La “breccia”. Tra Kafka ed Arendt

Mario Pezzella

Mario Tozzi - Idoli al sole estivoABSTRACT. The essay draws on Hannah Arendt’s comment on a “consideration” by F. Kafka entitled Er [He]. This is a reflection on the relationship between thought and experience of historical time. Arendt elaborated a theory of radical contingency, wherein the formulations of thought spring forth as a “diagonal” from the clash between the dimentions of the past and the future, creating a suspension, a moment of fluctuation in the flow of chronological time. In the essay, this formulation is placed in comparison with W. Benjamin’s conception of the dialectical image, including Benjamin’s essay on Kafka and the figure of the angel of history, as it appears in the theses “On the Concept of History.” The central theme of the essay is the conflict between the historical repetition as fate, and the “being-for-the-beginning” [essere-per-l’inizio], that is, the unpredictability of freedom, a fundamental concept in Arendt’s work.

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1. In suo racconto-parabola, che fa parte dei frammenti intitolati Egli[1], Kafka scrive di una “linea di lotta”(Kampflinie), in cui le forze equipotenti del passato e del futuro –oltre ad opporsi fra di loro- entrano in conflitto con l’uomo, che si trova sospeso nell’attimo presente del loro scontro: “Egli ha due avversari: il primo lo incalza alle spalle, dall’origine, il secondo gli taglia la strada davanti. Egli combatte con entrambi”. Le dimensioni del tempo sembrano spezzate e in conflitto: nessuna tradizione o eredità si trasmette dall’una all’altra. Invece di riuscire a creare un rapporto tra di esse, Egli sembra a sua volta in contesa con entrambe.

E’ possibile che la metafora di Kafka conservi una traccia della tradizione mistica ebraica, sottoponendola a una reversione negativa: la rottura dei “vasi” dell’Origine, la caduta dell’uomo nella storia e nella morte, lo incalza –come una tempesta- dal passato verso il futuro. Egli è costretto ad abbandonare la quiete dell’origine, a sprofondarsi nell’abisso della scissione, a essere nel divenire, sola via attraverso cui può sognare di restaurare la felicità originaria. D’altra parte il futuro, paradossalmente, acquisisce senso solo restituendo la memoria di ciò che è stato e del paradiso perduto, solo compiendo l’opera della reintegrazione messianica: “…Anche la nozione di Tikkun, che nella dottrina di Yishaq Luria indica la redenzione, e propriamente significa ‘restaurazione, reintegrazione nello stato primevo’, può venire intesa come una ‘ricollocazione della realtà nel suo assetto originario”[2]. Questo sarebbe il sogno di Egli, ma che possa realmente operare in tal senso è divenuto –per Kafka- estremamente improbabile: dovrebbe “saltare al di fuori” della Kampflinie del tempo, come giudice, approfittando “della più oscura delle notti”, in “un attimo sottratto a ogni visibilità (unbewachten Augenblick)”. Della concezione teologica originaria in Kafka resta una rovina, che pure di essa conserva una traccia. In questa condizione di nascondimento e di separazione, Egli dovrebbe riuscire a cooperare alla ricomposizione messianica, da cui la tradizione si attendeva il connubio tra la memoria della felicità originaria e la creazione di un assolutamente nuovo, paradosso in cui si riassumeva il senso della storia: “In questa utopia orientata verso la restaurazione, si possono insinuare –più o meno consapevolmente- delle prospettive, che non hanno nulla di restaurativo, e derivano (herschreiben) dalla visione di uno stato del mondo interamente nuovo, che si realizzerà messianicamente. L’interamente nuovo ha elementi del totalmente antico, ma questo stesso non è in realtà il passato reale, ma un passato trasfigurato e trasformato dal sogno, su cui è caduta la luce dell’utopia”[3].

In questa visione non c’è pura e semplice ripetizione del passato, ma questo chiede al presente e all’uomo in bilico nel tempo una compiutezza “nuova”, che non è già-data nell’essere stato: perciò incalza l’uomo da dietro”, per non essere dimenticato e abbandonato al suo stato di imperfezione e dislocazione. Nel legame della memoria, che solo l’uomo può stabilire tra il passato e il presente -e nell’eredità che in questo modo può lasciare di sé- l’incompiutezza della storia si orienterebbe verso la sua riparazione. Perciò anche la forza che sbarra la strada a Egli nella parabola di Kafka non sarebbe di per sé interamente negativa: essa vuole arrestarlo, volgerlo indietro, fermare la sua ansia di divenire. Solo questo contromovimento permetterebbe la riconsiderazione dei frammenti del passato e la loro ricostituzione, solo questa memoria darebbe senso all’avvenire: un futuro qualitativamente dotato di senso nasce dal desiderio di riparare al dolore già stato e smentire la sua irrevocabilità. Le due forze che si scontrano sulla soglia dell’ora potrebbero allora intrecciarsi, e non solo combattersi, così come convergerebbero nell’animo dell’uomo la memoria e la speranza. L’avvenire apparirebbe come il tempo della redenzione per ciò che –nel passato- restò senza voce. Solo questo intreccio delle due forze può consentirci di evitare quella disperata malinconia, che sprofonda invece nella contemplazione delle rovine della storia e –secondo Benjamin- avrebbe colpito Flaubert mentre evocava la civiltà di Cartagine, in Salammbò.

Tuttavia Egli è palesemente un uomo della modernità, in cui l’opera di ricostituzione del passato e del futuro è divenuta tragicamente improbabile, non più sorretta da alcuna forma di tradizione: quella teologica deve addirittura nascondersi in una notte oscurissima, in un attimo invisibile, se pure, per miracolo, è ancora in condizioni di operare. Egli è perciò sospeso nel conflitto tra un non essere più e un non essere ancora, che gli restano entrambi indecifrabili: con uno sforzo immane  tenta nonostante tutto di ricostituire il legame redentivo tra passato e futuro, memoria e speranza, senza più disporre del patrimonio di un’eredità collettiva, e nemmeno di un linguaggio condiviso, che gli permettano di adempiere con successo al suo compito. L’anarchico impiegato di banca praghese sapeva benissimo che –entro la modernità- il prevalere dell’astrazione del danaro tende a impedire qualsiasi legame qualitativo tra le dimensioni del tempo, riducendo il loro rapporto all’incremento della quantità omogenea e vuota del profitto (e della sua temporalità altrettanto vuota), in una novità sradicata e continua.

In tali condizioni l’unico evento qualitativo del futuro, che ci attenda con certezza, è la morte e il passato un peso che costringe alla ripetizione infinita delle sconfitte e dei traumi subiti. Nessuna eredità passa da una generazione all’altra –nessuna visione innovante del già stato è allora possibile.

 

Nota. Kafka era un uomo ribelle, ironico, con simpatie sovversive, in contatto personale con gli ambienti anarchici praghesi. Il Processo –oltre che un resoconto esistenziale e teologico- è una critica radicale del potere burocratico che si articola nello Stato del Novecento. L’autorità contestata da Kafka non è solo familiare e paterna, ma è quella dell’impersonale tecnocrazia giuridica ed economica, che sempre più sostituisce la prima nel corso del secolo passato: “Kafka non è un anarchico, ma l’antiautoritarismo, di origine romantica e libertaria, attraversa tutto il corpo della sua opera narrativa in un movimento di crescente universalizzazione e astrazione del potere: dall’autorità paterna e personale verso quella amministrativa e anonima”[4].

Sembra che Kafka abbia affermato in una conversazione: «Le catene dell’umanità torturata sono di carta protocollo», riferendosi agli immani meandri e apparati amministrativi dello Stato moderno, in cui l’individuo viene stritolato come una rondella insignificante. Il Castello dell’omonimo romanzo è il simbolo stesso di questa anonima impenetrabilità. I romanzi di Kafka descrivono il passaggio epocale da un’autorità fondata sulla dipendenza personale, ad un potere astratto che si impone «come il meccanismo impersonale del congegno»[5], destinato a uccidere i condannati del racconto Nella colonia penale. In realtà, più che ad una completa eliminazione del potere arcaico e personale assistiamo nell’opera di Kafka al suo inedito connubio con una tecnologia «sofisticata, moderna, esatta, calcolata, razionale»[6]. Il più arcaico e il più moderno si fondono nell’ottusa brutalità dei funzionari kafkiani, che sono nonostante tutto i rappresentanti di un’autorità astratta e insondabile. Kafka studia la burocrazia come un arcano metafisico, una setta composta da angeli ribelli e ripudiati, che per vendetta contro il creatore tormentano gli esseri umani. Come già aveva osservato Walter Benjamin nel suo saggio su Kafka, il diritto e la burocrazia sono le incarnazioni moderne del destino, che impedisce la libertà e l’autodecisione. La reificazione burocratica è un’espressione di quella generalmente imposta dal capitalismo, di cui sembra che Kafka abbia affermato: «Il capitalismo è un sistema di dipendenze che procedono dall’alto al basso e dal basso all’alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è una condizione del mondo e dell’anima»[7].

Una considerazione così dichiaratamente politica dell’opera di Kafka non esclude tuttavia altri piani di lettura – teologico, esistenziale, psicoanalitico. Certo, la meditazione teologica di Kafka non ha nulla in comune con le rassicuranti interpretazioni del suo amico Max Brod, per cui il Castello rappresenterebbe la Grazia o il governo di Dio. Come già avevano intuito Adorno e Benjamin, quella di Kafka è una teologia radicalmente negativa, in cui ogni Legge ed ogni Chiesa positiva hanno perso intima vitalità e si sono trasformate in apparati astratti al servizio del potere. «La non-presenza di dio nel mondo e la non-redenzione degli uomini»[8], caratterizzano la teologia negativa kafkiana. Come Benjamin, egli crede tuttavia in una «debole forza messianica», che sarebbe rimasta in possesso dell’umanità e sosterrebbe la sua resistenza contro il male e l’apparato del dominio. Come Bloch, Scholem e lo stesso Benjamin nei primi due decenni del secolo, Kafka è incline a una sorta di paradossale «anarchismo religioso». La redenzione messianica richiede la cooperazione dell’uomo e questa si manifesta innanzittutto nella distruzione degli apparati di costrizione e di potere: «Il Messia verrà solo quando non sarà più necessario», scrive in tal senso Kafka in un aforisma del 1917, «non all’ultimo, ma all’ultimissimo giorno». La particolare teologia di Kafka è stata così indicata da Benjamin, in una lettera a Scholem: “Ma quando tu scrivi: ‘Solo il Tuo nulla è l’esperienza che può avere di Te’, ebbene, proprio a questo punto posso collegare il mio tentativo d’interpretazione in questi termini: ho tentato di mostrare come Kafka abbia cercato di percepire al tatto la redenzione sul rovescio di questo “nulla”, nella sua fodera, se posso dir così. Ed è per questo che ogni forma di oltrepassamento di questo nulla, alla maniera in cui lo concepiscono gli interpreti teologici che fanno capo a Brod, lo avrebbe fatto inorridire.”[9].

Anche l’ebraismo di Kafka va considerato alla luce della sua passione antiautoritaria. E’ probabile che nella stesura del Processo Kafka sia stato influenzato da alcune condanne per «omicidio rituale», e dall’antisemitismo morboso che ne era derivato (in particolare quella contro Mendel Beiliss, del 1913). Esse gli ponevano innanzi in modo inconfutabile la maledizione del paria, che poteva colpire alla cieca e in modo irrazionale ogni ebreo (questa nozione è al centro di un grande saggio di Hannah Arendt del 1944). Tuttavia, questa condizione viene da lui progressivamente universalizzata. K. nel Processo rapresenta la condizione ebraica, eppure allo stesso tempo la sorte che sempre più frequentemente può toccare ad ogni individuo sottoposto agli apparati giuridici della modernità. I romanzi di Kafka sono scritti «dal punto di vista dei vinti»[10] e descrivono la reificazione che invade ormai ogni piega dell’esperienza soggettiva, senza risparmiare quel «foro interiore», che perfino Hobbes riteneva intangibile dalla violenza del potere. La corruzione della più intima soggettività è l’aspetto più inquietante dell’opera kafkiana, che Arendt ha indicato come interiorizzazione della colpa e identificazione con l’aggressore.

