Spettri della rivoluzione. Badiou, Rancière e Žižek sulla creazione politica

Emanuele Profumi

 

pugniABSTRACT: There are several critical views in contemporary political philosophy, supposing – each one in a different way- the political creation as a form of human emancipation.Alan Badiou’s and Jacques Rancière’s positions are the most significant: on one hand, they try to back up the reality of politics as a creative reality, whereas, on the other hand, they do not succeed in linking it to a real revolutionary prospect, because of some problems rising around imaginary centers, related to the “political nothing” and to the “democratic truth”. As Slavoj Žižek has outlined after due consideration, the two philosophers do not manage to conceive the political revolution from top to bottom. By some means, this thinker cannot do that either for the same fundamental reason: like Badiou and Rancière, Žižek himself founds his own ontological political truth on a basic illusion, a phantom of the thought.


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Accantonare provvisoriamente l’idea che l’illusione sia lo stato in cui ognuno si trova quando fa esperienza della sospensione dell’incredulità, o della simultanea condizione di credere e non credere, come la intende giustamente Mori1, e declinare criticamente il termine, più legato al senso comune, come la scoperta di una credenza che si rivela, in un secondo tempo, semplicemente falsa, ci consente di rintracciare i limiti della riflessione filosofico-politica contemporanea di alcuni pensatori che in questi ultimi decenni hanno cercato di cogliere la novità politica come emergere dell’emancipazione. In particolare, benché le riflessioni di Alain Badiou e Jacques Rancière si dotino di vocabolari diversi, legati a prospettive filosofiche distinte, il pensiero politico dei due filosofi ruota attorno all’immagine della creazione politica; ed è importante, in questa sede, rintracciare dove e perché, pur avvicinandosi a questa idea, essi non riescano a coglierla con chiarezza. Ciò che risulta decisivo, comunque, è che le idee filosofico-politiche di entrambi confermano la presenza dell’illusione nella nostra vita e nella nostra storia. Nel loro caso la intenderemo come quella realtà che, pur continuando ad essere diversa dall’inganno e dall’autoinganno, si rivela tale contestualmente, solo grazie all’argomentazione e alla dimostrazione, ovvero a posteriori e attraverso una riflessione-analisi critica.

Il problema implicito principale, che impedisce loro di tematizzare la creazione politica come tale, è legato al modo in cui essi si rapportano alla “sostanza creativa” dell’emergere della politica. Vi si avvicinano anche grazie al tentativo di superare la visione moderna del filosofo politico (in cui si subordina l’affermazione di una propria verità politica ad una verità più profonda, di tipo ontologico), il che permette loro di cogliere la realtà di una politica intesa come rivoluzione in modo autonomo dalle teoresi filosofiche, e di legarla, in ultima istanza, ad una pratica dell’eguaglianza emancipatrice.

Per Badiou la politica, infatti, è una procedura di verità, l’unica che prende una forma generica, cioè che l’evento è una realtà ontologicamente collettiva, e anche se ha bisogno della filosofia per prendere coscienza della propria natura processuale, solo con la politica si può affermare che il pensiero è qualcosa di universale. Secondo il neoplatonismo antiplatonico di Badiou2, l’infinito viene messo al primo posto solo nella verità politica, dove prende la forma del principio egualitario, perché la scelta sul possibile equivale allo stesso processo politico. Per questo la politica può essere pensata solo a partire da se stessa, ed è un processo solo in mano a chi ne fa l’esperienza pratica.

Pur concordando sulla natura procedurale ed egualitaria della politica, Rancière, invece, intende la politica non in termini di verità ma di conflitto, sull’esistenza di uno spazio comune e su come esso deve costituirsi, cioè non come lotta interna ai rapporti di potere dati, ma come lotta per la costruzione del mondo comune. La pratica politica è un processo non consensuale della società con se stessa, espressione del dissenso agito che caratterizza la democrazia come modo della soggettivazione e non come forma giuridica3.

Le illusioni filosofico-politiche che queste definizioni celano bene sono rintracciabili solo se vi ci soffermiamo analiticamente, individuando due questioni problematiche ad esse trasversali: la relazione tra verità e politica, e quella relativa alla creazione del mondo comune. Come sottolinea uno dei loro più interessanti critici, Slavoj Žižek, essi sollevano, senza rispondervi, il problema della rivoluzione della società4. Ed è proprio attorno all’idea di rivoluzione che si coagulano i problemi che impediscono loro di cogliere veramente la consistenza logico-ontologica e sociale-storica della creazione politica.

Le tre questioni, verità-mondo e comune-rivoluzione, sono state ampiamente trattate anche da altri pensatori che non si sono avvicinati direttamente alla realtà e all’idea della creazione politica, benché, come Hannah Arendt, ne abbiano parlato e scritto continuamente. Anche se di solito questa viene ricordata per le sue tesi sul potere come frutto della pluralità umana, o sulle analisi delle rivoluzioni americana e francese, le sue affermazioni sui processi giuridici contro i nazisti sono un esempio da seguire circa il legame tra verità e politica: in questi processi uno strumento di giustizia, se non il principale, è stato quello della ricerca della verità. A partire da questa importante constatazione, la filosofa ci suggerisce di abbandonare l’idea che, per rendere conto delle atrocità commesse ad Auschwitz, in cui si tratta dell’analisi critica di un fenomeno caotico difficile da afferrare, la verità debba sempre essere considerata come generale. Per la Arendt bisogna, invece, assumere che ricercare la verità in questi contesti ci consente di arrivare solo ad affermarne dei momenti specifici, ossia di giungere solo a momenti di verità5. Inoltre, in più di un’occasione nella sua riflessione sugli orrori nazisti, la Arendt sottolinea anche l’importanza di difendere fatti ed eventi davanti all’oblio, ovvero la necessità di lottare contro la rimozione della realtà. Come per Badiou e Rancière, anche per la Arendt non è possibile prescindere dalle categorie di verità e realtà, per rendere conto della trasformazione politica, poiché costituiscono i pilastri del giudizio politico. Grazie alla Arendt possiamo quindi chiederci in che modo l’intreccio tra verità e politica si cela dietro all’idea di rivoluzione. Dobbiamo, anche e soprattutto, farci una domanda di tipo più generale: in che modo verità e politica s’intrecciano tra loro dato che la politica si dovrebbe caratterizzare come il regno della doxa? In che senso si può parlare di verità nel movimento sociale-storico a cui diamo il nome di politica?

Un’analoga questione si apre se consideriamo le riflessioni di Pierre Clastres sulla consapevolezza, delle società senza Stato relative alla necessità di dotarsi di un potere politico, per affrontare la vita comune, o dell’esistenza del politico tout court, e dell’esigenza di subordinarlo al volere collettivo. In queste società, infatti, l’esercizio del potere sociale, il ruolo del politico come spazio reale del potere comune, rimanda all’idea che il potere collettivo non possa essere separato, se si vuole mantenere una reciprocità tra potere politico e insieme della collettività: il capo villaggio deve essere al servizio della società6.

Se siamo d’accordo con Clastres, e consideriamo, come chi scrive, che il politico sia inestirpabile da qualsiasi collettività umana, ovvero che ci sarà sempre un potere collettivo che verrà esercitato su tutta la collettività, allora dobbiamo domandarci: nella creazione politica qual è il volto del politico? In che modo, in questo momento di trasformazione sociale radicale, il potere collettivo costruisce, sostiene, difende e cambia il mondo comune, la collettività nel suo complesso?

Tra l’altro, unendo i due ordini di questioni appena sollevate, e ricordando la lezione di Furet sulla rivoluzione francese, che sostiene che il messaggio segreto della rivoluzione è il fatto che la politica democratica sia stata eretta ad arbitro del destino dell’essere umano e dei popoli, costruendo, così, un altro mondo della socialità politica, in cui la società si è aperta un’altra possibilità di esercitare il potere a spese dello Stato7, siamo in grado anche di porre altre domande decisive per orientarci nella riflessione critica delle idee dei due pensatori in questione: la creazione politica è una rivoluzione? O è un nuovo modo di cogliere la rivoluzione? E, in questo caso, qual è il legame, se di questo si tratta, tra creazione politica e rivoluzione?

Il nulla politico

Alla fine del percorso critico tutte queste questioni ci consentiranno di arrivare a individuare le illusioni che si celano dietro l’apparato concettuale di Badiou e Rancière, nel loro pregevole tentativo di delineare il movimento dell’emancipazione politica come processo rivoluzionario. Per farlo seguiremo anche la critica che Žižek muove ai due filosofi, non solo perché condivide con loro una prospettiva post-marxista, che problematizza la realtà della creazione di novità e della rottura politica con il dominio istituito, ma anche, come già accennato, perché ne mette radicalmente in questione la validità, sulla base dell’idea, condivisibile, che nessuno dei due impianti concettuali permette loro fino in fondo di parlare con coerenza di emancipazione politica come di un processo rivoluzionario compiuto.

Inoltre, farò riferimento anche a quanto avvenuto in Brasile durante il secolo scorso, quando un movimento democratico e popolare nato sulle ceneri dei movimenti sociali precedenti, si sviluppa in modo tale da spingere il Regime all’autodissoluzione e aprendo nella società una nuova possibilità per pensare e volere l’alternativa di una società autonoma.

 

Badiou e il vuoto ontologico

 

Da quando la scienza contemporanea ha cominciato (o ricominciato?) a considerare nelle sue analisi e teorie, il “caos”, il “nulla” o il “vuoto”, ossia l’indeterminazione dei fenomeni spazio-temporali, essa si è aperta ad una pratica che non è stata più solo l’espressione di una ricerca di leggi atemporali o della maniera migliore per descrivere la realtà, bensì anche un’attività che ha preso seriamente in considerazione l’idea di evento, così da pensare l’emergere della novità all’interno della teorizzazione come una strada obbligata per rendere conto dei fenomeni, includendo, per esempio, le nozioni di probabilità e di irreversibilità tra le leggi di natura8.

Riferendosi esplicitamente a questo movimento del pensiero, prima Castoriadis e poi Badiou, ripensano la filosofia e la filosofia politica, cercando di rinnovarle.

Nel caso di Badiou, ci troviamo davanti al tentativo mistico di immaginare il nulla e di trasporre su un piano metafisico (chiamato “ontologia”) le teorie matematiche contemporanee che contemplano l’indeterminazione di fondo dell’esistenza, ovvero riformulando la teoria del vuoto di derivazione greca (presente almeno sin da Democrito, con la sua teoria atomista), a partire da un’elaborazione che, pur appoggiandosi sulla matematica, in realtà compie una sintesi di antiche idee religiose cristiane, ebraiche, induiste e buddiste. L’idea che l’Universo sia stato creato dal nulla è quasi esclusivamente d’origine cristiana, mentre l’ebraismo ha pensato il vuoto come quello stato a partire dal quale il mondo emerge dal movimento e dalla parola di Dio. Gli antichi greci, invece, hanno considerato il nulla come qualcosa, e la tradizione indiana e buddista consideravano il non-essere sullo stesso piano dell’essere, come qualcosa da ricercare attivamente per arrivare al nirvana, o all’unità con il cosmo. Due termini antichi sono rivelatori di come Badiou intende l’ontologia del nulla alla base della sua idea di evento, che, a sua volta, è centrale per comprendere perché questo filosofo parla di politica come emancipazione/creazione/rivoluzione. L’idea indiana di Sunya, che indica lo zero come numero, e significa letteralmente “vuoto”, racchiude in sé le nozioni di spazio, vacuità, insignificanza, non essere, assenza e mancanza di valore; e quella di Bindu, che letteralmente indica il punto, o meglio un punto che simbolizza l’essenza dell’Universo prima che si materializzasse in un mondo solido di apparenze esperibili, ovvero l’Universo informe a partire da cui possono crearsi tutte le cose. A questo potenziale creativo ci si riferiva con una semplice associazione di idee: da un punto possono nascere molteplici linee, ed è perciò l’origine dello spazio tridimensionale, proprio della realtà percepita dai nostri sensi. Il Bindu era il Nulla da cui tutto può scaturire9. Anche se Badiou, quando forgia i suoi concetti filosofici, ha di sicuro in mente la tradizione cristiana, che fa propria l’immagine di una creazione a partire dal nulla, tuttavia ritorna ad affermare, sotto una nuova veste, il Bindu indiano più che la fede cristiana, poiché considera il Nulla come fonte di ogni creazione, avvicinandolo all’idea numerica di 0, e considerandolo come qualcosa di evanescente a cui dare un’accezione positiva, come a volte avviene nella lingua francese quando si usa il termine “rien”10. Come se il nulla fosse ancora qualcosa di esistente, benché incredibilmente minimo ed impercettibile.

Ma andiamo per ordine.

Per rendere conto della realtà del soggetto, Badiou forgia il concetto ontologico di termine evanescente, punto di riferimento per tutta la sua successiva riflessione attorno alle idee di essere e nulla. Tale termine corrisponde al niente, da cui ogni consistenza proviene, ed è dotato della forza di esercitare la causalità della mancanza, una “causa assente” che corrisponde ad una “legge dell’assenza”, che non appartiene al tutto, ad una totalità che non potrà mai essere integrale, né solo materiale, ma che va descritta come l’impossibilità da dove emerge la possibilità d’essere del tutto. In questo quadro, il filosofo francese non sottolinea solo l’importanza decisiva di questa legge, ma anche la potenza dell’atto di nominare, del pronunciare parole, la quale sarebbe integrale, assoluta, sopratutto se pensata in riferimento al termine evanescente. Per Badiou esistono necessariamente innumerevoli insiemi non costruibili, un inesistente proprio del molteplice iniziale, e una logica dell’eccesso, che impone di ipotizzare una molteplicità elementare che induce un superamento d’essa stessa, e un universo che non è un tutto11. Ecco perché può affermare sinteticamente che: «Il reale è dunque l’evanescenza rappresentata nell’Uno che fa essere», e, dal punto di vista del processo di soggettivazione, che «ogni soggetto è all’incrocio d’una mancanza da essere e d’una distruzione, d’una ripetizione e d’una interruzione, d’un posizionamento e di un eccesso»12. Coerentemente, egli afferma che si può costruire una teoria del soggetto solo quando si arriva a pensare la “legge strutturale del posto vuoto” come l’emergere puntuale dell’eccesso, ossia che la soggettivazione è l’anticipazione che trova la propria struttura in quello che Badiou chiama “il posto vuoto”. I movimenti di massa per lui sono, non a caso, i termini evanescenti della cosa storica, mentre il proletariato viene considerato il nome del nuovo soggetto del nostro tempo13.

È sopratutto nella fondazione teorica della sua ontologica, che potremmo ribattezzare come “metafisica del vuoto” per la centralità che proprio il vuoto assume nell’impianto concettuale, che Badiou organizza un ragionamento che affonda le radici nell’idea di vuoto come nulla-niente-inconsistente, avvicinandosi alla sintesi delle antiche prospettive religiose sul vuoto, sopra ricordate, e al concetto induista di Bindu: il vuoto non si può mettere in dubbio attraverso una dimostrazione empirica, poiché è l’impresentabile di qualsiasi presentazione della struttura della realtà, è la sua essenza, ad essa anteriore, o, più semplicemente, la posizione originaria, che Badiou chiama anche multiplo di niente, e che non consente la formulazione di nessuna dottrina della storicità propriamente detta14. Per questo filosofo a livello ontologico è naturale ciò che è fondato sul solo vuoto, e l’inconsistenza è la legge dell’essere e dell’ontologia, perché al vuoto nulla appartiene, neanche il vuoto15. Per lui, l’essere del vuoto si sottrae alla dialettica Uno/molteplice, che struttura invece la presentazione di quanto è afferrabile nella realtà, ovvero la molteplicità molteplice e l’evento. Il vuoto s’include nel tutto ma non vi può essere ridotto, anzi, al contrario, è il vuoto che comprende il tutto, nonostante sia allo stesso tempo un’erranza latente dell’essere della presentazione della realtà fenomenica: ogni realtà implica il nulla della sua molteplicità, intesa come tutto. Per questa stessa ragione egli delinea il nulla come fosse ovunque presentato nella sua mancanza, come il punto d’essere impresentabile d’ogni presentazione16. Colloca il vuoto nel limite sottile tra l’essere del non-essere e il non essere dell’essere.

Il paradosso di una mancanza originaria che manca a se stessa, e di un vuoto impresentabile di cui però possiamo parlare, e di cui Badiou può addirittura sviscerare l’ontologia, viene “risolto” rielaborando la potenza dell’atto del nominare a cui il francese ha già fatto riferimento nella sua teoria del soggetto: il puro atto del nominare il vuoto, che per Badiou esige che il suo referente sia unico, il nome che presenta l’essere nella sua mancanza, il suo puro nome proprio, è il segno esistente dell’impresentabile. In poche parole, l’impresentabile è presentato solo grazie al nome che gli diamo. Tale nome Badiou lo ricava dalla storia de “l’avvenimento ontologico d’una matematica dell’infinito”, e prende la forma di un assioma di fondo: il nome del vuoto è l’infinito stesso, ragione interna del finito stesso. Per dirla con altre parole: secondo il filosofo francese siamo interamente attraversati e circondati dall’onnipresenza dell’infinito nella nostra vita finita, e il processo della soggettivazione altro non è che l’emergere, l’occorrenza, del vuoto, dell’infinito, nella nostra realtà apparentemente stabile e chiusa che si presenta sotto forma di unità molteplice. Ecco perché egli può affermare che il Vuoto è anteriore al processo logico in cui siamo soliti usare la logica degli insiemi, e l’atto di nominare l’evento che nasce dal vuoto, e che prende la forma di un molteplice, è già di per sé una decisione sull’appartenenza alla situazione reale che si sta vivendo17.

Il paradosso, però, si ripropone sotto un altro aspetto e ci permette di vedere dove l’impianto logico-ontologico badiousiano non tiene: perché postulare il vuoto per rendere conto del molteplice? Perché nominare infinito ciò che Badiou chiama comunque Vuoto? L’infinito non è un altro nome di quanto è molteplice? Perché non parlare direttamente di un molteplice infinito senza ricorrere all’idea di vuoto? La ragione sta, molto probabilmente, nella necessità di fuggire da una fondazione ontologica ancora legata all’idea di unità e di determinazione, così da rendere conto della novità dell’evento, ovvero la carica creativa di ciò di cui facciamo esperienza. È l’arbitrarietà del ragionamento assiomatico il primo indizio dell’illusione, perché l’impianto metafisico matematico a cui ricorre questo filosofo per fondare la realtà e la novità, appare, seguendo Wittgenstein, come una falsa idea, un’immagine slegata da qualsiasi possibile argomentazione che si appoggi sulla verifica o sulla dimostrazione. Seguendo lo stesso Badiou, che in uno dei suoi ragionamenti si richiama al vuoto, definendolo fantasma dell’inconsistenza, ne abbiamo un’altra conferma: un fantasma è, infatti, l’informe presenza senza corpo di un’immagine mentale a cui sarebbe poco saggio appaltare la fondazione della novità e dell’essere. Inoltre, come suggerisce Žižek, questo fantasma altro non è che la traccia della fede reale di Badiou, che si celebrerebbe, per chi scrive, nella nascita della novità, intesa come evento inspiegabile, mentre per Žižek risiederebbe nell’idea badiousiana della rivelazione della verità dell’evento.

