Dalla Struttura alle Scene. Riflessioni sull’itinerario teorico e politico di Jacques Rancière

Giovanni Campailla

 

Nuova immagine (6)Abstract.

This paper examines the reflection that Jacques Rancière developed, particularly, during the Sixties and Seventies. In this period, he contributed, at first, at the drawing up of the Lire le Capital, but, in the aftermath of May 1968, he criticized the structuralist reading of the Marx’s works carried out by Althusser. Rancière, through the critique to the positions of his ex master, created an original thought that investigates the contradictions of the critical theories. Finally, the paper suggests that the important proposal of rancièrian thought is the analysis of the “scenes of the emancipation”.

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L’interesse nei confronti di Jacques Rancière oggi è considerevolmente cresciuto: in Francia soprattutto, ma anche in Sud America, dove la sua tematizzazione politica è al centro di un vivo dibattito, e perfino nei paesi anglosassoni. Pure in Italia, particolarmente per la rilevanza data da alcuni studiosi al suo pensiero estetico, egli gode di una certa diffusione[1].

Quel che, tuttavia, in qualche caso si tralascia è l’esame del suo percorso filosofico e politico, che crediamo invece sia fondamentale per comprenderne l’originalità[2]. Il nostro scopo – probabilmente arduo da esaurire in queste righe – sarà innanzitutto quello di contestualizzare, concentrandoci soprattutto sulla sua genesi, la riflessione rancièriana, che, come vedremo, fa i conti principalmente con le aporie del pensiero critico dagli anni Sessanta ad oggi, e capire, in ultima analisi, quale sia la lezione che – parafrasando il titolo di una sua importante opera – il «maestro ignorante» Rancière ci lascia.

 

1.   Il punto di partenza è il rapporto di Rancière con Louis Althusser. A soli 25 anni egli contribuisce, con un saggio dal titolo Critica e critica dell’economia politica, alla stesura del noto Lire le Capital. È il 1965, lo stesso anno in cui Althusser pubblica anche il Per Marx irrompendo sulla scena delle discussioni marxiste con un paradigma teorico la cui importanza, soprattutto in Francia, è crescente: ossia lo strutturalismo.

Il “caimano” – così veniva chiamato dagli allievi dell’École Normale Supérieure di rue d’Ulm – immette dei concetti epistemologici (presi in gran parte dal suo maestro Gaston Bachelard), quali «rottura epistemologica», «pratica teorica», «surdeterminazione» e «struttura», nell’interpretazione di Marx, dividendo in tal modo l’itinerario del “moro” di Treviri in due tronconi: un «giovane Marx» preda dell’umanesimo feuerbachiano; e un Marx maturo, quello del Capitale, che supera le ambiguità del passato e studia in maniera scientifica le contraddizioni capitalistiche.

Lire le Capital verrà ripubblicato negli anni successivi altre due volte. La seconda edizione, del 1968, alla quale corrisponde la prima edizione italiana, presenta però soltanto i saggi di Althusser e di Étienne Balibar, tagliando quelli di Roger Establet, di Pierre Macherey e di Rancière. Il motivo ufficiale è un alleggerimento del volume. Eppure, la terza edizione, quella del 1973, reca di nuovo tutti i saggi del 1965[3]. Qual è la vera ragione di queste convulse riedizioni?

Più che una ragione, ve ne sono sicuramente molteplici, che non è il caso di esaminare una per una poiché si rischierebbe di bloccarsi in inutili dietrologie. Un’ipotesi però va posta; e non per mera completezza di analisi, bensì perché la contorta vicenda dell’althusserismo, oggi inspiegabilmente dimenticata, oltre ad aver lasciato un’eredità duratura nel pensiero critico attuale, costituisce il nodo fondamentale per comprendere l’evoluzione di Rancière.

Il saggio del nostro autore è, rispetto agli altri, in qualche modo problematico, perché, pur attenendosi nel suo insieme in maniera anche fin troppo didascalica allo schema strutturalista, arriva fino al limite di una tale interpretazione di Marx[4]. Concentrandosi sulla tematica del feticismo, egli inciampa in due pasticci teorici che rivelano i problemi dell’operazione althusseriana.

Il primo è il seguente. Marx – a parere di Rancière – vorrebbe spiegare, tramite il feticismo, la dissimulazione ideologica prodotta dai rapporti di produzione capitalistici, postulando il bisogno di una scienza capace di chiarirli. Il giovane filosofo francese raccoglie pertanto il presunto insegnamento marxiano, cercando di capire quale sia la causa strutturale che sta dietro le apparenze della circolazione delle merci. Ed è proprio qui che egli si trova disarmato: è possibile dire che la struttura capitalistica si muova da sé stessa in maniera così anonima? Se il capitalista e l’operaio devono essere ridotti a semplici supporti della riproduzione capitalistica, chi domina realmente? Rancière non risponde puntualmente a queste domande e pare presupporre nel suo discorso, deviando dalla linea dei coautori, la necessità di un soggetto, che egli identifica con i medesimi rapporti di produzione[5].