Alla fine del Processo, K. si lascia uccidere quasi senza reagire, come rassegnato e convinto della propria colpa. In realtà, per quel poco che sappiamo della sua vita, egli non è colpevole per avere resistito o trasgredito a qualche legge, ma per aver aderito senza protesta all’apparato anonimo e impersonale, che ora lo colpisce. Burocrate egli stesso, K. è solitario, narcisista e indifferente alla sorte degli altri. Egli ha compiutamente interiorizzato la legge dell’apparato, prima di subirne e comprenderne sul suo corpo la cieca violenza. Il male compiuto da K. è una «banale» pertecipazione all’indifferenza e alla passività collettiva, come quelle che poi realmente permetteranno la creazione dei totalitarismi e dei campi di sterminio. Il romanzo descrive il risveglio doloroso della sua coscienza e la sua tardiva decisione a lottare. Come spesso Kafka ripete nella sua opera, il rinvio e la sospensione indefinita conducono a perdere l’attimo propizio, che precipita inesorabilmente nel tempo mancato.

2. Per due volte la Arendt ha commentato la parabola di Egli, in luoghi decisivi della sua opera, a riprova della importanza emblematica che ad essa attribuiva[11]. Tra le due versioni sussiste una sfumatura di differenza. In Between Past and Future il commento è preceduto dal preciso riferimento a una situazione storica, quella del poeta R. Char, durante e dopo la Resistenza. Nella Vita della mente, l’accento cade piuttosto sull’attività modale del pensiero, che dà vita alla temporalizzazione nel suo senso più generale. Il trarsi fuori, l’astrarre di Egli dal flusso della temporalità quotidiana fornisce un luogo di arresto, un vuoto, in cui è possibile percepire le dimensioni del passato e del presente. Nella provvisoria e precaria immobilità che la sua posizione gli garantisce, proprio allora Egli diviene consapevole della contraddizione nel divenire: “E’ proprio perché l’io che pensa non ha un’età né un luogo che il passato e il futuro possono divenirgli manifesti come tali, svuotati, per così dire, del loro contenuto concreto ed affrancati da ogni categoria spaziale”[12].

L’attività trascendentale del pensiero ha due conseguenze, non del tutto concordi l’una con l’altra. La liberazione dal divenire consente sì di sottrarsi alla dissoluzione del tempo, ma al costo di sacrificare proprio quel qui ed ora, a cui in fondo Egli apparteneva originariamente, e cioè il mondo fenomenico della quotidianità. Per questo Arendt -nella sua interpretazione della parabola- propone uno spostamento del punto di vista, che dovrebbe risituare il pensiero nel rapporto con la contingenza, senza minacciare la sua autonomia.

La presenza di Egli sulla linea di lotta apre innanzitutto una breccia, una lacuna, nello scorrere del tempo cronologico e ne interrompe l’indifferenza: “…La posizione di Egli non è il presente come si intende di solito, bensì una breccia (Gap) del tempo mantenuta in essere dall’incessante combattimento con cui Egli prende posizione contro passato e futuro insieme”[13]. E’ la presenza dell’uomo, capace di memoria e speranza, che trasforma la temporalità in scontro di due forze simultanee e avverse e costituisce la loro intensità qualitativa: l’esser-presente è l’inizio del tempo, l’irripetibile che determina il loro significato. Come orientarsi, o meglio come salvarsi, dal loro scontro e comprendere la loro connessione in modo non distruttivo? Secondo H. Arendt, il “salto al di fuori”, che Egli vorrebbe compiere, continua in realtà una lunga tradizione, per la quale il pensiero è capace di uscire dal divenire e di assumere rispetto ad esso una posizione di giudice imparziale e superiore: “Ora, questo sogno non è altro se non l’antica fantasia, accarezzata dalla metafisica occidentale da Parmenide ad Hegel: una sfera extratemporale, extraspaziale, extrasensoriale che costituisca il vero dominio del pensiero”(15). Egli tenterebbe di porsi di lato, di uscire dalla Kampflinie e –come arbitro- guardare lo scontro in atto nell’ora, dall’esterno.

In realtà, penso che Kafka mostri piuttosto il fallimento, o per lo meno la estrema precarietà, di questa antica prospettiva e la sua attuale improponibilità: perché altrimenti il “salto al di fuori” sarebbe solo il sogno di una notte oscura, cristallizzato in un attimo di invisibilità? In Parmenide ed Hegel il pensiero si afferma piuttosto come il regno della luce sempiterna e della assoluta, trasparente visibilità. Inoltre, come spesso accade agli interpreti di Kafka, anche Arendt tende a identificare il personaggio con l’autore, che invece pratica costantemente un principio di estraniazione rispetto ai suoi protagonisti. Come il K. del Processo non è il K. del Castello ed entrambi non sono lo scrittore, così Egli è una terza persona, e il suo modo di essere non è necessariamente uguale a quello del suo creatore. La parabola lascia trasparire uno sguardo critico, e perfino leggermente ironico, verso il sognatore che ne è il protagonista.

Comunque sia, Arendt ritiene che il probabile fallimento di Egli dipenda da un suo atteggiamento errato, da un modo sbagliato di intendere il compito del pensiero. Come mantenere una concezione rettilinea del tempo, dopo averlo inteso come la costituzione di uno scontro di forze? “L’inserirsi dell’uomo che spezza il continuum non può non far deviare le forze, sia pure in misura minima, dalla loro direzione originale, e in tal caso esse non avrebbero più uno scontro frontale, bensì si incontrerebbero ad angolo”(15). L’intervento dell’uomo nel presente modifica l’immagine già data del passato e del futuro e del loro scontro, genera una forza eccentrica e diagonale, che produce uno scarto minimo ma decisivo nell’asse del tempo. Si potrebbe raffigurare questa situazione con un “parallelogramma di forze”, in cui le due tendenze che si scontrano danno vita a una terza, la risultante diagonale, “che partirebbe dal punto sul quale le prime due si scontrano”(16); “la breccia in cui Egli si trova non è, almeno in potenza, un semplice intervallo”(15), ma apre una modifica profonda del senso del passato e della storia stessa nella sua totalità. Questa è “l’immagine perfetta dell’attività del pensiero”, perché in essa assumiamo sì un punto di vista trascendente sugli eventi del tempo, ma nient’affatto estraniato dalla loro concretezza determinata.

Come abbiamo detto, in Between Past and Future, le considerazioni di H. Arendt partono dalla situazione storica vissuta da R. Char durante e dopo la Resistenza francese, dalle speranze di un nuovo vivere sociale, sorte nel tempo della lotta, e poi deluse dal ritorno all’ordine nel dopoguerra. Come rianimare la speranza che in futuro si possa riscoprire il “tesoro perduto” delle rivoluzioni e qualcuno possa riceverlo in eredità? E’ questo il compito del pensiero, che, nient’affatto rivolto verso il cielo delle idee sempre uguali, ha proprio il compito di narrare e dare forma a quelle speranze e a quelle delusioni vissute e di tramandarle alle generazioni future. Il pensiero resta radicato nell’esser-presente, in cui è avvenuto lo scontro, e l’idea che cerca di astrarre da esso è il fenomeno originante degli eventi che intorno a quel punto si raccolgono (o la loro “immagine dialettica”, come aveva detto Benjamin): “Il vantaggio di tale immagine è che ora non si sarebbe più costretti a situare la regione del pensiero al di là e al di sopra del tempo e del mondo dell’uomo…Il luogo nel tempo dell’io che pensa sarebbe ciò che è ‘tra’ il passato e il futuro, il presente, questo adesso misterioso e sfuggente, un puro vuoto nel tempo, verso cui, tuttavia, sono diretti i tempi più consistenti del passato e del futuro nel momento stesso in cui denotano ciò che non è più e ciò che non è ancora”[14]. Sarebbe cioè possibile un punto di vista trascendente all’interno stesso del tempo, o –detto altrimenti- un trascendimento della situazione, che però ad essa e alle sue contraddizioni determinate continua a riferirsi e in essa resta radicato.

Un simile pensiero-in-situazione si distinguerebbe in modo evidente da quello che si rivolge a un Essere metafisico, permanente e immutabile, a lungo analizzato da H. Arendt nella Vita della mente. Questa immagine intemporale dell’Essere è poi apparentemente neutrale nello scontro tra le dimensioni del tempo, perchè è in verità astratta dal passato, è la sua cristallizzazione in un cielo ideale, a cui si oppone il moto della volontà rivolto invece al futuro: “Il ricordo ha col pensiero un’affinità naturale; ogni pensare, come s’è detto è un ri-pensare.  E le direzioni di pensiero procedono nel modo più naturale, quasi automaticamente, dal rammemorare”. Dopo aver ricordato come questa concezione sia presente in Platone e Agostino, la Arendt mostra quale immagine del pensiero ne consegua: “Il ricordo può turbare l’anima con il desiderio del passato, ma tale nostalgia, anche se contiene dolore e amarezza, non turba l’equanimità della mente, poiché concerne cose che non è in nostro potere cambiare”. Al contrario, l’io che vuole si agita nel tumulto dell’incertezza fra timore e speranza, “e tale tensione non può essere risolta se non dall’azione, cioè rinunciando completamente ad ogni attività spirituale”[15].

Sembra dunque che H. Arendt si allontani dalla concezione parmenidea dell’Essere e del pensiero, quando parla della forza diagonale, che scaturirebbe dallo scontro in atto nell’ora, e caratterizzerebbe la sua concezione del pensare, diversa da quella della tradizione metafisica: non un eterno essere sottratto alle scosse del tempo, ma un “ristretto spazio atemporale nel cuore stesso del tempo”[16]. Il pensiero in questo caso non si slancerebbe in un etere ideale, ma si chinerebbe verso la stessa esperienza compiuta nell’ora e si occuperebbe della sua trascrizione in un codice simbolico, tramandabile e significante per le generazioni a venire: “…Le dimensioni del pensiero, la memoria e l’anticipazione salvano tutto ciò che toccano dalle rovine del tempo storico e biografico”[17]. Tale compito del pensiero diventa particolarmente rilevante e importante in quei momenti storici che sembrano effettivamente esitare in sospeso entro un tempo “completamente determinato dalle cose che non sono più e da quelle che non sono ancora”(13): un attimo cavo o anche un occhio del ciclone, in cui le forze in conflitto si fronteggiano con forza pari, impedendo una decisione immediata e producendo una dialettica immobile, che può sembrare una fine o una quiete e ne è in realtà l’opposto. In questo “interregno che si produce talvolta nel corso della storia”, “in questi intervalli può trovarsi il momento della verità”(13), in cui cioè lo sguardo dello storico critico può riflettere sull’esperienza passata e cristallizzarla in un’immagine di pensiero: le forze in conflitto appaiono allora nella loro nuda consistenza, spogliate di ogni fantasmagoria e di ogni ideologia. Questa conoscenza dialetticamente determinata può giungere in eredità a chi cercherà in futuro, in una situazione mutata, stimoli e forze per aprire una nuova breccia della libertà: “A tous les répas pris en commun, nous invitons la liberté a s’asseoir. La place demeure vide mais le couvert reste mis”(R. Char).

Nel commento alla parabola, la Arendt mantiene comunque una distinzione abbastanza netta della facoltà del pensiero dall’azione (e dalla volontà in essa implicata): “Applicate al tempo storico o biografico, simili metafore non hanno più senso…Solo in quanto pensa, solo in quanto cioè, stando a Valery, non è, l’uomo…vive realmente in questa breccia* tra passato e futuro, in questo presente senza tempo”[18].

