione a quanto e come il non-filosofico produca di effetti e di filosofemi all’interno già della filosofia, a quanto cioè il mondo magico continui ad operare e a generare strutture di pensiero in un mondo già più non-magico. Si potrebbe aggiungere con maggiore rigore del più maturo maestro amburghese, giacché mentre questi ha difficoltà a spiegare nel suo sistema come e perché si esca dalla totalità di una forma simbolica per accedere a un modo altro di simbolizzazione, ciò su cui riflette Calogero è invece proprio questo nesso, d’implicazione e d’intreccio tra due modi del rappresentare e del conoscere e sulle patologie filosofiche che da tale intreccio nascono e si strutturano. Insomma Calogero, per formazione culturale e attitudine teoretica, non è studioso del pensiero magico o delle antropologie primitive. Arriva ad Heidelberg già con un ripensamento avviato della filosofia dell’atto di Gentile in una sua filosofia della presenza, che tematizza l’onnipresente e mai oggettivabile presenza della coscienza a sé medesima,  che fa cadere ogni possibilità di gnoseologica filosofia del conoscere, e per la quale ciò che è di vitale interesse non è la storia di ciò che la precede e sta fuori dei suoi confini bensì di ciò che all’interno della sua presenza la mina e la opacizza, rendendola incapace di usufruire e godere  pienamente di sé.

Tale attitudine, assai più teoretica che non storica, si sposa in Calogero con una profondissima e raffinatissima cultura filologica, attinente al mondo classico, greco in particolare, acquisita anche attraverso le vie facilitanti del proprio romanzo familiare[16]. E proprio tale endiadi mentale, fatta di disposizione alla chiarezza teoretica e di padronanza ricchissima della lingua greca, indirizza Calogero ad una utilizzazione del paradigma dell’indistinzione arcaica tutta interna alla storia della cultura greca, alla ricerca delle trame linguistiche e teoretiche insieme che ne diano testimonianza e conferma. Come quando, considerando l’opera tragica di Eschilo, vi ritrova una ripetuta prova della persistenza dell’arcaico senso del linguaggio nel convincimento che il destino e la vicenda di vita di un singolo vengano serrati ed iscritti nel suo nome. «Documentazione massima di questa considerazione eschilea, scrive Calogero, è il coro dell’Agamennone – solo di qualche decennio posteriore all’età in cui fu presumibilmente composto il logos di Eraclito – in cui il nome di Elena è giudicato ‘verace’ in quanto è interpretato come equivalente a elénaus ‘distruttrice di navi’: chi le dette quel nome la onómazen es tò pan etetúmos, ‘la chiamò in modo assolutamente veritiero’»[17]. Dove lo ionico étumon léghein vale come l’attico orthòn léghein, parlare esattamente: come colui che ha imposto all’argiva il nome di Elena, «qualcuno», come dice Eschilo, «che sfugge alla nostra vista, il quale, mercé la sua prescienza di quanto era destinato, diresse la sua lingua in modo da coglier nel segno»[18]. E a muovere di lì l’attività storiografica del filosofo romano è consistita ininterrottamente nel ricercare, scovare e definire con acribia e precisione tutti i luoghi in cui le esigenze del significante gli sono apparse prevalere sulle esigenze del significato, in cui cioè i modi di pronunciare la cosa appaiono condizionare e piegare secondo l’astrarsi e l’assolutizzarsi della loro logica linguistica i modi di pensare la cosa.

Insomma, nel sottolineare la differenza più rilevante che s’evidenzia nel nostro confronto ideale tra Cassirer e Calogero, e più in generale tra neocriticismo e filosofia d’ispirazione attualistica, va detto che l’interesse di fondo di Calogero, riguardo al tema della coalescenza arcaica, sia stato nell’indagare e utilizzare quel tema non nel suo darsi prima della filosofia e della sua storia bensì nel suo porsi a principio e all’interno della filosofia. A voler dire cioè, secondo quanto si diceva all’inizio, che quell’incontro si è, verosimilmente, disposto secondo una linea tangenziale, per la quale l’indubitabile coincidenza e sovrapposizione in un punto teorico non ha impedito che lo svolgimento di un medesimo luogo musicale s’inscrivesse in romanzi sinfonici assai diversi tra loro. La filosofia non può nascere da sé medesima, non può nascere come Minerva dalla testa di Giove. Deve, di necessità, nascere da ciò che la precede, dalla non-filosofia. E ciò che la delimita, per la natura dialettica del limite, non costituisce solo il suo esterno ma anche il suo interno, il suo principio. Per la mentalità arcaica, di cui partecipano ancora e in qualche modo i pensatori presocratici, il linguaggio è, in parte, ancora intrinsecamente performativo, produce realtà, è realtà. Così la dottrina parmenidea del to hón, dell’univocità e dell’assolutezza ontologica dell’essere nasce da una fondamentale indistinzione compiuta nella riflessione dell’Eleate tra l’essere predicativo e l’essere esistenziale.

