Morte o rinascita degli esercizi spirituali? Le Meditationes di Descartes nel dibattito tra Derrida/Foucault e Foucault/Hadot

                                                                             Massimiliano Biscuso

 

Francisco de ZurbarànSan Serapione, 1628olio su tela, cm 120 x 102

 

Abstract: Michel Foucault and Pierre Hadot maintained that Descartes, in his Meditationes de prima philosophia, followed the ancient tradition of spiritual exercises. In this paper I will examine Foucault’s and Hadot’s theses, analyzing both the relation between Cartesian evidence and the Stoic conception of cataleptic representation, as well as the one between the Cartesian and Augustinian overcoming of doubt. In my opinion, the French philosopher changes the spiritual exercises of the ancient philosophers into a literary genre.

 

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1. Foucault su Descartes, tra Derrida e Hadot


1.1.  Le Meditationes come sistema e come esercizio: il dibattito tra Derrida e Foucault.
Nella conferenza Cogito et histoire de la folie, pronunciata nel 1963, pubblicata nel medesimo anno sulla “Revue de Métaphysique et de Morale” e poi accolta in L’écriture et la différence[1], Jacques Derrida discute le pagine che aprono il secondo capitolo de L’histoire de la folie à l’âge classique di Michel Foucault, quello dedicato a “Il grande internamento”. In esse Foucault aveva preso in esame rapidamente la prima Meditazione di Descartes, per sottolineare l’impossibilità di porre sullo stesso piano l’argomento del sogno e quello della follia, a causa del loro «squilibrio fondamentale» nell’economia del dubbio:

«Si può supporre di sognare e d’identificarsi col soggetto che sogna per trovare “qualche ragione per dubitare”: la verità appare ancora, come la condizione della possibilità del sogno. Non si può, in compenso, supporre, neppure col pensiero, di essere folle, perché la follia è proprio l’impossibilità del pensiero: “Non sarei meno stravagante di loro…”»[2].

Sognare è una delle possibilità del pensiero, delirare invece è la sua negazione. In tal modo «la follia viene posta fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità», «è esiliata. Se l’uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato»[3]. L’esclusione metafisica della follia dal pensiero è così la premessa dell’esclusione sociale del folle dal consorzio umano, il preludio al «grande internamento».

Al contrario, per Derrida, da un lato il sogno è «il momento iperbolico all’interno del dubbio naturale»[4], quello fondato sulla conoscenza sensibile, cioè la «radicalizzazione» dell’ipotesi secondo la quale i sensi potrebbero talvolta ingannarmi. «Nel sogno, la totalità delle mie immagini sensibili è illusoria»[5]. In questa prospettiva, la follia non acquista uno statuto particolare: è, anzi, posta sulla stesso piano delle idee di origine sensibile, inaffidabile la prima per la stravaganza delle sue rappresentazioni, inaffidabili le seconde per l’incertezza dei loro contenuti. Sicché il sogno costituisce «l’esasperazione iperbolica della ipotesi della follia»[6]. Dall’altro lato, però, nel momento in cui si passa dal dubbio naturale al dubbio intellettuale, quello sugli oggetti del pensiero puro, come gli enti matematici, siamo dinanzi al «momento iperbolico assoluto», all’ipotesi del Genio maligno che rende presente «la possibilità della follia totale», di un impazzimento completo, che non è solo il disordine del corpo e dell’oggetto conoscibili mediante i sensi, ma «una follia che introdurrà il sovvertimento nel pensiero puro, nei suoi oggetti puramente intelligibili, nel campo delle idee chiare e distinte»[7].

Ora, come il Genio maligno nulla può rispetto alla certezza del pensiero che, pur dubitando di tutto, non può dubitare dell’atto stesso del dubitare, così per Derrida «l’atto del cogito è valido anche se io sono folle, anche se il mio pensiero è folle in tutto e per tutto»[8]. Lungi dall’escludere la follia dal pensiero, Descartes fa soltanto finta di escluderla nella fase del dubbio naturale, per poi farne «un caso del pensiero»: «Che io sia folle o no, cogito, sum»[9]. Nel cogito ragione e follia non si sono ancora separate; la separazione interverrà quando si vorrà riflettere sul cogito, comunicarne il senso. E allora sarà necessario dimostrare l’esistenza di Dio quale garanzia della veridicità delle mie rappresentazioni, del mio discorso, contro la follia.

Derrida ha potuto avanzare le sue obiezioni – sostiene Foucault nella replica scritta soltanto diversi anni dopo, nel 1972, Mon corps, ce papier, ce feu[10] –, in quanto ha misconosciuto le «differenze discorsive» che sono il principio delle differenze letterarie, tematiche o testuali delle Meditationes. Ogni discorso è un insieme di enunciati, prodotti nel tempo e nello spazio.

«Se si tratta di una pura dimostrazione, questi enunciati possono essere letti come una serie di avvenimenti legati reciprocamente secondo un certo numero di regole formali; quanto al soggetto del discorso, esso non è per nulla implicato nella dimostrazione: resta, in rapporto a questa, fisso, invariante e per così dire neutralizzato. Invece una «meditazione» produce, come altrettanti avvenimenti discorsivi, nuovi enunciati che comportano una serie di modificazioni del soggetto enunciante: attraverso ciò che si dice nella meditazione, il soggetto passa dall’oscurità alla luce, dall’impurità alla purezza, dalla stretta delle passioni al distacco, dall’incertezza e dai movimenti disordinati alla serenità e alla saggezza, ecc. (…) In breve, la meditazione implica un soggetto mobile e modificabile dall’effetto stesso degli avvenimenti discorsivi che si producono[11]».

Il testo cartesiano è «una meditazione dimostrativa»: tanto gruppi di enunciati legati da regole formali di deduzione, quanto serie di modificazioni del soggetto enunciante. Così, avviene sia che lo sviluppo della dimostrazione produca modificazioni nel soggetto (lo liberano dalle sue convinzioni, lo inducono al dubbio sistematico, ecc.), sia che le modificazioni del soggetto rendano possibili nuovi enunciati.

«Questa duplice lettura è quella richiesta dalle Meditazioni: un insieme di proposizioni che formano sistema, che ogni lettore deve percorrere se vuole provarne la verità; e un insieme di modificazioni che formano esercizio, che ogni lettore deve effettuare (…), se a sua volta vuole essere il soggetto che enuncia, per proprio conto, questa verità»[12].

Il testo cartesiano intreccia insieme una trama dimostrativa e una trama ascetica (nel senso di askesis, esercizio); più esattamente è costituito dall’intreccio di queste due trame (ma, forse, si sarebbe potuto dir meglio: il testo cartesiano è costituito da una trama ascetica e da un ordito dimostrativo). Analogamente nella prima Meditazione dobbiamo distinguere un soggetto universalmente dubitante e uno meditante, un soggetto che dimostra la necessità di dubitare di tutto e un soggetto che pratica l’esercizio del dubbio. Ma in tal caso, mentre nel sogno i due soggetti – quello «effettivamente dubitante della propria attualità» e quello «continuatore in modo valido di una meditazione che scarta tutto ciò che non è verità manifesta» – possono convivere, perché l’enunciazione dell’argomento del sogno produce lo stupefacente riconoscimento dell’impossibilità di distinguere lo stato di veglia da quello di sonno, nella follia soggetto dubitante e soggetto meditante non sono insieme possibili: se è possibile costituirsi come soggetto che dubita di tutto, non si è allo stesso tempo «soggetto che conduce ragionevolmente la propria meditazione attraverso il dubbio sino a una eventuale verità»[13].

