Pugni al lavoro

Loïc Wacquant

Nuova immagine (18)This article dissect the social structuring of bodily capital and bodily labor among professional fighters in an American metropolis based on a three-year apprenticeship of the craftt and ethnography of a boxing gym in the black ghetto of Chicago. The pugilist’s body is simulteanously his means of production, the raw materials he and his handlers (trainer and manager) have to work with and on, and the somatized product of his past training and extant mode of living. Bodily capital and bodily labor are thus linked by a recursive relation which makes them closely dependent on one another. The article depicts the “body work” whereby boxers probe, care for, transform, and enskill their sentient organism; how they come to incarnate the occupational morality of “sacrifice” (consisting of rules of abstenance that converge to reserve somatic resources for the ring); and how they collectively deal with pain, injury, and the possibility of death in the ring. It shows that the boxer willfully perseveres into this potentially self-destructive trade because of the the unconscious fit between his pugilistic habitus and the structure of the very field which has produced it.

 

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Uno dei tratti paradossali dei recenti studi sociali sui corpi è che raramente vi si incontrano corpi reali, viventi, fatti di carne e sangue. I libri apparsi su questa tematica negli ultimi anni deplorano, giustamente, la dimenticanza, da parte degli studi sociologici, del corpo e della sua mercificazione nella società;[1] essi elaborano delle tipologie analitiche del suo sfruttamento sociale,[2] meditano sul dualismo delle sue dimensioni fisiche e comunicative[3] o fanno l’esegesi del modo in cui il corpo è stato recentemente trattato nella cultura generale, soprattutto in Francia.[4]

In genere essi non offrono che pochi spiragli sulle pratiche e sulle rappresentazioni concrete che costituiscono il corpo umano in quanto «realizzazione contingente e continua», secondo un’espressione di Harold Garfinkel. Malgrado la crescita rapida e la sua estrema dispersione,[5] la giovane sociologia del corpo ha prestato poca attenzione alle diverse maniere nelle quali alcuni mondi sociali specifici investono, plasmano e implementano i corpi umani, così come alle pratiche d’incorporazione attraverso le quali le strutture sociali sono correttamente interiorizzate dagli attori che vi partecipano.

L’obiettivo dell’articolo è di porre rimedio a questa lacuna per mezzo di una ricerca etnografica sulla strutturazione sociale del capitale e del lavoro corporale presso i pugili professionisti di una metropoli americana. Esploreremo il modo in cui i praticanti di un’ arte corporale particolare, il pugilato, inseriti in un ambito sociale che esalta la forza e la prodezza fisica, il ghetto nero dei nostri giorni, concepiscano, si approprino e razionalizzino – sia nel senso di Weber che in quello di Freud – l’uso dei loro corpi come forma di capitale. Inizieremo dall’etnografia di una sala da boxe e dall’osservazione partecipe del mondo quotidiano dei suoi membri, condotta per quattro anni nel South Side di Chicago, basate su tre tipi di dati: i miei appunti sul campo e le mie esperienze personali di apprendista pugile che ha acquisito il mestiere sul luogo – abbastanza, tuttavia, da poter partecipare al grande torneo amatoriale dei Chicago Golden Gloves e da indossare i guanti, regolarmente, con dei pugili professionisti –[6]; delle interviste approfondite con cinquanta pugili professionisti e una trentina tra allenatori, manager e altri impresari, e diverse altre figure professionali come gli infermieri (cutmen), gli arbitri e gli organizzatori di incontri attivi a Chicago e dintorni; la lettura di pubblicazioni specializzate, resoconti della stampa pugilistica e autobiografie di campioni e allenatori rinomati.[7]

 

 

Il capitale corporeo

 

Entrando in una sala da box (palestra), si è immancabilmente colpiti dalla vista e dai suoni dei corpi onnipresenti e catturati dallo strano spettacolo che essi offrono, simile ad un balletto: alcuni scivolano attraverso il ring, si urtano e si afferrano, i piedi stridenti sullo spesso tappeto blu;  gli altri avanzano e indietreggiano a passi contati davanti ad uno specchio compiono giravolte di boxe simulata attorno ad avversari immaginari; altri ancora girano instancabili attorno a pesanti sacchi appesi al soffitto o stuzzicano la pera veloce producendo un rumore come di mitraglietta, o saltano la corda ritmicamente e si piegano in due per delle interminabili serie di addominali, tutti all’unisono; addominali a tartaruga, torsi cesellati, quadricipiti aggettanti, schiene scolpite, glutei e cosce sodi, visi contratti e rilucenti di sudore; così tanti indizi visibili del lavoro corporeo che costituisce il mestiere del pugile. Sui muri dei poster esibiscono il fisico temprato, scolpito e teso dei campioni che ricevono l’ammirazione di tutti, come modelli silenziosi che, in pose stereotipate, coi pugni fermi, i muscoli in mostra e una cintura del campionato attorno alla spalla o alla vita, si presentano come pietre miliari viventi con le quali confrontarsi.