Ha ragione quest’ultimo quando afferma che nella filosofia del francese la verità infinita è “eterna” e si cerca di affermare una politica della verità dalla valenza universale, ossia che, da un lato, la verità-evento di Badiou va considerata come un vero e proprio miracolo, poiché è semplicemente e radicalmente un nuovo inizio che si avvicina alla rivelazione cristiana, essendo anche, un lampo proveniente da un’altra dimensione che trascende la positività dell’Essere, mentre, dall’altro, la verità come fattore politico ripropone una posizione teologico-politica, perché implica immediatamente un impegno attivo da parte del soggetto che realizza l’evento e di quello che ne segue la verità18. Tuttavia, non solo la posizione di Badiou andrebbe semmai definita come un neopitagorismo metafisico, ma Žižek non coglie, o non vuole cogliere realmente, il senso che l’idea di vuoto ha per Badiou: non siamo di fronte a un evento totalmente positivo e ad un vuoto completamente sganciato dalla positività dell’Essere, anzi, come ho appena chiarito, non esiste uno scarto profondo tra essere ed evento in Badiou, ma l’essere è anche generato dall’evento, legato, a sua volta, al fantasma del vuoto. Ma su questo torneremo19. Ora è sufficiente dire che tale errore interpretativo porta Žižek a rimproverare a Badiou di sostenere una posizione quasi trascendentale, in cui avviene una continua tensione tra la necessità di una situazione globale e l’emergenza contingente della verità, tra il pieno dell’Essere e il vuoto della rottura dell’evento. Lo stesso Badiou in Logiques des mondes, dove affianca una riflessione sulla logica che regge l’impianto ontologico presentato in L’être et l’événement, risponde allo sloveno dichiarando di essere uscito da una concezione hegeliana dell’assoluto, dove il mondo è lo sviluppo della sua propria infinità, in cui si costruisce l’idea stessa di questo infinito, e, pur continuando ad accettare che l’Assoluto è infinità, non subordina il suo concetto a questo assoluto ma al vuoto, come il molteplice inconsistente che lo attraversa. Per la stessa ragione può solo pensare che la negazione sia qualcosa di derivato rispetto alle operazioni trascendentali che si mettono in moto a partire dal vuoto, molteplice privo di elementi che lo costituiscono, e che l’essere umano, come animale svuotato, non può che desiderarla20.

Se volessimo inserire in questo orizzonte filosofico la realtà della creazione umana, diventerebbe alquanto arduo accettare che la novità politica scaturisca da un’idea di vuoto reificato, tra l’altro reso indiscutibile dall’approccio metafisico che lo contempla.

 

Rancière e il mondo comune

 

Anche nel caso di Rancière ci troviamo di fronte ad un pensiero che contempla il vuoto- l’inconsistente-il molteplice anonimo come forza creativa e, più di quanto non avvenga per Badiou, essa assume una veste direttamente politica. Più che tracciare differenze e analogie tra i due pensatori, in questa sede risulta decisivo comprendere perché anche il primo non riesca ad arrivare a formulare una prospettiva politica che colga realmente la realtà della creazione politica e pensarla come rivoluzione dello stato di cose esistente.

La politica per Rancière non si fonda sulla logica del rapporto di forza che segna la lotta per prendere o esercitare il potere, per appropriarsi del politico, ma riposa su una triplice dimensione (soggetto, logica, forma collettiva) che caratterizza l’aspetto emancipatore del conflitto con cui essa segna la società, cambiando la natura del politico fondato sulla comunità, in modo da democratizzare il politico in quanto tale. «L’inter dell’interesse politico traduce un’interruzione, un intervallo. La comunità politica è una comunità di interruzioni, di fratture, puntuali e locali, attraverso cui la logica egualitaria va a separare la comunità poliziesca da se stessa. […]. La politica, nel suo carattere specifico, è cosa rara. È sempre locale e occasionale».21. Il soggetto politico di Rancière è un attore intermittente, che crea momenti, luoghi e occasioni dove sviscera argomenti e dimostrazioni per mettere in rapporto ciò che non è in rapporto, ovvero dando luogo a chi non ha luogo nella formazione del mondo comune, la parte dei senza-parte. Il demos è il nome del trattamento di un torto verso i senza-parte, che si scaglia contro l’ordine dominante che ha distribuito e gerarchizzato i posti e le funzioni sociali. La politica è una modalità di questo tipo di soggettivazione, che rifiuta la legge che perpetua la comunità e lo Stato. Parteciparvi significa entrare in un processo di trasformazione collettiva, portato dal soggetto imprevedibile del demos22. La politica è espressione di un dissenso, agito come modo della soggettivazione, tramite cui esistono dei soggetti sociali che esercitano il potere paradossale di chi non ha titolo per esercitare il potere. Per Rancière, il processo di soggettivazione politica disarticola ogni tendenza moderna dello Stato, che assume la sfera pubblica per depoliticizzarla, dimostrando di essere alla base di qualsiasi ordinamento sociale che lo stato oligarchico o autoritario dovrà necessariamente rimuovere per attestare il proprio potere di privatizzazione sull’intera comunità: la democrazia espressa dal soggetto politico è l’ingovernabile su cui ogni governo deve erigere il proprio potere. Il demos è una potenza di divisione che umanizza il politico fondato sulla comunità, una potenza del molteplice anonimo, responsabile del disordine della comunità e del fatto di dissotterrare il dissidio primordiale su cui qualsiasi comunità si fonda (la lotta attorno alla diseguaglianza sociale e per l’eguaglianza reale).

Il torto attraverso cui la politica prende forma non è affatto un errore che esige un rimedio: è piuttosto l’introduzione di un incommensurabile nel cuore della distribuzione dei corpi dotati di parola. Questo incommensurabile non vanifica soltanto l’uguaglianza tra profitti e perdite. Manda in rovina, fin da principio, il progetto della città ordinata secondo la proporzione del kosmos, e fondata sull’arkè della comunità […]. Vi è politica perché coloro che non hanno diritto di essere contati come esseri parlanti si fanno comunque contare, e istituiscono una comunità mettendo in comune il torto, lo scontro stesso .[…] Non si tratta mai semplicemente di opporre un modello di società ad un altro. Ciò che si oppone dall’inizio, sono due maniere di contare la comunità, di dare una figura alla potenza comune […]. La politica è ciò che interrompe il gioco delle identità sociologiche.23

Il conflitto sull’esistenza comune, sullo spazio comune della comunità e su come deve costituirsi, ha una logica ben precisa: è una lotta e un’argomentazione sul mondo comune, su ciò che deve essere riconosciuto come giusto o ingiusto nella costruzione del mondo comune. Tale dinamica è già, in sé e per sé, espressione dell’interruzione del dominio istituito dalla diseguaglianza dell’ordine della comunità da parte del lavoro, che la parte dei senza parte fa attraverso il lavoro dell’eguaglianza, che Rancière considera il modo per uscire dallo stato di minorità, perciò il torto deve essere pensato come l’agente che costituisce la comunità politica, comunità divisa in base al litigio sul calcolo delle sue parti24. La logica politica, interrompendo il dominio, istituisce la collettività sociale come una comunità fondata sulla lotta per la giustizia: non si tratta più di organizzare e gestire gli interessi generali, ma di concepire un’azione comune sul destino comune e di farlo in nome di un torto subito e di una giustizia da ristabilire in nome dell’eguaglianza25.

Questa nuova comunità, fondata su un’opposizione costitutiva, altro non è che la forma della soggettivazione democratica, in cui si rinnovano continuamente le forme dell’inclusione e dell’identità, una comunità inconsistente, segnata da un perpetuo lavoro della creazione dell’eguaglianza, quando l’eguaglianza reciproca si traduce in effettiva libertà del popolo. Ciò non è altro che un modo di attestare che gli affari comuni altro non sono, nei fatti, modi di configurare o riconfigurare una comunità, di definire e di designare il ruolo di coloro che vengono inclusi e di quelli che ne vengono esclusi. La democrazia si configura, così, non sulla base di una struttura giuridica ma grazie alla pratica effettiva e conflittuale dell’eguaglianza reciproca e anonima, che si realizza solo in modo universale.

La democrazia non è il semplice regno della legge comune iscritta nel testo giuridico-politico né il regno plurale delle passioni. Essa è prima di tutto il luogo di tutti questi luoghi la cui fattibilità si presta alla contingenza e alla risoluzione della traccia egualitaria […]. Il processo democratico è il processo di questa rimessa in discussione perpetua, di questa invenzione delle forme di soggettivazione e del caso di verifica che contrarierebbe la perpetua privatizzazione della vita pubblica […]. La società eguale è solo l’insieme delle relazioni che si tracciano qui e adesso attraverso degli atti singolari e precari. La democrazia non è fondata in nessuna natura delle cose o garantita da alcuna forma istituzionale, né portata da nessuna necessità storica, ma confinata alla costanza dei suoi propri atti. È ciò che produce paura e odio in chi è abituato ad esercitare il magistero del pensiero. Ma in chi sa condividere, con chiunque, il potere eguale dell’intelligenza, essa può suscitare all’inverso coraggio, dunque gioia.26

Il vuoto e l’inconsistenza dell’emancipazione portata dalla soggettivazione politica di Rancière è l’istanza grazie a cui siamo in grado di creare liberamente un mondo comune fondato sulla pratica reciproca dell’eguaglianza. Nuove forme d’inclusione e identità nascono sulla base di un lavoro continuo di partecipazione conflittuale alla realizzazione di quanto è condiviso. Questa prospettiva si avvicina molto alla creazione politica, sia sul piano della realizzazione continua del mondo comune, sia per l’istanza d’emancipazione incarnata dalla politica, e ciò risulta più chiaro se pensiamo che questa comunità inconsistente altro non è che una lotta per affermare che quanto è comune non va mai inteso come una naturalizzazione di quanto costituisce il politico (o la politica, nei termini di Rancière).

Tuttavia un problema attanaglia tale posizione: facendo sì che il soggetto, la logica e la forma della politica di Rancière, se avvicinati tra loro in modo critico, producono non solo dubbi alla consistenza argomentativa, ma almeno tre obiezioni decisive che ne minano la consistenza.

Il problema di fondo della prospettiva in questione è legato alla difficile armonizzazione tra la logica e la natura del soggetto politico: come abbiamo visto, la lotta della soggettivazione politica contro la comunità è continua, mentre la sua logica, ossia la legge del demos, si traduce nel bisogno che la parte dei senza parte ha di opporsi e lottare contro la logica della comunità, contro la naturalizzazione della diseguaglianza, imposta dall’ordine dato. Il che significa che essa deve affermare la propria inconsistenza contro la consistenza dell’arkè politico dominante. In altre parole la logica del conflitto si traduce in un disaccordo con il dominio dato, che non può essere superato ma, anzi, che va pensato come necessario alla dialettica del politico.

Inoltre, tale logica cozza con il tipo di conflitto, che si genera e che risulta intermittente, presente lungo tutta la nostra storia, dall’antica Grecia ad oggi, ma che lo stesso Rancière considera straordinario. Non è difficile quindi sottolineare che, mentre questa logica politica ha una natura dialettica, la realtà della soggettivazione politica è, invece, di natura creativa e tutta legata alla capacità o alla possibilità che si realizzi un vero conflitto tra la parte dei senza parte e chi governa, in particolare con quella che Rancière chiama la polizia, che incarna l’istanza di autoconservazione dell’ordine dato27.

Partendo da queste due considerazioni siamo costretti a pensare che:

1) esiste sempre un prevalere della comunità sulla logica del demos, a cui quest’ultima si deve sempre riferire per poter esistere. Ossia, il dominio della diseguaglianza non potrà mai essere superato del tutto;

2) proprio per questo, dobbiamo pensare al politico come ad una realtà che si caratterizza, come tale, in base al conflitto in questione, facendo rientrare dalla finestra la naturalizzazione che si era cacciata dalla porta. Ossia, il politico ha una sua forma definita e definitiva e non c’è creazione politica al di fuori di tale dialettica.

Ecco perché la prima obiezione che va mossa a Rancière può essere rivolta a chiunque si appropri dell’eredità di Carl Schmitt sulla natura del politico, anche se questo la reinterpreta in un’ottica democratica: l’opposizione costitutiva del politico non consente realmente di contemplare una creazione politica come superamento del dominio e della società istituita grazie alla realizzazione di un progetto collettivo di altra società. Benché il politico di Rancière sia strutturato attorno ad una prassi d’emancipazione egualitaria, che avversa tanto il decisionismo giuridico, quanto l’autoritarismo statale che regge la proposta schmittiana, l’opposizione tra amico e nemico alla base dell’idea di politico di Schmitt viene “rielaborata”, avanzando implicitamente l’idea che la sovranità si trovi nella norma pre-giuridica della lotta per la creazione di un nuovo mondo comune, proprio in base all’eguaglianza reciproca, che costituisce la legge del demos28.

Per la stessa ragione, la scelta del filosofo francese è speculare, ma opposta a chi, come Andreas Kalyvas, accoglie l’argomento schmittiano della partecipazione civica al momento eccezionale della creazione costituzionale, rimodulando l’idea di stato d’eccezione, nella prospettiva di una teoria del potere, e sovrapponendola all’idea castoriadisiana di autoistituzione esplicita e lucida della società29. Ma se Kalyvas coglie che la bontà teorica del pensatore autoritario risieda nell’aver sottolineato l’esistenza di un momento creativo in cui si afferma ogni volta un potere costituente, Rancière rimane nell’impossibilità d’includere, nell’affermazione del momento straordinario del disaccordo portato dal demos l’affermazione piena di un potere popolare costituente.

Ecco perché Žižek può rimproverare anche a questo filosofo politico, come a Badiou, di non aver colto e contemplato nella sua proposta filosofico-politica il supplemento osceno denegato del potere, ovvero di non aver incluso, nell’idea di uno spazio pubblico emancipato, tale supplemento osceno, così da superare l’approccio contraddittorio che gli impedisce di prospettare un’emancipazione politica in grado di prendere il potere e di esercitarlo30. Così facendo, il filosofo sloveno ci ricorda un terzo problema legato alla frizione tra soggetto e logica politica in Rancière: poiché non è contemplato un processo di affermazione di un potere popolare costituente, né un processo politico portatore di un progetto di altra società, sulla base di quanto detto sino ad ora, ne consegue che Rancière non può intendere realmente il momento dell’affermazione di un’altra comunità come un processo di istituzionalizzazione. Per questo, non fa mai riferimento a nessun tipo specifico d’istituzione democratica in grado di solidificare la prassi dell’eguaglianza, che resta pura pratica, astratta, senza alcuna sponda istituzionale capace di farci individuare in cosa consista la proposta di Rancière, dal punto di vista politico, così da poterla criticare con cognizione di causa. Se non la pensasse così, non si capisce perché quest’ultimo faccia del tutto per mantenersi su un livello argomentativo ambiguo, che ci porta a pensare che la prassi si sviluppi a prescindere dalle istituzioni concrete. Se fosse così, ci troveremmo chiaramente di fronte ad un’altra illusione.

 

Il caso sociale-storico del movimento democratico brasiliano

 

Per capire cosa e come parlare di creazione politica dobbiamo, al contrario di quanto facciano Badiou e Rancière, riferirci ad un processo sociale-storico specifico. Per chiarire meglio di cosa si tratta farò riferimento, come accennato, ad un particolare tentativo di creazione politica avvenuta in Brasile tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, quando si costituisce un fronte democratico popolare che rivendica la fine della dittatura e la nascita di una nuova democrazia.

Il tessuto civile di questo fronte di lotta è una rete composita di nuova creatività sociale: il boom demografico e l’espansione delle città vede la nascita dei movimenti urbani che rivendicano il miglioramento delle condizioni di vita (energia elettrica, trasporto pubblico, servizi sanitari, scuole, etc), delle associazioni di quartiere, che si aggiungono al movimento delle donne, alle organizzazioni cristiane, alla associazione degli avvocati (Oab) e di altre professioni, come anche agli imprenditori politicizzati dell’Abi (Associazione imprenditori brasiliani), al Mab (Movimento dos atingidos por Barragens) e al riemergere del movimento contadino e dei sindacati rurali appoggiati dalle Cpt. Dalla metà degli anni ’70 tutti si trovano uniti da un esplicito orizzonte politico: la lotta contro lo Stato autoritario e non più semplicemente la denuncia della sua natura violenta e totalitaria, come era successo agli inizi del decennio grazie alla Chiesa e ai suoi movimenti31.

A questo va aggiunto il mutamento del partito dell’opposizione legalmente accettata dal regime militare, l’Mdb, che comincia a fare una reale opposizione al regime dopo la grande repressione autoritaria dei movimenti di opposizione civile e armata avviata tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Cambiamento che viene percepito dalla società, che, infatti, progressivamente lo comincia ad appoggiare massicciamente, spostando di conseguenza i rapporti di forza parlamentari a favore dell’opposizione. Nonostante l’allora presidente, il generale Geisel, faccia del tutto per minare il potere elettorale crescente del Mdb, quest’ultimo vince le elezioni municipali del ’78 e prepara la vincente campagna elettorale del ’79, facendo convergere a sé tutti i più importanti movimenti popolari e ottenendo così un potere di negoziazione e pressione nei confronti del governo militare davvero importante. Il voto plebiscitario contro i militari si ripete anche successivamente, portando larga parte dell’opinione pubblica e dell’establishment militare ad ipotizzare seriamente l’apertura politica, poi adottata da Figueredo. Ciò perché viene meno, nei fatti, il tradizionale controllo dei partiti da parte dello Stato e sopratutto la strategia di liberalizzazione controllata con cui Geisel cercava di acquisire una nuova legittimità politica32. L’ipotesi dell’apertura politica, imprevista per i militari, è di certo anche il risultato degli scioperi sindacali del ’78-’79 (sopratutto dei metalmeccanici, ma anche espressione del mondo della scuola), così come del formarsi di nuove organizzazioni sindacali orizzontali in molte città dello Stato, che minano profondamente il già debole consenso popolare dei miliari al potere e fanno della questione operaia un problema nazionale di primo piano33. È così che si arriva all’abolizione dell’AI5 nel ’78, che aveva istituito un regime semi-totalitario, e alla legge sull’amnistia del ’79. Questo quadro generale di sconfitte del Regime e di vittorie dei movimenti sociali e del Mdb, fanno rinascere la speranza popolare nel cambiamento di società e la democrazia viene percepita non più come una parola retorica e ideologica usata dai militari, ma come un riferimento ad un orizzonte di convivenza da ristabilire grazie alla partecipazione di tutti alla politica34.