Ma il secondo problema svela ancora di più le aporie dello strutturalismo. Perché – si chiede l’autore – nel Capitale, cioè nell’opera che bisognerebbe considerare come la vera scienza marxiana, permane una questione tanto «ideologica», ovvero il feticismo, che addirittura in alcuni passi del III libro viene confusa con l’alienazione?[6] La risposta di Rancière è che Marx, in verità, neanche nella sua opera più matura abbia definitivamente rotto con il suo pensiero giovanile e che debba essere perciò compito dell’interprete coglierne il nucleo scientifico. Ora, però, se Marx nel Capitale non ha superato le sue ambiguità passate, è chiaro come la «rottura epistemologica» con l’umanesimo feuerbachiano non sia mai avvenuta, e quindi come il suo percorso teorico, più che “discontinuo”, lo si debba pensare come assolutamente “lineare”.

Sono questi limiti, mostrati magari involontariamente, a determinare, secondo la nostra ipotesi, l’esclusione del saggio rancièriano dall’edizione del 1968. È bene ricordare, a dimostrazione di ciò, che dal 1966 al 1968 la scuola althusseriana vive un periodo di profonda crisi, che coincide sostanzialmente con le scissioni interne ai Cahiers marxistes-leninistes, i quali erano stati il principale organo di elaborazione delle teorie dei primi anni Sessanta ed i cui membri adesso si dirigono verso posizioni maoiste[7]. È proprio in questo periodo che Althusser e gli ultimi suoi fedeli si trincerano in una posizione ortodossa di difesa della Teoria e del Partito, che chiaramente non avrebbe potuto accettare un’esposizione tanto equivoca dello stesso strutturalismo com’è, appunto, quella di Rancière.

La ricomparsa del saggio nell’edizione del 1973 ha invece un’altra ragione. In questo anno si assiste ad una sorta di rifondazione dell’althusserismo: Balibar scrive un articolo in cui, rimproverandosi di aver tralasciato il feticismo, spiega di non essersi accorto che anche nel Capitale permanga una problematica prescientifica[8]; Althusser pubblica la Réponse à John Lewis riproponendo le sue vecchie teorie, colorandole però di maoismo; Le Monde ospita la polemica che si innesca su quest’ultimo libro in particolare tra Emmaneul Terray e Rancière[9]. In breve, l’althusserismo, che subito dopo il 1968 aveva perso la forza che prima possedeva, prova una massiccia ristrutturazione tesa a rielaborare i concetti precedenti presentandoli in altra veste (quella maoista), ma non smettendo gli abiti di detentrice della scienza necessaria alle masse[10]. La riedizione del 1973, riportando saggi un po’ controversi come quello di Rancière, vuole allora indicare un alleggerimento dogmatico e una apertura verso le nuove forme di lotta.

Rancière, tuttavia, ha nel frattempo cambiato idea e, essendosi definitivamente staccato dallo strutturalismo all’indomani del Maggio, scrive un testo per chiarire la sua posizione. L’articolo, nonostante un primo accordo fra i coautori, resta inedito e viene pubblicato in seguito nella rivista Les temps modernes diretta da Jean-Paul Sartre. È in seguito a questo evento che Rancière, nel 1974, scrive La leçon d’Althusser.[11]

 

2.   La diatriba editoriale appena riportata non è fine a sé stessa, ma si inserisce in un contesto di lotte e addirittura di concezione della lotta che ne determinano profondamente il significato. È pienamente giustificato che una scuola di pensiero tenti in qualche modo di rafforzare la propria dottrina e adattarla ai mutamenti storici. Ma il problema è che gli otto anni che separano il 1965 dal 1973 segnano un passaggio decisivo non soltanto a livello teorico, bensì anche a livello politico, per tutto l’insieme delle teorie e delle pratiche emancipatrici. L’althusserismo non rimane così circoscritto nel dibattito filosofico, ma detiene degli effetti politici fondamentali.

È questo il motivo per cui Althusser non comprende il movimento sessantottino, accusando piuttosto gli studenti insorti di essere dei «piccolo borghesi» che divergono dalle linee imposte dal Partito comunista francese. In verità, Althusser tenta di rivedere la propria posizione, ma reagisce all’antiautoritarismo del Maggio aggiustando la propria dottrina con continue autocritiche, che non riescono a recepire fino in fondo la novità imposta dal conflitto sociale. Egli, infatti, sebbene si autoaccusi di «teoricismo», continua a pensare all’emancipazione come ad un processo guidato da un’avanguardia che, essendo scientificamente formata, sia legittimata a dettarne la strategia. L’autore del Per Marx, insomma, non capisce che il paradigma da lui utilizzato in passato non tenga più e ciò fa sì che il suo discorso diventi preda di una lettura anti-gauchiste degli avvenimenti[12].