Mi chiedo se non si possa fare un passo ulteriore, a partire dalla stessa meditazione della Arendt e riferire quella che ella considera la “diagonale di forza” del pensiero anche all’azione politica e al suo carattere inaugurale e iniziale.  Riconsideriamo da questo punto di vista una frase già citata: “L’inserirsi dell’uomo che spezza il continuum non può non far deviare le forze, sia pure in misura minima, dalla loro direzione originale, e in tal caso esse non avrebbero più uno scontro frontale, bensì si incontrerebbero ad angolo”(15). Questo intervento può essere riferito solo al pensiero o non investe necessariamente anche l’azione (e la volontà)? La presenza dell’uomo sulla Kampflinie non è forse caratterizzata indissolubilmente da entrambe queste due forme di considerazione della storia? Certo è che anche l’azione, per quanto imprevedibile e inconsapevole, produce una deviazione nel modo di considerare il passato e il futuro e li riorganizza intorno al punto di vista che essa afferma ora, nel presente: e non è forse su questa deviazione minima ma decisiva che il pensiero riflette, per delucidarla in una forma tramandabile e non lasciarla precipitare nell’oblio? Su cosa mai dovrebbe riflettere il pensiero se non sull’evento iniziale, prodotto da un’azione, che ha impresso una deviazione all’asse necessitato della storia (come, per esempio, l’essere-in-comune vissuto da Char durante la Resistenza)? E come potrebbe essere possibile la ripresa di questa azione “a futura memoria”, se non grazie all’intervento specificante e determinato del pensiero? Il pensare, in questo senso, non è opposto all’azione, ma la evoca e la ridesta a un nuovo inizio e ha d’altra parte il compito di rammemorare i possibili che rischiano di andare perduti nell’oblio della storia.

Non sarebbe dunque più vero che il pensare “concerne cose che non è in nostro potere cambiare”. Al contrario, esso si rivolge proprio a ciò che nella storia è stato interrotto e richiede al futuro il suo compimento: dall’ora si diparte una diagonale, che è pensiero connesso all’azione passata e orientato all’azione futura. Certo, per quanto guadagnamo in complessità, perdiamo in quiete: perché un pensiero simile dovrà assumere in sé alcuni caratteri, che invece sembrava spettassero solo al volere e all’azione, e cioè il fatto di rivolgersi alla contingenza, alla debolezza e transitorietà delle realizzazioni, alla limitatezza della finitudine.

Questa riflessione potrebbe essere posta a confronto con quella sulla “debole forza messianica”, esposta da Benjamin nelle sue tesi Sul concetto di storia, di cui la Arendt è stata una delle prime lettrici. Stranamente ella non cita mai il nome di Benjamin, nei suoi commenti alla parabola di Egli. Nella Vita della mente, che accentua –come già detto- il carattere modale-trascendentale del pensiero, il confronto è piuttosto cercato con Heidegger e con la sua interpretazione del passo di Nietzsche, che descrive l’arrivo di Zarathustra alla “porta carraia” dell’attimo. Tuttavia l’Eterno Ritorno pare piuttosto cancellare quel rapporto alla irripetibile specificità della contingenza, che in ultima analisi la Arendt vorrrebbe restituire alla “diagonale” del pensiero e avrebbe trovato un corrispettivo certamente più prossimo nella riflessione di Benjamin sulla Jetztzeit (Il tempo-ora)[19].

Digressione. Col termine knotenlinie, linea nodale, Hegel ha indicato un momento di forte discontinuità all’interno di un processo di sviluppo, che si produce però nell’apparente permanenza della condizione precedente. E’ sempre la stessa quantità che continua ad accumularsi (così sembra), ma tale incremento produce un punto critico di eccesso, in cui lo stato antecedente salta in una qualità nuova e diversa di essere. Come vedremo un fenomeno analogo si verifica anche nella storia politica, ed è descritto in luoghi determinanti della riflessione di Hegel.

La formulazione più incisiva della linea nodale si trova nella Scienza della logica, nel decisivo luogo di passaggio dalla dottrina dell’essere a quella dell’essenza. Il mutamento sembra avvenire lentissimamente, per minimo incremento della stessa quantità, in forma quasi inavvertibile: e tuttavia a un certo punto di questa intensificazione continua del medesimo, si produce una frattura -e un abisso sembra separare lo stato immediatamente precedente da quello successivo: “Ma l’avvenire a poco a poco riguarda semplicemente il lato estrinseco del mutamento stesso, non il suo qualitativo; il rapporto quantitativo precedente, che è infinitamente vicino al susseguente, è purtuttavia un altro esserci qualitativo”; il processo quantitativo viene in realtà “assolutamente interrotto”; in quanto la nuova qualità che si affaccia, considerata sotto il suo rispetto puramente quantitativo, è, a fronte di quella che sparisce, una qualità diversa indeterminatamente, una qualità indifferente, il passaggio è un salto; le due qualità son poste come completamente estrinseche l’una all’altra”[20]. La linea nodale è “un punto dove la qualità si muta, il quanto si mostra come specificante”. Già qui l’intero processo si svolge in una sorta di intervallo e di breccia del flusso temporale. Più decisamente nelle Lezioni sulla storia della filosofia i “punti nodali” (Knotenpunkte) sono i luoghi decisivi di discontinuità nel divenire del pensiero; questo termine è ripreso da Marx in un suo scritto giovanile, ove indica gli attimi “che spezzano l’andamento della linea retta”[21]. Un secondo elemento merita qui di esser messo in rilievo accanto a quello del “salto” ed è l’inavvertibilità con cui ad esso si giunge: la talpa scava lentamente in un edificio apparentemente intatto, finché l’erosione porta al punto nodale, in cui quello, rapidamente, crolla e si produce un radicale mutamento del principio esistenziale, epistemico e sociale che regge l’esistenza storica.

Nasce così, all’interno del pensiero dialettico, l’enfasi sulla rottura e sulla discontinuità che si oppone alla concezione di un tempo storico omogeneo e vuoto, e troverà la sua massima e definitiva espressione nelle tesi Sul concetto di storia di W. Benjamin, e tuttavia con una differenza essenziale: più che indagare la legge di sviluppo e di movimento che porta verso una nuova configurazione del tempo, Benjamin invita a concentrare l’attenzione proprio sulla sospensione che si produce quando le forze in conflitto sono in bilico e l’esito della loro lotta è indeciso. Proprio allora, nella dialettica in stato di immobilità, esse mostrano fino in fondo la loro natura, la loro idea, il loro fenomeno originante, ed è possibile comporre questa conoscenza in un’immagine dialettica che strappa all’oblio coloro che sono rimasti “senza nome” nella tradizione dominante.

Noi siamo ora su una linea nodale del tempo. Il codice simbolico che ha governato la modernità capitalista, nella sua apparente solidità, subisce dietro la facciata l’accumulo insensibile e continuo di conflitti e crisi, che ne erodono la consistenza e costituiscono le condizioni negative di un mutamento qualitativo: certo, a differenza di Hegel, non possiamo oggi pensare che l’esito positivo sia scontato e il passaggio al nuovo principio inevitabile e necessario. L’erosione dell’edificio potrebbe pure palesarsi come quella catastrofe della storia, di cui parla Benjamin nelle tesi. Il disfarsi della problematica solidarietà fra “spirito del capitalismo”, liberismo economico e Stato-Nazione (nella sua forma democratica-rappresentativa), è l’aspetto cruciale della linea nodale che stiamo attraversando.

Secondo Hegel, un regime politico in declino può mantenere intatta la sua facciata per un tempo relativamente lungo, anche se è roso internamente da una contraddizione non risolvibile; l’apparenza del suo potere resiste al vuoto che internamente si propaga sempre di più, finché –oltre una certa soglia- basta un leggero colpo di gomito e tutto l’edificio crolla al suolo in pochissimo tempo. La costellazione etica, simbolica ed economica del regime spettacolare-integrato, entro il quale abbiamo vissuto negli ultimi decenni del Novecento, sembra avvicinarsi a una simile linea nodale del tempo. Ciò che tramonta è la concezione plurisecolare dello Stato-Nazione e la sua ultima incarnazione politica, quella democratico-rappresentativa, che ha dominato la seconda metà del secolo passato, dopo aver sconfitto la variante totalitaria.

Più volte Hegel descrive un ordine statuale, simbolico o logico, che mostra un’apparenza di solidità, mentre la sua essenza è la distruzione invisibile che lo contamina a spire sempre più larghe. L’esempio più chiaro è la fine dell’ Ancien Régime in Francia nel periodo illuministico e prerivoluzionario. L’ “intellezione pura” –nei termini di Hegel- è lo spirito critico immanente che -senza ancora essere cosciente di sé come di un nuovo principio del mondo- tuttavia procede al dissolvimento del vecchio dispotismo e inizialmente si palesa come disgregazione incosciente, uscita della storia dai suoi cardini abituali: propagarsi del nulla. Non potremmo identificare la sua azione in un singolo atto di decisione: essa è piuttosto paragonata “a una quieta espansione, alla diffusione di un vapore, di un miasma, in un’atmosfera che non oppone alcuna resistenza. E’ un contagio sottile e penetrante che, non essendosi manifestato inizialmente come opposto all’elemento indifferente nel quale si insinua, non può perciò essere combattuto. Solo quando la sua diffusione è avvenuta, il contagio è tale per la coscienza che gli si era concessa senza riserve”[22].

In una fase preparatoria che può durare a lungo, l’apparenza dell’ordine non sembra intaccata, ma in realtà le sue contraddizioni diventano sempre più gravi e irrisolvibili, rispetto ai suoi stessi principi di partenza. D’altra parte il discorso che mette a nudo il nulla del volto, dietro la maschera del potere vacillante, si diffonde sempre più come opinione, scherno, linguaggio critico che diviene senso comune, e per il fatto che non si pone come un antagonista politico attivo non viene soffocato al suo sorgere. La “battaglia”, in cui l’ordine minacciato finalmente reagisce, avviene quando la “malattia” ha già attaccato “il midollo della vita spirituale”. A quel punto l’ordine in crisi si scatena contro “manifestazioni isolate della malattia”, cerca di “mitigare i suoi sintomi”, ma non può più soffocarne l’essenza, che insorge dalla sua stessa contraddizione interna. In questa tarda battaglia, l’ordine incrinato sembra ritrovare un residuo di forza e di capacità di resistenza, ma in realtà proprio in questa stessa lotta esso mostra di essere spiritualmente ingiustificato e si rivela ancor più come nuda datità e potere destituito di senso. Così lo spirito del negativo “un bel mattino dà un colpetto al gomito del camerata e –patatrac- l’idolo è a terra”[23].

Hegel descrive così l’implosione dell’ordine prerivoluzionario: come già detto, difficilmente potremo condividere la sua certezza che dalla dissoluzione dell’ordine antico sorga poi senz’altro uno spirito positivamente nuovo. L’autocontraddizione del vecchio principio può risolversi in una rivoluzione conservatrice o in una rivoluzione passiva, che certo sovverte il vecchio regime, ma può anche sostituirlo con una forma ancor più gerarchica, feroce e distruttiva. E’ questa la lezione che ci proviene dalla prima metà del secolo passato e dal trionfo del totalitarismo: del resto lo stesso Hegel aveva fatto in tempo a notare che l’emergere del principio nuovo può condurre a una forma di Terrore dittatoriale, che trasforma in “furia del dileguare” il bel mattino della liberazione, “il cui mezzogiorno…non è rosso di sangue”[24].

L’idea di una linea nodale del tempo è presente, in forma più tragica, anche in Hölderlin, per il quale questo momento di sospensione indecisa tra l’ultimo sussistere del passato e l’accennato presentimento del nuovo è definibile come divenire nel trapassare. In questa dissoluzione domina inizialmente il sentimento del vuoto nulla, in cui cadono tutte le forme esistenti, e l’animo è serrato dalla paura. Al di là del “primario, grezzo dolore per la dissoluzione” di ciò che costituiva l’abito consueto della nostra vita, il timore ha già consapevolezza della necessità del cambiamento ma trema di fronte alla sua indeterminatezza, all’impossibilità di definire positivamente, di determinare il possibile in atto di emergere: “…Ciò che si dissolve è concepito in una condizione intermedia tra essere e non essere”[25].