Il ’79 resta nella memoria del Paese come l’anno della vittoria della campagna per l’amnistia, che restituisce alla vita civile un numero importante di attivisti politici, ma è anche l’anno del grandissimo sciopero sindacale che mette paura all’élite militare. Più di 3 milioni di lavoratori e di 113 categorie durante l’arco del ’79 decidono di scioperare, e non solo dove i sindacati di opposizione hanno la maggioranza. Le rivendicazioni non sono più solo salariali ma cominciano a diffondersi richieste relative alla rappresentanza sindacale e alla stabilità sul posto di lavoro, tanto che i sindacati rigettano la proposta di riforma sindacale avanzata dal governo quell’anno, in cui comunque si registrano notevoli concessioni sopratutto sul piano salariale35.

Questi due avvenimenti costituiscono la forza principale che impone il passaggio dalla liberalizzazione del regime militare all’apertura di un processo di ritorno alla Repubblica democratica, che il generale Figueredo assume come inevitabile solo dopo l’8236.

Come è stato sottolineato da alcuni studiosi, il movimento sociale di questo periodo storico ricorda ampiamente i movimenti sociali che sono nati dopo il 194837, tuttavia il movimento che sta crescendo alla fine degli anni ’70 in Brasile è profondamente diverso, non solo perché partecipa attivamente alla “accelerazione” del processo di apertura, portando il Regime dopo l’82 ad assumere esplicitamente la prospettiva della transizione allo Stato liberal-democratico, ma perché ruota attorno a ciò che la dittatura cercava di eliminare alla radice, ossia il progetto politico di una nuova società e l’apertura di una nuova vita pubblica incentrata sulla democrazia e la partecipazione popolare al potere sociale. Tra il ’79 e l’81, gli ultimi tentativi di conservare la legittimità popolare sufficiente a mantenere in piedi il Regime guidato da Figuereido non sono più neanche capaci di realizzare il processo di apertura controllato che doveva portare alla stabilizzazione del Regime militare pensata da Geisel. Le concessioni fatte dopo il ’78, tanto sul piano economico (i miglioramenti delle condizioni di lavoro e sindacali) quanto sul piano politico (il ritorno al multipartidismo e alle elezioni libere da censure), non solo mettono in crisi il sistema corporativo ma rafforzano il movimento popolare che reclama una nuova democrazia. Anche se le minacce e la violenza ancora sono presenti nella società brasiliana, dopo il ritorno dei militanti comunisti alla vita pubblica, grazie alla legge d’amnistia, si diffonde un clima generale di fiducia nella trasformazione del Paese e una grande aspettativa circa il ritorno alla democrazia.

Tra il ’78 e l’85 in Brasile assistiamo al proliferare di questo tipo di soggetti sociali, uniti dalla duplice tendenza democratica: tale spinta li porta, da un lato, a chiedere una nuova democrazia capace di accogliere le rivendicazioni di nuovi diritti di cittadinanza e di migliorare le condizioni di vita collettive, e, dall’altro, a democratizzare il processo di presa di decisione collettiva, ad accettare e proporre che la legittimità politica si fondi sulla partecipazione popolare al potere collettivo.

Per tutti questi attori, la lotta negli anni ’80 si sposta dal piano sociale al piano politico, segnalando la nascita di un movimento costituito da diversi movimenti, di diversa natura e distinti obiettivi, ma uniti dalla richiesta di un’altra società e di un altro sistema di potere pubblico38.

Insomma, l’insieme di questi movimenti popolari e di attori della società civile gioca un ruolo determinante nel passaggio che trasforma un’apertura tutta tesa alla ricerca di una nuova legittimazione del Regime militare, in una transizione che porta alla nascita di una nuova forma di democrazia.

L’aumento esponenziale e costante della capacità di autonomia delle classi popolari rispetto al potere e al controllo dello Stato militare non solo materializza lo scontento sociale ma pone in primo piano la partecipazione alla cosa pubblica come nuovo ethos sociale, obiettivo ultimo e valore in sé: la partecipazione alla libertà di critica e allo spazio pubblico è lo strumento principale di trasformazione del mondo di cui si dotano le classi popolari in questo momento, innescando un processo di apprendimento sociale dove fioriscono nuovi tipi di relazioni umane e forme di democrazia diretta. Insomma, con la pratica critica e d’opposizione al Regime autoritario sorge una nuova capacità collettiva di cambiare il potere dello spazio pubblico39.

La partecipazione a forme di organizzazione autonoma fuori o contro lo Stato minano tutta la logica e l’immaginario incentrato sulla sicurezza, che affonda le proprie radici a sua volta nella tradizione autoritaria che vuole che il popolo sia organizzato “dall’alto”40. Insieme al grande movimento sindacale, alla nascita e alla legalizzazione di nuovi partiti d’opposizione, il processo di avvicinamento dei diversi movimenti sociali ha ormai raggiunto un livello di incontro e di compenetrazione reciproca nell’orizzonte più generale di una nuova democrazia talmente alto che si diffonde la consapevolezza di stare vivendo non solo il momento della fine del Regime militare, ma di stare costruendo insieme un nuovo potere collettivo, dove la legittimità si basa esclusivamente sulla partecipazione comune alla nuova creazione della società.

Ciò si traduce, innanzitutto e a livello delle nuove organizzazioni sociali, con la nascita del Pt (Partido dos trabalhadores) nel 1980, con la fioritura di molte ongs direttamente impegnate nel processo di rafforzamento del potere popolare, come Ibase (1980) e Polis (1986), con la creazione ufficiale di un sindacato democratico e anti-capitalista, nel 1983, la Cut (Central Unica dos trabalhadores), e infine nell”83 con la formazione dell’Mst (Movimonto dos Sem Terra).

Ma anche, e più in generale, sul piano della lotta per una nuova democrazia con la campagna dell”83-84 per la Diretas-Já!, (l’elezione diretta del Presidente della Repubblica), momento in cui si rende palese che i movimenti sociali e i partiti di opposizione al regime hanno costituito un progetto alternativo di società, e successivamente con l’ampio processo di discussione e proposta volto alla realizzazione della nuova carta costituzionale, tanto nella forma come nel contenuto. Forums e dibattiti pubblici sulla natura della Costituzione, sui suoi obiettivi e valori principali, così come sul ruolo della partecipazione popolare al processo, per la prima volta nella storia del Paese consento al popolo di occuparsi di questioni fino ad allora considerate di esclusiva competenza di giuristi, politici, e del governo. Con l’Assemblea Costituente nel 1987, inizia un’intensa campagna per il diritto a presentare emendamenti popolari. L’esito positivo della campagna permetterà di accogliere nella Carta emendamenti che riconoscono la partecipazione popolare come strumento necessario alla realizzazione della sovranità popolare: il movimento produce una quantità di materiale e di proposte davvero impressionante tra cui sono degni di nota quelli che chiedono l’istituzione del referendum, dell’iniziativa popolare e del veto popolare, che poi verranno assunti nel testo definitivo41.

Questo clima è espressione della ricerca generale della creazione politica. Tra le verità particolari di questo Fronte democratico, c’è anche una verità che lo trascende, che è, appunto, che esso corrisponde ad un tentativo di creazione politica, come molti ce ne sono stati nella storia.

Grazie a questo tentativo siamo in grado di vedere chiaramente l’errore di chi pensa che la creazione politica può essere concepita sulla base di un vuoto ontologico o di un’inconsistenza a livello di proposta e affermazione del potere popolare che contesta il dominio istituito.

Il Fronte democratico brasiliano di quel periodo rende evidente che la sovranità popolare e l’idea di cittadinanza sono i due perni di una questione più ampia, l’eguaglianza reale del potere politico, portata da una duplice partecipazione: da un lato la politicizzazione della collettività e, dall’altro, la nascita e la promozione di forme di democrazia diretta ai vari livelli del tessuto sociale, come quella dei consigli di fabbrica42.

Ciò viene confermato anche dal fatto che, con il ritorno alla Repubblica democratica, i processi di socializzazione politica e l’interesse per la politica crescono progressivamente in tutta la popolazione43. Il nuovo immaginario della democrazia sociale “propone” a tutta la società l’idea che la cittadinanza o è attiva o non è, ossia che essa stessa si deve considerare l’attore della creazione sociale, della trasformazione e del controllo del potere collettivo. In altre parole, il Fronte democratico dei movimenti è un processo di educazione politica in grado di introdurre il principio della partecipazione popolare nel complesso delle istituzioni dello Stato.

In una società fondata sul favore e sul comando tale educazione diffusa è, di per sé, una forma di sovversione dell’ordine istituito dai militari e, in parte, anche del paradigma liberale, visto che essa implica la capacità da parte della società di riappropriarsi del potere collettivo: si rivendica un principio democratico di base, quello di creare una nuova società a partire dall’esperienza dell’esclusione sociale, per eliminarla; inoltre, si sostituisce alle idee di un potere autoritario e di un dominio istituito, l’esigenza di un potere al servizio degli interessi e della volontà di tutto il popolo44. La legittimità sociale che i movimenti in questione hanno ottenuto da parte della popolazione non è dovuta solo al fatto che tali soggetti esprimono le ansie, i desideri e le necessità di grandi porzioni della popolazione, ma anche alla loro capacità di ridarle un potere che gli era stato sottratto, e di farlo, molte volte, solo dopo averlo democratizzato. Ciò che essi pongono all’ordine del giorno è un problema cruciale per qualsiasi società autonoma: lottano per arrivare a fare delle istituzioni collettive strumenti di partecipazione egualitaria al potere.

Tutto ciò significa che il Fronte democratico brasiliano, nato tra la fine degli anni ’70 e sviluppatosi lungo il decennio successivo, pone con radicalità e nei fatti la questione della legittimità democratica come centro propulsivo da cui costruire una società autonoma, e allo stesso tempo si mostra portatore di una circolarità creativa che ci permette di intravedere la presenza di un tentativo peculiare di creazione politica: il movimento d’implicazione reciproca tra la politicizzazione della società e l’aspirazione ad una nuova democrazia come orizzonte generale di trasformazione collettiva.

In questo, come in altri casi sociali-storici, la democrazia viene vincolata al principio di sovranità popolare attraverso i principi guida dell’eguaglianza del potere, della libertà nella partecipazione al processo normativo e della solidarietà generalizzata tra tutti i soggetti del corpo istituente. Ma, come spesso è accaduto nella storia, anche nel caso in questione, tale tentativo di creazione politica non trova il suo esito ultimo. Anche in questo caso la creazione politica è solo qualcosa a cui si aspira e che prende vita in modo frammentario, incoerente e limitato, nell’ampio Fronte popolare per una nuova democrazia, influenzando la riorganizzazione generale della società, senza, tuttavia, essere assunta dalla maggioranza della popolazione. Ma questo è un problema a cui non possiamo rispondere in questa sede.

 
La verità democratica


Anche sul piano della verità democratica incontriamo altre illusioni filosofiche, che impediscono loro di cogliere il fenomeno e la verità espressa dalla creazione politica.

Badiou ha il merito di aver rivendicato l’importanza della nozione di verità in un contesto di pensiero comunque segnato da approcci epistemologici anti-positivisti e anti-realisti largamente diffusi, e, sopratutto, di avere sottolineato la distinzione tra verità e verità della politica rispetto a chi, come il filosofo italiano Gianni Vattimo, è incapace di ritagliare con coerenza il luogo della verità e di distinguerlo da quello della politica. Tuttavia, la sua principale illusione risiede nell’aver continuato a sostenere la verità, e in particolare, la verità della politica, come qualcosa di assoluto, legando in modo peculiare l’idea di verità all’affermazione di ciò che è infinito in un contesto relativo, ovvero continuando a dire che la verità conserva qualcosa di proprio rispetto al sociale-storico, è qualcosa di distinto dalla sua novità continua.

Sulla stessa linea è il secondo, il quale ci ricorda che il politico ha una sua verità propria, segnata dal conflitto nato dalla mancanza di arké della comunità. Poiché Rancière non propone che la politica si occupi di un cambio continuo di società, e la intende come un tipo di politico specifico, il politico democratico e il suo orizzonte concettuale, essa non contempla alcun cambio della società, né apre ad una reale possibilità di pensare ad un conflitto orientato alla realizzazione di tale progetto.

 

Sulla creazione della verità

Credo alle verità eterne e alla loro creazione frammentata nel presente dei mondi. La mia posizione su questo punto è del tutto isomorfa a quella di Cartesio: delle verità sono eterne perché sono state create, mai perché esse sono là da sempre. […] Il processo di creazione d’una verità, tale che se ne costituisce il presente dalle conseguenze d’un corpo soggettivato, è molto differente dall’atto creatore di un Dio. Ma, in fondo, l’idea è la stessa. Che esso sia l’essenza d’una verità d’essere eterna non la dispensa affatto d’apparire in un mondo e d’essere inesistente anteriormente a questa apparizione. […] Certo, noi condividiamo con Hegel la convinzione d’una identità dell’essere e del pensiero. Ma, per noi, questa identità è una occorrenza locale e non un risultato totalizzato. Condividiamo anche con Hegel la convinzione d’una universalità del vero. Ma, per noi, questa universalità s’assicura con la singolarità degli avvenimenti di verità, e non sulla base del fatto che il Tutto è la storia della sua riflessione immanente.45

Badiou può essere collocato all’interno del movimento filosofico contemporaneo che reagisce all’idea di verità come corrispondenza oggettiva, ma per ragioni opposte a quelle che di solito vengono sposate da chi condivide tale prospettiva, come fa Gianni Vattimo da una posizione ermeneutica: se per l’ermeneuta, impegnato, tra l’altro, come Badiou, nel lavoro filosofico politico di rinnovamento dell’ideale comunista46, la metafisica è la tradizione di pensiero che ha incarnato e diffuso l’idea di verità assoluta intesa come corrispondenza con la realtà dei dati di fatto, secondo Badiou la metafisica si può e si deve rinnovare proprio chiarendo in che modo parlare di verità assoluta nel darsi dell’evento. Secondo il neometafisico bisogna abbandonare la coappartenenza heideggeriana tra essere e verità, che ancora segna gli approcci come quello di Vattimo, e riconoscere, con l’ontologia matematica, che ogni verità è successiva all’evento, e, quindi, che una verità sfugge interamente all’ontologia e solo la filosofia può pensarla e renderne conto47.

Badiou lo fa avanzando la distinzione tra fatto ed evento, come pure fa Vattimo da una prospettiva heideggeriana, sottolineando, però, a differenza di quest’ultimo, che esiste una reciprocità strutturale tra essere e apparire che non limita la specificità dell’evento (ossia il suo essere un luogo in cui emerge l’inesistente proprio dell’oggetto che vi soggiace). La verità riunisce tutti i termini della situazione che sono connessi all’evento, ossia alla novità dell’essere che abbiamo visto scaturire dal molteplice puro, dal vuoto, e si presenta come la parte impresentabile di tale situazione, come il risultato stesso dell’evento. In poche parole, ogni verità è eterna, perché infinita, e segnata da ciò che di generico c’è nell’evento, conservando la duplice caratteristica di essere una creazione onnipotente ma particolare. L’onnipotenza di una verità non è altro che il cambiamento reale di ciò che è, che è il cuore dell’essere di ciò che esiste, siccome tutto ciò che esiste ha la forma impercettibile, invisibile si potrebbe dire, del molteplice e del multiforme. La novità è sempre il frutto del sorgere di una verità, che, anche per questo, va intesa come eccezione. «E l’onnipotenza d’una verità non è altro che cambiare ciò che è, affinché possa essere quest’essere innominabile, che è l’essere stesso di ciò che è. […]. Una verità è posseduta come determinazione infinita d’un indiscernibile della situazione, che è il risultato globale intrasituazionale dell’evento»48. La verità dell’evento, il punto sovrannumerico, non è quindi frutto del sapere, che è uno stato fisso e successivo all’evento, e perciò può essere colta solo come cambiamento del mondo attraverso l’esperienza del soggetto, quando questo coglie gli effetti di questa trasformazione e vi rimane fedele. Il soggetto non conosce la verità, ma la porta, è ciò attraverso cui una verità è possibile, o, specularmente, ciò che è costituito da una verità. Per Badiou esiste una materialità del soggetto di verità, un corpo che fa apparire il soggetto e una verità, che incarna plurali procedure di soggettivazione di quanto è generico e si lega ad una pluralità di mondi, tutti segnati dalla pratica di fedeltà, che segue il destino della traccia lasciata dalla verità eterna nella situazione in cui è nata.

La procedura fedele […] dispone, nei suoi stati infiniti, dell’essere della situazione. Essa è una-verità della situazione […].Una procedura fedele ha per orizzonte infinito l’essere-in-verità. […] Così l’amore, l’arte, la scienza e la politica generano all’infinito delle verità sulle situazioni, verità sottratte al sapere, e contate dallo stato solamente nell’anonimato del loro essere. […] La fedeltà distingue e riunisce il divenire di ciò che è connesso al nome dell’evento. È un quasi-stato post-evento.49

Tra creazione e verità si crea, quindi, una circolarità virtuosa che segna l’evento: ogni creazione è creazione di una verità infinita, ogni verità è frutto di una creazione particolare. Ciò che risulta rilevante nella proposta filosofica di Badiou è che la verità continua ad essere una creazione a sé, come sembra essere anche la creazione politica.

Tuttavia, possiamo davvero tracciare una scissione tra verità e creazione?

Nella posizione di Badiou sembra risiedere un’illusione pericolosa, necessaria a difendere l’eternità e l’assolutezza della verità, all’interno della sua architettura di pensiero, e poter tenere insieme, allo stesso tempo, il particolare con l’universale: in realtà, ogni verità è inscindibile dalla sua affermazione sociale-storica, come ho dimostrato nel caso del Brasile contemporaneo. Ossia, ogni verità è contestuale e relativa. Badiou non lo può accettare perché il suo impianto filosofico si avvicina, senza volerlo, alla heideggeriana differenza ontologica tra essere e ente, che è la stessa posizione metafisica che usa Vattimo per scagliarsi contro la violenza della verità assoluta, quando le contesta di essere rispecchiamento oggettivo del dato.

Per il filosofo italiano, infatti, la verità come obiettiva corrispondenza, frutto di un accordo con i dati di fatto e/o leggi di natura che formano la realtà come una struttura stabile, e che valgono anche come uniche norme morali, è un’arbitraria attestazione di violenza teoretica e di autoritarismo-totalitarismo politico.