La reazione antisessantottina riutilizza, ad esempio, un articolo del 1964 in cui Althusser difendeva il sapere accademico come un campo neutro[13]. Essa dimostra poi, tramite la teoria althusseriana dell’ideologia, che la società sia un tutto unitario retto da un’ideologia dalla quale non è possibile uscire né nei paesi capitalistici né in quelli del socialismo reale[14]. La reazione, in sostanza, rielabora il pensiero di Althusser per indicare come le pratiche del ’68 siano del tutto utopistiche, in quanto sarebbero inconsapevoli del fatto che i rapporti di produzione capitalistici debbano riprodursi necessariamente e che quindi non li si possa affatto trasformare; quel che al massimo si può fare è comprenderli a fondo.

La rottura di Rancière col suo maestro avviene esattamente per queste ragioni, che sono chiaramente di segno politico, ma che ciononostante investono pure l’ambito teorico. Infatti, il problema di Althusser sta proprio nel mantenersi in una posizione da scienziato, mediatagli, a ben vedere, dall’analisi strutturalista della realtà. Se la struttura rimane qualcosa che non appare in superficie e che può pertanto essere svelata soltanto da un intellettuale esperto, essa simultaneamente diventa una sorta di essenza nascosta che separa i filosofi dai non-filosofi, i dirigenti di Partito dalle masse militanti, chi può prendere le decisioni e chi deve rispettarle, e conferisce di conseguenza al teorico una netta collocazione di dominio.

Si potrebbe obiettare che anche questa sia una questione squisitamente politica e, tra l’altro, confinata alla sequenza storica che stiamo trattando. Ma non è così. Crediamo invece che la vicenda althusseriana, oltre a spiegare l’opera successiva di Rancière, permanga fondamentalmente anche nel nostro presente per un fatto ineliminabile che riguarda dall’interno l’intera storia della filosofia politica occidentale.

Se pensiamo che lo strutturalismo non sia soltanto un paradigma epistemologico e che l’organizzazione partitica non sia soltanto una certa configurazione politica, osserviamo come Althusser, fondendo la Scienza e il Partito, approdi al culmine del rapporto tra la filosofia e la politica. Come infatti ha osservato Rancière nell’opera più nota del suo pensiero maturo, La mésentente, “filosofia politica” è un ossimoro, perché fra il termine “filosofia” e quello di “politica” vi è una tensione che dura sin da Platone, il quale, osservando come nella polis greca la politica coincida con l’istituzione di una comunità conflittuale che non riconosce dei requisiti – quali nascita, ricchezza o sapienza – per governare, si ingegna nella creazione di una disciplina che includa gli inevitabili eccessi polemici della politica per riportarli all’ordine di un arché tale da conferire un significato alla città stessa. È la filosofia, secondo Rancière, ad aver messo ordine al disordine politico ogni qualvolta questo si fosse manifestato[15]. E Althusser, forse involontariamente, all’indomani del ’68, non faceva altro che ripetere l’operazione che ha contraddistinto da sempre la filosofia politica: ossia, normalizzare l’eccesso politico sotto la razionalità gerarchica sociale.

 

3.   Da qui l’itinerario di Rancière si dirige verso una vigorosa critica alla filosofia[16] o in qualche modo al concetto strutturalista di scienza, che segnerà tutto lo sviluppo successivo del suo pensiero. Egli si immerge nello studio archivistico dei pamphlet e dei dibattiti circolanti negli ambienti operai ottocenteschi, cercando di capire quale rapporto intercorresse già nel XIX secolo tra i movimenti popolari e le teorie che le rappresentavano. E scopre, per questa via, come il rapporto fosse tutt’altro che continuativo. Anzi, al contrario, secondo l’autore, esso si contraddistingue già da allora per una tensione, che attecchisce la medesima costituzione del nesso tra la teoria e la prassi.

È in questo contesto che Rancière abbandona il commento dei testi marxiani, rivolgendo la propria attenzione verso l’analisi della relazione di Marx con i proletari. Per il filosofo francese le dottrine marxiane hanno il merito, più di quelle di Saint Simon, di Cabet o di altre, di tentare di fare una sintesi con la realtà della pratica politica; si potrebbe addirittura dire che esse siano una certa trasposizione della politica nella teoria. Tuttavia, questo scambio tra filosofia e politica resisterebbe, secondo Rancière, soltanto fino alla disfatta operaia del giugno 1848, perché da questo momento in poi inizia invece quel processo che Marx stesso definiva «a passo di gambero» e che si conclude con l’incoronazione di Luigi Bonaparte al titolo di Napoleone III. In tale processo sono i movimenti proletari a venir meno, e la teoria, perciò, a parere del nostro autore, si trova senza più la base di lotta che prima la sorreggeva. È proprio in questa circostanza che la teoria marxiana diventerebbe scienza: leggerebbe, cioè, la «farsa» della «tragica» rivoluzione francese con la lente prospettica della teoria[17].