È riduttivo dire che la boxe sia un universo incentrato sul corpo. Joyce Carol Oates aveva perspicacemente notato: «Come il ballerino il pugile è il suo corpo, e si identifica totalmente in esso».[8] Questa equazione è ben nota e sentita dai pugili, poiché il loro organismo è la misura e l’epicentro della loro vita: esso è sia la sede, sia lo strumento, sia l’oggetto del loro lavoro quotidiano: il mezzo ed il risultato del loro lavoro professionale. «È il tuo sistema: sai che senza il corpo non potrai fare granché», mormora uno dei miei compagni di ring negli spogliatoi, mentre si benda le mani.[9] E la loro intera esistenza è consacrata alla manipolazione del corpo al fine specifico di modellarlo e mantenerlo.

Se, secondo Pierre Bourdieu, definiamo il capitale come del

 

«lavoro accumulato (nella forma oggettivata o nella forma incorporata) che, se appropriato da privati, in maniera esclusiva, da attori o dai gruppi, permette loro di appropriarsi dell’energia sociale nelle forme del lavoro reificato o vivo»[10]

 

allora possiamo concepire i pugili in quanto detentori o anche imprenditori in capitale corporeo[11] di un tipo specifico e la sala da boxe, dove passano la maggior parte delle loro giornate, come una macchina sociale che mira a convertire questo capitale corporeo astratto in capitale pugilistico. Per esempio: impartire al corpo del pugile professionista un insieme di abilità e disposizioni suscettibili di produrre del valore nel campo della boxe professionale, sotto forma di riconoscimento, titoli e afflussi di reddito.

Un compagno d’allenamenti al quale avevo chiesto perché desiderava divenire professionista mi diede una risposta sorprendente: «Ero solo un ragazzetto di colore che tentava di aprire una propria attività con i suoi pugni».[12]

Il corpo del pugile è simultaneamente il suo mezzo di produzione, la materia prima con la quale e sulla quale lui e i suoi colleghi, allenatore e manager, devono lavorare e anche, in gran parte, il prodotto somatizzato del suo allenamento passato e del suo modus vivendi presente. Capitale e lavoro corporeo sono dunque legati da una relazione ricorsiva che li rende intimamente dipendenti l’uno dall’altro. Il pugile utilizza quello che Marx[13] chiama «le forze naturali del suo corpo» per “appropriarsi” di quel particolare elemento della natura che è il suo stesso corpo di modo che ottimizzi la crescita delle sue forze. Ben gestito, questo corpo è in grado di produrre un valore più alto di quello che è stato “investito” ma per questo è indispensabile che il pugile conosca i suoi limiti intrinseci, estenda le sue capacità senso-motorie e risocializzi la sua fisiologia in accordo con le esigenze e la temporalità specifiche del gioco. Il corpo del pugile è, inoltre, un sistema di segni, una tela di simboli che egli deve imparare a decifrare per valorizzarla e proteggerla ma anche per saperla attaccare. La peculiarità della boxe consiste nel fatto che il corpo del combattente è a un tempo l’arma d’assalto e l’obiettivo da distruggere.