Intesa da un punto di vista ideale, dice Hölderlin, questa dissoluzione reale può però tramutarsi nell’emergere di un nuovo principio del mondo, nell’apparizione di un dio veniente: “Questo declino o transizione della patria…sente talmente se stesso negli elementi del mondo esistente, che proprio nel momento e nella misura in cui ciò che esiste si dissolve, anche il nuovo che subentra, la cosa giovane, il possibile, sente se stesso”[26].

Nella fiducia che il dio veniente si palesi insiste un resto intatto di fiducia nella Rivoluzione. Se noi dovessimo ripensare questi concetti alla luce del nostro essere nel divenire, dovremmo rifiutare l’idea di un possibile, necessariamente destinato alla realizzazione, e accentuare la sua aleatorietà: arrestarci nell’attimo in cui le forze in conflitto divergono e intuire la chance, affidata all’azzardo dei rapporti di classe e alla decisione politica concreta. Che il vecchio ordine crolli si può considerare una certezza: che il nuovo possibile si affermi nel senso di una liberazione dai rapporti di potere e non soccomba alla perversione della sua rivoluzione passiva, è solo un evento immaginabile. Nulla è per noi meno certo del passaggio dall’ideale al reale, e noi dobbiamo innanzitutto fissare l’immagine dialettica del Novecento, che ha visto piuttosto il prevalere delle fantasmagorie del potere e delle sue rivoluzioni passive: non un addolcimento dei rapporti di dominio, ma il loro specifico riarticolarsi e indurimento. La nostra linea nodale non vede tanto il trapasso da un ordine simbolico all’altro, ma una sorta di conflitto irrigidito tra forze incompatibili.

In tale stato d’emergenza i poteri discordi hanno bastante potenza da contrastarsi a vicenda, ma non fino al punto di sopprimere l’avversario: e così i mezzi consolidati e conosciuti dell’azione politica diventano rapidamente e quasi di colpo inefficaci. Marx vedeva nel bonapartismo una prefigurazione della dittatura, “in un’epoca in cui la borghesia aveva già perduto e la classe operaia non aveva ancora guadagnato la facoltà di governare”[27]. In questi intervalli della storia, quando –diceva Benjamin- la dialettica è in sospeso (Stillstand), sentiamo il pericolo di essere investiti dalla distruzione: ma in essi può anche prodursi una breccia del tempo cronologico e quantitativo e possono emergere le istanze del riconoscimento e dell’eguaglianza. Queste si volgono naturalmente contro il vecchio regime, ma anche contro la nuova aggregazione di potere che sta cercando di formarsi e di prendere il posto di quella precedente.

3. Nella Prefazione a Tra passato e futuro, il commento della Arendt alla parabola di Kafka è preceduto da alcune osservazioni dedicate a Réné Char e alla sua partecipazione alla Resistenza francese. L’esperienza vissuta dal poeta fu una breccia nel tempo storico caratterizzato dal decorso omogeneo e vuoto e dalla continuità del dominio. Partecipando alla Resistenza, pur nella condizione tragica e nei pericoli che si è trovato a vivere, Char (e altri intellettuali come lui) hanno sperimentato uno spazio pubblico libero, in cui vigeva un rapporto di simmetricità con l’altro, libera dalla soggezione servo-padrone. E’ ciò che durante la Rivoluzione americana chiamarono felicità pubblica, e poi i Francesi dell’89 libertà pubblica: “un tesoro antichissimo, che appare all’improvviso”, per poi dileguare come fosse un miraggio e un fantasma, “una fata Morgana”[28]. Questa relazione di uguaglianza –secondo la Arendt- è il “tesoro perduto” delle rivoluzioni moderne, che poi ricadono nell’inerzia seriale della governamentalità spettacolare o autoritaria e i cui attori finiscono per dimenticare la dialettica reciproca del riconoscimento, praticata nel corso dell’azione: “ Questo smarrimento non è solo tragico in se stesso, ma ha l’ulteriore conseguenza che nulla di quel “tesoro” viene allora tramandato alle generazioni future, le quali si trovano di fronte alla fatica di Sisisfo di dover ricominciare da zero la loro lotta contro il dominio, senza disporre di alcuna memoria del passato: “Notre héritage n’est précédé d’aucun testament”[29]. Questa mancanza di memoria non è solo una nuova sconfitta per coloro che furono già battuti in passato e ora vengono del tutto dimenticati; ma espone al rischio dell’impotenza anche la generazione più nuova.

In effetti, la tradizione rivoluzionaria, a differenza di quella del dominio, non segue un processo continuo: essa si muove nella discontinuità, in cui ogni nuova apertura riprende la breccia che fu aperta in passato e la allarga in forma completamente diversa, in un inizio, che intensifica il senso di ciò che è già stato. Non c’è progresso rettilineo nella storia della libertà, che è esposta a inevitabili e talora drammatiche regressioni: “…’Je sais que je devrai rompre avec l’arome de ces années essentielles, rejeter (non refouler) silencieusement loin de moi mon trésor”[30]. La storia delle rivoluzioni può essere paragonata alla potenza di un vortice, che -dopo aver scavato per quanto era possibile nella pietra del tempo- si arresta e si indebolisce, finché una nuova tempesta di vento non si sollevi e non prosegua la sua opera: purché sappia dove dirigersi e colpisca dove la breccia è già aperta, invece di scontrarsi alla cieca dove la resistenza è più dura. Le aperture della libertà costituiscono un movimento a spirale che ritorna ripetutamente su se stesso.

Diventa allora essenziale che l’esperienza vissuta della libertà e del riconoscimento –per esempio quella di Char nella Resistenza- venga formulata in modo tale da non svanire dal ricordo degli uomini quando il vento della sua potenza si è affievolito: per questo, secondo la Arendt, dopo la fine dell’azione la generazione di Char avrebbe dovuto (e forse in parte lo ha fatto) agire col pensiero, che come abbiamo detto è innanzitutto la messa in forma di un’esperienza già-stata: un pensiero –secondo la Arendt- che non si sottrae alla storia in un regno ideale, ma coopera alla creazione di una diagonale di senso, che consente la ripresa dell’azione passata e l’inizio di quella futura. In tal modo, esiste un nesso di reciprocità tra la memoria e la breccia delle rivoluzioni: “Il punto centrale é che il ‘compimento’, che certo ogni evento accaduto deve avere nelle menti di coloro a cui tocca di raccontare la storia e tramandarne il significato, a loro mancò; e senza questo compimento nel pensiero dopo l’atto, senza l’articolazione compiuta dalla memoria, semplicemente non restava più alcuna storia, che potesse essere raccontata”[31]. Allora coloro che hanno combattuto per la libertà restano innominati e definitivamente dimenticati, l’espressione “senza testamento” allude proprio alla “mancanza di nome”[32], e cioè al fatto che l’evento rivoluzionario rimane muto e inespresso, privo di una propria traduzione simbolica, in balia delle deformazioni e delle rivoluzioni passive dell’avversario o dei nuovi padroni.

Certo, le brecce e le diagonali di cui stiamo parlando non hanno il potere di imporre una fine della storia e incidono in una contingenza e in una situazione determinata, nella sua irrimediabile specificità. E occorre riconoscere che fa parte di tale contingenza della libertà anche l’imprevedibilità di una simile azione, guidata da un pensiero di tal fatta. Essa non si lascia interamente ricondurre a un programma o ad un piano, che del resto ridurrebbe il nuovo inizio a ripetizione, l’evento all’idea. Il mio progetto consapevole verso il futuro, la mia immagine determinata del passato, che vivo inizialmente come in conflitto, producono un’azione che sfugge alla sovranità del primo e alla ripetizione della seconda, e si propaga imprevedibile al di là di me stesso: “…Anche il più piccolo atto nelle circostanze più limitate ha in sé il germe della stessa illimitatezza, perché un solo atto, e qualche volta una sola parola, basta a mutare ogni costellazione di atti e parole”[33], modificando così il senso del passato e l’immagine del futuro, rispetto a ciò che era dato.

Certo, l’agire è legato al senso del mio progetto e della mia memoria, e questi sono radicati nella situazione in cui sono e nelle sue potenze contraddittorie: ma lo scarto dell’azione –minimo diceva Sartre- produce una diagonale di forza, che si sprigiona in una direzione imprevedibile. La sospensione tra passato e futuro descritta da Kafka è un’immagine dialettica di forze in sospeso: l’azione o la decisione che ne scaturisce si differenzia da esse, magari contro le proprie stesse intenzioni, e imprime una deviazione irreversibile all’asse della storia. E’ un inizio non garantito, non dotato di forza sovrana, che crea uno stato d’eccezione senza ricondurlo all’ordine e non mira alla costruzione di un muro (di uno Stato), ma all’apertura di una breccia di libertà.

La Arendt oppone questa diagonale di forze al pensiero da “arbitro”, a lato del tempo, che si configurerebbe nella parabola di Kafka, e in realtà corrisponderebbe ancora alla sua classica immagine metafisica (ma forse –come abbiamo visto- Kafka non vuole dire proprio questo). L’imparzialità è impossibile, e  anche il pensiero procede dal punto di vista della situazione, dal suo luogo nella lotta della storia. La forza diagonale non si identifica con la sovranità politica, ma neanche con un pensiero neutro-ideale, del resto impossibile.

Le brecce del tempo non mancano però di una unità di misura comune, che è il riferimento alle esperienze di riconoscimento e di uguaglianza, in cui fu interrotto –e di nuovo lo sarà- il rapporto di padronanza. Questa costellazione di ripresa, memoria del passato, pensiero e azione come un nuovo inizio, costituisce un ambito molto vicino a quello che Benjamin nominava come debole forza messianica. Nella Kampflinie può succedere che ci si ritrovi in un luogo senza più scena politica, “abbandonato a un avanspettacolo di furfanti e di buffoni”, e che allora si possa essere “aspirati dalla politica come per la forza del vuoto”[34] (come Char nella Francia del 1940). E’ allora particolarmente importante che il pensiero dia forma e voce al “tesoro perduto”: “in simili situazioni di emergenza la componente catartica del pensare…si rivela, implicitamente, politica”[35].

Il pensiero come “diagonale del senso” è molto affine alla facoltà del “giudizio”, oggetto della terza parte della Vita della mente, che la Arendt non ebbe il tempo di terminare. Nella sua ultima formulazione, così come si ricava dalle lezioni sulla filosofia politica di Kant (presso la New School for Social Research nel 1970), il giudizio si occupa prevalentemente del passato, discriminando in esso quegli eventi particolari, che non si lasciano ricondurre a categorie sovratemporali e universali: “Lo studio delle storie del passato storico insegna che esiste anche la possibilità di un nuovo inizio; così la speranza è latente nella natura dell’azione umana. Ogni storia ha un inizio e una fine, ma non una fine assoluta; perché la fine di una storia segna sempre l’inizio di un’altra”[36]. La breccia come evento storico particolare, che rompe l’universalità omogenea del tempo quantitativo, è l’oggetto privilegiato della facoltà del giudizio, la quale acquista un rilievo strordinario nel momento in cui l’azione politica diretta sembra impedita, per mancanza di valori che possano orientarla e per la sospensione indecisa di forze, che abbiamo visto descritta nella parabola di Kafka. Sulla “linea di lotta”, il ricordo che sono esistite brecce di libertà, “particolarità” irriducibili nel corso della storia, può costituire un esempio e uno stimolo a un nuovo inizio. In tal senso il giudizio è un’attività che tocca anzitutto allo “spettatore” della storia o allo storico nel modo in cui lo intende la Arendt.