A tal proposito appare quasi banale sottolineare quanto la dottrina calogeriana del cominciamento della filosofia, non come pienezza ma come assenza di verità, si differenzierà poi dall’interpretazione heideggeriana dei presocratici, quale tempo, com’è noto, per il pensatore di Messkirch, di una pienezza e di una prossimità al senso dell’essere, che cederebbe, in seguito per tutta la storia della metafisica occidentale, da Platone fino ai moderni, in quella Seinsvergessenheit, in quella dimenticanza dell’essere e in quella riduzione dell’essere all’ente che sarebbe alla base della tecnica e della civiltà occidentale. Calogero incontrerà solo più tardi l’opera di M. Heidegger, cui dedicherà un saggio scritto nel 1942 e pubblicato solo nel 1950[19]. Ma già da un giudizio pronunciato in uno scritto del 1932 si avverte la profonda avversione che mantenne per tutta la vita per il filosofo di Freiburg e per il peso che una marcata sovraesposizione di effetti linguistici ha avuto, a suo avviso, nel determinare la passione e la connotazione arcaica del suo filosofare. Bisognerebbe del resto dedicare una riflessione a parte sul ruolo che ha avuto nella storia della filosofia moderna, e specificamente nell’opposizione tra filosofia dialettica di matrice hegeliana e filosofia heideggeriana della differenza ontologica, la diversa riflessione sul problema dell’origine della filosofia. Giacché mentre per Hegel l’inizio, come sinonimo di astrazione, è luogo di povertà e di pochezza d’essere, per Heidegger, com’è noto, è al contrario pienezza ed autenticità d’essere: con i due diversi storicismi che ne sono derivati. Il Calogero, interprete degli antichi, accoglieva sulla questione del cominciamento la lezione hegeliana, attraverso la mediazione di Gentile ovviamente, ma anche di quanto dell’hegelismo era trascorso, come senso della storia e del suo divenire, nel neokantismo tedesco. Perché il ritorno a Kant dei neokantiani, non tanto nel Methodenstreit tra scienza e storia, quanto proprio con la Kulturphilosophie di Cassirer non poteva non riflettere l’acquisizione più profonda della filosofia hegeliana della storia quale trascorrere dello spirito dall’immediato al mediato, dalla povertà e dogmaticità dell’inizio alla maturità sempre più concreta e progressiva del divenire.

Il cominciamento della filosofia, come esclusione eleatica dell’essere dal non essere o come logos eracliteo fatto della sintesi della loro opposizione, sta nella non-filosofia. E l’intera storia della filosofia, a muovere da quell’inizio, consisterà, per una quota considerevole delle sue forze, nel lenimento e nell’affrancamento di quei problemi fallaci, di carattere ontologico e logico, che sono nati da un’originaria indistinzione tra le esigenza della realtà-verità pensata e le esigenza della realtà-verità parlata. Consisterà la storia della filosofia, in buona parte, per Guido Calogero in una sorta di cura dalle patologie del linguaggio.