Il concetto di interpretazione è tutto qui: non c’è esperienza di verità che non sia interpretativa; io non conosco niente se non mi interessa […]. L’interpretazione è l’idea che la conoscenza non sia rispecchiamento puro del dato, ma approccio interessato al mondo con schemi che sono anch’essi storicamente mutevoli. […] Prendere atto che il problema del consenso sulle regole scelte è anzitutto un problema di interpretazione collettiva, di costruzione di paradigmi condivisi o comunque esplicitamente riconosciuti, è la sfida della verità del mondo del pluralismo postmoderno. La parabola della nozione di verità nel secolo ventesimo si configura come una transizione dalla verità alla carità […]. I paradigmi di Thomas Khun sono credenze condivise -certo, anche collaudate dal tempo e dall’esperienza compiuta nel quadro da esse garantito- da intere società o da singole comunità (dei fisici, dei teologi, ecc.). Si tratta sempre, alla base, di fenomeni di appartenenza. […] Un paradigma, o un’apertura storico-destinale della verità, è costituito da un insieme di conoscenze preliminari, ricevute da un insieme di aspettative […] e da un insieme di regole per verificare o falsificare le proposizioni.50

Interpretando le idee heideggeriane di apertura dell’essere e di differenza ontologica per declinare l’idea foucaultiana di ontologia dell’attualità in modo da giustificare il presupposto dell’interpretazione contro il dato oggettivo, Vattimo ritiene che l’evento si dia come il modo in cui l’essere si configura nell’esperienza collettiva, grazie al quale possiamo contemplare l’apertura dell’Essere. In altre parole, l’ontologia dell’attualità è la pratica filosofico-politica che permette di renderci conto del paradigma in cui siamo gettati, così da aiutarci a sospendere la pretesa di validità definitiva che ogni paradigma in genere difende, a favore dell’ascolto dell’essere nel suo darsi e/o nascondersi nell’effettiva apertura storica (apertura=insieme di presupposti da cui dipende ogni possibilità di stabilire corrispondenze tra enunciati e cose)51.

Per l’ermeneuta italiano comprendere il proprio paradigma significa, quindi, sforzarsi d’intendere, grazie ad una certa distanza dialettica, la totalità sociale nella quale siamo immersi. In questo modo, e a differenza di Badiou, egli attacca l’idea di verità assoluta ricollocandola all’interno di un orizzonte sociale-storico, da lui inteso riduttivamente attraverso l’idea di paradigma. In questo modo, però, l’idea di verità si riduce alla verità che Vattimo stesso considera valere per la politica: la verità d’orizzonte, ossia l’orizzonte paradigmatico entro cui ogni corrispondenza è verificabile, frutto di un dialogo sociale interculturale attorno alle condizioni epistemologiche che, appunto, proprio la politica ha il compito di esplicitare e costruire. In altre parole, Vattimo, riprendendo l’interpretazione di Rorty di Thomas Khun, orienta lo sguardo ermeneutico sulla verità nei termini della scienza anormale sostenuta dal filosofo della scienza, unendo il tutto ad una prospettiva cristiana di sinistra in cui Dio è amore, caritas. Così Vattimo contrasta l’idea che Dio s’incontra nella rivelazione, che sia veritas, affermando, allo stesso tempo, un’idea di conoscenza paradigmatica del tutto politica.

Le verità fattuali valgono in politica solo se legittimate dall’orizzonte del paradigma […]. Alla fine si tratta di capire che la verità non si “incontra”, ma si costruisce con il consenso e il rispetto della libertà di ciascuno e delle diverse comunità che convivono, senza confondersi, in una società libera […]. Nell’età della democrazia, l’evento dell’essere a cui il pensiero deve volgere la propria attenzione è forse qualcosa di molto più ampio e meno definito, forse più vicino alla politica.52

Intendere, però, la verità assoluta come dominio, e fare della verità ermeneutica qualcosa di immediatamente politico risulta alquanto problematico e riduttivo. Grazie al lavoro di Mats Rosengren siamo in grado di cogliere come la verità contestuale e relativa non sia immediatamente sovrapponibile alla politica, e ci dotiamo di una prospettiva che ci permette giustamente di continuare a pensare la distinzione tra verità e politica in un orizzonte in cui tra creazione e verità non si eserciti, come fa Badiou, una cesura illusoria.

Rifacendosi direttamente a Protagora, Rosengren declina in modo raffinato l’ars retorica in senso epistemologico, subordinando e integrando l’idea di verità all’interno di una prospettiva che fa della doxa l’ambito più appropriato per affermare la relatività del sapere sociale-storico. Superando la dicotomia classica tra opinione e verità, il filosofo svedese afferma un metodo epistemologico, la doxologia, che contempla allo stesso tempo i fatti, gli stili di pensiero, le comunità di pensiero, senza utilizzare l’idea di verità come fa Vattimo, e collocando il tutto sullo sfondo di un’idea di conoscenza, sempre relativa, a tre termini: il soggetto, l’oggetto e le conoscenze e le pratiche cognitive preesistenti (sopratutto l’aderenza a fatti e a valori condivisi), tutti e tre situati socialmente e storicamente. In sostanza, la verità è qualcosa di relativo a un mondo, è legata inscindibilmente al sapere e al valore condiviso, e non copre tutto lo spettro di quanto si può e si deve conoscere, quando si prende in considerazione la relazione tra i tre termini in questione53.

In questo modo, benché non si possa negare l’esistenza di una realtà paradigmatica a proposito del sapere e della verità, o che l’interpretazione vada considerata seriamente quando trattiamo di stabilire la verità di un fatto, e che tra fatti e interpretazioni non possiamo avanzare alcuna separazione, per Rosengren i fatti e la verità ancora costituiscono due realtà autonome, non riducibili alla pratica dell’interpretazione o alla costruzione di un paradigma di conoscenze condiviso e implicitamente politico.

Nonostante la bontà della proposta, restano, però, sullo sfondo due domande ancora inevase: come comprendere quelle verità che trascendono l’ambito del paradigma sociale-storico, creazioni sociali-storiche che riescono a comunicare attraverso le epoche e le culture? E, sopratutto, come intendere la verità propria della creazione politica?

In questo senso, e nonostante l’illusione appena chiarita, la proposta di Badiou risulta ancora interessante, visto che egli afferma con convinzione che esistono delle caratteristiche intrinseche e generali portate dalle verità proprie della politica, e che questa si affermi per verità e non per legittimità sociale-storica. Le caratteristiche, grazie a cui essa s’afferma in una o più sequenze storiche, o mondi, e attraverso le quali prende forma nelle forme logiche dell’apparire, sono tutte l’espressione dell’emancipazione dell’intera umanità: la verità si esprime con quattro determinazioni (della volontà, dell’eguaglianza, della fiducia, dell’autorità), e nel loro incarnarsi effettivo in un mondo dato, ma anche nelle differenti forme soggettive che esse prendono per esprimere l’istanza generica, che conservano ognuna a suo modo, quando appaiono come una molteplicità materiale organizzata della verità54.

Ma possiamo accettare che tali caratteristiche traccino i contorni della creazione politica? O, più radicalmente, che la verità della creazione politica sia assoluta?

 

Il progetto sociale-storico

 

Come abbiamo visto con il tentativo di creazione politica in Brasile, il movimento virtuoso e circolare tra politicizzazione della società e progetto di una nuova democrazia, porta a realizzare un nuovo ethos sociale, dove gli individui sono eguali nella pratica di trasformazione della società, al di là delle gerarchie pre-esistenti: la costruzione del nuovo mondo comune, o la nuova fondazione di quanto si vuole condividere come norma, tende ad affermare che tutti valgono allo stesso modo e tutti sono liberi di agire al di là di quanto è stato sancito implicitamente o esplicitamente come normale sino a quel momento.

Badiou e Rancière si sono avvicinati alla comprensione della creazione politica e l’hanno in parte confermata, il primo sottolineando il suo aspetto storico, il secondo quello sociale, quando hanno declinato, ognuno a modo proprio, l’idea che la verità dell’emancipazione politica risieda nella eguaglianza.

Badiou parla esplicitamente di invenzione politica, come di una delle quattro espressioni della verità dell’evento (insieme al poema, al matema e all’amore), o meglio, una delle procedure generiche in grado di veicolare il cambiamento di base del mondo, portato dall’emergere creativo di un nuovo possibile in cui l’essere rompe l’apparire e si organizza nuovamente la realtà degli enti. Con l’evento della politica, come con gli altri eventi, ciò che viene alla luce è una nuova particolarità ontologica e il dispiegamento logico delle sue conseguenze. L’invenzione politica nasce con gli avvenimenti storico-politici che prendono vita tra il 1965 e il 1980, quando, secondo Badiou, esiste una nuova apertura della possibilità della politica, di cui possiamo tracciare il profilo sin dal 1793, quando essa si manifesta come egualitaria, anti-statale, portatrice della genericità dell’umanità, attraverso la storia e la società, e decostruendo l’ordine degli strati sociali dati e delle rappresentazioni gerarchiche accettate. Insomma, quando essa è divenuta la chiara espressione del comunismo delle singolarità. «La politica è una creazione, locale e fragile, dell’umanità collettiva, non è mai il trattamento d’una necessità vitale. La necessità è sempre a-politica, sia a monte (stato di natura) sia a valle (Stato dissolto). La politica è, nel suo essere, solo commensurabile all’evento che la costituisce»55. Ecco perché per Badiou la politica fa parte dell’ordine del volere e del pensiero e non della società e della storia: anche per questo egli può auspicare una nuova invenzione della politica contro la democrazia capitalista e rappresentativa senza riferirsi ad alcun presupposto social-storicamente dato (e chiamandola arbitrariamente aristocraticismo proletario)56.

Oltre a confermare, a suo modo, il fatto che la politica si dà per creazione, con la sua teoria dei mondi, in cui affianca all’ontologia matematica dell’essere molteplice una logica dell’apparire, Badiou afferma una verità importante della creazione politica che Ricouer aveva a suo modo già sottolineato: analizzando il problema del cambiamento umano, il neopitagorico sostiene contemporaneamente che nell’evento non c’è presente, poiché l’emergere dell’evento è immanenza attiva che co-presenta il passato e il futuro, ma, allo stesso tempo, in esso tutto è presente, perché vi si esprime l’essenza del tempo, ciò che Badiou chiama l’eternità vivente57. Il nuovo presente affermato dall’evento, in altre parole, è un avvenimento che non si rifà né al passato né al futuro, ma che li rende presenti nel presente inedito, ordinando tutta la vita a partire da una creazione sequenziale, che non è, come per Deleuze, conseguenza immanente del divenire, ma principio immanente delle eccezioni di verità che emergono nel divenire58. In sostanza, Badiou riconosce alla creazione ciò che abbiamo visto essere legato alla creazione politica, tanto nella sua espressione logico-ontologica, quanto nel tentativo sociale-storico, di cui abbiamo reso conto nel caso del Brasile contemporaneo: nell’evento i tre tempi, il passato, il presente, il futuro, sono tutti contemporaneamente presenti. «Si può dire che, iscrivendo ogni procedura di verità nella sequenza d’un nuovo presente che è la sua apparizione nella singolarità d’un mondo, la logica dei mondi non solamente convalida ma presuppone, sotto la veste di una specie dell’eterogeneità dei mondi e della precarietà del presente, la dottrina dei modi della politica»59. In questo caso, quindi, Badiou estende alla creazione come tale una caratteristica che abbiamo visto darsi principalmente nella creazione politica.

Ma queste due verità sono parziali, tanto la politica come creazione, quanto il fatto che in essa i tre tempi si implicano nello stesso momento, perché, in Badiou esse vengono affermate sullo sfondo del fantasma dell’assoluto, dell’eternità infinita propria della creazione.

Ormai sappiamo, infatti, che per il filosofo francese una molteplicità generica è il tipo di essere d’una verità, e che, circolarmente, la verità d’un molteplice è post-evento e immanente alla situazione dove emerge. Perciò, il soggetto non può essere l’affermazione di un individuo o di una collettività, ma il momento finito di una delle quattro procedure generiche in cui non ci si riferisce ad un oggetto in particolare ma ad una verità60. Come abbiamo accennato la politica, come procedura generica, è pensabile solo a partire dalla sua stessa verità, ovvero dalla pratica del pensiero che la coglie e dell’azione che la realizza, ossia dalla decisione di vivere e riconoscere l’evento politico.


Postuleremo che un evento è politico, e che la procedura che esso impegna dipende da una verità politica, a certe condizioni. Queste condizioni si applicano alla materia dell’evento, all’infinito, al rapporto con lo stato della situazione e alla numericità della procedura. Un evento è politico se la materia di questo evento è collettiva, o se l’evento può essere attribuito esclusivamente alla molteplicità di un collettivo […]. Diciamo che l’evento è ontologicamente collettivo nella misura in cui tale evento veicola un’istanza virtualmente di tutti […]. Il fatto che l’evento politico sia collettivo prescrive che tutti siano virtualmente dei militanti del pensiero che procede a partire dall’evento. In questo senso, la politica, è la sola procedura di verità che sia generica, non soltanto nel suo risultato, ma nella composizione locale del suo soggetto Solo alla politica è intrinsecamente richiesto di dichiarare che il pensiero che essa è, è il pensiero di tutti […]. La politica mostra o convoca l’infinità della situazione […]. La politica, invece, è ciò che tratta, sotto il principio dello stesso o principio egualitario, l’infinito in quanto tale […]. L’infinito interviene in ogni procedura di verità, ma è al primo posto solo nella politica, perché soltanto lì la deliberazione sul possibile (e dunque sull’infinito della situazione) è il processo stesso.61

Insomma, per Badiou, la politica svela l’aspetto proprio dell’evento e afferma l’eguaglianza come l’assioma da cui cambiare il mondo per edificarne uno nuovo sulla base dell’idea e della pratica della giustizia62. In questo risiede, per lui, l’emancipazione propria della politica. Quindi, la politica non si basa su uno o più presupposti sociali-storici radicati, ricavabili dall’analisi dell’immaginario d’autonomia, bensì è legata ad un principio d’ordine, ad una massima, che prende forma e sostanza dell’assioma matematico, da cui si può edificare una collettività emancipata. Non ci si dovrebbe, perciò quindi più stupire se Badiou afferma in modo del tutto illusorio che:

Bisogna mettersi d’accordo sul fatto che l’eguaglianza non dipende in nessun modo dal sociale, dalla giustizia sociale, ma dal regime degli enunciati e delle prescrizioni; […]. Sì, ci può essere, c’è, qui e ora, una politica dell’eguaglianza, proprio perché non si tratta di realizzarla ma, postulandola, di creare qui e là, attraverso la pratica rigorosa delle conseguenze, le condizioni di una universalizzazione del suo postulato.63

D’altra parte, e come già accennato, la temporalità propria dell’evento, alla radice dell’invenzione politica, si basa su un altro assioma di fondazione, ed impedisce a Badiou di pensare realmente non solo una temporalità rielaborata attraverso la triplice articolazione dell’immaginario del tempo (passato-presente-futuro), ma gli vieta di cogliere come qualsiasi creazione politica si dia attraverso un progetto collettivo, che non può fare a meno di rapportarsi alla storia, come abbiamo visto tanto nei momenti di realizzazione, quanto nei tentativi di creazione politica. Anche se, per il neometafisico, la storia è, giustamente, legata ad una produzione propriamente politica, e non a presupposti oggettivi o scientifici, egli non può rendersi conto di come la politica come creazione umana è portata attraverso la novità radicale di un progetto di società che non si sottomette a nessuna affermazione dell’eternità frutto di un postulato di partenza.

Ogni azione trasformatrice radicale s’origina in un punto, che è, all’interno di una situazione, un luogo evenemenziale […]. L’assioma di fondazione è questa proposizione ontologica che ogni molteplice esistente -oltre il nome del vuoto – avviene secondo un’origine immanente, che dispongono gli Altri che le appartengono. Essa equivale alla storicità di ogni molteplice […]. Un importante effetto della ricorrenza evenemenziale è che nessun intervento opera legittimamente sotto l’idea del primo avvenimento, o dell’inizio radicale. Si può chiamare gauchisme speculatif ogni pensiero dell’essere che si sostiene sul tema d’un inizio assoluto. Il gauchisme speculatif immagina che l’intervento non si autorizza che da se stesso, e rompe con la situazione senza altro appoggio che il suo proprio volere negativo.64

Questo è il motivo per cui l’evento politico conserva, come luogo singolarizzabile in una situazione storica in cui si concentra la storicità di una situazione, una specie di sintesi della triplice temporalità che ci attraversa: in realtà,al contrario di quanto pensa Badiou, la rielaborazione del tempo sociale si struttura, come abbiamo visto nel caso del Brasile, dando ad ogni prospettiva immaginaria, del passato, del presente e del futuro, tre forme proprie e distinte nel nuovo immaginario politico istituente.

Per quanto riguarda Rancière, invece, che parla di politica in termini d’invenzione collettiva piuttosto che di presa del potere, dobbiamo sottolineare anche l’illusione relativa sul terreno sociale-storico, illusione che si cela dietro la maschera della verità di fondo del sociale come tale, ossia nell’idea che nessuna comunità politica si regga su un arké naturale: per Rancière essa non è il prodotto dell’attualizzazione dell’essenza comune, né dell’essenza di quanto è comune, bensì è la condivisione di quanto non viene messo in comune. Il comune, che l’eguaglianza portata dalla politica edifica, si basa sull’accettazione del dissenso, sul consenso di un dissenso insuperabile tra le parti della società. La politica egualitaria, per lui, si oppone alla regolazione delle parti del corpo sociale e al calcolo dei loro interessi nell’organizzazione della comunità politica. Lo spazio del senso comune politico, quello che crea realmente la democrazia, non è lo spazio del consenso, ma quello della polemica, che si realizza solo nella lotta per l’affermazione dell’eguaglianza e nella vittoria sul dominio istituito da chi impone e conserva diseguaglianza ed esclusione sociale. Solo grazie all’affermazione delle pratiche egualitarie si può sancire effettivamente il diritto, per Rancière, senza fondamento, come sappiamo, della molteplicità dei soggetti che vivono la società65. I soggetti politici liberano un’azione collettiva che modifica la capacità e la possibilità di tutti di costruire il mondo comune attraverso il conflitto, che non si sviluppa, quindi, quando c’è un dissenso sulla base di diversi e contrapposti interessi, ma quando si hanno visioni distinte della stessa comunità umana66.

A differenza di Badiou, il politico si afferma così in negativo, e, come abbiamo già ricordato la potenza emancipatrice dell’eguaglianza non è in grado di superare, di eliminare, il dominio istituito, la naturalizzazione della comunità sociale e politica, che si pone sempre come il bersaglio contro cui la polemica politica deve scagliarsi. Ma ciò significa anche che la polemica egualitaria non è il preludio per l’affermazione di un nuovo tipo di società, ma solo per l’affermazione e la valorizzazione della verità di fondo del sociale, ossia della mancanza di fondamento naturale dell’ordine comune, sancito da qualsiasi politica intesa come polizia. Invece di pensare la mancanza di arké della comunità politica è l’indizio della creazione politica, la prova che ogni comunità politica è il frutto di una formazione peculiare dell’azione sociale-storica delle diverse collettività, e che la politica nasce da un progetto di trasformazione della società, che cerca di organizzarsi intorno all’immaginario dell’autonomia e prendere una forma democratica, Rancière si limita a parlare di socializzazione dell’eguaglianza come se non fosse possibile, e non lo fosse stato nella storia, realizzare una pluralità di forme collettive sulla base del movimento creativo portato dal progetto di una società politica. Come se avesse scoperto lo scontro di fondo, ineliminabile, che segna la comunità umana, ovvero che si possono postulare solo due modi della comunità dell’arké (uno polemico e l’altro oligarchico), e che il progetto di società emancipata fosse solo quello fondato sull’esclusiva pratica dell’eguaglianza.