Infine, Derrida può ritenere che la follia si incontri propriamente nella scena del Genio maligno e del cogito solo ignorando che «l’episodio del genio maligno è un esercizio volontario, controllato, padroneggiato e dal principio alla fine guidato da un soggetto meditante che non se ne lascia mai sorprendere»[14]. Il soggetto meditante si comporta non come il folle «sbigottito dall’errore universale», ma come «un avversario non meno scaltro e sempre all’erta, costantemente ragionevole e fermo nella posizione di chi padroneggia il rapporto con la sua finzione»[15].

1.2. Foucault, il «momento cartesiano» e le critiche di Hadot.
La originale nozione di «meditazione dimostrativa», cui concorrono sistema ed esercizio, ordito dimostrativo e trama ascetica, e che aveva permesso a Foucault di rispondere alle obiezioni di Derrida, sembra scomparire dieci anni dopo. Nella prima lezione del corso 1981-82 al Collège de France, dedicata a L’ermeneutica del soggetto, il filosofo francese sostenne che il tema dell’epimeleia heautou, centrale nel pensiero antico, si era eclissato a favore del principio del gnothi seauton, e ne trovò la causa principale nella trasformazione impressa da Descartes al discorso filosofico della modernità. Durante tutta l’antichità, afferma Foucault, «il tema della filosofia (“come avere accesso alla verità?”) e il problema della spiritualità (“quali sono, nell’essere stesso del soggetto, le trasformazioni necessarie per rendere possibile l’accesso alla verità?”) non sono stati mai disgiunti l’uno dall’altro». Il cristianesimo, nonostante tutte le profonde novità che ha introdotto la sua affermazione, si è appropriato della spiritualità antica e ha ridefinito la verità, senza mutare il legame che le stringeva assieme e negare gli “effetti di ritorno” della verità sul soggetto: è la verità che illumina il soggetto e gli concede la beatitudine. La vera rottura si è introdotta con il «momento cartesiano»:

«possiamo dire che l’ingresso dell’età moderna è avvenuto – intendo dire che la storia della verità è entrata nella sua epoca moderna – solo il giorno in cui si è ammesso che è la conoscenza, e la conoscenza solamente, a consentire l’accesso alla verità e a fissare le condizioni in base alle quali il soggetto può avere accesso a essa».

L’età moderna della storia della verità, inaugurata da Descartes, inizia

«dal momento in cui il filosofo (o lo scienziato, o anche solo chi cerca la verità) è diventato capace di riconoscere la verità, e ha potuto avere accesso ad essa, in se stesso, e in virtù dei suoi soli atti di conoscenza, senza che da lui si esiga più nient’altro, ovvero senza che il suo essere di soggetto debba essere modificato o alterato in alcun modo»[16].

Le condizioni per “poter avere accesso alla verità” diventano le condizioni per “poter conoscere la verità”: «condizioni estrinseche», come non essere folli, aver compiuto studi adeguati, condurre una ricerca disinteressata; ma soprattutto «condizioni intrinseche» all’atto conoscitivo, cioè tanto l’adesione alle «regole formali del metodo», quanto la corretta individuazione «della struttura dell’oggetto da conoscere»[17]. Insomma, il soggetto moderno non trasforma se stesso per poter avere accesso alla verità e per essere illuminato da questa, ma elabora delle regole metodiche che gli permettono di conoscere correttamente il proprio oggetto. E quando anche – come precisa Foucault in un’intervista concessa nell’ultimo anno di vita – si volesse riconoscere nelle Meditazioni di Descartes la medesima «preoccupazione spirituale», rispetto ai filosofi antichi, «di accedere a un modo d’essere in cui il dubbio non sarà più permesso e in cui, infine, si potrà conoscere», ci si accorgerebbe, tuttavia, che il modo d’essere a cui la filosofia dà accesso «è interamente definito dalla conoscenza»[18].

È noto il fatto che Foucault riconoscesse l’importanza esercitata dalle ricerche di Hadot sugli esercizi spirituali antichi nell’elaborazione delle sue ultime ricerche filosofiche; ed è altrettanto noto come Hadot non si riconoscesse nelle conseguenze che Foucault aveva tratto dalle proprie indagini[19]. Tra le altre cose, il motivo del dissidio riguardava anche la genesi del tramonto della spiritualità antica: al contrario di Foucault, Hadot la faceva risalire al Medioevo, alla nascita della teologia razionale, ossia del discorso su Dio autonomizzatosi dalla spiritualità o, ancora, della teoretizzazione della filosofia. Una teoretizzazione che non coinvolge Cartesio, almeno non nel modo che avrebbe voluto Foucault; non è affatto vero che con Cartesio l’evidenza si sostituisce all’ascesi:

«Io penso, in effetti, che quando Cartesio sceglie di intitolare una delle sue opere Meditazioni, sa molto bene che quella parola nella tradizione della spiritualità antica e cristiana sta ad indicare un esercizio dell’anima. Ogni Meditazione è effettivamente un esercizio spirituale, vale a dire precisamente un lavoro di se stessi su se stessi, che bisogna avere portato a termine per passare alla tappa successiva»[20].

Hadot è convinto che Cartesio attinga all’antica tradizione degli esercizi spirituali e la riproponga, probabilmente grazie alla mediazione di Agostino: «Agostino, nella misura in cui nei suoi dialoghi di gioventù scritti a Cassiciacum si trovano reminescenze degli esercizi spirituali della filosofia antica, ha probabilmente influenzato Cartesio, che soprattutto nelle Meditazioni […] pratica e fa praticare al suo lettore la meditazione filosofica»[21]. Riferendosi criticamente solo all’ultima posizione di Foucault – quella secondo cui in Cartesio il soggetto non deve modificarsi per accedere alla verità, e ignorando invece quanto sostenuto in Mon corps –, Hadot cerca di mostrare che tale lavoro su di sé avviene effettivamente: quando Cartesio parla in prima persona, evocando il fuoco, la vestaglia, le carte che ha davanti a sé, i sentimenti che prova, «vuole di fatto che sia il lettore a percorrere le tappe dell’evoluzione interiore». L’“Io” utilizzato nel testo è in realtà un “Tu” rivolto al lettore. «Ritroviamo qui il meccanismo, così frequente nell’antichità, per cui si passa dall’io individuale a un io innalzato al livello dell’universalità». Per provare ciò, Hadot sottolinea, da una parte, come ciascuna meditazione si svolga intorno a un solo argomento; dall’altra, come il lettore si debba dare tempo, molto tempo, per «assimilare a fondo l’esercizio praticato»[22]. E opportunamente richiama passaggi dell’opera, in cui Cartesio sostiene che il lettore deve prendersi tutto il tempo necessario alla piena comprensione del passo che il filosofo chiede di compiere, della sua radicalità, della portata delle sue conseguenze[23]. Si tratta, infatti, non semplicemente di criticare i pregiudizi e le abitudini tràdite, ma di costruire abitudini contrarie, come presupposti per accedere alla verità. D’altronde, la prima regola del metodo, quella dell’evidenza, appare a Hadot chiaramente ripresa dalla concezione stoica della rappresentazione catalettica, la quale «non è accessibile indifferentemente a qualsiasi spirito poiché esige […] una ascesi e uno sforzo consistente nell’evitare la “precipitazione” (aproptosia, propeteia[24]. Analogamente la regola dell’evidenza richiede di evitare «la precipitazione e la prevenzione». Perciò Hadot conclude: «non mi sembra che l’evidenza cartesiana sia accessibile a qualsiasi individuo»[25].