Ma come s’è detto, nella questione del cominciamento, Guido Calogero di tanto si avvicina ai motivi concettuali di Cassirer, di quanto, in pari tempo se ne allontana. E ad ulteriore dimostrazione di ciò sta il fatto che ciò che in Cassirer è strutturato come un endiadi, di parola e cosa, in Calogero si struttura come una triade, come la triade di realtà, verità e linguaggio. «Per la riflessione arcaica, scrive Calogero, la verità non si distingue dalla realtà: il vero non è qualcosa che, implicando un rapporto di rispondenza al reale che veracemente rispecchia, si contrapponga alla sua oggettività e venga perciò ad appartenere alla sfera soggettiva della consapevolezza […] Il Greco antico chiama ogni saldo contenuto della sua esperienza tanto hon, esistente, quanto alethés, vero»[20]. Non c’è ancora cioè un problema gnoseologico di come un soggetto possa conoscere ed appropriarsi della realtà, perché ciò che è reale è immediatamente e contemporaneamente vero, l’aspetto per cui è reale è immediatamente l’aspetto per cui è conosciuto. «L’occhio contemplante si oblia ancora nella cosa contemplata: ed essa è nello stesso tempo esistente e manifesta, reale e verace, senza che tali attributi palesino la loro dualità»[21]. A questa originaria unità del vero col reale, della legge del pensato con la legge del reale, si aggiunge, per Calogero, come lui dice in una «triunità arcaica»[22], l’espressione verbale che fa un unico corpo con la realtà-verità. «Tale unità originaria dell’esistente e del pensato non è d’altronde costituita esclusivamente di quei due termini. Il reale non è soltanto vero nel pensiero, è anche manifesto nella parola: l’espressione linguistica si aggiunge perciò come terzo elemento al binomio primordiale della realtà e della verità»[23]. Così, se nella mentalità arcaica regna il dominio dello stupore, il dominio della potenza del mondo, dell’oggetto sul soggetto, e questo può spiegare la predominante della componente del vedere, a prescindere da ogni uso pratico, nel rapporto dell’essere umano con il mondo, come ci ricorda ancora Aristotele nelle prime righe del primo libro della Metafisica, Calogera mostra come quell’oggettività si faccia a sua volta di contenitore di proiezioni e strutture della soggettività, in una compresenza di motivi e funzioni che spiega appunto, perché, a differenza di Cassirer, la mentalità arcaica può essere trasposta da Calogero ad operare tutta nella filosofia e nella varietà del suo ragionare. Ed è appunto proprio tale ritrovare nell’indistinzione arcaica una varietà di piani coalescenti maggiore di quelli tematizzati nella lezione cassireriana che ha consentito al filosofo rimano di sottolineare l’operare della coscienza primitiva non prima della filosofia ma già tutta nella filosofia. Modo di strutturarsi della realtà, modo di coglierla e percepirla nel conoscere e modo di esprimerla nel linguaggio, trapassano nella filosofia arcaica indistintamente l’uno nell’altro: a cominciare dal fatto che l’impossibilità di pronunciare linguisticamente il non-essere esclude il divenire e valorizza quel paradigma del peras e del conchiudersi nell’autosufficienza che rimanda nello stesso tempo alla validità del principio di determinazione.

3. Alterità senza opposizione.


Fin qui le nostre considerazioni, assai rapide, su G. Calogero antichista e sul suo confronto con il neokantismo, in particolare con la figura di Ernst Cassirer.

Ma, in conclusione di queste fin qui esposto, è difficile trattenersi dal considerare, anche qui assai brevemente, quanto il Calogero antichista abbia in qualche modo condizionato il Calogero della modernità. E questo proprio a muovere da quel primato poetico della determinazione su qualsiasi logica dianoetica della contraddizione che Calogero ha fatto asse della sua interpretazione di Aristotele e contemporaneamente il perno della sua filosofia della presenza. Giacché com’è noto il cuore della vita della soggettività sta per Calogero nel tradursi nelle strutture della temporalità del paradigma della determinazione, per cui il contenuto della realtà-verità è sempre qualcosa, che lascia altro e oltre fuori di me, e non è mai né tutto né nulla. Così l’essere umano è l’eterno presentificarsi di un futuro che si fa passato, ossia il mio trovarsi sempre in una certa situazione di vita, in una forma determinata di esistenza, oltre la cui presenza c’è sempre l’alterità del futuro, il campo del possibile. Per cui Calogero può dire che nella struttura del presente e nelle sue relazioni col passato e col futuro la logica dell’identità si lega alla logica dialettica, guardando l’identità al contenuto del presente e l’alterità guardando invece al futuro. E soprattutto può dire che nella struttura dialettica del presente come trascorrere del futuro nel passato si esplicita la struttura dialettica della volontà umana come volontà libera, giacché l’altro è nella struttura stessa della vita.