Si sono voluti dedurre i movimenti democratici e rivoluzionari di questi due ultimi secoli da un orizzonte d’attesa messianica e da una fede nella storia. E si è affermato che noi abbiamo bisogno dell’utopia per darci uno slancio in avanti. Bisogna piuttosto vedere, al contrario, che è la potenza effettivamente affermata dai movimenti egualitari che crea degli orizzonti storici, dei progetti di società […]. Ciò che bisogna restaurare non è tanto un progetto di società egualitaria nuova, quanto la base stessa d’ogni “socializzazione” dell’eguaglianza: l’idea della capacità degli anonimi, il sentimento della contingenza radicale dei sistemi di sfruttamento e di dominio e la capacità di chiunque di partecipare al destino collettivo […]. La politica è questo supplemento al conto che viene a perturbare la logica semplice di gestione del flusso delle merci, del denaro e delle popolazioni. Questo supplemento è sempre minacciato in nome di un’identificazione della potenza comune alla vita empirica d’una popolazione. Ciò vuol dire anche che non si tratta mai semplicemente d’opporre un modello di società ad un altro. Ciò che si oppone subito, sono due maniere di contare la comunità, di dare una forma alla potenza comune.67

Insomma, la creazione politica, intravista a livello sociale, non può essere compresa, né chiarita, a causa dell’idea di politico e di eguaglianza a cui si rifà questo filosofo, sopratutto in base all’affermazione che l’emancipazione politica risiede fondamentalmente nel conflitto contro il dominio, e non nel progetto sociale-storico di un suo superamento. La democrazia per Rancière prende la forma di un’azione continua contro i governi oligarchici che impongono una diseguaglianza di potere, il luogo vissuto in cui ogni legittimità si confronta con l’assenza di legittimità ultima della verità sociale che impedisce che vi sia un solo principio di comunità68.

 

Sulla rottura rivoluzionaria

 

A questo punto dovrebbe apparire chiaro perché, pur cercando di rinnovare l’idea di politica alla luce del movimento dell’emancipazione umana portata dall’eguaglianza, né Rancière né Badiou intendono ormai la rivoluzione sulla base del paradigma del potere, come ancora molti sostengono da una prospettiva marxista. Per questo motivo, come ho già accennato, Žižek muove loro la critica feroce di non voler realmente proporre un cambiamento effettivo della società contemporanea, ritenendo le loro proposte lontane da una prospettiva rivoluzionaria.

Come ho dimostrato, in realtà, la mancata radicalità delle loro posizioni in termini di cambiamento rivoluzionario è dovuta al fatto che i due filosofi francesi legano l’idea di rivoluzione alle loro rispettive idee di politica, e il problema si pone perché entrambe hanno una propria giustificazione solo sulla base di visioni del cambiamento radicale alquanto illusorie e problematiche.

Nel caso di Rancière, infatti, ci troviamo di fronte a un paradigma rivoluzionario che si vuole espressione esclusiva di una politica capace di evitare i rischi della solidificazione dell’identità sociale, reazione al processo di naturalizzazione proprio del dominio di una comunità fondata su un arké unico. Per questo è del tutto fuorviante, secondo lui, che la rivoluzione passi per l’affermazione di un cambiamento radicale:

Tento di pensare le cose non in termini di novità radicale, di inizio o di fine, ma piuttosto in termini di topografie, di sistemi di distribuzione dei possibili che mettono in gioco temporalità differenti. Un presente dell’arte o della politica si costituisce a partire dagli strati eterogenei che non sono per forza contemporanei, che costituiscono una reinvenzione perpetua del passato […]. Ciò che tento di definire come “popolo politico” è una maniera di costituire una figura non identitaria.69

Il suo modello rivoluzionario trova la propria fonte negli avvenimenti del Maggio del ’68, vero punto di riferimento per pensare tanto la politica quanto la rivoluzione.

I militanti del Maggio del ’68 pensavano di fare la rivoluzione marxista. Ma la loro azione, al contrario, la disfaceva mostrando che una rivoluzione è un processo autonomo di riconfigurazione del visibile, del pensabile e del possibile, e non il compimento d’un movimento storico condotto da un partito politico al suo scopo proprio […]. Il ’68 ha messo in primo piano tutta un’altra idea di politica: la creazione di spazi che non si identificano né con la gestione delle istituzioni esistenti, né con la formazione dell’avanguardia rispetto ad una rivoluzione futura. È un insieme di pratiche che ridisegnano lo spazio comune rifiutando l’opposizione tra gli obblighi all’ordine presente e la preparazione dell’avvenire.70

La rivoluzione, in sostanza, è l’espressione ultima dell’affermazione dell’impurità politica, cioè si sostiene sulla constatazione che non esiste una sfera specifica della politica, perché essa è la continua rimessa in discussione di quanto viene stabilito a livello dell’organizzazione della società. Ecco perché Rancière può rivendicare una propria lontananza dalla posizione di Badiou, per quanto tra i due vi siano molteplici punti di contatto teorico, sopratutto rispetto all’idea di una fedeltà militante a una specifica decisione collettiva di riconfigurazione della forma della comunità. In questo senso, il ’68 funziona come base imprescindibile per comprendere come il comunismo possa giocare per Rancière ancora un ruolo centrale per il futuro dell’emancipazione umana71.

Insomma, la forza argomentativa e l’originalità della sua proposta costituiscono allo stesso tempo il suo problema irrisolto.

Come abbiamo già accennato, è Castoriadis a sottolineare come il ’68 abbia costituito un tentativo fallito di creazione politica. Per lui la rivolta del Maggio del ’68 ha assunto come centrale il conflitto tra dirigenti ed esecutori nell’organizzazione del lavoro, ovvero non solo nel processo produttivo ma in tutto il tessuto sociale, generalizzando una lotta contro la reificazione umana portata dalla società capitalista e anticipando i tratti caratteristici di una possibile rivoluzione reale. Castoriadis ci dimostra come il ’68 sia un’istanza attiva, un potenziale rivoluzionario che fa della questione del potere ancora il centro della propria contestazione dell’ordine esistente. Criticando violentemente i luoghi della cultura capitalista, burocratica e consumista, il ’68 ha creato i presupposti necessari per ricostruire la società sulla base di un cambiamento dei rapporti sociali di potere, trasformazione che lui individua anche nel cambiamento dell’immagine che la popolazione si era fatta delle istituzioni sino a quel momento72.

Ecco perché l’emancipazione politica di Rancière si scontra con un carattere inequivocabile della sua propria fonte principale: la centralità della questione del potere sociale alla base della lotta del ’68. Il filosofo politico fa del suo limite maggiore, il fatto che essa è riuscita a istituzionalizzare una nuova forma di organizzazione della società, la principale virtù antiautoritaria della contestazione di qualsiasi forma di dominio, generalizzando e raffinando, così, l’idea di Lefort sul ’6873 e senza rendersi conto che proprio quel movimento ha espresso, allo stesso tempo, una carica rivoluzionaria di tutt’altra natura.

Anche per questo, oltre che a causa dei problemi sottolineati a proposito della sua idea di politica, l’idea di rivoluzione sostenuta da Rancière non convince, è poco incisiva sul piano della proposta filosofico-politica, e marginale dalla prospettiva sociale-storica della creazione politica.

Lo stesso ragionamento si può sviluppare nel caso di Badiou.

Sin dal suo Théorie du sujet egli sottolinea come la rivoluzione sia l’espressione stessa dell’emergere dell’evento (in questo scritto, dell’impossibilità del suo stesso apparire)74. Il paradosso di un’apparizione evanescente del molteplice puro, che impone al corpo politico, come verità ultima, il fatto di essere aleatorio75, viene collocata da questo filosofo in una cornice più ampia, in una vera e propria dottrina del cambiamento, dove chiarisce la forza e la logica dell’evento: la rivoluzione, come evento, va considerata come una singolarità, ossia una trasformazione fondata su un momento sovrannumerario con un forte valore esistenziale, diversa dal fatto e dalla modificazione, che sono parti del divenire, del cambiamento, che non apportano una profonda modificazione dell’esistente76. Come ormai sappiamo, ciò significa, per Badiou, che un evento apporta delle conseguenze importanti al corso del divenire, novità sotto forma d’inizio, o re-inizio, di una trasformazione, le cui verità vanno seguite fedelmente per essere parti attive di questi stravolgimenti della realtà umana. Abbiamo altresì visto che, nel caso della politica, sotto il principio egualitario, e in quanto tale, viene a esprimersi l’infinito proprio di ogni verità dell’evento. La rivoluzione altro non è, quindi, che l’espressione della rottura propria dell’essenza della politica77. Essenza che si è rivelata nella modernità con la rivoluzione francese, tra il 1789 e il 1794, quando questa presenta il molteplice infinito, come sintesi immanente del suo proprio molteplice, e che Badiou riscontra anche negli eventi oscuri del ’68 e del movimento maoista, che si sono sviluppati tra il 1965 e il 198078.

Ma la rivoluzione francese, oltre ad essere stata di sicuro un avvenimento segnato dal principio e dall’affermazione dell’eguaglianza politica e sociale, è stata anche, come ci ricorda a giusto titolo Furet, espressione di un nuovo immaginario collettivo del potere. La nuova idea di sovranità, incarnata nei moti rivoluzionari, ha portato attivamente all’affermazione di una nuova legittimazione del potere, e non solo ad una produzione sociale della verità dell’eguaglianza. Con la rivoluzione, l’immaginario democratico o egualitario, che aspirava ad un’altra società, è divenuto il reale tessuto della nuova società, s’è incarnato nella storia del cambiamento dei pilastri del potere su cui si organizzava la convivenza collettiva. «La rivoluzione è un immaginario collettivo del potere […].[…] non è soltanto il “salto” da una società all’altra, ma anche l’insieme di modalità attraverso le quali una società civile, improvvisamente “aperta” dal vuoto di potere, libera tutte le parole di cui è portatrice. […]. La rivoluzione è l’immaginario di una società divenuto il reale tessuto della sua storia»79. Ma questo è invisibile agli occhi di chi, come Badiou, resta impigliato nelle maglie neometafisiche dell’evento.

Insomma, i due filosofi francesi non sono in grado di cogliere come la creazione politica e i suoi diversi tentativi esprimano ancora un’idea di rivoluzione che non può essere slegata dal paradigma del potere, sebbene declinato in senso democratico, e non può essere compresa a prescindere dall’incarnazione del processo sociale-storico, in cui emerge un nuovo immaginario relativo alle istituzioni di potere che organizzano la società nel suo complesso, ovvero attorno alla creazione di una reale sfera pubblica e all’assunzione generalizzata della visione che le è consustanziale.

 

La notte del mondo e il fantasma di Žižek

 

A questo punto dell’analisi critica è possibile affermare, senza essere fraintesi, che i soggetti dell’emancipazione politica di Badiou e Rancière conservano un’inconsistenza profonda, che si pone come il contenuto attivo della trasformazione sociale. Tale inconsistenza, però, non è il soggetto come tale, ma proprio un’istanza, né soggettiva, né oggettiva, affermata da un soggetto in particolare senza che essa gli sia consustanziale. In altre parole, l’inconsistenza, alla base della verità politica di Badiou e del conflitto egualitario anarchico della politica di Rancière, ha la stessa forma del fantasma, è un ectoplasma del pensiero e dell’essere della politica. O, come credo di aver dimostrato, un’illusione.

Contro tale fantasma si muove la critica di Žižek, il quale, tuttavia, non solo lo intende come il volto stesso della soggettività, ma lo comprende erroneamente, dalla sua prospettiva d’interprete hegeliano di Lacan e di post-marxista ancora legato al paradigma del potere, sopratutto là dove si tratta di pensare il momento rivoluzionario. Ciò lo porta a misconoscere la reale proposta filosofico-politica dei due filosofi e a finire per proporre un fantasma di segno e origine diversa per rispondere alle stesse inquietudini, sulla politica, sulla rivoluzione e sulla loro natura creativa, che hanno segnato anche i francesi. Ovvero sostituisce un’illusione con un’altra.

La soggettività non viene respinta in quanto forma di (dis)conoscimento, anzi, viene affermata come momento nel quale lo scarto/vuoto ontologico diviene palpabile, in quanto gesto che mina l’ordine positivo dell’Essere, della struttura differenziale della società, della politica come polizia. È determinante riconoscere il collegamento tra questa riduzione del soggetto alla soggettivazione e il modo in cui l’edificio teoretico di questi autori si basa sull’opposizione fondamentale di due logiche: la politica/polizia e il politico in Rancière; l’Essere e la Verità-Evento in Badiou […]. Siamo di fronte a una logica che racchiude in anticipo il proprio fallimento, che considera cioè il successo completo come suo fallimento definitivo, che si attiene al suo carattere marginale come segno sommo della propria autenticità, e che perciò intrattiene un atteggiamento ambiguo nei confronti del suo contrappunto politico-ontologico, l’Ordine dell’Essere poliziesco: essa deve restare là affinché sia possibile impegnarsi in un’attività marginale e sovversiva; l’idea stessa di portare a termine una sovversione totale di quest’Ordine (“rivoluzione globale”) viene rigettata come protototalitaria […]. Credo quindi che il radicale rifiuto marginalista di assumersi la responsabilità del potere […] sia strettamente correlato al (o sia il rovescio del) collegamento nascosto che il Potere intrattiene con il proprio supplemento osceno denegato; un intervento politico veramente “sovversivo” deve lottare sopratutto per riuscire a includere nello spazio pubblico questo supplemento osceno sul quale il Potere/la Polizia fa affidamento […]. Si potrebbe sostenere che la politica leninista si situi agli antipodi di questo atteggiamento marginalista da sinistra kantiana che insiste sulla sua stessa impossibilità intrinseca.80

La logica paradossale che Žižek vede alla base della proposta dei due francesi ha due problemi di fondo: la separazione indebita tra Essere ed Evento, e il fatto che il vuoto di fondo alla base dell’evento si possa esprimere in modo positivo, senza realmente produrre il cambiamento radicale, la rottura dell’ordine esistente, che esso stesso porta con sé. Ma cosa significa in termini filosofico-politici? Per comprenderlo, dobbiamo chiarire la posizione filosofica di Žižek, che affonda le radici in un’ontologica politica in cui traspare una chiara sensibilità platonica simile a quella di Badiou, che non a caso è il suo principale critico. Solo chiarendo tale posizione possiamo vedere anche come è lo stesso filosofo sloveno a proporre una soluzione impraticabile al problema della rivoluzione politica, dato che pone un vero e proprio fantasma psichico alla base di questa, e dimostrare che il cambiamento, per lui non è portato da un soggetto sociale-storico, né è frutto di un immaginario e di una pratica di trasformazione rivoluzionaria, ma, appunto, un fantasma inestirpabile che segna ontologicamente il nostro stare al mondo.

A differenza di Badiou, Žižek rivendica ancora di essere hegeliano. Riferendosi alla logica e alla fenomenologia dello spirito (in particolare alla relazione schiavo-padrone), il nostro filosofo si rifà allo statuto dell’autocoscienza hegeliana per interpretare l’idea di notte del mondo come scarto ontologico. Lo sloveno la interpreta come sospensione momentanea dell’ordine positivo della realtà in cui essa può essere data solo a partire dalla rottura che subisce da parte del nucleo più intimo del soggetto che la crea, un eccesso/mancanza traumatica propria del soggetto umano, qualcosa di insondabile che si presenta come una rottura dell’ordine del senso dato per certo da parte della negatività assoluta dell’autocoscienza. Una negatività che è già un’essenza positiva perché costitutiva della nuova creazione di realtà. Hegel è stato, secondo Žižek, colui che è riuscito a combinare il carattere costitutivamente ontologico dell’attività del soggetto con la sua irriducibile inclinazione patologica. Perciò, solo chi ancora si rifà a questo filosofo moderno, secondo lui, può parlare di inclinazione patologica costitutiva della realtà stessa, sposando l’idea che esista una logica dell’eccesso dell’ordine stabilito che si riflette sulla politica81. In ragione di questa posizione ontologica, il filosofo sloveno rivendica un’ontologia politica basata su una forte corrispondenza tra Psiche e Società, a partire da un’originale interpretazione del pensiero di Jacques Lacan, dove alla psicanalisi è affidato il compito esplicito di sostenere una nuova proposta filosofico-politica82. Per dirla con Castoriadis, Žižek non distingue tra immaginazione e immaginario, ciò che è frutto della creazione della psiche (come i sogni) e ciò che è proprio della creazione collettiva (come il linguaggio).