Precedentemente ella aveva posto il giudizio in più stretta connessione con l’azione politica: “Nei suoi primi scritti…la Arendt aveva introdotto la nozione di giudizio per garantire basi più solide alla sua concezione di azione politica intesa come pluralità di uomini che agiscono di comune accordo in uno spazio pubblico. Gli esseri umani sono in grado di agire come esseri politici poiché riescono a utilizzare i potenziali punti di vista altrui; possono con-dividere il mondo con altri giudicando ciò che hanno in comune, e gli oggetti dei loro giudizi espressi in qualità di esseri politici sono le parole e le azioni che chiarificano lo spazio dove si manifestano le cose”[37].

Forse le due varianti del concetto non sono così contraddittorie, come può apparire. Il giudizio “politico” è possibile nel momento in cui la situazione permette o richiede un agire dotato di senso, l’apertura di una breccia effettuale della libertà (il momento in cui Char è quasi per necessità coinvolto nella Resistenza); il giudizio “storico” è invece richiesto nel periodo della sconfitta, del riflusso, della rivoluzione passiva, per contrastarne l’egemonia e mantenere viva la realtà e il segno della breccia nella memoria degli uomini (il periodo del dopoguerra, quando Char teme che il “tesoro perduto” rimanga senza eredi).

Nella Vita della mente le aporie e le sospensioni del pensiero e della volontà avrebbero probabilmente trovato soluzione nella teoria del giudizio: già il pensiero come “diagonale di senso” e la teoria della volontà in Duns Scoto, come riscoperta della contingenza, oltrepassano i confini tradizionali della propria facoltà e sono strettamente associati alla riflessione del particolare a cui si consacra il giudizio. A mio parere è difficile distinguere troppo rigidamente le tre facoltà, che invece si presuppongono circolarmente e interagiscono, sfociando infine tutte sull’attenzione al contingente e abbandonando gli universalia della metafisica: la teoria politica della Arendt ci indica “un’apertura alla libertà sottile come una lama di coltello, una breccia nel tempo. E’ in questa apertura che il giudizio opera, pluralmente, illuminando ciò che altrimenti sarebbe dimenticato, recuperando le ‘perle’ del passato, offrendo la possibilità di permanenza a ciò che altrimenti sarebbe già svanito. Il giudizio custodisce e perciò è la nostra sola protezione contro la distruzione del tempo”[38].

Nota. Nel libro Sulla rivoluzione, il “bene comune” e tesoro perduto delle rivoluzioni del XIX e XX secolo è costituito –in senso più strettamente politico-  dai consigli e dal modello in essi praticato di riconoscimento tra uguali e di istituzione politica. I consigli sono posti in radicale opposizione ai partiti della democrazia rappresentativa e all’organismo centralizzato del potere totalitario: “Il conflitto fra i due sistemi, i partiti e i consigli, si è ripresentato in tutte le rivoluzioni del ventesimo secolo. L’alternativa era da una parte la rappresentanza, dall’altra l’azione e la partecipazione”[39]. I consigli irrompono come una breccia storica all’inizio delle rivoluzioni, quando il vecchio potere è dissolto e i politici e rivoluzionari “di professione” non hanno ancora ricostituito una oligarchia dominante. Dalle repubbliche elementari proposte da Jefferson, fino alla Comune di Parigi e all’insurrezione ungherese del 1956, il modello consiliare tende a mantenere nelle mani dei cittadini le chiavi dello spazio pubblico. E’ significativo che non si possa parlare di una tradizione teorica e politica, che esplicitamente si trasmetta da ognuna di queste esperienze all’altra, e nondimeno la richiesta di prendere in mano il proprio destino riaffiora simile, contro ogni forma di delega e di servitù volontaria: “E’ proprio la mancanza di continuità, di tradizione, di influenza organizzata, che rende così impressionante al similarità dei fenomeni”[40]. L’istituzione consiliare rifiuta la separatezza della rappresentanza politica e tende a organizzare l’intera struttura dello Stato in forma federale. Anche il governo rappresentativo delle democrazie occidentali è di fatto divenuto oligarchico, perché “la felicità pubblica e la libertà pubblica diventano ancora una volta privilegio dei pochi…L’ ‘elite scaturita dal popolo’…non ha dato in nessun luogo ai cittadini in quanto cittadini  la possibilità di entrare nella vita politica e divenire partecipi al governo della cosa pubblica”[41]. La Arendt, sul modello del rivoluzionario americano Jefferson, immaginava una rete complessa di repubbliche elementari, rette dalle stesse regole di autodecisione e di mandato imperativo, aperte all’identità l’una dell’altra e disposte a comporre forme costituenti più ampie e generali. La forma-partito, invece, divide chi fa politica da chi si limita a contemplare da spettatore la scena pubblica, in cui altri agiscono per lui rappresentando i suoi interessi (in teoria e nel più utopico dei casi): il consiglio rivendica la possibilità di azione in ogni momento, per ogni cittadino, la reimmersione sempre possibile di ogni politica elitaria e separata nel momento comune e costituente, anche a costo della pura e semplice destituzione dei propri rappresentanti. E tuttavia una volta presa la decisione in forma consiliare e partecipata, questi rappresentanti hanno la piena autorità per agire con forza e decisione nel senso indicato dalla cittadinanza attiva, una autorità legittimata che viene meno nella democrazia rappresentativa: “I consigli evidentemente erano spazi di libertà. Come tali si rifiutarono invariabilmente di considerarsi come organi temporanei della rivoluzione e al contrario tentarono con ogni mezzo di consolidarsi in organi permanenti di governo”[42].

4. H. Arendt occupa un posto quasi unico nella storia del pensiero filosofico (non a caso ella dichiarava di non appartenere alla tradizione dei “filosofi” e si definiva volentieri una “scrittrice politica”). E’ innegabile l’eccentricità della sua riflessione sull’essere-per-l’inizio e la contingenza,  che rovescia la quasi costante subordinazione di quest’ultima alla necessità e la pone a fondamento di una concezione radicale della libertà. La tradizione della filosofia politica moderna tende a risolvere ogni atto di libertà in una abdicazione, sul modello del contratto hobbesiano, che dà vita allo Stato. In esso, in fondo, con un’unica decisione iniziale i futuri cittadini rinunciano per sempre e incondizionatamente all’esercizio stesso della facoltà del volere. La libertà consiste nel rinunciare a se stessa: “Ma come perviene Egli alla decisione di aprire una breccia nel muro del tempo? E soprattutto quali sono le conseguenze della sua decisione? Nella teoria politica moderna questo è il problema capitale. Ed esso viene prevalentemente impostato attraverso una decisione che disloca la volontà dei soggetti…I soggetti politici attraverso la dislocazione della volontà vogliono non essere liberi e quindi vogliono non volere”[43]. Sta in questo paradosso, come vedremo, l’enigma della servitù volontaria, anche se la Arendt non ha utilizzato letteralmente il termine di La Boétie.

Nella Vita della mente, l’autrice indica i suoi non moltissimi predecessori sulla via di una rivalutazione della contingenza. Il più importante di essi è Duns Scoto. E’ riassumendo il suo pensiero che H. Arendt precisa la portata della sua rivoluzione copernicana: “Se, d’altra parte, nel suo disagio per la contraddizione flagrante che le si para dinanzi, la mente decide di basarsi esclusivamente sulla propria interiorità e si racchiude in uno stato di riflessione sul passato, troverà anche qui, di fatto, come risultato del Divenire, che la casualità dei processi è già stata riordinata e soppressa in uno schema di necessità”[44].

L’altro filosofo a cui la Arendt fa riferimento è Bergson, di cui riprende la riflessione sulla memoria: “Nella prospettiva della memoria, visto cioè retrospettivamente, un atto liberamente eseguito perde la propria aria di contingenza per la forza d’urto che gli deriva dall’essere ora un fatto compiuto, dall’essere divenuto parte integrante della realtà in cui viviamo”[45]. Seguendo la riflessione della Arendt e di Benjamin, possiamo comunque radicalizzare questo pensiero; la realtà in cui viviamo è sempre posta nella contingenza, e “ciò che è”, l’essere, è abitato dall’incertezza del divenire. Questa percezione cade in oblio, nella misura in cui il pensiero pone il presente e perfino il futuro come ripetizione e memoria di un già-stato, fino a espungere il balenare dei possibili divergenti nell’attimo. D’altra parte, non è detto che il pensiero e la memoria siano unicamente delegati alla costruzione del permanente e del necessario; esiste invece una loro diversa configurazione, che nel passato riscopre la pluralità delle alterità dimenticate e l’intreccio delle tradizioni discordi (da questo punto di vista, Benjamin sottolinea maggiormente il compito di redimere la stessa incompiutezza del passato, affidato alla rilettura prospettica della generazione presente). Con queste premesse, si giustifica retrospettivamente il commento della Arendt al pensiero di Bergson: “Vista in questa prospettiva, quella dell’io che vuole, non la libertà, ma la necessità appare come un’illusione della coscienza”[46].

Molti filosofi hanno affermato -almeno fino a Nietzsche- che la libertà è un’illusione prospettica e deriva da una insufficiente cognizione della causa dell’azione e dal prevalere della dimensione del futuro sul passato e il presente. L’attesa dell’avvenire è dominata dall’indeterminatezza e dall’incertezza della volontà, oltre che dal suo sentimento autoaffermativo di potenza; ma in realtà ogni attimo, divenendo presente e poi passato, finirebbe per allinearsi nella catena causale della necessità e quell’apertura al possibile e al mai stato non sarebbe altro che un errore di prospettiva e un difetto di conoscenza. Il pensiero smentirebbe senza pietà le incoerenze e le pretese della volontà, che non derivano da una sua fantomatica libertà, ma dalla sua non ancora sufficiente determinazione.

5. H. Arendt procede a una vera e propria svolta nella considerazione della volontà. C’è –è vero- un’illusione prospettica, ma è quella del pensiero metafisico, che proietta su ogni evento passato –e proprio perché passato- l’apparenza della necessità e –post factum– costruisce le serie delle cause determinanti; in realtà l’evento, nell’atto e nell’azione di prodursi, era caratterizzato da una contingenza irriducibile, da un bilico di possibili, e solo dopo che la decisione per l’uno o per l’altro è già avvenuta, alcuni di essi assurgono al ruolo sovrano di causa necessaria. Dal potere della vittoria emana l’aura e il fantasma della necessità, che non infestava affatto l’attimo storico nella sua indecisa contingenza. Solo dopo che l’inizio è divenuto già-stato, il pensiero può interpretarne l’esito come da sempre annunciato; solo dopo che l’azione ha perso la sua indecidibilità esso può raggelare il movimento della volontà e trasvalutare il passato in Essere permanente e necessario.

La necessità è l’apparenza che la tradizione dominante attribuisce al possibile vittorioso, esiliando nell’oblio quelli sconfitti, effimeri e condannati all’irrilevanza, ed eliminando l’essere-in- situazione, in cui invece le chances dell’evento erano ancora sospese alla loro contingenza radicale. Questa indecidibilità in bilico -o dialettica in stato di quiete (Benjamin)- è massima nei momenti in cui il divenire coesiste col trapassare o in cui si attraversa una linea nodale della storia: nel decadimento di una struttura e di un ordine simbolico si avverte più che mai l’agitazione e l’imprevedibilità dei possibili in gioco, delle azioni che potrebbero avviare divergenti forme del tempo e dell’accadere.

La necessità si afferma dunque in due tempi: dapprima come una retrospezione del pensiero sul passato e poi come proiezione di un essere inalterabile sul presente e sul futuro; questa costruzione dev’essere dissolta dallo storico che voglia cogliere l’evento nella sua effettiva natura di radicale contingenza. Ciò non vuol dire affatto che esista una libertà incondizionata: ogni atto di inizio costituisce un debole scarto rispetto all’essere-in-situazione dominato dalla tradizione vittoriosa, dal costume, dal senso comune, dai rapporti di dominio, che si affermano con autorità indiscutibile. Forse la vita non potrebbe continuare senza uno zoccolo di conservazione di ciò che è già stato e senza un codice simbolico che regoli le relazioni e riduca l’imprevisto in misura sopportabile. La libertà diviene tuttavia una risorsa irrinunciabile, quando tale codice entra in contraddizione con se stesso e il suo funzionamento tende a distruggere, piuttosto che a preservare, gli uomini e il mondo, che vivono al suo interno. Allora è opportuno lo iato o la breccia dell’inizio, il che implica non tanto una cancellazione della tradizione e del passato, ma una loro diversa lettura e una diversa ricezione della loro eredità, dal punto prospettico della rivoluzione, che ne riscopre i possibili dimenticati.