Ma ciò significa che per Calogero l’altro, l’alterità, il futuro del possibile non può mai essere ripetizione patologica dell’identità, iterazione obbligata di un presente inevadibile e immodificabile. L’altro per la sua strutturale natura dialettica è sempre, rispetto al presente, viva ed operosa antitecità, ovvero campo fecondo di dinamiche di trasformazione. Ciò significa Per Calogero l’altro non può mai diventare l’altro dell’Io nel senso di altro dall’Io, giacché esso è viceversa sempre concepito come segmento interiore della struttura e dell’estensione dell’Io. E in questa impossibilità a concepire l’alterità anche come valenza che si può fare estranea, per non dire opposta, alla centralità dell’Io, in questa impossibilità ad accogliere il tema dell’Anderes come radicale estraneità ed Unheimlichkeit, sta a mio avviso l“arcaicità” del pensiero di Guido Calogero, ossia la sua dipendenza dal modo antico di concepire l’alterità: in una permanenza nell’antico che non gli consente di aprirsi a quelle tematizzazioni moderne dell’Andersheit, che hanno argomentato, in vario modo, dell’altro non come conferma ma come smentita e scacco di una supposta  padronanza dell’Io in casa propria.

E’ ben nota la funzione determinante che nella sua ricostruzione della filosofia antica Calogero ha assegnato alla definizione platonica del mè hón nel Sofista quale sinonimo, non di opposizione ontologica, bensì di differenza e distinzione. Platone, col parricidio nei confronti di Parmenide, ha sciolto, a suo avviso, l’unicità eleatica dell’essere nella molteplicità delle idee, ordinando e dando senso al mondo attraverso la tassonomia delle idee. Ed ha articolato i legami di pertinenza e di non pertinenza delle idee tra loro proprio attraverso la negazione di un non-essere, che, affrancato da ogni valenza magico-sostanzialistica propria del nulla assoluto, giunge a farsi, nel dialogo platonico della maturità platonica, non-essere relativo. Vale a dire che la negazione, con il parricidio consumato rispetto a Parmenide, è divenuta ormai, non significazione di un nulla quale assenza totale, buco nero, di realtà, bensì simbolo linguistico della diversità, cioè della relazione di differenza tra domini distinti, tutti positivamente esistenti, ma identificabili e nominabili attraverso idee diverse.

Con tale liberazione del non-essere Platone ha potuto concepire la sua logica dialettica, secondo Calogero, come metodo della divisione, ossia proporre una conoscenza come capacità di «dividere l’idea nelle sue specie, seguendo le sue articolazioni naturali ed evitando di spezzarne le parti come farebbe uno scalco maldestro» (Fedr., 265 d). Come afferma nel Sofista le tre alternative fondamentali che può percorrere la divisione dialettica sono: 1° che un’unica idea ne comprenda e ne abbracci molte altre, che tuttavia rimangono esterne ad essa ed esteriore l’una all’altra; 2° che un’unica idea conduca invece ad unità molte altre idee; 3°) che molte idee rimangano completamente distinte tra di loro (Sof., 253 d). La dialettica è perciò conoscenza che consiste nel sapere in qual modo un genere possa comunicare con altri generi e quale invece no. Ossia è la capacità di «dividere secondo generi e non assumere per diversa la stessa forma identica o per identica una forma diversa» (Sof., 253 d).

Ma questo fondamentale passaggio del non essere dal non-essere assoluto al non-essere relativo prima della filosofia platonico e poi al non-essere polisemico della filosofia aristotelica, se da un lato ha aperto e liberato la scienza antica come scienza della tassonomia del mondo attraverso generi e specie, dall’altro ha espulso un senso e una movenza radicale dell’alterità dall’orizzonte di quella cultura e di quel modo di percepire il mondo. Ha espulso cioè una funzione strutturalmente interna dell’alterità nella costituzione e nella formazione dell’identità. Generi e specie costruiscono un mondo in cui l’altro è solo un altro genere o un’altra specie, cioè è solo un diverso, un differente, ma appunto omogeneo e riconoscibile nella continuità di uno stesso ordine di realtà, di uno stesso kosmos. Mentre l’alterità eterogenea, lo αλλóτριον, designa ciò che è al di fuori di quel mondo ordinato e conoscibile, lo ξένον. E lo ξένον rimanda, nella varietà dei modi di pensare ciò che sta fuori, appunto all’esteriore, all’estraneo, allo strano, allo straordinario[24]. Come a dire che nella filosofia antica, per esprimerci molto en gros, il valore dell’identità, come salda permanenza di un ente all’interno dei propri confini, del proprio limite, appare prevalere su quello del divenire. E in tale prevalere dell’identico non si può non vedere, ancora e di nuovo, l’eco della valorizzazione parmenidea dell’essere.