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Charlot Boxeur

Innanzitutto, come ogni capitale fisso e ogni organismo vivente, il corpo di un pugile possiede dei limiti strutturali, a partire da un’aspettativa di vita limitata. Come notato da Emanuel Steward, celebre allenatore-manager e fondatore della Kronk Gym di Detroit, «il corpo umano è come un’automobile. Hai un certo chilometraggio che puoi raggiungere poi è finita».[14] I pugili hanno un acuto senso della loro dipendenza dal corpo e della sua finitezza temporale: «Vedo il mio corpo come (schiocco della lingua) la mia vita, una cosa che devo veramente tenere sotto controllo per essere perfetto», dice un peso leggero afroamericano in ascesa. «Devi avere cura del tuo corpo. Quando hai distrutto il tuo corpo, (prende un’aria grave) t’attacchi al chiodo», aggiunge un peso medio che ha recentemente traslocato in un quartiere nel South Side. Questo spiega che i pugili devono gestire attentamente l’utilizzo del loro assetto fisico nel tempo:[15] devono rimanere nella categoria amatoriale abbastanza a lungo per fare esperienza ma non troppo per non fossilizzarsi nella muffa amatoriale; devono spingersi costantemente all’allenamento e restare al massimo della forma nel caso che gli si offra un combattimento all’improvviso (come rimpiazzo dell’ultimo minuto di un altro pugile ferito, per esempio) ma anche fare attenzione a non sfinirsi o farsi male in palestra e, quando ne hanno la possibilità (notoriamente quando sono protetti da un manager o un impresario influente), differire o alternare i combattimenti difficili contro i “clienti seri”. A volte occorre un solo “pestaggio” perché egli esaurisca la sua capacità di incassare e si ritrovi “fritto” (shot).

L’obsolescenza pubblicistica si descrive in termini di erosione corporale e la professione ha sviluppato un vasto vocabolario per designare quei pugili che continuano a presentarsi sul ring a sprezzo della flagrante svalutazione del loro capitale corporeo: un pugile “finito” si sente trattare da “sacco da botte” (sacco da boxe, punching bag) o, più crudelmente, da “carne da macello” (barbaque, dead meat).[16]

Dal momento nel quale fa la sua entrata nella sala d’allenamento fino a quando non “appende i guantoni al chiodo” e si ritira dal mestiere, il corpo del pugile è oggetto di un’ attenzione continua. La prima cosa che nota il vecchio coach del club di Woodlawn (un allenatore della “vecchia scuola”, stimato in tutti e paesi e che è stato il mio mentore), quando una nuova recluta entra nel suo ufficio per iscriversi, è il suo corpo, il “materiale” crudo che porta con sé, la materia che egli dovrà scolpire e sviluppare: la sua taglia, il suo peso (che il coach riesce a stimare quasi al millesimo a prima vista), il volume e perfino la forma del suo corpo, squadrata o tonda, dritta o curva, la sua attitudine e la sua motilità, rigida, flessibile o rilasciata, lo spessore del suo collo e dei suoi polsi, la forma del suo naso e dell’orbita dei suoi occhi. Spesso ho sentito decantare come Mohammed Alì avesse avuto la benedizione di possedere i beni corporei che gli erano propri: una mascella di granito, un polso lento come un serpente che gli concedeva di mobilitare enormi vampate di energia e di rimettersi di colpo con una rapidità eccezionale, un viso arrotondato che non si gonfiava e gli consentiva una larga visione periferica e una pelle eccellente che non si lasciava scalfire, contrariamente a quella del suo acerrimo nemico, Joe Frazier, il cui viso si trasformava in carne martoriata in conseguenza dei loro titanici combattimenti.

Parimenti alla famosa “tale of the tape” (lista delle misure), diffusa prima di ogni match televisivo, la valutazione approfondita dei migliori pugili, correntemente stabilita dalle riviste sulla boxe, implica la misura e la classificazione dei loro attributi fisici: resistenza, potenza (capacità di mettere il proprio avversario KO) e “mento” (chin, capacità di incassare colpi alla mascella). I giudizi si riassumono in un apprezzamento delle parti strategiche del corpo. Il “KO closeup” del campione dei pesi leggeri Joey Grimache è tipico di questa ossessione per il corpo:

 

«Stile: è un pugile originale e versatile che possiede delle mani veloci ed un buon movimento laterale. È un ottimo colpitore d’incontro, dotato di una potenza sorprendente, sfinisce, in generale, i suoi avversari e ne viene a capo attraverso l’accumularsi dei colpi.

Punti forti: la sua velocità nelle mani e nei piedi è il suo più grande tesoro. Essa gli permette di marcare rapidamente e poi di schivare il contrattacco del suo rivale. Egli ha un buon gancio sinistro, sebbene a volte dimentichi di utilizzarlo. Non mostra alcuna paura dell’avversario. Punti deboli: viso molto provato dopo il combattimento».

(KO Magazine, dicembre 1991).