Ora, la descrizione rancièriana, probabilmente, è troppo intrisa di polemica con il pensiero del suo ex maestro per poter essere presa seriamente in considerazione. Da un certo punto di vista, potrebbe sembrare che essa ne rovesci a tal punto i presupposti da concludere che sia buono il giovane Marx, anziché quello maturo. Questa lettura, però, oltre ad arrivare ad una conclusione sbagliata, traviserebbe anche quel che Rancière vuole effettivamente dire.

Infatti, la descrizione a cui ci riferiamo è quell’articolo, di cui parlavamo prima, che egli scrive nel 1973 per spiegare il suo distacco da Althusser; articolo espulso, come dicevamo, dalla terza edizione di Lire le Capital e poi pubblicato in Les temps modernes. Ad esso però seguono delle ricerche molto più intense (come La Parole ouvrière e soprattutto La nuit des prolétaires[18]), che spiegano in maniera più precisa come la questione non riguardi tanto la teoria marxiana presa isolatamente, quanto piuttosto i rapporti che nei primi decenni del XIX secolo, ovvero quando sorge il movimento proletario, intercorrono tra le teorie che cercano di rappresentarle e la realtà sociale a cui queste si riferiscono.

Rancière, allora, non dice che il Marx maturo non vada più bene in quanto divenga uno “scienziato”, bensì che il suo riferimento ai conflitti sociali si faccia più complesso. Marx, cioè, sebbene rafforzi il ruolo della teoria, non abbandona il legame con essi. La dimostrazione di ciò è la tematica del feticismo. Questa, appunto, fa andare in crisi l’epistemologia althusseriana – sostiene l’autore rivedendo la sua vecchia posizione – perché non conferisce alcun compito interpretativo al teorico. Essa, quindi, non è un concetto della scienza, ma, al contrario, il riflesso del sogno operaio di una comunità di uomini che scambiano liberamente i loro prodotti. È questo sogno, coagulo di tanti altri riflessi della pratica nella teoria marxiana, nell’ottica di Rancière, a non aver mai lasciato le preoccupazioni di Marx. Infatti – dice in ultimo – è vero che si tratta di una questione ideologica, ma non potrebbe essere altrimenti perché «l’idea della rivoluzione è abbastanza ideologica»[19].

L’autore, insomma, vede nell’itinerario marxiano una certa continuità, anche se disturbata a volte dalle congiunture storiche che la condizionano. Indubbiamente, il suo non è da considerare come il miglior commento all’opera di Marx che sia mai stato scritto. D’altronde – come dichiara esplicitamente egli stesso e come abbiamo detto noi poc’anzi – l’obiettivo rancièriano non è proprio quello di un’analisi filologica del pensiero del “moro” di Treviri, bensì quello di esaminare il rapporto tra la teoria e la prassi. E questo rapporto appare in tutta la sua complessità non solo e non tanto per ciò che riguarda Marx, quanto soprattutto per quel che concerne la lettura strutturalista di Marx. L’interpretazione althusseriana non faceva che spostare da un solo lato il legame marxiano con le masse, così da imporre una concezione della lotta che non avrebbe più fatto sussistere delle realtà autonome come quelle sessantottine. Essa quindi si rivela essere un’operazione politica, prima che teorica, che appoggia, forse in modo non intenzionale, la reazione conservatrice contro i movimenti di emancipazione.

La polemica rancièriana e la nuova direzione che egli impone alla sua ricerca diviene allora premonitrice di un’evoluzione del pensiero althusseriano, che Althusser stesso non riesce più a controllare. Nella seconda metà degli anni Settanta, André Glucksmann – un suo allievo poi passato al maoismo – si fa promotore, insieme a Bernad Henry Lévy e altri, del movimento chiamato nouvelle philosophie, che raccoglie il consenso delle classi dominanti nel tentativo di criminalizzare tutto il pensiero critico. È questo anche il periodo in cui si palesa la cosiddetta “crisi del marxismo”, che porta in sé una vistosa stanchezza delle dispute accademiche, tale da richiedere nuovi campi di studio. Ma soprattutto questa è l’epoca della ristrutturazione capitalistica, che negli anni immediatamente successivi, con la controrivoluzione reaganiana e tatcheriana, completa la fine di un pensiero la cui importanza, per due secoli, era stata al centro delle preoccupazioni borghesi. Come si vede in particolar modo a livello teorico – con la stesura da parte degli intellettuali della Trilaterale de La crisi della democrazia, in cui la vita democratica viene raffigurata come un pericolo per le istituzioni della democrazia, intendendo con la prima il conflitto e con le seconde le élites governative – l’opinione dominante di questa congiuntura storica soffoca completamente l’idea che la politica coincida con il conflitto, e la riduce a mera governance.[20]