Calogero, interprete dell’antico, ha avuto il grande merito, almeno a mio avviso, di ricostruire la storia della filosofia antica come progressiva emancipazione da ipostasi linguistiche fattesi princìpi  e strutture della realtà e in tale laicizzazione progressiva del pensiero antico ha visto nel parricidio platonico di Parmenide e nella possibilità di pronunciare il «non essere» una, se non la, svolta fondamentale, anche seguendo in ciò la lezione del suo maestro, Giovanni Gentile, depositata nel 1° volume del Sistema di Logica. Ma l’acquisizione critica di quel tradursi del motivo dell’alterità assoluta nel motivo dell’alterità relativa ha rappresentato, in pari tempo, la curvatura insuperabile del suo pensiero. Il legittimo rifiuto di porre a base della realtà la contraddizione assoluta tra essere e non-essere, il legittimo rifiuto di accogliere il nulla come operatore, metafisico e logico, di realtà, si è poi svolto e conchiuso in una difficoltà a leggere i diversi volti dell’alterità, a ritrovare nell’alterità l’istanza dell’opposizione, ad ammettere cioè movenze e forze del non-Io all’interno della luce sempre presente dell’Io, e questo limite ha generato tutte le asprezze che, con la sua successiva «Filosofia del dialogo», hanno segnato, a mio avviso, il suo, nobile ma ben problematico, tentativo di tradurre la sua grande lezione sull’antico nella lettura e nella trasformazione etico-politica del moderno.


[1] Vinto il concorso a cattedra nel 1931, Calogero diviene Professore Straordinario di Filosofia presso il Magistero di Firenze. Nel 1934 passa all’Università di Pisa, dove viene promosso Ordinario di Storia della filosofia nel 1935.

[2] Cfr. G. Sasso, Guido Calogero. Considerazioni e ricordi, in Id. , Filosofia e idealismo. III. De Ruggiero, Calogero, Scaravelli, Bibliopolis, 1997, pp. 127-176.

[3] G. Calogero, Lezioni di filosofia,, Estetica,  III, Einaudi, Torino 1960, p. 169

[4] Ibidem

[5] Ivi, p. 183

[6] G. Calogero, Lezioni di filosofiaLogica,  op. cit.  I, p. 36

[7] G. Calogero, Storia della logica antica, vol. I°, L’eta arcaica, Laterza, Bari 1967, p. 97.

[8] G. Sasso, L’esegesi parmenidea di Guido Calogero, in Id, Filosofia e idealismo, op. cit., pp. 177-299.

[9] Di una “unlösischen Zusammenhang von Denken und Sprache” parla il già ricordato saggio di E. Hoffmann, Die Sprache und die archaische Logik (Tübingen 1925, p.5) che Calogero recensisce nel «Giornale critico della filosofia italiana», 5, (1925), pp. 296-305.

[10] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, tr. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 63.

[11] Ivi, p. 64.

[12] Ibidem.

[13] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, II, pp. 59-60 [luogo della citazione da verificare].

[14] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, op. cit.,  pp. 64-65.

[15] G. Calogero, Storia della logica antica, op. cit., p. 44.

[16] Il padre di Guido Calogero, Giorgio Calogero era stato professore di francese nei licei, mentre la madre Ernesta Michelangeli, figlia di Luigi Michelangeli, professore universitario di letteratura greca, era stata una delle prime studentesse laureate nell’Università di Messina e, come ricorda lo stesso figlio nella sua Prefazione alla seconda edizione (1968) de I fondamenti della logica aristotelica, «si era laureata in lettere con una tesi su La donna in Senofonte (Bologna, Andreoli, 1899) e in filosofia trattando  de La missione della donna (Bologna, Zanichelli, 1901».

[17] Ivi, p. 75.

[18] Ibidem (Eschilo, Agamennone, vv. 681-85, tr. it. di G. Calogero).

[19] G. Calogero, Leggendo Heidegger, in «Rivista di filosofia», 41 (1950), pp. 231-49

[20] G. Calogero, Storia della logica antica, pp. 39-40.

[21] Ivi, p. 39.

[22] Ivi, p. 45.

[23] Ivi, p. 44.

[24] Cfr. B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneità, a cura di G. Baptist, Napoli, Vivarium, pp. 57-72.

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