Queste annotazioni incidentali vengono riprese in un breve scritto successivo, L’expérience de la méditation, esplicitamente dedicato a dimostrare la tesi della ripresa cartesiana della filosofia come esperienza vissuta e non come discorso (secondo la nota opposizione hadotiana). Il debito contratto dall’allievo del collegio di La Flèche con Ignazio di Loyola e gli esercizi spirituali dei gesuiti è, secondo Hadot, tutto sommato trascurabile, in quanto gli esercizi ignaziani, facendo riferimento all’immaginazione e all’argomentazione retorica, ed essendo diretti verso le verità rivelate, non sono che un «lointain héritage» della tradizione degli esercizi filosofici dell’antichità. Introducendo il genere letterario della meditazione – una novità per l’epoca –, Descartes ritorna «à la ispiration qui animait la philosophie antique»[26]. Le Meditazioni, che hanno il loro fulcro nel ritiro in solitudine e nella conversione verso sé, inducono il lettore a ripercorrere un itinerario che gli fa scoprire da sé le verità: Platonici e Stoici sono i filosofi che Hadot in questo breve intervento ricorda. E conclude:

«si Descartes a choisi la forme littéraire des Méditations, cela ne signifie pas qu’il a voulu simplement exposer une pure théorie philosophique en la présentant artificiellement sous l’aspect de soliloques à la première personne, mais qu’il a voulu conduire son lecteur à une véritable expérience de soi, qui, conformément à l’inspiration profonde de la tradition de la philosophie antique, prende sa source dans une décision, dans le choix initial d’un mode d’être et d’un mode de vie, et qui aboutit à une transformation de soi-même. Loin d’être un simple discours philosophique correspondant à un savoir analysable en propositions, le dépassement du doute dans la découverte de l’indubitable existence de la penseé est une expérience dans laquelle, d’une manière qui échappe au discours, le sujet prend conscience de lui-même et devient réelment sujet, et dans laquelle la penseé éprouve effectivement et sans discours sa propre présence immédiate»[27].

Invece che interrogarsi sulla relazione con gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio e con la tradizione devozionale cattolica tra Cinque e Seicento, come ha fatto la letteratura critica cartesiana con esiti diversi[28], Hadot ancor più decisamente che il Foucault di Mon corps, e a differenza del Foucault di L’herméneutique du sujet, inserisce integralmente Descartes nella tradizione degli esercizi spirituali e della maniera antica di concepire la filosofia, come esercizio e trasformazione di sé[29].

2. Descartes e gli esercizi spirituali, tra gli Stoici e Agostino

Le due discussioni qui rapidamente evocate, che hanno il loro “termine medio” in Foucault, prima affermatore e poi negatore in Descartes di una dimensione ascetica e spirituale – nello specifico significato dei termini sopra emerso – ci impongono dunque di ritornare sulla questione se il rifarsi di Descartes alla tradizione della meditazione assuma il significato di una ripresa e un rinnovamento di quella tradizione, oppure di un uso strumentale e di una stilizzazione della meditazione per scopi estranei ad una tradizione di cui non si riconoscono più validità e fecondità.

Dato che, come appena detto, né Foucault né Hadot ritengono utile mettere in relazione le Meditazioni cartesiane con la tradizione devozionale gesuitica, ma istituiscono (Foucault in modo problematico e generico, Hadot con convinzione e con riferimenti specifici) un rapporto diretto con la spiritualità antica, esaminerò prima la tesi della assimilabilità della rappresentazione catalettica (= apprensiva) degli Stoici alla evidenza cartesiana, poi la tesi della derivazione delle meditazioni cartesiane dalle meditazioni condotte da Agostino a Cassiciacum. Questo esame consentirà di rispondere in conclusione alla questione dell’appartenenza delle meditazioni cartesiane alla tradizione degli esercizi spirituali dell’antichità; e sarà una risposta che varrà non solo per l’interpretazione di Hadot, ma insieme anche per la tesi avanzata da Foucault in Mon corps.

2.1. Esercitarsi a giudicare.
Per giustificare la tesi della sostanziale equivalenza di evidenza cartesiana e rappresentazione catalettica stoica, Hadot mette sullo stesso piano lo sforzo ascetico degli Stoici, consistente nell’evitare la precipitazione, e la raccomandazione cartesiana di evitare prevenzione e precipitazione. Ma si tratta davvero della medesima cosa?

Secondo una testimonianza di Diogene Laerzio (vii, 42-48), riferita genericamente alla filosofia stoica[30], la dialettica non è semplicemente una parte della logica, la scienza del vero, del falso e di ciò che non è né vero né falso (42), ma insieme è areté, la più alta disposizione della mente, che sa la verità, ovvero che accoglie la rappresentazione apprensiva (kataleptiken), in quanto criterio delle cose realmente esistenti, e respinge quella che apprensiva non è (akatalepton), perché né perspicua né evidente (me trane mede ektupon)[31], cioè che o non è determinata dall’esistente oppure non è conforme all’esistente; e che coglie con sicurezza i concetti. La dialettica si articola in quattro ulteriori areté: la cautela o non precipitazione (aproptosia), che ci insegna il momento in cui dobbiamo dare o negare il nostro assenso; la circospezione (aneikaiotes), che ci impedisce di cedere alla verosimiglianza; l’inconfutabilità (anelenxia), cioè il vigore nel ragionamento, che impedisce di essere trascinati dalla parte opposta; infine la serietà (amataiotes), la quale è un abito che consente di riportare le rappresentazioni alla retta ragione. Queste virtù indicano in generale la capacità del saggio di resistere all’opinione, di non concedere l’assenso alla rappresentazione che non merita di essere appresa (aproptosia, aneikaiotes) e non di farsi vincere da ragionamenti opposti al vero, benché apparentemente verosimili e corretti (anelenxia, amataiotes) (46-47).

Le prime due virtù specifiche, la cautela e la circospezione, possono quindi essere iscritte sotto la generale virtù della non precipitazione: il saggio non concederà l’assenso alla rappresentazione finché non abbia sufficienti elementi per giudicarla perspicua ed evidente. Si configura in tal modo la priorità, non solo cronologica ma anche logica, della precipitazione sul pregiudizio, dovuta alla specifica impostazione gnoseologica degli Stoici: se le rappresentazioni si formano grazie alla impressione (typosis) delle cose esistenti nell’anima (questa la definizione attribuibile a Zenone), come l’impronta che l’anello imprime nella cera (45), allora la prima fonte di errore sarà appunto la precipitazione, che induce a concedere l’assenso prima che la rappresentazione lo meriti. Non pare invece che ci sia posto, nella spiegazione dell’errore, per il pregiudizio, che impedirebbe di accettare per vere le rappresentazioni perspicue ed evidenti. Anzi, si deve ritenere illegittimo l’impiego di un termine, pregiudizio, che, in quanto tale, non si ritrova nel vocabolario stoico, essendo piuttosto strettamente legato alle vicende della filosofia moderna e alla sua critica della tradizione.