 

4.   Dopo anni di ricerche negli archivi dell’emancipazione ottocentesca, Rancière nel 1987 scrive un libro su un personaggio che aveva già incontrato, insieme ad altri, durante la stesura de La nuit des prolétaires, Joseph Jacotot[21] – il quale è, a tutti gli effetti, una figura esattamente opposta a quella di Althusser. Jacotot fu un maestro vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, che, in seguito a varie peregrinazioni da un mestiere all’altro e da una città all’altra, divenne insegnante di francese presso l’Università di Lovanio. Qui egli si trovò di fronte ad una classe di allievi olandesi che non parlavano affatto il francese. Neanche lui, d’altra parte, capiva l’olandese. Per intendersi, egli diede loro un libro pubblicato in quell’epoca in versione bilingue, impartendogli di confrontare le due lingue. Il risultato fu una inattesa comprensione da parte degli studenti di Lovanio. Fu così che Jacotot cominciò ad elaborare la sua teoria della uguaglianza delle intelligenze.

L’utilizzo rancièriano dell’idea jacotista si inserisce, in prima battuta, in maniera critica in seno alle discussioni sulla riforma scolastica, che perduravano in Francia già dall’inizio del periodo Mitterand, fra le posizioni ispirate alle analisi di Bourdieu e Passeron (con le quali Rancière aveva intrattenuto una dura polemica sin dal 1983 in particolare ne Le philosophe et ses pauvres[22]) e quelle neorepubblicane di Jean-Claude Milner (la cui critica continuerà poi ne L’odio per la democrazia del 2005[23]).

Ma la riemersione di Jacotot operata da Rancière, riguarda soprattutto la nuova concezione della lotta che il nostro autore – guardando criticamente le evoluzioni del pensiero rivoluzionario novecentesco – tenta di proporre. A partire da Jacotot, egli dichiara infatti che l’uguaglianza non debba essere pensata come un fine da raggiungere, bensì come un presupposto dal quale partire e verificare nelle contraddizioni disegualitarie che gli individui in lotta vivono in prima persona.

È questo rilevante riorientamento del concetto di uguaglianza che Jacotot, secondo Rancière, metterebbe in campo a partire dalla sua epoca, e che adesso bisognerebbe prendere come lezione per rilanciare la politica d’emancipazione. Della quale, però, non dovrebbe più essere posto un unico paradigma che condizioni tutti gli altri conflitti, come l’idea che solo la lotta della classe operaia determini un vero rapporto antagonistico con il sistema capitalistico. Ma piuttosto l’emancipazione dovrebbe essere intesa come una serie di scene conflittuali, capaci di scardinare – in modi non predeterminati da alcuna teoria – la partizione sociale che divide gli individui per riunirli in una comunità unitaria e gerarchica.

Di scene conflittuali Rancière ne narra tante. Ci fermiamo sulla più importante. È la scena della cosiddetta secessione plebea sull’Aventino del 494 a.C., raccontata per la prima volta da Tito Livio e rinarrata nel 1829 da Pierre-Simon Ballanche[24]. Al nostro autore interessa particolarmente la riscrittura fattane dallo storico ottocentesco, il quale vedeva in essa la «formula generale di ogni politica d’emancipazione»[25]. I plebei, che, separandosi dalla città, mettono in scacco la presunta superiorità naturale dei patrizi, impongono una partizione sociale inedita, a tal punto che il tribuno Menenio Agrippa, per ristabilire lo status quo minato da questi, è costretto a discutere con loro presumendoli uguali a qualsiasi altro membro della comunità. Per Ballanche la secessio plebis è dunque una scena che ha a che fare con la capacità di parola: a suo parere, infatti, se i patrizi presumono che i plebei non sappiano argomentare, ma soltanto fare rumore, e siano perciò destinati ad obbedire, più che a comandare, questi, invece, dimostrano tutto il contrario. Rancière – che riformula ulteriormente l’avvenimento – nota allora un elemento che fa da nodo centrale a tutto il suo pensiero politico e filosofico. La manifestazione di uguaglianza a cui si assiste in questa scena è possibile perché i presunti incapaci presumono essi stessi come essere capaci. Così facendo, i plebei ridisegnano, con un atto al contempo estetico e politico, la «pluralità del sensibile» che presiede all’ordine sociale. Ed è per questo, nella prospettiva rancièriana, che, riguardo alla scena dell’Aventino, si può parlare di «momento» di emancipazione.