Ogni azione, che muti in modo radicale il corso degli eventi, cambia anche l’immagine del passato fino ad allora dominante: al limite, essa costruisce una “diversa” necessità o un altro ordine dei fatti storici, a partire dal punto di vista ora prevalente, mentre un pensiero consapevole prenderà coscienza dell’essere relativo di ogni necessità: non si può mai dire una volta per sempre se abbia vinto Bruto o Cesare, Spartaco o Silla. Il potere vittorioso si autopresenta come destino, ma basta che l’azione apra una breccia nel suo muro, ed esso si rivela non essere altro che un fantasma provvisoriamente incarnato della volontà di potenza.

6. Coloro che danno vita a un “inizio” nel corso della storia ricorrono al passato per giustificare e promettere durata alla loro fondazione. Sembra che il ricorso all’autorità e alla tradizione sia inevitabile anche o soprattutto a coloro che vogliono proporre l’esperienza del nuovo. Perfino i Romani, insieme ai Greci modello politico di ogni renovatio, ricorsero al mito del passato di Troia e di Enea, per trasfigurare miticamente la nuova città. La Arendt si occupa del problema della ripetizione nella storia al termine del capitolo dedicato al volere, in Vita della mente: “…C’è qualcosa di sconcertante nel fatto che gli uomini d’azione, il cui unico intento e il cui unico scopo erano cambiare l’intera struttura del mondo a venire e creare un novus ordo seclorum, dovessero riandare a quel passato lontano, l’antichità…”[47], come era già accaduto molte volte nel corso della storia dell’Occidente. Questo movimento retroattivo, per cui il nuovo è contemporaneamente riparazione dell’Origine, è presente senza dubbio negli inizi di ogni rivoluzione moderna (anche qualora l’origine non sia più affatto identificata con la cultura classica).

La ripetizione è parte costitutiva dell’azione e del pensiero storico ed è anche una categoria della storia come disciplina scientifica: grazie ad essa l’evento che si prepara entro l’involucro del vecchio regime e il movimento che porterà oltre la linea nodale del tempo, trova una prima, provvisoria raffigurazione. E tuttavia –se presa in senso letterale- essa è anche sogno e illusione: il fantasma che sorregge il progetto iniziale nella notte e nelle brume di un’epoca in declino, deve poi dissolversi alle luci del mattino e lasciare il posto all’azione determinata dell’uomo presente. A partire da quest’ultimo, anche il passato viene riformulato e riscritto, nell’ottica dell’evento che emerge, e riscoperto come una pluralità di possibili, entro cui occorre selezionare quelli che entrano in corrispondenza col punto di vista attuale. Nella riformulazione del passato, il nuovo inizio cerca il suo linguaggio, le sue modalità, la sua parola; l’eccesso e lo scarto presenti nell’evento rispetto al già stato, danno il tono all’intera costellazione che lega le dimensioni del tempo.

Certo, può accadere che gli attori stessi dell’evento restino talmente stregati dalla ripetizione da rinunciare all’elaborazione di una propria parola e lascino che il fantasma, invece di svanire, prenda inesorabilmente possesso dei loro corpi, accecandoli di fronte alla specificità del compito che li aspetta; essi allora soccombono a una tradizione già formata, a una parola che invece di esprimere il nuovo si riduce alla eco scialba di un gesto imitato. Nasce così quella che Marx considerava una farsa entro la storia: è facile allora per gli avversari impadronirsi dell’evento che li aveva sorpresi e minacciati, dissolverlo in un codice simbolico già controllato, incorporarselo nei modi di una rivoluzione passiva.

Alla ripetizione di un fantasma allude Cassio, nel Giulio Cesare di Shakespeare, subito dopo il tirannicidio di Cesare: “How many ages hence/Shall this our lofty scene be acted over,/In states unborn, and accents yet unknown!”. In verità è singolare e inquietante e non fa presagire nulla di buono per il futuro il fatto che Cassio –invece di essere immerso anima e corpo nella sua enorme azione presente- trovi il tempo di rimirarsi dal di fuori e confrontarsi narcisisticamente con modelli del passato o del futuro. Ciò vuol dire che in lui il fantasma ideale della libertà (che poi –come accade spesso nelle personalità narcisiste- non gli impedirà di compiere malversazioni assai materiali) è così potente da offuscare quasi del tutto la realtà presente e possibile di essa. Di ciò sembra rendersi conto Bruto, che nella sua replica al discutibile socio coglie il rischio di una ripetizione farsesca: “How many times shall Caesar bleed in sport,/That now on Pompey’s basis lies along,/No wortier than the dust!”. Ma questa malinconia non è compresa da Cassio, che si identifica ancor più col riverbero fantasmagorico di ciò che sta avvenendo: “So oft that shall be,/So often shall the knot of us be called/The men that gave their country liberty”. Non è possibile non pensare all’ammirazione che i rivoluzionari francesi del 1789 sentivano per Bruto, alla configurazione di un simile fantasma come stimolo all’azione, ma anche ai guasti provocati dal prevalere della fantasmagoria sulla capacità di discriminare le specificità della situazione presente.

 

Nota. Il grande antichista E. Howald ha scritto una volta che la civiltà dell’Occidente è caratterizzata da una “ritmica del ritorno”. Ad ogni momento cruciale della sua storia affiora da un suo sostrato sommerso il ricordo della civiltà classica, dei suoi dèi dimenticati, della sua arte: “Il ritorno intermittente e periodico a forme del “classico” sia per intendere il passato sia in funzione del presente, che abbiamo visto inscenarsi in cento varianti…è anzi un carattere storico così peculiare che Ernst Howald (Die Kultur der Antike, 1948) ha potuto indicare la rinascita del “classico” come la “forma ritmica” della storia culturale europea…” (Settis 2004, p. 84).

Tali ritorni o rinascenze dell’antico sono assai più numerosi e articolati di quanto non si pensi e accompagnano tutto l’evo cristiano; ed è evidente che il loro significato e la loro specificità sono ogni volta diversi. Se le figure e le immagini che così risorgono dal passato presentano indubbiamente alcuni tratti costanti e ripetono tipi e forme ricorrenti, è altrettanto certo che esse presentano una differenza irripetibile e una “novità” incontestabile, mostrano una forza quasi illimitata di metamorfosi. Lo stesso mondo classico è riattualizzato in forme estremamente diverse, che ci inducono a riflettere sulla sua irriducibile complessità. Il classico non è l’arcaico inalterabile, ma l’Urphänomen, il fenomeno originante, la matrice generativa di un divenire di forme, sempre differenti e distinte l’una dall’altra.

La cultura greca e quella latina sono talvolta ugualmente apprezzate, talora poste in una contrapposizione radicale; possono essere le forme chiaramente definite della religione olimpica ad essere evocate, oppure invece quelle più oscure e tumultuose della religione arcaica primitiva. Anche i periodi storici a cui il “ritorno” fa riferimento sono singolarmente diversi, a seconda che si faccia riferimento all’epoca mitopoietica di Omero, a quella dei grandi tragici, o a quella in cui fiorì la grande filosofia ellenistica e la sua sapienza misterica. Politicamente, può essere apprezzata la democrazia della polis o la gradezza statuale dell’Impero romano, in realtà opposte l’una all’altra. Così ci accorgiamo che quando parliamo di rinascita del mondo antico e dei suoi dèi, in realtà ci riferiamo a una moltitudine di fenomeni irriducibili l’uno all’altro, a una pluralità di significati ogni volta da determinare. E del resto: non sono forse toto coelo diverse la rinascita del mondo greco nella colta e raffinata Firenze del Quattrocento, e il ritorno degli dei nella barbarica mitologia del nazismo, negli anni Trenta del secolo passato (per citare solo due esempi estremi)? Nello stesso periodo storico l’evocazione del mondo antico può avvenire in forma conflittuale e contraddittoria: così certo Engels pensava al matriarcato pelasgico in modo diverso da quanto non abbia fatto poco dopo Bäumler, teorico nazista.

Possiamo dunque affermare che al di là della similitudine e della ricorrenza delle forme, che ci permettono di parlare di un patrimonio comune della cultura dell’Occidente, è altrettanto importante definire ogni volta l’indice storico dei Rinascimenti (al plurale) del classico: chiedersi quale bisogno, quale urgenza o crisi, quale ineludibile urgenza del tempo presente lo chiami ad evocare le antiche immagini e per trovarvi quali risposte.

D’altra parte, ebraismo e cristianesimo (e ad essi –secondo H. Jonas- dovremmo aggiungere la gnosi) si intersecano in tutte le “rinascite” con l’antichità classica e in composizioni sempre diverse. Il “Rinascimento” fu certo più rivolto a cercare un’integrazione fra il simbolismo cristiano, quello greco-romano e quello gnostico, che a promuovere l’uno ad esclusione dell’altro. In fondo, nelle “rinascite dell’antico” che segnano la storia dell’Occidente, è sempre in questione la possibilità di tenere insieme in una costellazione sufficientemente unitaria queste tre fonti o autorità divergenti del nostro essere culturale, un’operazione che richiede ogni volta l’impulso decisivo di una “novità” o di un motivo riorganizzatore. Va detto anche che quest’opera difficile di ricomposizione del divergente, se da un lato è alla fonte del dinamismo e dell’inventività della cultura d’Occidente, segna anche il carattere relativamente effimero di ogni sua epoca, non appena la differenze si facciano più forti delle affinità e dissestino dall’interno il codice simbolico faticosamente costruito.

7. Non ricordato nel commento alla parabola di Er, W. Benjamin è invece citato in un saggio su Kafka, che la Arendt ha inserito nel volume Die verborgene Tradition[48]. In particolare è qui riportato un passo della celebre tesi IX sull’Angelo della storia, che pare –anch’egli- trovarsi su una kampflinie, sospinto da una forza che spirando dal passato lo sospinge in avanti verso il futuro[49]. In senso stretto, Benjamin non parla di una forza contraria a questa, ma è lo stesso Angelo –con lo sguardo fisso sulle rovine della storia- che vorrebbe contrapporsi ad essa: “Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto”[50]. Il primo impulso dell’Angelo non è dunque in questo caso di “saltar fuori” dalla linea del tempo, ma di procedere a ritroso, perché la salvezza del passato e quella del presente sono indissolubilmente legate.

Il luogo da cui spirano le forze del passato è indicato da Benjamin in modo più immaginale, di quanto non avvenga nella pura e astratta parabola di Kafka: “Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle”. La tempesta proviene dal Paradiso terrestre, dopo la caduta dell’uomo, divenuto un essere lacunoso e indigente: la bufera è la volontà di potenza e di assoggettamento, con cui l’uomo tenta di superare la lacuna che sente al centro del proprio essere e la paura del nulla e della morte. Tale volontà deve vivere in un perpetuo e incessante incremento, nel disperato sforzo di confermarsi a se stessa, e non può assolutamente ammettere una stasi, che sarebbe la sua fine. Perciò, in questo infernale e sempre uguale accumulo, essa produce rovine e catastrofe. Il progresso della volontà di potenza sul mondo coincide con la sempre più intensa distruzione del mondo stesso e con l’imposizione di regimi di dominio sempre più oppressivi: “Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera”. Ultimo in ordine di tempo, il progresso tecnico-quantitativo sviluppato dal capitalismo con la sua teologia del danaro rappresenta un ulteriore incremento dei rapporti di servitù e della distruzione della natura. L’Angelo “volge le spalle” al futuro perché sa che, in queste condizioni, senza un mutamento radicale dell’orientamento della storia, l’avvenire non sarà altro che estremo sviluppo della potenza e del male: benchè egli stesso sia trascinato dal vento della storia, tuttavia indica all’uomo il suo compito: quello di riequilibrare  -per quanto possibile- la spinta alla ripetizione demoniaca che proviene dal passato  e determinare una breccia, una sospensione del divenire. L’attimo diventa così una linea di lotta intensamente dialettica, in cui l’utopia della redenzione e la meccanica del destino si oppongono in una tensione estrema. In una condensazione simile si produce quella che Benjamin definisce immagine dialettica e costituisce il tema centrale dei suoi ultimi scritti.