Nello stoicismo fa problema, dunque, non la forza costrittiva del pregiudizio, ma l’insidia portata dalla verosimiglianza: la precipitazione (propeteia) nel concedere l’assenso ha conseguenze anche sul «piano pratico»[32], «sì che quelli che hanno rappresentazioni non ben esercitate (gymnazein) cadono nel disordine e nell’irriflessività» (48). Si noti, in questo passo, il richiamo alla necessità di esercitarsi, gymnazein, per evitare che il verosimile ci vinca e ci porti ad una vita dominata dal disordine passionale (e si ricordi che per gli Stoici le passioni sono giudizi). Il saggio è quindi colui che si è esercitato tanto da crearsi un «abito» (la exis, riferita alla serietà, può legittimamente essere attribuita anche alle altre tre virtù e quindi a tutta la dialettica), che gli permette di esercitare in modo eccellente la sua capacità di giudicare della veridicità delle rappresentazioni e di argomentare. Sicché il primo e fondamentale esercizio in vista della formazione di quell’abito è appunto quello volto a comprendere il giusto momento in cui si deve dare o negare l’assenso ad una rappresentazione, perché la precipitazione porta a formulare giudizi erronei che, se negativi sul piano teoretico, in quanto non ci permettono una corretta conoscenza della realtà, si rivelano ancor più nocivi sul piano pratico, aprendo la strada alla tirannia delle passioni e quindi ad una vita irriflessa, priva dell’ordine che solo il dominio della ragione garantisce.

Rileggiamo ora per esteso la prima regola del metodo cartesiano:

«non accogliere mai come vera nessuna cosa che non avessi conosciuto con evidenza essere tale: vale a dire, evitare con cura la precipitazione e la prevenzione (la Precipitation, et la Prevention), e non comprendere con i miei giudizi nulla di più che di ciò che si presentasse così chiaramente e distintamente (si clairement et si distinctement) alla mia mente da non avere motivo alcuno per metterlo in dubbio» (AT vi, 18/Op1, 45).

La regola dell’evidenza, che ci raccomanda di giudicare vere solo le cose evidenti, si compone di due atti successivi, il secondo dei quali non è però deducibile necessariamente dal primo: il primo atto è quello di accogliere la cosa evidente, che si impone all’intelletto proprio in forza della sua evidenza; il secondo è quello di giudicare vera la cosa evidente, cioè di voler concedere l’assenso alla cosa evidente. La non deducibilità dall’atto del percepire-vero dell’atto del giudicare-vero dipende dunque dal fatto che il primo è un atto esclusivamente intellettuale, mentre il secondo è un atto cui concorre, oltre all’intelletto che percepisce, anche la volontà che dà l’assenso (cfr. Principia philosophiae I, 34). La causa dell’errore risiede dunque nella volontà, la quale, essendo più vasta dell’intelletto, può estendersi anche oltre i confini di ciò che questo percepisce chiaramente (AT vii, 58/Op1, 757), inducendoci a «dare il nostro assenso a molte cose che conosciamo solamente in modo molto oscuro e confuso» (AT viii-1, 18/Op1, 1735). Dunque, la volontà è causa dell’errore perché ci induce a dare precipitosamente l’assenso alle percezioni non evidenti. Ma è causa dell’errore anche in un altro senso: quando si intende chiaramente il vero, a «una grande luce nell’intelletto» segue «una grande propensione nella volontà»; tuttavia, benché la volontà propenda per l’assenso, non è però necessitata a darlo; può quindi sempre darsi il caso che, anche in presenza della percezione della cosa evidente, la volontà non conceda l’assenso a causa della forza preponderante della prevenzione.

Il testo cartesiano del Discours contiene quindi una asimmetria concettuale nascosta sotto la piega della perfetta simmetria stilistica: infatti, dinanzi alla cosa evidente solo la prevenzione, cioè il pregiudizio, può essere causa dell’errore, non la precipitazione, in quanto il giudizio precipitoso sulla cosa evidente non potrà che essere altrettanto vero del giudizio ponderato, essendo la verità in questo caso garantita dall’evidenza (una volta, certamente, che si sia dimostrata l’esistenza di Dio, garante della veridicità delle idee evidenti) e non dall’assenso dato dalla volontà. Al contrario, quando si sia innanzi a un caso dubbio, la volontà può concedere avventatamente l’assenso, come si legge nella quarta Meditazione (AT vii, 59/Op1, 759), oppure la volontà può essere indotta all’assenso dalla forza del pregiudizio: l’errore sarà dovuto, nel primo caso, alla precipitazione, nel secondo, alla prevenzione.

Di qui due conseguenze: innanzi tutto precipitazione e pregiudizio non sono sullo stesso piano, come invece sembrava suggerire il celeberrimo passo del Discours, dato che il pregiudizio è causa dell’errore sia rispetto alle cose dubbie che a quelle evidenti, mentre la prevenzione lo è solo rispetto a quelle dubbie. Il pregiudizio è perciò più universale della precipitazione e soprattutto assai più insidioso per il filosofo (esattamente all’inverso dello stoicismo, che poneva in primo piano come causa dell’errore la precipitazione). In secondo luogo, per non errare bisognerà attenersi al principio secondo il quale «la percezione dell’intelletto deve sempre precedere la determinazione della volontà» (60/759). Ciò sarà possibile se si rafforzerà la memoria, che mi deve ricordare di tener fermo il principio di far precedere la percezione dell’intelletto alla determinazione della volontà:

«ricordarmi che ci si deve astenere dal giudicare ogni volta che la verità della cosa non sia trasparente, sebbene infatti io sperimenti in me quella fragilità (infirmitas: anche incostanza, incertezza) per cui non sono in grado di restare sempre fisso (defixus) in una stessa e identica conoscenza, posso tuttavia far in modo, con una meditazione attenta e più volte ripetuta (attenta et saepius iterata meditazione), di ricordarmene tutte le volte che ce ne sarà bisogno e acquisire così, un abito (habitum) a non errare» (62/761-763).

Come si può notare, tale precetto è valido solo dinanzi alla cosa non trasparente, quindi per la precipitazione, non per la cosa evidente, rispetto alla quale si tratterà casomai di non ostacolare la naturale propensione della volontà a seguire l’intelletto, vincendo il pregiudizio. Ma quale tipo di meditatio «attenta e più volte ripetuta» è necessaria per vincere il pregiudizio? Poiché la raccomandazione cartesiana vale soltanto per le conoscenze dubbie – dubbie sono tutte le percezioni che l’intelletto riceve dai sensi e dall’immaginazione, all’interno delle quali esso deve distinguere il contenuto reale da quello fittizio –, la meditazione si riduce, per il filosofo, al semplice esercizio di ricordarsi di far precedere la percezione dell’intelletto alla determinazione della volontà. Per quanto riguarda, invece, le conoscenze evidenti, non c’è bisogno di alcun esercizio: è sufficiente affidarsi all’intelletto, confidando nella garanzia che il Dio non-ingannatore fornisce al filosofo nel raggiungimento della verità. Una soluzione, questa, assai lontana dalla filosofia stoica, la quale non richiedeva alcuna assistenza divina.