Questa è la rappresentazione, presentataci da Rancière nei suoi testi più maturi, della divisione comunitaria, da lui chiamata polizia, che le scene della politica hanno l’obiettivo di scardinare. L’ordine, per il filosofo francese, stabilisce dei posti sociali, distribuendoli ai vari membri della comunità. Pertanto, alcuni fanno parte a pieno titolo della comunità ed altri, al contrario, sono dei «senza-parte»: ossia, sono inclusi in quanto strumento di legittimazione della superiorità dei primi, ma, per lo stesso motivo, esclusi in quanto non hanno alcuna voce in capitolo in sede deliberativa. Una simile divisione non riguarda solo, come potrebbe sembrare, la separazione fra i rappresentanti e i rappresentati, bensì sta alla base dell’esistenza di una ragione dominante (ad esempio, l’arché greco che giustifica l’esclusione degli schiavi dalla ekklesia, o il progresso dell’epoca moderna che scinde gli avanguardisti dagli attardati) di cui le scene rivoluzionarie svelano la contingenza.

 

5.    Seppur tracciata in modo così poco approfondito, la teoria rancièriana più matura si rivela essere una risposta importante alle aporie della scuola di Althusser. Ci pare evidente, infatti, come l’operazione di Rancière sia tesa soprattutto a superare l’involuzione di quella dottrina, palesandone le cause. Alla struttura – la cui analisi conferisce al teorico un compito dominante in seno ai rapporti fra le varie lotte, ma che perciò stesso lo conduce in un ambito lontano da queste e prossimo invece alla costituzione di un’opinione pubblica impegnata ad organizzare il consenso verso l’ordine sociale – egli contrappone le scene – eterogenee e slegate da qualsiasi razionalità consensuale – in cui viene alla luce la divisione sociale dissimulata dalla presunta omogeneità della comunità.

Che alla struttura debbano essere sostituite le scene è probabilmente anche il risultato dell’antiautoritarismo – derivante da una certa lettura del maoismo – che ha investito la vicenda althusseriana. Il maoismo, che veniva ripreso dagli intellettuali anti-althusseriani (ma anche, con propositi diversi, dagli stessi althusseriani), non era di fatto un modo per riscoprire l’esperienza del Grande Timoniere, ma piuttosto una riflessione sulla difficile dialettica tra la teoria e la prassi, che proveniva dal privilegio dato da Mao alla seconda rispetto alla prima. Rancière riconosce oggi come lo scopo di Mao, al di là dell’idea di rimettere il potere nelle mani del popolo, fosse in realtà quello di riconquistare la direzione perduta in seno all’apparato del Partito comunista cinese, e ravvisa pure le contraddizioni di questa teoria allora in voga. Ma dichiara come la Rivoluzione culturale cinese fosse divenuta il simbolo della critica alla scuola di Althusser, perché in essa si vedeva la possibilità di un modello di comunismo diverso da quello tradizionale dei partiti occidentali e sovietici[26].

L’accusa di dogmatismo rivolta allo strutturalismo e al Partito comunista francese significava dunque, per Rancière, un modo per rilanciare l’emancipazione senza inciampare negli errori  commessi precedentemente. Un rilancio che lo stesso Althusser, all’inizio degli anni Sessanta, aveva provato, ma che era poi approdato nella mera affermazione dell’autonomia del teorico. Si capisce, quindi, come le scene rimangano l’unica alternativa ad una idea di emancipazione che gli ultimi decenni hanno spazzato via.

La polemica politica, tuttavia, resta sempre in Rancière una questione anche e nello stesso tempo teorica. La sua professata tendenza a definirsi uno «studente perpetuo»[27] o a rifarsi al «maestro ignorante» Jacotot, fa parte a pieno titolo della propensione rancièriana a concepire altrimenti la filosofia politica. Sembra chiaro, infatti, come il suo atteggiamento anti-scientifico sia in effetti una maniera per fare una filosofia che osservi il conflitto politico senza determinarlo, ma descrivendone piuttosto le potenzialità e i limiti. Questo, crediamo, sia ciò che emerga quando Rancière, in interviste recenti[28], parla del movimento altermondialista, della primavera araba o di alcuni film e installazioni artistiche – che egli considera, al pari dei movimenti politici, come forme che condividono o dividono il regime poliziesco.

In conclusione, possiamo dire che, per questi motivi, Rancière sia un intellettuale oggi fondamentale per capire le antinomie che hanno contraddistinto il pensiero critico particolarmente dagli anni Sessanta ai giorni nostri, e rilanciarne così la possibilità. La contestualizzazione storica che abbiamo cercato di indicare in questo articolo può essere utile al fine di una più precisa considerazione della sua riflessione, e la nuova direzione di ricerca che essa impone – a partire dalla considerazione critica della relazione tra filosofia e politica – è un problema su cui bisognerebbe interrogarsi puntualmente.