Del resto l’uomo non può davvero fermarsi interamente, interrompere una volta per tutte il moto di macina del potere, ha solo “una debole forza messianica”, non quella integrale che porrebbe fine alla storia della potenza. Tuttavia, può operare in un senso favorevole alla sua fine[51]. Con attenzione e studio –sono termini utilizzati da Benjamin nel suo saggio su Kafka- l’uomo può rivolgersi intensamente alla tensione dialettica condensata nell’ora, inclinare il movimento storico della potenza verso l’arresto, rallentarne, almeno, il procedere scatenato e distruttivo[52]. In questa sospensione si produce una forma di pensiero che si pone al di fuori –come la “diagonale” arendtiana- dal divenire della potenza e può dare un’immagine dialettica delle forze che si oppongono nella situazione di lotta. In entrambi i casi si tratta di creare un vuoto, un intervallo, una breccia nella necessità del divenire: e la forza della violenza e della sua ripetizione fronteggia quella che tenderebbe a sospendere e annientare i rapporti di dominio.

Un’intenzione simile si può trovare nell’interpretazione molto agonale e politica che la Arendt ha dato del romanzo di Kafka, Il Castello. K., il protagonista, vorrebbe sospendere la vigenza delle leggi e resta nel villaggio a battersi per il proprio riconoscimento da parte degli abitanti: “Mentre non richiede che il minimo necessario per la sua esistenza, già dall’inizio è chiaro che lo esige come diritto e che non è disposto ad accontentarsi di meno di questo suo diritto”[53]. Questo riconoscimento del “minimo” esistenziale, questo rifiuto di doversi ridurre a un esserci-ancora-appena, come le figure larvali e subumane che accettano la dominazione burocratica, è la molla iniziale di un diritto di insurrezione e di resistenza. Esso sfocia nel nichilismo attivo e rivoluzionario che la Arendt attribuisce ai personaggi kafkiani, in contrasto con quasi tutti gli interpreti: “L’esibizione di una competenza senza limiti e l’apparenza di un’abilità fuori del normale rappresentano il motore nascosto che aziona il meccanismo dell’annullamento, di cui sono prigionieri i protagonisti di Kafka e che è responsabile del piano e sicuro andamento di quanto è di per sé assurdo. Il tema principale dei romanzi di Kafka è il conflitto tra un mondo, presentato come un simile meccanismo…ed un eroe che cerca di distruggerlo”[54]. Il “salto fuori” del pensiero si spinge allora –in questo caso- fino ad “anticipare la distruzione del mondo esistente”, aprendo la breccia di un inizio.

8. Nel saggio da Benjamin dedicato a Kafka, c’è una citazione da Plutarco, che richiama molto da vicino la parabola kafkiana di Egli: “Dappertutto, nei misteri e nei sacrifici, fra i Greci come presso i barbari, s’insegna che devono esistere due esseri principali e due forze particolari opposte, di cui l’una spinge diritto davanti a sé, mentre l’altra devia e risospinge indietro”[55]. Proprio da questo “ripiegamento”, affine allo sguardo dell’Angelo rivolto al passato, può nascere lo studio e l’attenzione che potrebbero salvarci dalla dimenticanza. Anche qui, tuttavia, il ricordo si rivolge a un passato inquietante e primordiale: sulle spalle del’uomo grava un’antichità mitica, identificabile nello stadio eterico-palustre della civiltà matriarcale descritta da Bachofen. In essa cade ogni principio di individuazione, ogni ordine morale, ogni diritto scritto. Nessuna creatura “ha un posto fisso, contorni netti e inconfondibili; nessuna che non sia in atto di salire o di cadere; nessuna che non si scambi col suo nemico o col suo vicino…”[56]. Un tale passato governa ogni sfera, familiare, collettiva e cosmica, ma se esso appare così dominante ciò è in diretta connessione con lo stato attuale delle cose. Tra la “gabbia d’acciaio” della burocrazia capitalista e il mondo palustre delle origini pre-storiche sussiste un rapporto circolare e reversibile, che non si lascia descrivere in termini di causa-effetto o di successione temporale, ma come una relazione espressiva. L’eterismo e il capitalismo sono espressione l’uno dell’altro e il primo riceve attualità entro le forme di vita del secondo, senza le quali non sarebbe nemmeno pensabile.

Diversamente da quanto Benjamin sostiene nell’exposé al Passagenwerk del 1935, qui anche il passato recente è investito interamente dall’indistinzione pre-storica e si fonde nel mito arcaico, come è evidenziato dalla figura del Padre, che nega al figlio il diritto di sopravvivergli: “Il peccato di cui accusa il figlio sembra una specie di peccato originale”[57]. In effetti il rapporto tra le generazioni sembra dominato dagli impulsi più oscuri del complesso edipico, quelli che hanno direttamente a che fare con l’omicidio e con l’odio mimetico, senza che alcun “tesoro” possa essere lasciato in eredità o in testamento. Le forze arcaiche invadono il destino, il senso di colpa, le immagini di sogno della generazione presente e di quella che immediatamente l’ha preceduta, tanto che il rapporto tra di esse si svolge interamente sul piano della fantasmagoria e dell’accecamento: le forze pre-storiche, “da cui è stata impegnata l’attività di Kafka…si possono considerare allo stesso titolo come potenze storiche dei nostri giorni”[58]. Se la presenza nell’uomo di un istinto di morte dissolutivo o aggressivo può essere un dato antropologico, tuttavia il suo totale dominio nella modernità si fonda sulla silenziosa regressione morale e psichica prodotta dal modo di produzione capitalista. Posto che l’essere-per-la-morte sia un dato ineliminabile dell’esserci dell’uomo, la sua affermazione come unica forma di evasione dalla compattezza dell’essere deriva dalla desolazione e dall’astrazione delle attuali relazioni sociali, dall’inversione dei rapporti tra i viventi in connessioni di scambio tra enti inorganici.

Come vedremo a proposito della teologia del danaro, il dominio del capitale e delle merci appare fantasmagoricamente come potenza originaria e assume le maschere del destino e dell’eterno ritorno. Il moderno giustifica se stesso assumendo i tratti del mito. Per aprire una breccia nel presente, occorre interrompere la trasfigurazione quasi-sacrale del dominio, ma tale liberazione-redenzione è possibile solo se accompagnata dalla rammemorazione e dalla lotta contro l’oblio. Prima che ricordare immagini possibili di felicità o il “tesoro perduto” delle rivoluzioni, occorre in primo luogo divenire consapevoli del negativo, che governa il corso della storia e la inclina verso la catastrofe. Esso viene definito da Benjamin come una leggera deviazione dall’asse della vita, che produce nell’universo kafkiano effetti progressivamente sempre più ddevastanti: “Il mondo nella condizione di oblio (Vergessenssein) è dissestato (entstellt). Dissestato è il rocchetto Odradek, il cruccio del padre di famiglia, che nessuno sa cosa sia, dissestato il coleottero di cui sappiamo fin troppo bene chi esso rappresenti nella metamorfosi, dissestato è il grande animale, mezzo agnello, mezzo gattino, per il quale forse il coltello del macellaio sarebbe una redenzione (Erlösung). Essi sono dissestati, come lo era il mondo per quel rabbi che insegnava che la venuta del messia non lo avrebbe mutato da capo a fondo. “Egli lo risistemerà soltanto” insegnava. Anche il teatro naturale dell’Oklahoma non cambia gli uomini completamente. Li risistema soltanto, facendoli recitare”[59].

Dissestato in senso letterale è anche il mondo del capitalismo moderno o addirittura invertito, perché la fantasmagoria delle merci rovescia feticisticamente l’essere del vivente e perché l’ostentata uguaglianza giuridica tradisce la realtà dell’oppressione. Gli uomini hanno dimenticato questa distorsione dell’essere, confidando nella celebrazione trionfalista del progresso tecnico-economico e del continuo sviluppo. La “debole forza messianica” della memoria può però produrre un contromovimento e vorrebbe “riassestare” il mondo invertito, riportarlo nella sua giusta posizione, arrestando il movimento della potenza.

In effetti, nell’utopico teatro di Oklahoma, che è descritto alla fine del primo romanzo di Kafka America, non si configura una vita toto coelo diversa da quella che abbiamo già  vissuto: ci è data però la possibilità di “ripetere”, di “re-interpretare”, la nostra vita e ciò significa in primo luogo farne oggetto di memoria, a partire dagli aspetti più deludenti e mancati, segnati dal dolore e dall’incompiutezza. Nell’interpretazione scenica potrò riaggiustarla di pochissimo e magari proprio in quell’attimo, che poi ha avuto più funeste conseguenze. Così la recita diventa un riassestamento, un riportare sull’asse il divenire della vita, rimettere il tempo sui suoi cardini. Forse Kafka, dal fondo della sua malinconia, ci ha dato un’immagine utopica della redenzione-liberazione: “Il grande teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solamente oggi, per una volta sola! Chi perde questa occasione la perde per sempre! Chi pensa al proprio avvenire è dei nostri! Tutti sono i benvenuti! Chi vuol divenire artista, si presenti! Noi siamo il Teatro che serve a ciascuno, ognuno al proprio posto!”[60](America, 269).

Sulla linea nodale tra il futuro e il passato, il presente è l’attimo in tensione in cui il dissesto della volontà di potenza è illuminato dalla memoria che ne rivela la negatività, e corretto dalla presenza di spirito che vorrebbe fermarne il corso. Entrambi -memoria e presenza di spirito- mirano a riattualizzare, in forma concreta e non più solo fantasmatica, l’immagine di sogno della felicità, che giace sotto le rovine della storia. Da questo punto di vista anche il pensiero e le immagini dialettiche di Benjamin –come le diagonali della Arendt- non si dipartono mai dalla contingenza da cui traggono origine e la redenzione riguarda sempre l’intensità e la qualità della situazione vissuta: “…L’immagine di felicità che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo, in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza”[61]. Allo stesso tempo, in questo presente, un frammento del passato chiede di essere riattualizzato e salvato dall’oblio, anch’esso nella sua specifica e irriducibile contingenza, salvato dalle astrazioni ontologiche: “Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava intorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute?”[62]. In questa corrispondenza “risvegliata” tra il passato e il presente una breccia sospende il destino della storia e mostra un’immagine balenante della verità.

Nota. Quanto importante fosse per Benjamin la potenza mitica e tellurica descitta nel saggio su Kafka, lo si deduce da un breve testo, che appartiene al contesto di Infanzia berlinese intorno al 1900[63]. La luna viene lì definita come una terra vicaria o rivale della nostra: “La luce che piove dalla luna non è destinata alla scena del nostro esistere diurno”. Come in Bachofen, l’astro notturno è l’espressione simbolica del principio femminile della natura, negato e sconfitto da quello patriarcale-solare. Esso appare a Benjamin nell’esperienza di una notte d’infanzia, in una visione invertita e perturbante, quasi che volesse rovesciare ogni gerarchia di valore e trasformare la terra in suo satellite e vassallo. L’antica potenza femminile-lunare sembra riprendersi il suo antico potere: “Il suo [della terra] vasto petto, il cui respiro era il tempo, non si muove più; finalmente la creazione è tornata alle origini e può nuovamente indossare il velo vedovile che il giorno le aveva strappato”. Il corso e il progresso della storia s’incurvano a ritroso verso le immagini mitiche del matriarcato: la madre velata porta il lutto per il sacrificio del figlio-marito-amante, l’eroe destinato a una morte precoce.