Tuttavia, nell’evocare il bisogno di acquisire l’habitus a riflettere prima di concedere l’assenso, Descartes sembra vicino allo stoicismo, il quale aveva a sua volta sottolineato la necessità dell’esercizio per non cadere nella precipitazione e non dare l’assenso a rappresentazioni soltanto verosimili e cedere al dominio della passione. Eppure, ad uno sguardo più attento, la distanza rimane rilevante. Infatti l’esortazione a far sì che la pratica del dubbio metodico diventi un’«abitudine» e la consuetudine di confondere le cose intellettuali con quelle corporee sia cancellata dalla «consuetudine contraria» (130-131/855), formata grazie a una prolungata riflessione, si rivela strategia retorica per coinvolgere più efficacemente il lettore nella nuova metafisica, con la conseguenza che la meditatio si trasforma in genere letterario. Al lettore è richiesto il medesimo sforzo del filosofo che ha scritto le Meditazioni per emanciparsi dai pregiudizi: ricordarsi, innanzi tutto, di far precedere «la percezione dell’intelletto» alla «determinazione della volontà». Per liberarsi dagli inganni dei sensi e dalle vecchie opinioni, né il filosofo né il lettore devono ricorrere ad alcuna forma di «tecnica di sé», ad alcuna pratica codificata in esercizi; né l’uno né l’altro devono convertire la propria esistenza in alcun modo: il lettore deve solo seguire l’esempio del filosofo nella ricerca della verità, il quale, a sua volta, ha stilizzato letterariamente il suo itinerario speculativo nel testo delle Meditazioni; il lettore deve leggere con calma, con attenzione e ripetutamente il testo cartesiano[33], assimilandone il contenuto, esattamente come la manualistica devozionale dell’epoca raccomandava di leggere, rileggere e fare proprio i testi edificanti[34].

La meditatio non è più esercizio spirituale di trasformazione di sé, ma diviene genere letterario, teatro filosofico nel quale si mette in scena la fondazione e l’esposizione della vera philosophia prima.

2.2. Convertire la vita.
Per  comprendere ancor più nitidamente la distanza che separa la meditatio come esercizio che porta alla conversione del modo di vita dalla meditatio come teatro filosofico e genere letterario, sarà opportuno dedicare qualche spazio all’esame del rapporto tra Agostino e Descartes.

Tale rapporto ci interessa qui non tanto per riprendere la questione della possibile dipendenza del cogito, ergo sum dalla confutazione agostiniana dello scetticismo[35], che metteva capo all’altrettanto famoso si fallor, sum (De civit. dei xi, 26), quanto per ritornare sulle circostanze del confronto con lo scetticismo, dal quale dovrà emergere in entrambi i pensatori un sapere certissimo, assolutamente indubitabile. Sebbene riferimenti allo scetticismo – nella versione accademica, l’unica che Agostino conoscesse – si ritrovino in molte opere, la confutazione dello scetticismo è argomento specifico di un’opera, il Contra Academicos, su cui occorrerà soffermarci più distesamente, proprio perché sembra costituire un modello per Descartes: se lo sia o meno nel senso voluto da Hadot, è quanto vorremmo capire.

L’opera fu scritta in un momento fondamentale della vita di Agostino[36], nell’autunno del 386: subito dopo la conversione al cristianesimo e prima del battesimo egli decise di approfittare delle vendemiales feriae per abbandonare la professione di insegnante di retorica che praticava a Milano e ritirarsi con i suoi familiari e alcuni intimi amici nella villa di Cassiciacum (Conf. ix, 2 e 4). Si realizzava così il progetto di otiose vivere, che Agostino e i suoi amici avevano già in precedenza progettato per sfuggire le turbolentas humanae vitae molestias e che non si era finora realizzato (vi, 14).

Il contesto evocato è infatti quello della tranquillità e del raccoglimento, che solo la vita in villa può garantire: a parte la sesta giornata, in cui, a causa del cattivo tempo, la discussione avviene nelle terme (Ac. iii, 1.1), i colloqui delle altre giornate si svolgono all’aperto in campagna, al prato (ii, 6.14), sotto il «solito albero» (ii, 11.25), reminiscenza forse della celebre cornice in cui si svolge il Fedro. Ma mentre nel dialogo platonico Socrate giustifica la sua ritrosia ad abbandonare Atene, anche solo per una passeggiata fuori le mura, confessando: «io amo imparare: ma la campagna e gli alberi non sono disposti a insegnarmi nulla, come lo sono invece gli uomini nella città» (Phaedr. 230d), Agostino compie il percorso inverso: abbandona la città, luogo della dispersione dei negotia, per ritirarsi nell’otium della campagna dove avviare il ritorno a sé, che è conversione insieme filosofica e religiosa a Dio. La professione di insegnante è un grave negotium (Conf. ix, 2) e il tempo del negotium è quello per cui la persona non è concentrata su di sé, non è per sé, ma per altro, strumento di altro: venditore di merce e merce sono i suoi insegnamenti (una volta abbandonato l’insegnamento, gli allievi non avrebbero più comprato (mercarentur) «dalla mia bocca armi per la loro follia» ed io «non sarei più stato merce da mercato (venalis)», ibid.). La ricerca della verità, al contrario, esige otium: calma, quiete e tempo adeguato per la riflessione, la discussione, l’approfondimento delle questioni. Ora, nella quiete della campagna lombarda, si presenta finalmente la opportunità, la prospera fortuna, grazie all’aiuto dell’amico Romaniano, di affrontare la questione della possibilità per l’uomo di giungere alla verità.

Solo pochi anni prima, Agostino, ancora lontano dalla vera fede e dalla vera filosofia, manicheo religiosamente, si era scoperto filosoficamente scettico:

«Avevo anche cominciato a pensare che i filosofi detti Accademici fossero i più accorti (prudentiores) degli altri quando sostenevano che bisogna stare in dubbio su tutto (de omnibus dubitandum esse) e che l’uomo non può giungere alla conquista di una qualsiasi verità (nec aliquid veri ab homine conprehendi posse). Tale almeno io credevo, secondo la opinione comune, il loro pensiero, non avendo ancora approfondito dove essi mirassero» (v, 10).

Solo più tardi, dopo aver ascoltato le omelie di Ambrogio, Agostino, pur non aderendo ancora al cristianesimo, aveva deciso di rivolgere dialetticamente le armi scettiche contro le dottrine manichee:

«Perciò, nel dubbio sistematico su tutto (dubitans de omnibus), all’uso degli Accademici, e da tutto sballottato, stabilii di staccarmi dai Manichei, non sembrandomi giusto, in un tal periodo di dubbi (eo ipso tempore dubitationis), poter rimanere in una setta alla quale già preferivo alcuni filosofi: ma nemmeno lontanamente pensavo di affidare la guarigione dei miei languori spirituali a quei filosofi che ignorano il nome salutare di Cristo» (v, 14).

Altre fondamentali esperienze intellettuali e spirituali seguono, tra cui la lettura di alcuni libri «dei Platonici», probabilmente di Plotino e Porfirio (vii, 13), e di Paolo (vii, 27; cfr. Ac. ii, 2.5). Adesso, nel momento del ritiro spirituale e nella preparazione al battesimo, Agostino decide di affrontare la sfida scettica del de omnibus dubitandum. Con queste parole riassume, alla fine dello scritto contro lo scetticismo accademico – o, meglio, contro lo scetticismo professato dialetticamente ed essotericamente dagli Accademici (Ac. iii, 17.37-18.41) –, il significato dell’opera:

«in qualunque condizione si trovi la sapienza umana, vedo di non averla ancora acquisita. Siccome però ho trentadue anni, credo di non dover disperare di raggiungerla un giorno o l’altro. Comunque, disprezzate tutte le altre cose che i mortali reputano beni, mi sono proposto di dedicarmi a seguirne le tracce. E poiché le argomentazioni degli Accademici mi distoglievano non poco da questo impegno, mi sono premunito a sufficienza, credo, contro di esse con questa discussione» (iii, 20.43).