Alla base dell’esistenza umana, tanto psichica quanto sociale, ci sarebbe la capacità della nostra mente di disgregare ciò che la percezione sensibile mette insieme, ovvero una libertà vuota, che dissolve ogni collegamento con la realtà sociale, direttamente prodotta dalla pura immaginazione o dall’immaginazione stessa. Alle radici della nostra vita ci sarebbe un regno senza leggi, fondato sulla violenza dell’immaginazione assoluta83. In questo consiste il motivo principale della critica a Badiou, che affida alla verità-evento l’espressione dell’immortalità ontologica: Žižek sostiene che è in questa negatività immaginativa che risiede in realtà l’immortalità di cui costui parla, ma che essa è, appunto, negativa e psichica, e non positiva e legata ad un assioma. Il nulla, alla base delle nostre vite, che permette la creazione di novità, è in sostanza di segno negativo, mentre, per Badiou, esso non assume alcun segno positivo o negativo, perché è semplicemente un punto sovrannumerario. Per il filosofo sloveno, siamo in presenza di una struttura formale, una categoria puramente negativa, in cui si radica il nulla che ci consente di superare l’attaccamento e l’investimento fortissimo alla vita data, a cui dà il nome di pulsione di morte. Seguendo l’interpretazione lacaniana della pulsione di morte di Freud, e collocandola in un orizzonte neohegeliano, egli afferma che il soggetto non è, secondo lui sostiene Badiou, estraneo all’ordine dell’Essere, ma un gesto contingente ed eccessivo, che costituisce lo stesso ordine dell’Essere. Seguendo gli insegnamenti di Lacan, Žižek distingue tra desiderio, legato a questo vuoto negativo originario, e libido, la pulsione che si esprime come il proprio eccesso. Perciò ritiene che qualsiasi atto etico o politico, implicando la dimensione della pulsione di morte, sia di tipo dialettico e paradossale: è negativo come sospensione dell’investimento e della credenza nell’ordine di cose dato, ed è positivo perché è immediatamente anche una nuova sublimazione. Ma, in ultima istanza, questa dialettica riposerebbe nella sua origine negativa:

Per Lacan, la negatività, un gesto negativo di ritiro, precede qualsiasi gesto positivo d’identificazione entusiastica con una causa: la negatività funziona come la condizione d’impossibilità dell’identificazione entusiastica, ovvero, prepara il terreno, apre lo spazio per essa, ma allo stesso tempo, la indebolisce e viene da essa offuscata.84

Al di là dei fraintendimenti del pensiero di Badiou, che, come ritengo di aver dimostrato non pensa all’Evento come ad un non-Essere/vuoto che si oppone all’Essere, e che, pur non combaciando con quest’ultimo, non gli è estraneo, ma, anzi, costituisce una delle maniere in cui si dà il suo cambiamento, Žižek sta coerentemente rivendicando al francese la lezione lacaniana dell’incontro traumatico fondamentale dell’esperienza umana, quello con la cosa mostruosa non morta che lo psicanalista francese chiama lamella85, e che lui considera l’arcano eccesso vitale, tipico dell’immortalità, propria della pulsione di morte86. Agli occhi del filosofo politico, Lacan pensa all’immortalità propria della lamella come rappresentante del vuoto ontologico attorno a cui si orienta l’ordine simbolico, costituito dall’inconscio e strutturato come linguaggio87. Perciò Žižek sostiene che: «Come afferma Lacan, la lamella non esiste, insiste: è irreale, un’entità di pura apparenza, una molteplicità di apparenze che sembrano avvolgere un vuoto centrale; il suo status è puramente fantasmatico.»; oppure, da una prospettiva filosofica che: «Di conseguenza, da una prospettiva lacaniana, questo gesto primordiale di “fantasmatizzazione” segna la nascita stessa e il punto più oscuro di ciò che Kant e l’intera tradizione dell’idealismo tedesco chiamano “immaginazione trascendentale”, la capacità abissale di libertà che permette al soggetto di astrarsi da ciò che lo circonda»; o, infine, quando egli vuole chiarire in cosa consista la soggettività, e scrive senza mezzi termini che: «Il fantasma è dunque costitutivo del nostro rapporto più elementare alla realtà».88

Ma, siamo sicuri che, da una prospettiva lacaniana tutta volta a chiarire il problema psicologico dell’identificazione, l’immaginazione pura, come forza negativa e disgregante, sia così rilevante per tutto il funzionamento della psiche, visto che lo stesso Lacan, pur riferendosi ad una rottura originaria dell’ordine simbolico, si sofferma centralmente sul processo dialettico di riconoscimento-misconoscimento, sottolineando come alla base del desiderio inconscio ci sia la necessità di essere riconosciuto come tale?89.

E se la forza negativa disgregante, di cui parla il filosofo sloveno, fosse meno determinante per il funzionamento della Psiche, come sostiene Castoriadis, parlando di Monade psichica, a cui riconosce comunque una sua centralità per la Psiche?90.

E se questa negatività fosse l’espressione di un’esaltazione che la nostra società attuale fa di un aspetto della Psiche che altrimenti non sarebbe così centrale?

Inoltre, l’onnipotenza originaria dell’immaginazione negativa risulta dubbia, se viene intesa come astrazione dalle significazioni sociali-storiche, non fosse altro perché, anche seguendo solo Lacan, il significato del senso di cui “si nutre” la Psiche le viene dato “dall’esterno”, ossia dal discorso dell’altro, dall’ordine simbolico, non è una produzione autistica, ma il frutto di una creazione e/o di una rielaborazione dell’immaginario sociale-storico. Perciò, se parliamo in senso rigoroso, l’autismo disgregante di Žižek non può essere isolato dal senso che veicolerebbe la sua stessa rottura dell’investimento dato, del senso sino a quel momento investito, perché sarebbe già portatore di un nuovo significato, elaborato solo grazie ad una relazione con l’ordine simbolico o con l’immaginario sociale-storico.

Poco chiaro è anche il motivo che porterebbe, in questo processo psichico di disinvestimento-nuovo investimento, tale dialettica ad affondare le radici sulla sua componente negativa.

Tra l’altro, seguendo l’idea lacaniana di soggetto e il compito che lo stesso Lacan vedeva per la disciplina psicanalitica, arriviamo ad altre obiezioni rilevanti nei confronti dell’impianto argomentativo di Žižek.

Come sappiamo, la storia del soggetto per Lacan è costellata dal succedersi di identificazioni ideali, dove l’Io va inteso non solo come parte dell’inconscio, ma sovrapposto al super-io e al narcisismo costitutivo, motivo che porta Lacan a sostenere la famosa tesi dello stadio dello specchio (matrice simbolica dell’Io)91. L’Io s’identificherebbe con un’immagine ideale di sé e il soggetto del reale sarebbe ancora l’inconscio, e perciò Lacan si smarca da tutta quella psicanalisi, Freud compreso, che mira a fare irrobustire nel soggetto l’istanza dell’Io92. Insomma, l’Io non rappresenta uno strumento di emancipazione, ma qualcosa da cui bisogna prendere distanza, e la prassi d’emancipazione psicanalitica può, a limite, solo insegnare al paziente come vivere l’impossibilità di identificarsi con l’ordine simbolico, come fare l’altalena tra il senso e la sua assenza, che si traduce nella pratica di un’interpretazione continua di sé, sempre a caccia del senso, perché non si può ricoprire l’eteronomia radicale veicolata dall’ordine simbolico e dal discorso dell’altro ma, in questo modo, il soggetto sarebbe costretto a vivere sempre in un’eterna e inguaribile estraneità rispetto a se stesso (in termini analitici: non possiamo guarire definitivamente dal sintomo, ma possiamo, al limite, conviverci)93.

Unendo il potenziamento dell’originaria immaginazione negativa e l’idea della possibilità di trovare un disinvestimento grazie alla pratica psicanalitica, Žižek pensa che il soggetto sia contemporaneamente il frutto, tanto dello scarto ontologico, quanto del gesto di soggettivazione che guarisce la ferita di questo scarto, ossia tanto l’investimento dato, quanto la rottura da cui nasce, portandoci a nutrire seri dubbi sulla sua idea di emancipazione94. A cosa affiderebbe, infatti, la fonte o la ragione dell’emancipazione, date le premesse psicanalitiche che abbiamo appena chiarito? Come ho chiarito in precedenza, Castoriadis, coerentemente con la prospettiva che vede nell’autonomia umana la fonte dell’emancipazione della società istituita, sostiene che il soggetto singolo, sopratutto grazie alla psicanalisi, può arrivare a trovare una propria autonomia solo nel caso l’Io riesca a prendere una distanza riflessiva e critica rispetto al proprio Es, divenendo, con la pratica, l’istanza secondo la quale l’individuo si scopre capace di scegliere lucidamente davanti ai propri impulsi e alle proprie idee al momento dell’azione. È solo sulla base di una distanza e di un rapporto diverso tra Io ed Es, dove il primo permette all’individuo di distinguere tra fantasma e realtà (o tra una rappresentazione esclusivamente guidata dal piacere/dispiacere e una sottoposta alla ricerca della verità), che siamo in grado di emanciparci dal discorso dell’altro ed arrivare a costituirci in virtù di una volontà soggettiva, riflessiva e deliberante, e non di imperativi che il Super-Io o l’Idealizzazione dell’Io ci impongono95.

Insomma, la proposta di Žižek assume e rivendica l’emancipazione da una prospettiva psicanalitica che, però, non può chiarire in cosa essa consiste, perché non è contemplata nell’orizzonte problematico del processo analitico, se non come momento di sospensione-rottura dell’eteronomia stabilita.

Non a caso, la sua visione politica sembra lontana dal poter sfuggire dal problema tipico della società contemporanea, individuato dal sociologo Christopher Lasch; anzi, appare come una inconsapevole difesa di quanto lo genera: per Lasch la nostra società burocratica spinge alla formazione di una personalità di tipo narcisistico, in cui la distinzione primaria, fondamentale per la psiche, tra Io e Non-Io, viene meno, indebolendo così la capacità del soggetto di distinguere tra l’Io e l’ambiente circostante, e portandolo, di conseguenza, a percepire il mondo esterno come inconsistente. L’io minimo, narcisistico, tanto diffuso nella società contemporanea, è incapace di afferrare la realtà sociale ed è pervaso da un delirio di onnipotenza: per l’individuo tutto il vissuto è il risultato di una sua espansione narcisista96. Come ho appena mostrato, la proposta filosofico-politica di Žižek non è in grado di risolvere questo problema sociale, già a partire dai suoi presupposti psicanalitici, per la mancanza di un riferimento anche solo minimo, al sociale-storico, in modo ancora più radicale di quanto si sia riscontrato nelle filosofie politiche di Badiou e Rancière.

Eppure anche questo filosofo si avvicina alla creazione politica97. Il problema è che egli parte dal presupposto che ogni ontologia è politica98, e non si limita a rilevare l’aspetto politico di ogni filosofia o di ogni verità, ma assume che ogni comprensione della realtà, o “verità epistemologica”, sia immediatamente politica, poiché nasce proprio dalla decisione contingente di un soggetto segnato dalla negatività radicale: è sopratutto questo che lo porta “ad esagerare”, e a trasporre la verità psichica direttamente sul piano sociale e politico: «Il momento mostruoso di negatività assoluta astratta, furia autodistruttiva che spazza via ogni ordine positivo, è avvenuto già da sempre, dato che coincide con la fondazione stessa dell’ordine razionale positivo della società umana. Un gesto negativo che corrode l’ordine sostanziale (sociale) dato fonda allo stesso tempo un altro ordine più elevato e più razionale.»99

 L’atto radicale di una completa riconfigurazione delle condizioni stesse dell’investimento psichico strutturato socialmente è il frutto di questo momento originario. Il cambiamento politico e la rivoluzione, di conseguenza, sono generati da questo fantasma inestirpabile:

per usare termini badousiani, il fatto che l’irruzione evenemenziale funzioni come una rottura nel tempo, introducendo un ordine totalmente differente di temporalità […] significa che, dalla prospettiva del tempo non evenemenziale dell’evoluzione storica, non c’è mai un “momento giusto” per l’Evento rivoluzionario, la situazione non è mai “abbastanza matura”per un atto rivoluzionario -l’atto è sempre, per definizione, “prematuro […]. Queste sconfitte passate accumulano l’energia utopica che esploderà nella battaglia finale: la “maturazione” non aspetta le circostanze “oggettive” per raggiungere la maturità, ma l’accumulazione delle sconfitte […]. Nell’esplosione rivoluzionaria come Evento, risplende un’altra dimensione utopica, la dimensione dell’emancipazione universale che, appunto, è l’eccesso tradito dalla realtà di mercato che ha preso il sopravvento “il giorno dopo”. Come tale, questo eccesso non è semplicemente abolito, liquidato come irrilevante ma, per così dire, trasposto in uno stato virtuale, continuando a ossessionare l’immaginario emancipatore come un sogno che aspetta di essere realizzato. L’eccesso dell’entusiasmo rivoluzionario sulla propria “base sociale attuale” o sostanza è dunque letteralmente quello del futuro del/nel passato, un Evento spettrale che aspetta di incarnarsi.100

Due problemi appaiono a questo punto immediatamente visibili:

  1. Com’è possibile per Žižek, distinguere la propria idea rivoluzionaria da quella di Badiou? Anche per lui, infatti, l’atto negativo di natura psichica è imprevedibile, come nel caso badiousiano del miracolo portato dall’inconsistenza del molteplice puro, ossia esso avviene a prescindere dal sociale-storico.
  2. Perché la rivoluzione sarebbe un atto da ascrivere nell’orizzonte dell’emancipazione umana, se non avviene un cambiamento in grado di apportare un superamento dell’onnipotenza dell’ordine simbolico e dell’eteronomia istituita, e si risolverebbe solo nell’atto di rottura?

Ad entrambi i problemi impliciti, questo filosofo risponde interpretando la rivoluzione come espressione della violenza del terrore egualitario e democratico:

“terrore” significa accettare il fatto della totale assenza di fondamenti della nostra esistenza: non esiste un fondamento saldo, un luogo di ritiro, su cui si possa sicuramente fare affidamento […]. Il soggetto che emerge in e attraverso questa esperienza del terrore è, in ultima istanza, il cogito stesso, l’abisso della negatività autoreferenziale che forma il nucleo della soggettività trascendentale, il soggetto acefalo della pulsione (di morte). Esso è propriamente il soggetto inumano. Ciò che scatena questo terrore è la consapevolezza che ci troviamo nel mezzo di un cambiamento radicale. Sebbene le azioni individuali possano, in un cortocircuito diretto di livelli, colpire il contesto sociale di “più alto” livello, il modo in cui colpiscono è imprevedibile […]. Il problema qui non è il terrore in quanto tale, il nostro compito oggi è precisamente quello di reinventare il terrore emancipatore […]. È sul piano di ciò che, in quanto opposto al “terrore astratto” della “grande” rivoluzione politica, si potrebbe chiamare il terrore concreto” teso a imporre un nuovo ordine alla realtà quotidiana, che, in ultima istanza, i giacobini, la rivoluzione russa e quella cinese hanno fallito, e ovviamente non per mancanza di tentativi in questa direzione. 101


Affidando alla democrazia egualitaria il carattere rivoluzionario dell’eccesso ontologico102, lo sloveno argomenta che il portato inevitabile e “positivo” della sua affermazione sia il Terrore astratto. Ma ciò genera un’altra serie di obiezioni, che ci impongono di pensare che il fantasma alla base della sua idea di rivoluzione impedisce la nascita e lo sviluppo del soggetto sociale, portatore della rivoluzione democratica che la creazione politica ha espresso nella storia sino a questo momento.

Innanzitutto, non è affatto chiaro come si possa passare, dall’esperienza di questo terrore, all’accettazione dell’assenza di fondamento della nostra esistenza, che lo sloveno vede come il portato emancipatore della rottura con l’ordine istituito. Ma il terrore che nasce dalla rottura, in quanto tale, non può assumere evidentemente questo compito.

Legare tale terrore alla democrazia diretta, poi, è alquanto arbitrario, perché, in questo modo, la pratica radicale democratica si caratterizzerebbe per la violenza di questa esperienza terrificante, della mancanza di fondamento per il nostro investimento psichico, e non per il fatto di fare crescere l”autonomia umana a tutti i livelli dell’esistenza. Tutto ciò non è giustificato: la rottura con l’ordine dato è qualcosa che caratterizza anche altri movimenti della società di segno del tutto opposto, ovvero di stampo fascista o di tipo autoritario. Perché solo la democrazia dovrebbe essere l’unica istanza istituente? Solo per opposizione radicale con l’ordine capitalista e con quanto costituisce i suoi fondamenti? Ma se è la reificazione diffusa a segnare la società attuale, come lo stesso filosofo sloveno sostiene103, com’è possibile che essa venga meno con la semplice rottura con dell’ordine stabilito e che non sia, invece, il frutto dell’autonomia umana? La disalienazione generale non sembra potere essere il frutto di una semplice negazione, data per opposizione all’ordine costituito. Inoltre, da cosa si può ricavare questo tipo di cambiamento dato per opposizione se guardiamo il nostro passato sociale-storico? E perché affidare al terrore, e non a questa dinamica di opposizione totale, il volto della rivoluzione?

Tra l’altro, il filosofo sloveno dovrebbe sapere bene che, e come, la società attuale si caratterizza per la paura e il terrore, diffusi da un’organizzazione della società in cui il conflitto umano manifesta quasi sempre in modo violento e dove l’orrore traumatico delle guerre sono è all’ordine del giorno, per cui risulta davvero sorprendente pensare che sia attraverso una forma astratta di terrore che si esprima una reale opposizione all’ordine dato.

Infine, come si potrebbe incarnare in una concreta pratica politica questo terrore astratto? Siamo sicuri che, evocando una rivoluzione sulla base del paradigma del potere, e riferendoci ancora al partito politico come all’istanza centrale dell’organizzazione della società, come fa Žižek104, si stia indicando la strada per una forma davvero liberatrice? Tutto ciò non appare solo improbabile, di fronte alla storia del movimento operaio del ‘900, ma alquanto discutibile anche se assumiamo la stessa prospettiva di Žižek, perché non c’è alcuna ragione ontologica per cui tale terrore prenda la forma di un’organizzazione della società, piuttosto che realizzarsi in modo radicale come disordine, Caos o anarchia politica. Da una prospettiva hegeliana e psicanalitica come la sua, Žižek avrebbe dovuto saper cogliere una verità che Marcuse ha espresso con chiarezza e che invece resta invisibile ai suoi occhi: «Il mondo oggetto è quindi il mondo di uno specifico progetto storico, né è mai accessibile al di fuori del progetto storico che organizza la materia; e l’organizzazione della materia è al tempo stesso un’impresa teoretica e pratica.»105

Insomma, la rivoluzione pensata da Žižek è un’illusione effimera, pericolosa e poco convincente.
Oltre la crisi della democrazia
Davanti a questi spettri della rivoluzione bisogna essere ancora più convinti che, per capire realmente in che modo chiarire la presenza di tracce politiche rivoluzionarie nella società mondiale, e ognuno nel proprio contesto collettivo, è meglio rivolgersi ad esperienze contemporanee prestando una particolare attenzione ai movimenti democratici radicali che le attraversano. Come ho fatto in questo lavoro, nel caso del nuovo Brasile repubblicano.

Ma che si può fare anche pensando ad altre esperienze sociali-storiche, come quelle dell’India e del Sud-Africa, dove movimenti sociali generali, che rivendicavano una politicizzazione della società, e forme realizzate e inedite di democrazia, hanno messo in discussione alcune delle più rilevanti pratiche di esclusione dal potere politico ed economico della maggioranza della popolazione, su cui si reggeva il dominio istituito, stimolando la nascita di nuove norme e forme di controllo di governo da parte dei cittadini, tanto da mettere in questione, anche se solo in parte, le forme di “rappresentanza” politica fino a quel momento in vigore in quei Paesi106. Non sempre sono utili alcune preziose disquisizioni sull’attuale crisi della democrazia, se queste, in ultima analisi, si limitano ad indicare come ampliare la sovranità popolare alla base del modello su cui s’è retta la cosiddetta “democrazia liberale”107, perché, in questo modo, non si comprende a pieno l’orizzonte della creazione politica, il salto di paradigma che essa si porta in seno rispetto alla democrazia istituita, e le potenzialità che, in forma discontinua e contraddittoria, ancora attraversano le nostre società in un tempo dell’affermazione incontrastata del capitalismo burocratico e finanziario globale. Potenzialità che si sono espresse, per esempio, in primo luogo con il movimento altermondialista, e, negli ultimi anni, con il movimento degli indignados in Spagna. Entrambe le prospettive politiche e democratiche rappresentano esempi preziosi da comprendere, criticare e sostenere108.

 

 

 

 

NOTE:

1 http://www.mondintermedi.it/index.php/articoli/7-gradi-illusione

2 Arrivo a questa conclusione sintetica dopo aver trattato il dialogo sulla filosofia politica tra Badiou e Rancière in Emanuele Profumi, Cornelius Castoriadis e la creazione politica, Tesi di dottorato presso La Sapienza di Roma, Anno Accademico 2008, pp. 108-17 (per la definizione si legga pag. 117).