[1]    La bibliografia francese su Rancière è molto vasta da riportare qui, ci limitiamo quindi ad indicare i vari saggi contenuti in Cornu L., Vermeren P., (a cura di), La philosophie déplacée, Horlieu, Lione 2006. Lo stesso vale per quella sudamericana e anglosassone. Per l’interesse verso il pensiero estetico di Rancière in Italia rimando principalmente al numero 9 della rivista «Fata Morgana» in cui è contenuta pure l’intervista realizzata da Roberto De Gaetano a Rancière cfr. Disaccordo, «Fata Morgana», n. 9, 2010, e al volume pubblicato dopo il seminario su Rancière tenutosi presso l’Università della Calabria tra il 2 e il 6 marzo 2010 cfr. AA. VV., Politica delle immagini. Su Jacques Rancière, a cura di R. De Gaetano, Pellegrini, Cosenza 2011.

[2]    Un saggio italiano molto interessante sul percorso politico e teorico di Rancière è quello di Damiano Palano, Lo scandalo dell’uguaglianza. Alcuni appunti sull’itinerario teorico di Jacques Rancière, in «Filosofia Politica», n. 3, dicembre 2011.

[3]    La prima traduzione italiana è Althusser L., Balibar É., Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano 1968. Recentemente il testo è stato ripubblicato con tutti i saggi della prima edizione del 1965 cfr. Althusser L., Balibar É., Establet R., Macherey P. e Rancière J., Leggere il Capitale, a cura di M. Turchetto, traduzione di D. Condadini, Mimesis, Milano 2006. Il saggio di Rancière era tuttavia già apparso nel 1973 cfr. J. Rancière, Critica e critica dell’economia politica. Dai “Manoscritti del ’44” al Capitale, a cura di P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1973.

[4]    La problematicità del saggio di Rancière rispetto agli altri di Lire le Capital è stata mostrata da Pier Aldo Rovatti nella sua introduzione al testo (op. cit., pp. 5-24). Prendiamo spunto quindi dalla sua riflessione, ma, d’altra parte, ce ne allontaniamo perché egli sbaglia a leggere in Rancière una teoria tacita del «soggetto ontologizzato, preda del proprio inconscio». Crediamo, infatti, che Rancière nel 1965, pur arrivando al limite dello strutturalismo, resti comunque strutturalista. Delle osservazioni critiche verso il testo rancièriano sono state scritte, invece, da Giuseppe Bedeschi in Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx, Laterza, Bari 1968, pp. 167-175.

[5]    «Il rapporto di produzione determina, come abbiamo visto, da una parte una funzione di soggetto, dall’altra una funzione d’oggetto, ed è esso che effettua sia la Darstellung dell’oggetto, sia quella che chiameremo, con un termine ripreso da Lacan, la messa in scena del soggetto» in J. Rancière, op. cit., pp. 137-138.

[6]    In particolare nel capitolo XXIV intitolato Esteriorizzazione del rapporto di capitale nella forma del capitale produttivo di interesse, Marx si esprime così: «Nel capitale produttivo d’interesse, il rapporto di capitale giunge alla sua forma più alienata e feticistica» in K. Marx, Il Capitale, libro III, a cura di B. Maffi, Utet, Torino 2009, p. 493.

[7]    Sull’importanza dei Cahiers marxistes-leninistes in seno allo sviluppo e poi al declino dell’althusserismo rimando all’interessante saggio di F. Chateigner, D’Althusser à Mao. “Les Cahiers marxistes-leninistes” in Pro chinois et maoisme en France (et dans les espaces francophones), in «Dissidences», n. 8, 2010.

[8]    Cfr. É. Balibar, Sur la dialectique historique. Quelques remarques critiques à propos de “Lire le Capital”, in «La Pensée», n. 170, agosto 1973 [trad. it. Sulla dialettica storica. Note critiche su «Leggere il Capitale», in Cinque studi di materialismo storico (1974), De Donato editore, Bari 1976, pp.208-250].

[9]    L’articolo di Terray apparve il 17 agosto 1973, quello di Rancière il 12 settembre. Cfr. La nuova ortodossia di Louis Althusser, in Id., Ideologia e politica in Althusser, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 47-51.

[10]  Cfr. A. Lipietz, Da Althusser a Mao? (1973), trad. it., Edizioni aut aut, Milano 1977.

[11]  La prima rottura di Rancière con Althusser risale al 1969 con la stesura del testo Sur la théorie de l’idéologie. Politique d’Althusser pubblicato dapprima in Argentina e solo nel 1973 in Francia [trad. it. Ideologia e politica in Althusser, cit.]; l’introduzione al vecchio saggio del 1965, poi rifiutata dai coautori di Lire le Capital, è stata pubblicata sul n. 328 della rivista «Les temps modernes» [trad. it. Come utilizzare una riedizione di «Leggere il Capitale», Edizioni aut aut, Milano 1977]; il testo più importante e maturo della rottura è però quello del 1974 La leçon d’Althusser (1974), La fabrique éditions, Parigi 2011.    