Agostino, insomma, si trova nel momento decisivo della propria esistenza: di qui la necessità di affrontare una posizione filosofica che, supportata dall’autorità di grandi filosofi come Arcesilao, Carneade o Filone, se seguita, avrebbe minato non solo la fiducia nella capacità della ragione di apprendere il vero intellegendo, ma addirittura impedito di accogliere la verità credendo e affidandosi all’«autorità di Cristo» (ibid.). Infatti, la teoria del «probabile» o del «verosimile» – che qui vengono assimilate, seguendo sostanzialmente la lezione ciceroniana – non ci mette al riparo dall’errore. A questa conclusione Agostino giunge solo quando finalmente libero da impegni nella quiete del podere di Cassiciacum ha potuto riflettere diu, giungendo alla conclusione che anche il prudente accademico possa errare, in quanto erra «non solo chi segue una via falsa, ma anche chi non segue quella vera» (iii, 15.34).

La disputatio non indaga subito i principi dello scetticismo accademico, ma si sviluppa prendendo l’argomento da lontano, per avvicinarsi progressivamente alla radice della questione che sarà affrontata soltanto nella oratio perpetua che Agostino svolge nella sesta e ultima giornata[37]. Nelle prime tre giornate i giovani Licenzio e Trigezio disputano intorno al problema se si possa o meno vivere felici ricercando la verità senza trovarla: si tratta di un’esercitazione con cui Agostino vuole mettere alla prova i suoi allievi (exercere vos vellem), saggiandone le capacità e l’impegno (i, 9.25). Ma è opportuno sottolineare come, tanto le meditazioni che Agostino conduce, quanto le discussioni che impegnano i dialoganti, siano esercitazioni che servono a purificare l’animo a vanis perniciosisque opinionibus (ii, 3.9 e 7.17). Nella quarta e quinta giornata, infatti, dopo una prima presentazione della dottrina accademica, segue l’attacco di Agostino alla nozione di «verosimile», attacco che però pare anche a Trigezio fin troppo facile; tale rilievo soddisfa il filosofo, che evidentemente ha voluto mettere alla prova i giovani allievi: egli riconosce che gli argomenti con cui ha presunto di confutare il «verosimile» sono fabellae pueriles, che vanno messe da parte, perché la controversia non è sulle parole ma sulle cose stesse e riguarda la possibilità di trovare il vero. Insomma: «Si tratta della nostra vita, di come dobbiamo agire, dell’animo, il quale confida di vincere l’ostilità di tutti gli inganni» (9.22-10.24).

Queste esercitazioni preparano quindi gli interlocutori, non solo gli inesperti Licenzio e Trigezio, ma anche l’esperto Alipio, ad accogliere il significato profondo delle obiezioni rivolte da Agostino nella oratio perpetua allo scetticismo accademico. Obiezioni, però, che sono precedute da un assunto fondamentale: «solo una divinità (numen … solum) può mostrare all’uomo che cosa sia il vero» (iii, 6.13). Sia gli Accademici sia Agostino ritengono che si debba dare l’assenso alla verità, ma i primi sostengono che la verità non si trova, per cui a loro «pare» soltanto che il sapiente sappia la sapienza; il secondo che, se esiste il sapiente, questi debba sapere la sapienza, altrimenti non sarebbe sapiente; sicché gli Accademici direbbero rem absurdissimam se affermassero che «la sapienza è nulla oppure che il sapiente non sa la sapienza». Insomma, l’Accademico non può sfuggire all’ammissione che, se esiste la sapienza, questa debba essere sapienza di qualcosa e non di nulla; Agostino fa perciò proprio il paragone di Alipio – l’Accademico è come Proteo, che si lasciava afferrare per trasformarsi e sfuggire alla presa, finché «una divinità di qualche tipo» non indicò come fare (5.11), – sostenendo che l’argomentazione dello scettico porta alla necessità del suo contrario, alla verità, la quale, a sua volta presuppone la fede: infatti, soltanto grazie all’assistenza divina sarà possibile non lasciarci ingannare dalle immagini, che derivano dai sensi e dalla consuetudine con le cose corporee, le quali «tramano per ingannarci e farsi gioco di noi, anche quando la verità sia tenuta e quasi stretta tra le mani» (6.13).

Le Meditationes cartesiane fanno propria la concezione della filosofia del Contra Academicos come esercizio spirituale che apre le porte alla conversione e alla fede? Ebbene, se è indubbio che molti elementi dello scritto agostiniano ritornino in quello cartesiano – l’otium come libertà dalle occupazioni moleste, il ritorno in se stessi come condizione per poter attingere alla verità, l’età della vita ormai matura, opportuna per la conversione filosofica, lo stesso fatto che le giornate in cui si svolgono i colloqui de Academicis a Cassiciacum siano sei, proprio come quelli delle Meditationes cartesiane, e soprattutto il de omnibus dubitandum –, è altrettanto chiaro che si tratta di elementi che vengono assunti come momenti costitutivi della drammatizzazione messa in scena nelle Meditationes, specialmente nella prima Meditazione, e che in altre opere, come il Discours de la méthode o i Principia philosophiae, trovano solo molto parzialmente posto. Non c’è nulla, infatti, degli esercizi dialettici veri e propri in cui sono impegnati i personaggi dell’opera agostiniana, nulla delle tecniche di esposizione delle tesi e della loro confutazione, nulla, soprattutto, della conversione ad una vita in tutto e per tutto diversa da quella fino ad ora condotta.

3. Conclusioni: il «grande solenne teatro» delle Meditazioni

L’esame del rapporto delle Meditationes de prima philosophia con i luoghi teorici – il dubbio universale degli Accademici combattuti da Agostino e l’evidenza stoica –, che avrebbero dovuto legittimare la convinzione della ripresa nelle Meditazioni cartesiane della tradizione degli esercizi spirituali antichi stoici e agostiniani, non sembra aver dato un esito positivo. Piuttosto che reimmettersi nella tradizione degli esercizi spirituali, da quella tradizione Descartes sembra aver tratto una serie di topoi[38] con cui tessere l’«ordito ascetico» (la ricerca della solitudine, il ritorno a se stessi, la scansione della riflessione in giornate distinte, ciascuna dedicata ad un solo argomento, la necessità di dubitare di tutto, l’evidenza di sapere qualcosa di indubitabile al di là di ogni dubbio) delle sue Meditazioni. Ora, come ha sostenuto in altro contesto Hadot, i topoi altro non sono che «le formule, le immagini, le metafore che si impongono perentoriamente allo scrittore e al pensatore, in modo tale che l’uso di questi modelli prefabbricati sembra loro indispensabile per poter esprimere il proprio pensiero»[39]. Le pratiche di meditazione nelle quali i filosofi antichi si esercitavano quotidianamente alla conversione – filosofica per gli Stoici, religiosa in Agostino – sono riprese da Descartes per poter esprimere il proprio pensiero, la fondazione della «nuova filosofia», ma ridotte a topoi, a elementi di una rappresentazione, di un teatro filosofico, che non prescrive al lettore alcun esercizio specifico né gli chiede alcuna trasformazione di sé, alcuna conversione per poter avere accesso alla verità, ma pretende da lui solo un’attenta lettura del testo per poter far propria la vera filosofia, già compiutamente elaborata da Descartes, e non cadere più in errore.