3 Ivi., pp. 117-26.

4 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 297-302.

5 Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2003, pp. 206/216/228.

6 Pierre Clastres, La société contre l’état, Les éditions de minuit, Paris 1974, pp.20/21/136//176. A pagina 38 sottolinea come un politico non separato dalla società fonda il proprio potere sulla reciprocità tra gruppo e politica: Una relazione originale tra la regione del potere e l’essenza del gruppo si svela dunque qui: il potere intrattiene un rapporto privilegiato con gli elementi il cui movimento reciproco fonda la struttura stessa della società; ma questa relazione, negando in loro un valore che è di scambio a livello del gruppo, instaura la sfera politica non solamente come esterna alla struttura del gruppo, ma più come fosse una negazione di questo: il potere è contro il gruppo, e il rifiuto della reciprocità, come dimensione ontologica della società, è il rifiuto della società stessa.

7 François Furet, Critica della rivoluzione francese, Editori Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 7/30/33/45.

8 L’esempio più chiaro di questa tendenza generale è l’emergere della cosiddetta teoria del Caos, e, senza dubbio, Ilya Prigogine rappresenta uno dei maggiori interpreti di questa tendenza. Si legga per esempio, Ilya Prigogine, Le leggi del caos, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003.

9 John D. Barrow, El libro de la nada, Drakontos Bolsillo, Barcelona 2009, pp. 55-8/65/323.

10 Si vedano, per esempio, espressioni come en un rien de temps (in un batter d’occhio) o il était incapable de rien dire (non era capace di pronunciare parola).

11 Alain Badiou, Théorie du sujet, Seuil, Paris 1982, pp. 82/87/90/105/111/232-8/279/282/286-90.

12 Ivi., pp. 261/157.

13 Ivi., pp. 89/277-80/293-96.

14 Alain Badiou, L’être et l’événement, Ed. du Seuil, Paris 1988, pp. 43/65/67/70/72/74/82/87/ 113/205/207/209/278/431.

15 Ivi., pp. 71/103/113.

16 Ivi., pp. 91-2/101-2/109.

17 Ivi., pp. 88/103-4/162/167/176/179/183/200/205/211/225.

18 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 161/164/172/181/227. A pag. 289, addirittura, lo sloveno apostrofa Badiou come Cristo.

19 Ivi., pp. 181/191/198/199/203-5/213-4/226/228.

20 Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, Ed. du Seuil, Paris 2006, pp. 121/124/163-4/326/595.

21 Jacques Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie, op. cit., pp. 186/189.

22 Ivi., pp. 89-91; Jacques Rancière, Du politique à la politique, in Jacques Rancière, Aux bords du politique, Gallimard, Paris 1998, pp. 111/114; Jacques Rancière, La division de l’arkhè, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, La Fabrique, Paris 2009, p. 58.

23 Jacques Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie, op. cit., pp. 40/49; Jacques Rancière, L’impureté politique e Le plaisir de la métamorphose politique, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., pp. 165/205. Un chiarimento essenziale sul processo di soggettivazione lo troviamo in Jacques Rancière, Du politique à la politique, in Jacques Rancière, Aux bords du politique, op. cit., pp. 112-125.

24 Jacques Rancière, La division de l’arkhè, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., p. 58; Jacques Rancière, Du politique à la politique, in Jacques Rancière, Aux bords du politique, op. cit., p. 90.

25Si veda per esempio Jacques Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie, op. cit., p. 128.

26 Jacques Rancière, La communauté et son dehors, in Jacques Rancière, Aux bords du politique, op. cit., p. 173; Jacques Rancière, La haine de la démocratie, Ed. La fabrique, Paris 2005, pp.70/106.

27 Sulla definizione di polizia si legga Jacques Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie, op. cit., pp. 51-6.

28 La decisione si rende libera da ogni vincolo normativo e diventa assoluta in senso proprio. Nel caso d’eccezione, lo stato sospende il diritto, in virtù, come si dice, di un diritto di autoconservazione. […]. Non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos. Prima deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale, e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero. […]. Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. […]. Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto. […]. I concetti di amico, nemico e lotta acquisiscono il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La guerra consegue dall’ostilità poiché è questa negazione assoluta di ogni altro essere. La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di quotidiano o di normale, e neppure di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato. […]. La stessa lotta militare, considerata per sé, non è la “prosecuzione della politica con mezzi diversi”, come si attribuisce, in modo estremamente scorretto, alla famosa massima di Clausewitz, ma ha, in quanto guerra, le sue regole e i suoi punti di vista, strategici, tattici e di altro tipo, che però tutti, presuppongono che esista già la decisione politica su chi sia il nemico. […]. La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico. (Carl Schmitt, Le categorie del “politico”, Il mulino, Bologna 1999, pp. 39-40/116-7). La riflessione di Schmitt sullo Stato d’eccezione è impraticabile non solo perché naturalizza il politico, e lo fa utilizzando la violenta opposizione tra amico e nemico per contemplare la guerra come presupposto sempre presente della politica, ma perché conferisce allo Stato la decisione prima e ultima sulla nascita della norma collettiva: per Schmitt non si può riconoscere che il soggetto della norma è il movimento popolare, la popolazione tutta, o un attore democratico. Nel suo caso ci troviamo di fronte ad un politico che si sostiene grazie ad una decisione arbitraria, autoritaria, e qualsiasi filosofia politica che vi si rifà, sebbene per capovolgerlo, va guardata con sospetto.

29 In un regime democratico, la legittimità delle norme e delle istituzioni fondamentali dipende da quanto includente sia la partecipazione dei cittadini durante il momento straordinario e eccezionale della creazione costituzionale (Schmitt….). Precisamente perché il concetto di sovrano costituente ricolloca gli ideali normativi di libertà politica e autonomia collettiva nel centro della teoria democratica, mostra una teoria specifica della legittimità democratica. La politica costituente si può vedere come l’auto-istituzione esplicita e lucida della società, attraverso cui i cittadini sono chiamati insieme ad essere gli autori della loro identità costituzionale e a decidere le regole centrali e le procedure superiori che regoleranno la loro vita politica e sociale (Castoriadis…). (Adreas Kalyvas, Soberanía popular, democracia y el poder constituyente, in Política y gobierno, Vol. XII N°1, primero semestre de 2005 México D.F., p.116). Il maggior problema che incontra questa prospettiva è quello di non aver assunto la categoria filosofica e la realtà dell’immaginario, di conseguenza di non poter cogliere, così, la complessità della creazione politica, alla quale fa riferimento Castoriadis quando si riferisce all’autoistituzione della società (e non semplicemente alla creazione di una nuova costituzione o di un nuova legittimità politica). Benché la sua sia una delle possibili interpretazione del pensiero di Castoriadis, questo non si può ridurre ad essere il fondamento filosofico di una teoria della legittimità democratica, come fa Kalyvas.

30 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 297-301.

31 Wayne A. Selcher, Contradições, Dilemas e Protagonistas da Abertura no Brasil, 1979-1985, in AA.VV., A Abertura política no Brasil. Dinâmica, Dilemas e Perspectivas, op. cit., pp.120-1; José Álvaro Moisés, Sociedade civil, cultura política e democracia: descaminhos da transição política, in AA. VV., A cidadania que não temos, op. cit., p. 139; Alfred Stepan, Introdução e Scott Mainwaring, Os movimentos populares de base e a luta pela democracia: Nova Iguaçu e Margaret Keck, O “novo sindicalismo” na transição brasileira, in AA. VV., Democratizando o Brasil, op. cit., pp. 17-24/ 285-91/296-7/302/394; José Murilo de Carvalho, Cidadania no Brasil. O longo camino, op. cit., pp.184-187.

32 David Fleischer, O Congresso Brasileiro: da Abertura à Nova República, in in AA.VV., A Abertura política no Brasil. Dinâmica, Dilemas e Perspectivas, op. cit., pp. 143-7; José Álvaro Moisés, Lições de liberdade e de opresão, op. cit., p. 59; José Álvaro Moisés, Cidadania e Participação. Ensaio sobre o referendo, o plebiscito e a iniciativa popular legislativa na Nova Constituição,op. cit., pp. 28-30.

33 Una tesi analoga viene espressa in José Álvaro Moisés, Lições de liberdade e de opresão, op. cit., p. 171/111/118. Sulla dialettica tra governo e opposizione nell’ambito del processo di transizione si legga Thomas E. Skidmore, A lenta via brasileira para a democratizaçao: 1974-1985, in AA.VV., Democratizando o Brasil, op. cit., p. 71. Sulla presenza del movimento dei professori in quegli scioperi si legga sinteticamente Maria da Glória Gohn, História dos Movimentos e lutas sociais. A construção da cidadania dos brasileiros,op. cit., pp. 114-5.

34 Ralph Della Cava, A Igreja e a abertura, 1974-1985, in AA.VV., Democratizando o Brasil, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1988, pp. 248-9.

35 Scott Mainwaring, Os movimentos populares de base e a luta pela democracia: Nova Iguaçu e Margaret Keck, O “novo sindicalismo” na transição brasileira, in AA. VV., Democratizando o Brasil, op. cit., pp. 282/396/398/405/420.

36 Maria da Glória Gohn, História dos Movimentos e lutas sociais. A construção da cidadania dos brasileiros,op. cit., p. 118; Maria Paula Nascimento Araujo, Lutas democráticas contra a ditadura, in AA.VV., Revoluçao e democracia 1964…, op. cit.,pp. 342-7; Gotz Ottmann, Movimentos sociais urbanos e democracia no Brasil. Uma abordagem cognitiva, in Novos Estudos, n.41, op. cit., p. 199.

37 Gotz Ottmann, Movimentos sociais urbanos e democracia no Brasil. Uma abordagem cognitiva, in Novos Estudos, n.41, op. cit., pp. 192-3.

38 José Álvaro Moisés, Sociedade civil, cultura política e democracia: descaminhos da transição política, in AA. VV., A cidadania que não temos, p. 126 ; Brian Wampler e Leonardo Avritzer, Públicos participativos: sociedade civil e novas instituiçôes no Brasil democrático, in eds. Vera Schattan P. Coelho e Marcos Nobre, Participação e deliberação . Teoria democrática e experiências institucionais no Brasil contemporâneo, Editora 34 Ltda, São Paulo 2004, pp. 216-7; Edison Bertoncelo, A campanha das diretas e a democratização, op.cit., pp. 74-5; Gotz Ottmann, Movimentos sociais urbanos e democracia no Brasil. Uma abordagem cognitiva, in Novos Estudos, n.41, op. cit., p.197; Lucilla de Almeida Neves Delgado, Diretas-Já: vozes das cidades, in AA.VV., Revolução e democracia 1964…, op. cit., pp. 421-5.

39 Una posizione analoga e contraria alla presente, viene espressa da José Álvaro Moisés, Sociedade civil, cultura política e democracia: descaminhos da transição política, in AA. VV., A cidadania que não temos, p. 125.

40 Edison Bertoncelo, A campanha das diretas e a democratização, op.cit., pp. 72-5; Wayne A. Selcher, Contradições, Dilemas e Protagonistas da Abertura no Brasil, 1979-1985, in AA.VV., A Abertura política no Brasil. Dinâmica, Dilemas e Perspectivas, op. cit., p. 91; Arim Soares do Bem, A centralidade dos movimentos sociais na articulação entre o estado e a soiciedade brasileira nos séculos XIX e XX, op. cit., pp.1150-54.

41 Maria Victoria de Mesquita Benevides, A cidadania ativa. Referendo, plebiscito e iniciativa popular, Editora Atica S.A. São Paulo 1991, pp. 123-5.

42 I consigli popolari che si diffondono con la fine della dittatura in Brasile non a caso affermano, nei fatti, il profondo intreccio tra cittadinanza e partecipazione, e sono l’espressione più genuina del nuovo immaginario incentrato sulla solidarietà e sulla libertà in cui possiamo intravedere un paradigma alternativo a quello che subordina l’organizzazione della società allo Stato. Ana Maria Ramos Estevão, Democracia e Cultura de Participação no Brasil Pós-constituinte-2, in AA. VV., O Processo de Democratização na Sociedade Brasileira Contemporânea: 20 anos de Luta pela Cidadania, Sesc, São Paulo 1999, pp. 37-8. A questo proposito si legga anche quanto viene detto esplicitamente circa il nuovo paradigma di azione sociale portato dai movimenti in questione da Glória Gohn, História dos Movimentos e lutas sociais. A construção da cidadania dos brasileiros, pp. 156/203/

43 José Álvaro Moisés, Os brasileiros e a democracia. Bases socio-políticas da legitimidade democrática, op. cit., pp.124-5. Si legga anche il riferimento che viene fatto a questo proposito da Scott Mainwaring, Os movimentos populares de base e a luta pela democracia: Nova Iguaçu, in AA.VV., Democratizando o Brasil, op. cit., p. 308.

44 Una posizione analoga viene sostenuta anche da Francisco Whitaker Ferreira, O papel da Organizaçao Social (Popular) na conquista de Democracia, in AA. VV., O Processo de Democratização na Sociedade Brasileira Contemporânea: 20 anos de Luta pela Cidadania, Sesc, São Paulo 1999, p. 60.

45 Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., pp. 155/534-5.

46 Gianni Vattimo, Santiago Zabala, Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx, Garzanti, Milano 2012; Alain Badiou, L’hypothèse communiste, Lignes, Paris 2009.

47 Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., p. 391. Sul rinnovamento della filosofia per Badiou si legga Alain Badiou, Manifeste pour la philosophie, Ed. du Seuil, Paris 1989 (in particolare pp. 38-9).

48 Ivi., pp. 377/435. Per il resto delle affermazioni si leggano invece le pagine: 361/370/391/446/473; ma anche Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., pp. 43/ 407/474.

49 Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., pp. 374-5/544. ma anche Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., pp. 153/514/602.

50 Gianni Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009, pp. 73/75/15-6/109.

51 Ivi., pp. 30/35-6/44-6/85.

52 Ivi., pp. 15/17/35. Se l’essere vero fosse ciò che è oggettivo, calcolabile, dato una volta per tutte come le idee platoniche […] la nostra esistenza di soggetti liberi non avrebbe alcun senso, non potremmo dire di noi stessi che “siamo”, e sopratutto saremmo esposti al rischio di totalitarismo. […]. La conclusione a cui voglio giungere è che la verità come assoluta, corrispondenza oggettiva, intesa come ultima istanza e valore di base, è un pericolo più che un valore. […].Là dove la politica cerca la verità non ci può essere democrazia. Ma se si pensa la verità nei termini ermeneutici che molti filosofi del Novecento hanno proposto, la verità della politica sarà da cercare anzitutto nella costruzione di un consenso e di un’amicizia civile che renderanno possibile anche la verità nel senso descrittivo del termine.(Ivi., pp. 25-6). Si leggano anche le pagine 21/32/51/80/92/96/127.

53 Mats Rosengren, Doxologie. Essai sur la connaissance, Hermann, Paris 2011, pp. 7/9/10/21/33-4/49/53/55/64/68-9/78-9/85-95/110/121-4.

54 Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., p. 36.

55 Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., p. 380. Sulla politica come creazione si leggano anche le pagine 383 e 388 dello stesso libro e quanto dice esplicitamente sulla creazione come realtà trans-logica in Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., p. 535. Per il resto delle affermazioni si leggano Alain Badiou, La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica, Cronopio, 2004 Napoli, pp. 7-69 e Alain Badiou, Manifeste pour la philosophie, op. cit., pp. 85-91. Badiou parla anche esplicitamente di carattere evenemenziale della creazione politica in Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., p. 382.

56 Alain Badiou, Metapolitica, Cronopio, 2001 Napoli, p. 14.

57 Per Ricouer la funzione del corpo politico è quella di legare insieme i tre tempi, passato-presente-futuro: il filosofo ha parlato chiaramente anche dell’implicarsi dei tre tempi nella struttura simbolica umana: Una comunità politica è un fenomeno storico. È un processo cumulativo che conserva qualcosa del suo passato e che anticipa qualcosa del suo futuro. Un corpo politico non esiste solo nel presente ma nel passato e nell’avvenire e la sua funzione è di tenere insieme il passato, il presente e l’avvenire. […]. I simboli che regolano la nostra identità non provengono solo dal nostro presente e dal nostro passato ma anche dalle nostre aspettative rispetto al futuro. Aprirsi agli imprevisti, ai nuovi incontri, fa parte della nostra identità. L’ “identità” d’una comunità o di un individuo è anche una identità prospettica. (Paul Ricoeur, L’idéologie et l’utopie, Ed. du seuil, Paris 1997, pp. 278/408). Di Badiou si legga Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., pp. 315/405.

58 Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., pp. 406-7/531.

59 Ivi., p. 546. Sulla pluralità dei mondi si legga anche Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., p. 124.

60 Alain Badiou, Manifeste pour la philosophie, op. cit., pp. 85-91.

61Alain Badiou, Metapolitica, op. cit., pp. 157-9. Il carattere collettivo dell’evento politico ha come effetto che la politica presenta, in quanto tale, il carattere infinito delle situazioni. […]. Ogni politica di emancipazione rifiuta la finitezza, confuta l’ “essere per la morte”. Poiché una politica include nella situazione il pensiero di tutti, essa procede alla messa in evidenza dell’infinità soggettiva delle situazioni. Naturalmente, ogni situazione è ontologicamente infinita. Ma solo la politica convoca immediatamente, come universalità soggettiva, questa infinità. (Ivi., pp. 158-9). Si leggano anche le pagine: 40-1 e 63-5 e sulla idea del pensiero come figura soggettiva delle verità Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., p. 253 e Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., p. 429.

62 […]l’idea di giustizia è una politica il cui unico assioma generale è: la gente pensa, la gente è capace di verità. […]. Quindi, una politica tocca la verità nella misura in cui si fonda sul principio egualitario della capacità di discernimento del giusto, o del bene, tutti vocaboli che la filosofia apprende sotto il segno della verità di cui il collettivo è capace. […]. “Giustizia” è la qualificazione di una politica egualitaria in atto. […]. Ma la giustizia, che è il nome filosofico della massima politica egualitaria, non può essere definita, perché l’eguaglianza non è un obiettivo dell’azione, ma un suo assioma. Non c’è politica legata alla verità, senza l’affermazione -affermazione che non ha né garanzia né prova -di una capacità universale alla verità politica. […]. Ora, la giustizia, che è il nome teorico di un assioma di eguaglianza, rinvia necessariamente ad una soggettività integralmente disinteressata. Lo si può dire semplicemente: ogni politica d’emancipazione, o politica che prescrive una massima egualitaria, è un pensiero in atto. Ora il pensiero è il modo proprio secondo il quale un animale umano è attraversato e sovrastato da una verità. […].[…] “giustizia” significa sempre cattura filosofica di un assioma egualitario latente. Ma tale astrazione è inutile, dato che l’imperativo della filosofia è di cogliere l’evento delle verità, la loro novità, la loro traiettoria precaria. […]. Si è troppo spesso desiderato che la giustizia fondasse la consistenza del legame sociale. Mentre essa può nominare soltanto i momenti di inconsistenza più estremi dato che l’effetto dell’assioma egualitario è di disfare i legami, di desocializzare il pensiero, di affermare i diritti dell’infinito e dell’immortale contro il calcolo degli interessi. La giustizia è scommessa sull’immortale contro la finitezza […].[…]è infatti sempre in soggettività, piuttosto che in comunità, che si pronuncia la sentenza egualitaria che interrompe e rovescia il corso ordinario delle politiche conservatrici. (Alain Badiou, Metapolitica, op. cit., pp. 113-5/117-20). Alla base di queste affermazioni c’è la posizione ontologica badousiana, ben sintetizzata nell’affermazione che segue: “Più precisamente, si dimostra che l’infinità di un mondo (caratteristica ontologica) porta l’universalità delle relazioni (caratteristica logica). La logica estensiva dell’essere molteplice sussume la forma logica delle relazioni.”. Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., p. 318. Si veda anche, dello stesso testo, quanto Badiou dice rispetto all’indifferenza egualitaria a pagina 346.