L’infanzia mantiene un contatto col mondo del mito più antico. In essa la coscienza non si è ancora nettamente differenziata in senso patriarcale, gli oggetti non sono ancora mezzi per la ragione strumentale e conservano un’ambiguità magica, quasi un’animazione immateriale. Essi scivolano in una indeterminatezza inquietante: “Il gorgogliare di quell’acqua, il rumore con cui deponevo prima la caraffa e poi il bicchiere -ogni cosa giungeva al mio orecchio sotto forma di ripetizione…Così ogni suono e ogni istante mi si presentava come sosia di se stesso…Mi avvicinavo al letto con il timore di trovarci steso me stesso”. Il tempo ha perso la sua dimensione lineare, non è più nel respiro della terra, e affiora qui tutta la dimensione fantomatica e perturbante della ripetizione e dell’eterno ritorno. Ogni ente perde la sua unicità e irripetibilità, diviene riflesso di ciò che è già stato. Il più umile utensile quotidiano appare posseduto da una forza demonica, affine a quell’animazione feticista che –secondo Marx- possiede gli oggetti nel capitalismo moderno. Il più moderno e il più arcaico sono intrecciati. La consistenza qualitativa del mondo si annulla: “Con sbigottimento mi accorgevo che nel mondo niente poteva costringermi a pensare il mondo stesso. Il suo non-essere non mi sarebbe risultato in alcun modo più problematico del suo essere, che sembrava ammiccare al non essere”. Come nel saggio su Kafka, la presenza viene meno in una metamorfosi infinita (ancora una volta comparabile alla circolazione fantasmagorica delle merci).

Tuttavia nella seconda parte del testo, nel resoconto di un sogno, compare un “carattere distruttivo” che –proprio al suo estremo- non sarebbe interamente negativo: “La luna…all’improvviso era cresciuta sempre più in fretta. Avvicinandosi progressivamente, disintegrò il pianeta…Il cratere che la luna formò arrivando, risucchiò tutto in se stesso. Nulla poteva sperare di attraversarlo  senza subire una metamorfosi(unverwandelt)”. Il carattere distruttivo di questa immagine di sogno contiene forse nel suo rovescio la possibilità di un risveglio dialettico, un nucleo di utopia? L’annientamento del mondo eroico-patriarcale, con la sua mitologia del progresso, dello sviluppo e del dominio, potrebbe anche aprire lo spazio sgombro di un nuovo inizio storico, di un cambiamento radicale. Nell’exposé del Passagenwerk del 1935  Benjamin legava all’immagine dionisiaca del matriarcato in Bachofen anche l’immagine utopica di “una società senza classi”: certo questa immagine di sogno doveva essere sottoposta al risveglio dell’interpretazione e trasformata in immagine dialettica. Dalla trasfigurazione mitica occorre passare alla comprensione determinata delle forze storiche in conflitto.

Il nulla portato dall’imprevista apparizione della luna contiene in se stesso anche una chance di salvezza, quasi che il principio femminile della vita potesse correggere e integrare l’eccessiva unilateralità del dominio maschile  e della sua razionalità tecnico-calcolante. Sembrerebbe tuttavia che la generazione di Benjamin abbia perso la chance aperta da questa breccia del tempo: “…Il dominio della luna sperimentato da bambino, non si sarebbe realizzato neanche in quest’epoca”(für eine weitere Weltzeit gescheitert war).  Le ragioni di questo fallimento stanno nella mancata dialettica di sogno e risveglio, così centrale in tutta l’ultima opera di Benjamin. Il risveglio –Benjamin parla di sé bambino, ma è probabile che alluda a tutta la sua generazione- non ha prodotto in questo caso una interpretazione, una riutilizzazione del sogno, la separazione della sua componente mitica perturbante e della sua parte desiderante utopica, della sua prospettiva di felicità-riconciliazione: “Questo risveglio non pose termine al sogno”, lasciò che s’insediasse e invadesse come tale la vita desta, con tutto il suo apparato immaginario distruttivo e regressivo. Proprio perché l’aspetto perturbante non viene interpretato, allora neanche si realizza quella parte del sogno che era simbolo di una superiore conciliazione o di un superiore punto di vista storico. L’epoca di Benjamin ha mancato questo appuntamento, ha perso la sua eredità. Quel nucleo positivo-utopico dell’immagine di sogno fu interamente dissolto a favore di quello fantasmagorico e regressivo. Infanzia berlinese è scritta in un momento in cui le forze congiunte della razionalità tecnica e di una mitologia spettrale sembravano avere ottenuto una completa vittoria. Il nazismo fu il sogno senza termine, che impedì il risveglio di un’immagine dialettica della modernità.

Da questo punto di vista, lo storico attuale (Benjamin stesso) si volge indietro e torna a considerare la costellazione immaginale descritta da Bachofen, per ridestarne la possibilità dimenticata, strapparla al dominio dei vincitori del momento, e salvarla nella memoria storica. L’immagine dialettica così costruita viene in tal modo restituita al presente.

 


[1] F. Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972, pp. 811-812. Cfr. l’appendice per il testo completo, a fine articolo.

[2] G. Bonola, Di luce riflessa: l’eredità di Kafka. Sulla genesi di alcune idee sviluppate da W. Benjamin nelle tesi ‘Sul concetto di storia’, ne “L’ospite ingrato”, prossima pubblicazione, 2013, p. 46 dattiloscritto). A questo saggio rimando per un vasto e preciso commento del rapporto di Benjamin con Kafka.

[3] G. Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, in Judaica 1, Suhrkamp, Fr. Am Main 1963, p. 13.

[4] M. Löwy, Kafka sognatore e ribelle, Elèuthera, Milano 2007, p. 43.

[5] Ivi, p. 54.

[6] Ivi, p. 58.

[7] L’osservazione sembra sia stata fatta durante una conversazione, a commento di una caricatura di G. Grosz.

[8] Ivi, p. 85.

[9] W. Benjamin a Scholem 20. 7. 1934, Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, Einaudi, Torino 1987, p. 149, cit. in G. in G. Bonola, Di luce riflessa…, p, prossima pubblicazione, trad. mod.

[10]

[11] H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999, pp-7-19; La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 296-305.

[12] H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 301.

[13] H. Arendt, Between Past and Future, The Viking Press, New York 1961, p. 11.

[14] H. Arendt, La vita della mente, cit. pp. 302-303.

[15] Ivi, pp. 352-353. In altri passi della Vita della mente, il pensiero è definito come la facoltà che si occupa del presente, mentre sarebbe piuttosto il giudizio a rivolgersi al passato: ma si tratta in realtà di un eterno presente, cristallizzato ed estratto dall’esperienza già compiuta.

[16] H. Arendt, Between Past and Future, cit. p. 13.

[17] H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 305.

[18] Ivi, p. 304.

[19] L’affinità è ricordata da A. Dal Lago in Introduzione all’edizione italiana, in H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 36.

[20] Hegel, Scienza della logica, vol.1, Laterza, Bari 1968, p. 410-411.

[21] Cit. da M. Tomba, Strati di tempo, Jaca Book, Milano 2010, p. 39.

[22] Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, p. 731.

[23] Hegel, Fenomenologia…, cit. pp. 732-733. Hegel cita qui Il nipote di Rameau di Diderot.

[24] Hegel, Fenomenologia…, cit. p.733 e p.791.

[25] F. Hölderlin, Scritti di estetica, SE, Milano 1987, p. 96.

[26] Ivi, p. 95.

[27] K. Marx, La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Ait, in K.Marx e F. Engels, Inventare l’ignoto.Testi e corrispondenze sulla comune di Parigi, a cura di D. Bensaid, Alegre, Roma 2011, p. 134.

[28] H. Arendt, Between Past and Future, cit. p. 5.

[29] Ivi, p. 3. L’aforisma citato è di R. Char, con cui la Arendt apre la Prefazione.

[30] E’ ancora Char citato dalla Arendt, ivi, p. 4.

[31] Ivi, p. 6.

[32] Ibidem.

[33] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 2004, p. 139.

[34] H. Arendt, Between…, cit., p. 3.

[35] H. Arendt, La vita della mente, cit. p.288.

[36] R. Beiner, “Il giudizio in Hannah Arendt. Saggio interpretativo”, in H. Arendt, Teoria del giudizio politico, Il Nuovo Melangolo, Genova 2006, p. 202.

[37] Ivi, p. 144.

[38] A. Dal Lago, Introduzione all’edizione italiana, in H. Arendt, La vita della mente, cit. pp. 58-59. Di A. Dal Lago cfr. anche “ ‘Politeia’. Tradizione e politica in Hannah Arendt”, ne Il politeismo moderno, Unicopli, Milano 1985, pp. 95 e sgg.

[39] H. Arendt, Sulla rivoluzione, *, pp.316-317.

[40] Ivi, p. 304.

[41] Ivi p. 312 e p. 321.

[42] Ivi, p. 306.

[43] A. Dal Lago, “Introduzione…”, cit. p. 53.

[44] H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 462.

[45] Ivi, p. 344.

[46] Ivi, p. 345.

[47] Ivi, p. 544.

[48] Titolo della traduzione italiana: Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna 1981.  Il saggio è Franz Kafka: il costruttore di modelli.

[49] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, pp. 36-37. E anche Angelus Novus, Einaudi, Torino 1965, p. 80.

[50] W. Benjamin,.

[51] G. Scholem, Kabbalah, Keter Publishing, Jerusalem 1974, p. 143: ”E’ qui di cruciale importanza la distinzione fatta da Luria tra gli aspetti interno ed esterno delle luci celesti e dei mondi stessi della creazione: il tikkun degli aspetti esterni dei mondi non è affatto compito dell’uomo, la cui missione riguarda solo certi aspetti dell’interiorità. Nel sistema lurianico, il rango gerachico di ciò che è interiore è sempre inferiore a quello di ciò che è esterno, ma proprio per questa ragione –almeno in una certa misura- è alla portata dell’individuo, purché egli sia davvero spirituale nella sua interiorità. Se egli compie in modo appropriato il suo compito, ne saranno stimolate “le acque femminili”, che permettono gli accoppiamenti celesti…Quanto meno, l’attività umana in accordo con la Torah può preparare la via per il Tikkun dei mondi inferiori”.

[52] Benjamin si oppone così, pur ripredendone alcune considerazioni, alla concezione teologico-politica di C. Schmitt: se per questi il katechon, la forza in grado di trattenere ed evitare la distruzione era la dittatura, per Benjamin –nel vero stato d’emergenza- è piuttosto la rivoluzione degli oppressi; se per il primo la salvezza proviene dal mantenimento di inevitabili rapporti gerarchici di potenza, per il secondo dalla loro soppressione; infine se per Schmitt catastrofe sarebbe la fine stessa della storia, per Benjamin è piuttosto la sua prosecuzione così com’è ora.

[53] H. Arendt, Il futuro…,cit. p. 90.

[54] Ivi, p. 97.

[55] W. Benjamin, Angelus Novus, cit. p. 303.

[56] Ivi, p. 281.

[57] Ivi, p. 278.

[58] Ivi, p. 293.

[59] Questo frammento connesso al saggio su Kafka, che qui cito nella versione di G. Bonola, si trova in WB, GS II, p. 1239. Sul tema vedi il saggio di G. Bonola, Di luce riflessa…, cit. p. e sgg.

[60] F. Kafka, Romanzi, Mondadori-I Meridiani, Milano 1989, p. 269.

[61] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. p. 23.

[62] Ibidem.

[63] Per la complessa storia del testo, cfr W. Benjamin, Opere complete, Scritti 1932-1933, Einaudi, Torino 2003, p. 582 e sgg. A p. 411-412 si trova la traduzione italiana del testo. Qualche volta ho ripreso direttamente l’edizione tedesca, in Gesammelte Schriften, Band IV-I, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, pp. 300-302.

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