Se questo è vero, allora neppure la tesi avanzata da Foucault in Mon corps può essere integralmente accettata. Nella prima Meditazione, quella in cui sembrerebbe più evidente la prossimità alla tradizione degli esercizi spirituali, non possiamo distinguere un soggetto dubitante ed uno meditante, il primo che dimostra la necessità di dubitare di tutto ed il secondo che padroneggia consapevolmente l’esercizio del dubbio. Foucault mostra certamente di possedere un orecchio molto fine nel distinguere due diverse voci che parlano all’unisono; ma non si tratta del soggetto dubitante e di quello meditante: esse sono, come abbiamo cercato di dimostrare[40], le voci del filosofo-narrante – che mette in scena, dalla terraferma dell’io penso e dalla roccia di Dio garante della verità, la vicenda del dubbio universale e del suo felice esito – e del filosofo-personaggio, che recita la catabasi del dubbio e l’anabasi del cogito. Solo il filosofo-narrante conosce già l’intreccio della Meditazione; il filosofo-personaggio la scopre passo passo, insieme al lettore-spettatore – un lettore-spettatore attivo, cui Descartes chiede complicità nella vicenda e immedesimazione nel personaggio.

Perciò non si può affermare che siamo dinanzi all’intreccio di una trama ascetica ed un ordito dimostrativo. Innanzi tutto perché non c’è testo autenticamente filosofico in cui «alcuni enunciati, formalmente legati» non modifichino «il soggetto man mano che si sviluppano», che non lo liberi «dalle sue convinzioni, o viceversa» che non lo induca «a dubbi sistematici»[41]. Ciò che rende speciale il testo della prima Meditazione – per la quale Foucault ha coniato la felice espressione «meditazione dimostrativa» – è il fatto che tali modificazioni sono esplicitamente richieste al lettore, il quale è invitato a imitare il filosofo-personaggio messo in scena nel «grande solenne teatro»[42] del sogno e della follia, del Genio ingannatore e del cogito, a farsi uomo che inizia a filosofare per la prima volta, assimilando del personaggio decisioni, dubbi, gesti, movenze, riflessioni. In cambio riceverà la verità.



Il presente scritto era stato pensato originariamente come Appendice al § 3 di Descartes e la trasformazione della meditatio in genere letterario, cap. IV di La tradizione come problema. Questioni di storiografia filosofica, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli 2012, pp. 97-131; l’eccessiva ampiezza mi ha indotto a non pubblicarlo in quella sede. All’orizzonte ermeneutico di quel lavoro e ai suoi risultati, evidentemente, il presente contributo rimanda. I testi di Descartes sono citati nelle seguenti edizioni: R. Descartes, Œuvres (= AT), publiées par C. Adam et P. Tannery, 11 voll., Vrin, Paris, 1964-1974; Opere 1637-1649 (= Op1), a cura di G. Belgioioso, testo francese e latino a fronte, Bompiani, Milano 2009; Tutte le lettere 1619-1650 (= Op3), a cura di G. Belgioioso, testo francese, latino e olandese a fronte, Milano, Bompiani, 2009.


[1] J. Derrida, L’écriture et la différence, Paris, Editions du Seuil, 1967; trad. it. La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, (1971) 1990, pp. 39-79. Sul dibattito Derrida-Foucault si possono consultare i testi citati in J.-R. Armogathe, V. Carraud, Bibliographie cartésienne (1960-1996), Lecce, Conte Editore, 2003, pp. 222-223.

[2] M. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique (1961), suivi de Mon corps, ce papier, ce feu et La folie, l’absence d’œuvre, Paris, Gallimard, 1972; trad. it. Storia della follia nell’età classica, con l’aggiunta di La follia, l’assenza di opera e Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, (1998) 20025, p. 52.

[3] Ivi, p. 53.

[4] Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p. 65.

[5] Ivi, p. 60.

[6] Ivi, p. 63.

[7] Ivi, p. 66.

[8] Ivi, p. 69.

[9] Ivi, p. 70.

[10] Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., pp. 485-509.

[11] Ivi, pp. 497-498.

[12] Ivi, p. 498.

[13] Ivi, pp. 501-502.

[14] Ivi, p. 506.

[15] Ivi, p. 507.

[16] M. Foucault L’herméneutique du sujet, Seuil/Gallimard, Paris 2001; trad. it. L’ermeneutica del soggetto, Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2003, p. 19; cors. M.B.

[17] Ivi, p. 20.

[18] M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté (1984), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994; trad. it. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3. 1978-1985, Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 273-294, p. 287.

[19] Cfr. in proposito, sul debito contratto da Foucault nei confronti delle ricerche di Hadot, M. Foucault, L’usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984, trad. it. L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1991, 2004, p. 13; Id., Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984, trad. it. La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, Milano 1991, 2001, p. 47; Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., passim, spec. p. 257. Sulle critiche di Hadot a Foucault, cfr. soprattutto P. Hadot, Riflessioni sulla nozione di cultura di sé (1989), in Exercices spirituels et philosophie antique, Paris (1981) 2002, trad. it. Esercizi spirituali e filosofia antica, nuova edizione ampliata, a cura e con una pref. di A.I. Davidson, Einaudi, Torino 2005, pp. 169-177; Id., La philosophie comme manière de vivre, Paris 2001, trad. it. La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, Aragno, Torino 2005, pp. 198-200. Sul rapporto Hadot-Foucault, cfr. ora, oltre al lavoro dichiaratamente introduttivo e piuttosto compilativo di M. Simonazzi, La formazione del soggetto nell’antichità. La lettura di Michel Foucault e di Pierre Hadot, Aracne, Roma 2007, soprattutto il ben più dettagliato e approfondito confronto istituito da M. Montanari, Hadot e Foucault nello specchio dei greci: la filosofia antica come esercizio di trasformazione, Mimesis, Milano-Udine 2009.

[20] P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard, Paris 1995; trad. it. Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 1998, p. 252; cors. M.B.

[21] Hadot, La filosofia come modo di vivere, cit., p. 170.

[22] Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, cit., p. 253.

[23] Nella Risposta alle seconde obiezioni, Cartesio scrive: «[…] nulla porta a raggiungere una solida conoscenza delle cose più di una preliminare abitudine a dubitare di tutte, soprattutto di quelle corporee, […] a ciò non ho potuto non riservare una meditazione intera; e vorrei che i lettori si soffermassero a riflettere su quello di cui essa tratta non soltanto per il breve tempo richiesto ad una lettura, ma alcuni mesi o, almeno, settimane, prima di passare al resto» (AT vii, 130/Op1, 855; cors. M.B.). E poco dopo aggiunge che, per distinguere con nettezza ciò che appartiene alla mente da ciò che appartiene al corpo, non basta aver percorso la seconda meditazione una sola volta: «deve essere battuta e ribattuta a lungo, affinché la consuetudine di tutta una vita, di confondere le cose intellettuali con quelle corporee, sia cancellata dalla consuetudine contraria, anche se di pochi giorni, a distinguerle» (131/855; cors. M.B.). Curiosamente Hadot non cita integralmente il passo, che avrebbe rafforzato la sua tesi.