63 Ivi., pp. 128-9. Sulla ragione della scelta assiomatica in filosofia di Badiou si legga Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., pp. 38-9, mentre sull’idea che la teoria del soggetto è assiomatica, alla base della sua concezione della politica, si veda invece, Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., p. 58.

64 Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., pp. 197/208/232. Si leggano anche le pagine 196/199-200/228/233 e Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., pp. 530-1.

65 Jacques Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie, op. cit., pp. 169-88; Colui che di principio dice che l’altro non capirà, che non c’è linguaggio comune, perde il fondamento per riconoscersi lui stesso dei diritti. […]. È l’avvenimento egualitario, la sua iscrizione, la messa in scena di questa iscrizione che trasformano la contingenza dell’essere-là insieme, che vi iscrivono il diritto infondabile della molteplicità. […]. L’essenza del consenso è l’annullamento del dissenso come scarto del sensibile a lui stesso, l’annullamento dei soggetti eccedenti, la riduzione del popolo alla somma delle parti del corpo sociale e della comunità politica ai rapporti d’interessi e d’aspirazioni di queste differenti parti. Il consenso è la riduzione della politica alla polizia. (Jacques Rancière, Du poltique à la politique e La communauté et son dehors e Dix thèses sur la politique, in Jacques Rancière, Aux bords du politique, op. cit., pp. 92/172/252).

66 Piuttosto che fondare un contro-potere che farebbe legge per una società a venire, si tratta di fare una dimostrazione di capacità che è anche una dimostrazione di comunità. Emanciparsi, non è fare secessione, è affermarsi come co-condividenti d’un mondo comune, presupporre, anche se le apparenze sono contrarie, che si può giocare lo stesso gioco dell’avversario. (…). Il presupposto egualitario non cuce solo il filo immateriale e poetico della comunità degli egual lungo tutta la grossa corda di finzione della società diseguale. Induce delle procedure sociali di verifica dell’eguaglianza, ovvero delle procedure di verifica della comunità nella società. (Jacques Rancière, Du politique à la politique e La communauté et son dehors, in Jacques Rancière, Aux bords du politique, op. cit., pp. 91/165). Una chiara affermazione della politica come invenzione collettiva la troviamo in Jacques Rancière, Le plaisir de la métamorphose politique, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., p. 204.

67 Jacques Rancière, L’impureté  politique, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., pp. 164-6. Tento di aiutare a ripensare ciò che “politico” vuole dire: la politica non come espressione d’una dinamica sociale che le sarebbe soggiacente, ma la politica pensata nel suo scarto con il gioco istituzionale e in ciò che essa vuole dire rispetto al modello strategico. […].[…]non c’è alcuna potenza ontologica del comune che fonda la politica. La politica non è l’affermazione della vita ma la sua divisione. La politica vuol dire che non c’è un’essenza una della comunità, ma sempre un conflitto tra plurime configurazioni del comune in seno d’una stessa comunità..( Jacques Rancière, L’impureté politique e Politiques de la mésentente, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., pp. 160/183). Si legga anche Jacques Rancière, La division de l’arkhè, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., pp. 57-65.

68 Le pagine più chiare, dove Rancière parla dell’eguaglianza come condizione della politica e del torto, come della struttura originaria dove si palesa l’eguaglianza alla base di ogni politica si trovano in Jacques Rancière, La Mésentente. Politique et philosophie, op. cit., pp. 52-67. La politica è anarchica perché l’eguaglianza non è un valore che si invoca ma un universale che deve essere presupposto, verificato e dimostrato in ogni momento, ma che non costituisce nessun assioma di base, bensì la forma del dissenso politico che rompe con l’idea che il politico sia l’essenza dell’essere in comune. Si legga anche Jacques Rancière, Du politique à la politique e La communauté et son dehors e Dix thèses sur la politique, in Jacques Rancière, Aux bords du politique, op. cit., pp. 16/113/115/229/235/261/244-5/251. Sulla concezione della democrazia si legga sopratutto Jacques Rancière, La haine de la démocratie, Ed. La fabrique, Paris 2005, pp. 55-8/103-5.

69 Jacques Rancière, La démocratie, un scandale nécessaire e Politiques de la mésentente, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., pp. 154/191.

70 Jacques Rancière, Mai 68 revu et corrigé e Le plaisir de la métamorphose politique, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., pp. 195/201. A pagina 95 e a pagina 207 troviamo un’altra considerazione rilevante: Ma sopratutto, il Maggio del ’68 è stata una rivelazione di un segreto sconvolgente: l’ordine delle nostre società e dei nostri Stati, un ordine apparentemente assicurato dalla molteplicità degli apparati statali di gestione delle popolazioni e attraverso l’intrecciarsi delle vite individuali nella logica globale dell’economia capitalista, poteva affondare nel giro di qualche settimana. Nel Maggio del ’68 in Francia, più o meno in tutti i settori, si vede rimettere in discussione le strutture gerarchiche che organizzano l’attività intellettuale, economica e sociale, come se si stesse rivelando all’improvviso che la politica non aveva altro fondamento rispetto all’illegittimità ultima di ogni dominio. Questo genere di rottura non conduce come tale a qualche risultato determinato. È piuttosto la rimessa in discussione di tutti gli schemi dell’evoluzione storica che assegnano a questa evoluzione uno scopo necessario. […]. Il ’68 ha rimesso in scena l’idea di rivoluzione, creando uno spazio-tempo proprio e sconvolgendo la distribuzione delle posizioni e del paesaggio comune. Vi si ritrova ciò che ha avuto luogo nelle rivoluzioni del XX secolo, nel 1830, 1848, 1871. Cioè un vacillamento globale della legittimità statale e dell’insieme delle autorità sociali intellettuali. A pagina 178 Rancière afferma esplicitamente, infine, che il ’68 ha rivelato il fondamento anarchico della politica, il suo essere l’affondamento di ogni ordine di legittimità portato dal dominio.

71 Jacques Rancière, L’impureté politique, Politiques de la mésentente e Communistes sans communisme?, in Jacques Rancière, Moments politiques. Interventions 1977-2009, op. cit., pp.160/184/226-32.

72 Cornelius Castoriadis, La révolution anticipée, in Edgar Morin, Claude Lefort, Cornelius Castoriadis, La Brèche suivi Vinght ans après, Ed. Fayard, Paris 2008 (in particolare pagina 136).

73 Edgar Morin, Claude Lefort, Cornelius Castoriadis, La Brèche suivi Vinght ans après, op. cit., pp. 62/69/276-7.

74 Alain Badiou, Théorie du sujet, op. cit., p. 146. A proposito dell’idea di rivoluzione si vedano anche le pagine 189/244/289.

75 Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., p. 380.

76 Alain Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, op. cit., p. 393. Si veda anche la tabella esplicativa e sintetica di pagina 395.

77 Alain Badiou, Metapolitica, op. cit., p. 41.

78 Dal 1793 diventa chiaro per Badiou che la politica non può che essere egualitaria e anti-statale e proiettata ad assumere un comunismo delle singolarità. Si legga in particolare Alain Badiou, L’être et l’événement, op. cit., p. 201 e in generale Alain Badiou, Metapolitica, op. cit.

79 François Furet, Critica della rivoluzione francese, op. cit., p.90/145-6. Si vedano anche le pagine 36/54/56/69/62-5/88/197/202/206.

80 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 295-9. Sulla centralità della prospettiva postmarxista legata ancora al paradigma del potere si legga anche Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Ponte alle grazie, Milano 2009, p. 470.

81Soggetto” significa che questa esplosione dell’Unità organica è già da sempre accaduta nel corso del processo dialettico, e che la nuova Unità “mediata” che appare di conseguenza non significa in alcun modo un ritorno della perduta Unità iniziale “a livello superiore”: nella totalità nuovamente ripristinata e “mediata”, abbiamo a che fare con un’Unità sostanzialmente differente, un’Unità fondata sul potere distruttivo della negatività, un’Unità nella quale questa negatività stessa assume un’esistenza positiva. […]. La mossa hegeliana non comporta un’accettazione rassegnata-eroica dell’Ordine positivo come unica realizzazione possibile della Ragione, comporta invece il rivelare come l’Ordine politico/poliziesco stesso si basi già su una serie di atti politici rinnegati e denegati, come il suo gesto fondante sia politico o anche, per dirla con Hegel, come l’Ordine positivo non sia niente altro che la positivizzazione della negatività radicale. (Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 121/296). Si leggano dello stesso testo le importanti pagine76/96/112/144., ma anche l’illuminante citazione della Fenomenologia dello Spirito che Žižek fa in Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, op. cit., p. 536.

82 Come vedremo a breve, la negatività viene interpretata da Žižek in senso politico come un gesto violento che afferma l’indipendenza totale di una decisione libera dal proprio contenuto concreto, e per questo assume Schmitt come riferimento importante per spiegare la fondazione della legge. La stessa prospettiva vale nel caso dell’etica, che viene intesa seguendo l’etica psicanalitica lacaniana, dove l’obiettivo principale è quello di tenere presente la latente mostruosità dell’essere umano, ossia la dimensione inumana propria della negatività dell’autocoscienza. Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 3/144/146 e Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, op. cit., pp. 208/281.

83 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 36-7/41/53.

84 Ivi., p. 191. La pulsione di morte non costituisce un’opposizione diretta e nichilista a un attaccamento che afferma la vita: piuttosto, è la struttura formale del riferimento al Nulla che ci mette in grado di superare lo stupido ritmo autocompiaciuto della vita e di diventare “attaccati appassionatamente” a una qualche causa […]per la quale siamo pronti a rischiare qualsiasi cosa. […]. La sublimazione presuppone la pulsione di morte, perciò, quando veniamo affascinati entusiasticamente da un oggetto sublime, questo oggetto è una “maschera della morte”, un velo che copre il Vuoto ontologico primordiale; come avrebbe detto Nietzsche, volere questo oggetto sublime equivale in effetti a volere il Nulla. […]. In altre parole, secondo Lacan il soggetto non è iscritto nella struttura ontologica dell’universo come suo vuoto costitutivo: al contrario, il soggetto designa la contingenza di un Atto che sostiene il vero e proprio ordine ontologico dell’essere. Il soggetto non apre un buco nell’ordine pieno dell’Essere: il soggetto è il gesto contingente-eccessivo che costituisce l’ordine universale dell’Essere. (Ivi., pp. 198-200). Si leggano anche le pagine 200-1/228/329/351. Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, op. cit., pp. 386/393/410.

85 Jacques Lacan, Il seminario Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino 1979, pp. 30-3/199-203.

86 Per Lacan il regno spaesante oltre l’Ordine dell’Essere è ciò che egli chiama il regno “tra le due morti”, il regno preontologico delle mostruose apparizioni spettrali, che è “immortale”, non nel senso badouiano dell’immortalità data dal partecipare alla verità, ma nel senso di ciò che Lacan chiama lamella, del mostruoso oggetto-libido “non-morto. […].[…]l’oggetto non morto indistruttibile, la vita priva di qualsiasi sostengo nell’ordine simbolico. (Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 191-2). Si legga anche pagina 200, Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, op. cit., p. 428 e Slavoj Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 81 e Slavoj Žižek, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 97.

87 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 204/207 e Slavoj Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, op. cit., pp. 30/50.

88 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., p. 357; Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, op. cit., p.74 e Slavoj Žižek, Il godimento come fattore politico, op. cit., p. 47. In quest’ultimo testo viene chiarito anche il concetto di violenza a partire dall’idea di come si costituisce una soggettività che veicola questo nucleo fantasmatico: C’è una distanza che separa permanentemente il nucleo fantasmatico dell’essere del soggetto dalle forme più “superficiali” delle sue identificazioni simboliche e/o immaginarie -non mi è mai possibile assumere completamente (nel senso dell’integrazione simbolica) il nucleo fantasmatico del mio essere: se mi avvicino troppo, se entro in contatto con esso, ciò che si verifica è l’aphanisis del soggetto: il soggetto perde la sua consistenza simbolica, si disintegra. La realizzazione forzata nella realtà sociale del nucleo fantasmatico del mio essere è, forse, la forma di vilolenza peggiore, la più umiliante, una violenza che mina alla base la mia identità (la mia “immagine di me”).(Ivi., p. 105).

89 Jacques Lacan, Écrits I, Ed. du Seuil, Paris 1999, pp. 164/170-5/180/185/266/277-8/298/352/413/428. Sul riconoscimento della rottura originaria si legga la pagina 123. Sulla centralità del problema dell’identità e dell’identificazione si leggano nello stesso testo le pagine 318-9/378. Sul desiderio alla base del soggetto come discorso dell’altro nell’ inconscio le pagine 263/266/296/377/436/522.

90 C. Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, op. cit., pp. 389/429/434-5/438.

91 Jacques Lacan, Écrits I, op. cit., pp. 93/96/177/259-60/414-5/418/426/439/452/518 (sul Me come istanza distinta dall’Io si leggano anche le pagine 43-6/465-7/473/536-7. Si veda anche Davide Tarizzo, Introduzione a Lacan, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 15-19.

92 Davide Tarizzo, Introduzione a Lacan, op. cit., pp. 13/36.

93 Condivido la tesi di Davide Tarizzo, Introduzione a Lacan, op. cit., pp. 54/56-7/67-8/76/86/102/107. Lacan afferma chiaramente l’impossibile emancipazione dall’eteronomia radicale in Jacques Lacan, Écrits I, op. cit., p. 522.

94 Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 197-8.

95 Emanuele Profumi, Cornelius Castoriadis e la creazione politica, op. cit., pp. 197-201.

96 Ivi., p. 201. Non a caso Žižek stesso ammette: Non siamo impotenti, ma, al contrario, onnipotenti, senza essere in grado di determinare la portata dei nostri poteri.( Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, op. cit., p. 562). Si legga anche Christopher Lasch e Cornelius Castoriadis, La culture de l’égoisme, Flammarion, Paris 2012.

97 La politica è proprio questa: il momento in cui una richiesta particolare non è semplicemente parte di una trattativa tra interessi opposti, ma punta invece a qualcosa di più, e comincia a funzionare come consensazione metaforica della ristrutturazione globale dell’intero spazio sociale.( Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., p. 262).

98 Il “soggetto” non è un nome per lo scarto di libertà e di contingenza che usurpa e viola l’ordine ontologico positivo, negli interstizi del quale è attivo e si muove: il “soggetto” è piuttosto proprio la contingenza che fonda l’ordine ontologico positivo stesso, è cioè il “mediatore evanescente” il cui piccolo gesto trasforma il caos della moltitudine preontologica nella parvenza di un ordine di realtà positivo e “oggettivo”. In questo senso ogni ontologia è “politica”, ovvero basata su un atto “soggettivo” di decisioone disconosciuto e contingente. (Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, op. cit., pp. 196-7).

99 Ivi., pp. 302-3.

100 Slavoj Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, op. cit., pp. 486-7/489. Žižek si riferisce a questa logica di fondo della trasformazione sociale anche quando deve valutare fenomeni politici di natura non rivoluzionaria, come quando si riferisce al rifiuto dei cittadini francesi e olandesi di sottoscrivere la nuova costituzione europea: Così, sebbene il “no” francese e olandese non sia sorretto da una visione alternativa coerente e dettagliata, esso almeno apre lo spazio per essa, aprendo un vuoto che richiede di essere colmato con nuovi progetti, in contrasto con la posizione a favore della Costituzione, che effettivamente impedisce di pensare, presentandosi a noi come un fatto compiuto politico-amministrativo.(Ivi., p. 344).

101 Ivi., pp. 548/562/218-9. Si vedano anche le pagine dove parla esplicitamente dell’idea di dittatura del proletariato confrontandosi con Rancière, Balibar e Badiou: pp. 513-20. Sul terrore anche le pagine 388/535/538.

102 Ivi., p. 331.

103 Non solo il mercato, ma tutta la nostra vita sociale è determinata da questi meccanismi reificati. (Ivi., p. 562).

104 Slavoj Žižek, Le spectre rôde toujours. Actualité du Manifeste du Parti communiste, Ed. Nautilus, Paris 2002, p. 90. Žižek ritiene, in questo testo, che, davanti all’impossibilità di una politicizzazione classica nella società post-politica attuale, c’è bisogno di reinventare il politico stesso. Ma, nella sua argomentazione non si rende conto che coglie nell’esclusione il tratto più inaccettabile del capitalismo postproprietà in cui viviamo, individuando, successivamente, nell’inclusione ecumenica del dominio istituito una delle sue caratteristiche principali. Si leggano a questo proposito le pagine 32/41/88/92.

105 Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1990, p. 224.

106 Si vedano le importanti analisi presenti in ed. Boaventura de Sousa Santos, Democratizar la democracia. Los caminos de la democracia participativa, Fce, Mexico 2004, pp. 62/70/80/112/121/124/138/473/483. Interessante è anche la posizione dello stesso Boaventura in merito alla trasformazione della società in senso democratico all’inizio del processo di diffusione del neoliberismo nel mondo. Boaventura de Sousa Santos, Reinventar la democracia, Ed. Seuitur, Madrid 2008.

107 Come fanno molti pensatori e studiosi contemporanei che si rivendicano sinceri democratici e che sposano diverse matrici teoriche e teorie del tutto diverse. Si vedano per esempio: Pierre Rosanvallon, La contre-démocratie. La politique à l’âge de la défiance, Ed. du Seuil, Paris 2006 o Marcel Gauchet, La democrazia contro se stessa, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2005 o Colin Crouch, Postdemocrazia, Editori Laterza, Roma-Bari 2003 o Fernando Quesada, Sendas de democracia. Entre la violencia y la globalización, Editorial Trotta, Madrid 2008.

108 Per quanto riguarda il “movimento degli Indignados” si legga Emanuele Profumi, El puente. Los indignados más allá de la idiocia política, Astrolabio. Revista internacional de filosofia, año 2011 n°12, pp. 114-27 e si veda il documentario Emanuele Profumi, Para Reabrir caminos. Un año de indignación, Barcelona 2012.

 

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