[12]  Cfr. J. Rancière, Ideologia e politica in Althusser, cit.. Sulle autocritiche di Althusser, la prima risale alla postfazione del 1967 alle edizioni estere del Per Marx [trad. it. Per Marx (1965), a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano 2008, pp. 219-225]. Le successive sono: Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati: corso di filosofia per operatori scientifici (1967), traduzione di F. Loti e M. Ruta, a cura di M. Turchetto, Unicopli, Milano 2000; Lenin e la filosofia (1968), traduzione di F. Madonia, Edizioni Jaca Book, Milano 1974; Ideologia e apparati ideologici di Stato, in Critica marxista, n. 1-2, 1970; I marxisti non parlano mai al vento. Risposta a John Lewis (1973), a cura di L. Tomasetta, Mimesis Edizioni, Milano 2005.

[13]  Cfr. Problèmes étudiants, in «La nouvelle critique», n. 152, gennaio 1964.

[14]  L’idea che l’ideologia sia «eterna» e «necessaria» – e che quindi, riflettendoci, non ci siano vie d’uscita dall’ordine dominante – viene formulata da Althusser prima nel saggio del 1963 Marxismo e umanesimo [in Id., Per Marx (1965), cit., pp. 193-211] e poi viene rielaborata, e ampliata contenutisticamente, in Ideologia e apparati ideologici di Stato (1970), cit.

[15]  Cfr. J. Rancière, Il disaccordo (1995), a cura di B. Magni, Meltemi, Roma 2007.

[16]  Cfr. J. Rancière, La Pensée d’ailleurs, in «Critique», La philosophie malgré tout, n. 369, febbraio 1978, pp. 242-245.

[17]  Cfr. J. Rancière, Come utilizzare una riedizione di «Leggere il Capitale» (1973), cit.

[18]  Questi importanti testi bisognerebbe esaminarli nello specifico, ma qui, per motivi di spazio, ci limitiamo a nominarli. Cfr. J. Rancière (con A. Faure) La parole ouvrière. 1830-1851. Textes choisis et présentés (1975), La Fabrique éditions, Parigi 2007; Id., La nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier, Fayard, Parigi 1981; Id., Louis Gabriel Gauny. Le Philosophe plébéien, La Découverte, Parigi 1983.

[19]  J. Rancière, Come utilizzare una riedizione di «Leggere il Capitale» (1973), cit., p. 88.

[20]  Il primo libro in cui Glucksmann criminalizza il marxismo, sostenendo che il responsabile dei Gulag sia Marx, è La cuoca e il mangia-uomini. Sui rapporti tra Stato, marxismo e campi di concentramento (1975), L’erba voglio, Milano 1977. Si veda su questo libro la critica che ne fa Rancière in La bergère au Goulag, in «Les Revoltes Logiques», n. 4, inverno 1977 [ora in Id., Les scènes du peuple. Les Revoltes Logiques, 1975-1985, Horlieu, Lione, 2003, pp. 311-332]. Il testo della Trilaterale a cui ci riferiamo è Crozier M., Huntington S. P., Watanaki J., La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, Franco Angeli, Milano 1977. Su una tematizzazione critica di questo periodo si veda la raccolta degli articoli più significativi scritti da Rancière per la rivista Les Revoltes Logiques cfr. Id., Les scènes du peuple, cit.

[21]  J. Rancière, Il maestro ignorante (1987), a cura di A. Cavazzini, Mimesis, Milano-Udine 2008.

[22]  Cfr. J. Rancière, Le philosophe et ses pauvres (1983), Éditions Flammarion, Parigi 2007, in particolare p. 187 e sgg. Sul rapporto tra Rancière e Bourdieu cfr. C. Nordmann, Bourdieu/Rancière. La politique entre sociologie et philosophie, Éditions Amsterdam, Parigi 2006.

[23]  Cfr. J. Rancière, L’odio per la democrazia (2005), traduzione di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007.

[24]  Rancière rinarra più volte e con accenti ogni volta differenti la secessione dell’Aventino: in Il maestro ignorante, ne Il disaccordo e in Ai bordi del politico (1998), a cura di A. Inzerillo, Cronopio, Napoli 2011.

[25]  P.-S. Ballanche, Formule générale de tous le peuples appliquées à l’histoire du peuple romain, in «Revue de Paris», prima serie, tomo 1-3, Parigi, 1829.

[26]  Cfr. l’introduzione del 2011 a La leçon d’Althusser (1974), cit., in particolare p. 13.

[27]  Cfr. J. Rancière, Politics and Aesthetics: an interview, in «Angelikai», The One or the Other: French Philosophy Today, a cura di P. Hallward, n. 8, 2003.

[28]  Cfr. J. Rancière, La méthode de l’égalité, Intervista con L. Jeanpierre et D. Zabunyan, Bayard Éditions, Montrouge 2012.

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