[24] Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, cit., p. 254.

[25] Ivi, p. 253.

[26] P. Hadot, L’expérience de la méditation, in “Magazine Littéraire”, n. 342, Avril 1996, Dossier: Descartes, les nouvelles lectures, pp. 73-76, p. 74.

[27] Ivi, p. 75.

[28] Sull’argomento cfr. Biscuso, Descartes e la trasformazione della meditatio in genere letterario, cit., pp. 105-110, nota 10 per la discussione critica. Osservo come tale letteratura non prenda minimamente in considerazione né Foucault né Hadot, e come costoro non si avvalgano né citino mai quella letteratura.

[29] Recentemente Xavier Pavie ha ripreso e ampliato la lettura hadotiana di Descartes, ritrovando una forte eredità stoica sia nel Discours che nelle Passions de l’âme, ma soprattutto attribuendo al dubbio metodico praticato nelle Meditationes il carattere di vero e proprio esercizio spirituale: «Le doute cartésien peut être posé comme exercice spirituel dans la mesure où celui-ci est un moyen, un outil, une technique destinée à être appliquée en soi, pour soi, dans la perspective d’accéder à la vérité». Tuttavia, poiché Descartes fonda la garanzia della conoscenza della verità su Dio, la pratica del dubbio quale esercizio spirituale risulta limitata e il filosofo francese si allontana dalla tradizione dei filosofi antichi, che non ricorrevano a principi trascendenti per migliorare e trasformare se stessi: «Le doute cartésien est un exercice spirituel, mais fugitif. Il ne s’y apparente que l’espace d’un instant, avant d’être confronté à Dieu et vidé de son sens, pour finalement disparaître. C’est très claire dans les Méditations métaphysiques, où deux temps sont à distinguer: un premier temps, proche des exercices spirituels antiques, axé sur l’homme; un second temps où Dieu, mis en exergue, montre la voie et fait l’objet de la méditation» (X. Pavie, xviie siècle: le doute cartésien comme exercice spirituel, in Exercices spirituels. Leçons de la philosophie antique, Les Belles Lettres, Paris 2012, pp. 221-234).

[30] Per il testo di Diogene Laerzio (= DL) mi sono avvalso delle seguenti edizioni e traduzioni: Lives of Eminent Philosophers, with an english translation by R.D. Hicks, London-New York 1925; trad. it. Vite dei filosofi, 2 voll., a cura di M. Gigante, Laterza, Roma-Bari 1983; trad. franc. Vies et doctrines des philosophes illustres, sous la direction de M.-O. Goulet-Cazé, Librairie Générale Française, s.i.l., 1999. Non è qui il caso di entrare nelle complicate questioni della sezione dossografica di DL vii, 38-160, che riporta dottrine attribuite genericamente agli Stoici: sul libro settimo, cfr. almeno J. Mansfeld, Diogenes Laertius on Stoic philosophy, in Diogene Laerzio storico del pensiero antico, “Elenchos”, 7, 1986, 1-2, pp. 297-382; D.E. Hahm, Diogenes Laertius VII: On the Stoics (1992), in ANRW, 36.6, pp. 4076-4182 (con ricca bibliografia); R. Goulet, Introduction, in Vies et doctrines des philosophes illustres, cit., Livre VII. Introduction, traduction et notes par R. Goulet, pp. 775-788.

[31] Le traduzioni francese di R. Goulet («ni claire ni distincte»), inglese di R.D. Hicks («not being clear or distinct») e italiana di M. Gigante («né chiara né distinta»), sebbene plausibili filologicamente, mi sembrano dovute soprattutto alla forza condizionante della definizione cartesiana di idea evidente, che è tale perché «chiara e distinta». Per la definizione di percezione chiara e distinta cfr. soprattutto, oltre al passo del Discours sopra citato nel testo, Principia philosophiae I, 45 (AT viii-1, 21-22/Op1, 1741), da cui si evince che la distinzione è una particolare caratteristica della chiarezza, cosa che non credo si possa dire della rappresentazione ektupos rispetto a quella tranes. Aggiungo infatti, a giustificazione della mia traduzione, che tranes significa chiaro, penetrabile dallo sguardo, perciò perspicuo; ektupos indica ciò che in un bassorilievo è in rilievo, quindi che, sporgendo dallo sfondo, risulta evidente.

[32] Seguo in questo caso la traduzione di Isnardi Parente (Stoici antichi, a cura di M. Isnardi Parente, Utet, Torino 1989, p. 690) che così rende epi ta ginomena; cfr. anche la versione francese di Goulet-Cazé: «événements (de la vie)» (cit., p. 822).

[33] Si cfr. anche il testo riportato nella nota 23.

[34] Sono costretto ancora a rimandare al mio Descartes e la trasformazione della meditatio in genere letterario, cit., passim, e alla letteratura critica ivi menzionata, a proposito del Manuale solidatis di P. Veron, ben conosciuto dal giovane Descartes.

[35] Come è noto, Descartes riconobbe nella lettera a Colvius del 14 novembre 1640 l’affinità tra il cogito, ergo sum e l’agostiniano si fallor, sum, attribuendone però la causa al fatto «che è cosa di per sé così semplice ed è così naturale inferire che si è per il fatto che si dubita, che sarebbe potuta cadere sotto la penna di chiunque». Gli scopi sono tuttavia diversi: Agostino vuole far vedere che «c’è in noi una qualche immagine della Trinità», Descartes se ne serve «per conoscere che questo io che pensa è una sostanza immateriale» (AT iii, 247-248/Op3, 1333). Sul tema del rapporto Agostino-Descartes, cfr. in particolare il classico studio di é. Gilson, “Le Cogito et la tradition augustinienne”, in études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien (1930), Vrin, Paris 1984, pp. 191-201; ulteriori indicazioni bibliografiche in Armogathe, Carraud, Bibliographie cartésienne (1960-1996), cit., ad vocem.

[36] I testi di Agostino sono citati da: Le confessioni, introd. di Ch. Mohrmann, trad. di C. Vitali, testo latino a fronte, BUR, Milano (1974) 2006 (= Conf.); Contro gli Accademici, a cura di G. Catapano, testo latino a fronte, Bompiani, Milano 2005 (= Ac.). Per la bibliografia riguardante il Contro gli Accademici rimando senz’altro all’edizione citata, pp. 421-438. Ho tenuto presente anche l’edizione latino/italiano dell’Opera omnia di Sant’Agotino, disponibile sul sito: www.augustinus.it/index2.htm.

[37] Che il numero di sei sia frutto di una sistemazione letteraria dei colloqui oppure sia l’effettivo computo dei giorni in cui svolsero le discussioni, conta poco: ciò che conta è il valore simbolico di svolgere l’esercitazione o di rappresentare lo svolgimento dell’esercitazione in sei giorni, sei come i giorni della creazione.

[38] Sulla nozione di topos nella storia della filosofia, rimando al mio Per una topica della storiografia filosofica, cap. I di La tradizione come problema, cit., pp. 11-31.

[39] Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 23.

[40] Biscuso, Descartes e la trasformazione della meditatio in genere letterario, cit.

[41] Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., p. 498.

[42] Ivi, p. 506.

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