 

La dotazione somatica ereditata dal pugile (notoriamente la struttura della sua muscolatura e del suo scheletro) è capitale poiché essa predetermina in larga parte lo stile e la strategia da attore sul ring che egli dovrà adottare, selezionando gli strumenti con i quali dovrà lavorare, sia all’attacco che alla difesa. I pugili filiformi e slanciati tendono a divenire quello che in gergo professionale chiamano dei “boxers”, sarebbe a dire degli “stilisti” che combattono da lontano utilizzando l’allungamento, la velocità e la tecnica per mantenere il loro avversario a distanza, in modo da accumulare punti o creare un’apertura per un eventuale KO. I pugili più piccoli e tozzi dotati di un tronco spesso e potente, invece, saranno generalmente dei “fighters” – chiamati anche “picchiatori” (sluggers) o “aggressori” (brawlers) – che combattono furiosamente e avanzano costantemente sul loro avversario per esaurirlo con una serie di attacchi ravvicinati e ripetuti e di corpo a corpo. La corrispondenza che si stabilisce tra capitale corporeo e stile pugilistico è illustrata da questo brano tratto da una conversazione di sala nella quale un noto manager del luogo parla di un boxeur alto e longilineo, noto per la sua rapidità e il suo allungamento ma privo di potenza corporale:

 

«MANAGER: Jay può combattere con un tipo come T. [campione del momento nella sua categoria]. Se la caverebbe bene. Ma non so come ne uscirebbe con un tipo veramente coriaceo che gli andasse contro e lo mettesse sotto pressione. Credo che avrà dei problemi perché non lo vedo diventare più forte. Tu sai di non essere forte: sei quello che sei. Non hai che un certo numero di cose che sai fare. Un tipo basso non può stirarsi e diventare alto di colpo.

LOÏC: (risate) Si, è quello che Vinni [un pugile che si allena sul ring davanti ai nostri occhi] stava dicendo.

MANAGER: Ed è proprio questo il problema, Vinnie è veramente basso. È basso, decisamente troppo basso per il suo peso [1,65 m per 64 chili]. Ma è coriaceo. Coriaceo, robusto, insomma… è proprio un tipo coriaceo. Quindi così in un certo senso compensa. É quello che deve fare, Vinnie si ritroverebbe alle strette se a riposo si mettesse a provare a boxare qualcuno. Bisogna che mantenga la pressione perche per lui non ci sono altri modi di, ehm, di battersi. Non può far altro che essere un tipo rude, coriaceo, aggressivo. È il solo modo …

LOÏC: Allora veramente, il corpo, ci sono dei limiti …

MANAGER: Determina parecchio quello che hai. La sola cosa da fare in questo caso è provare, prendere un giovane così e insegnargli a incatenare i colpi per non incassare tutto quello che gli arriva addosso. Ma serve che lui … serve semplicemente che lui sia un tipo aggressivo, che entri dentro tirando ganci e colpi pesanti perché è tutto quello che può fare. Il suo stile gli impedirà di fare qualunque altra cosa.

LOÏC: Vi capita mai che vi arrivino ragazzi con il fisico da “picchiatore” ma che vogliono restare indietro per “boxare”?

MANAGER: Certo, certo. E non funziona. Molte volte hai dei pugili che non combattono nello stile che dice il loro corpo. Hai eccezioni per ogni regola».

 

 

Lo stile, a sua volta, influisce sulla longevità: la regola vuole che gli aggressori (o i pugili in-contro) abbiano carriere più corte degli stilisti (o i boxer-picchiatori) per via della più grave usura fisica che subiscono sul ring.[17] Ma l’anatomia non è un destino. Occorre ricordare che l’organismo umano, ben lungi dall’essere il tegumento biologico e immutabile dello spirito, è un «soggetto attivo, che trasforma sé stesso».[18]

Il corpo differisce dalla maggior parte degli oggetti di produzione per il suo grado di flessibilità; nei limiti di certi parametri può essere rinnovato, riequipaggiato e ristrutturato. Persino i processi fisiologici di base, come il nostro sistema respiratorio o la nostra pressione sanguigna, sono soggetti a delle influenze sociali[19] e numerosi dei meccanismi metabolici e omeostatici del nostro organismo possono essere deliberatamente modificati da un allenamento intensivo.[20] La sala da boxe è un’officina sociale per modellare corpi umane in virtuali “macchine da combattimento”, come dice un allenatore veterano del South Side: «Mi piace creare un mostro, ammirare quello che ho creato … come il Dottor Frankenstein: ho creato un mostro, ho un combattente, ho creato un combattente, stessa differenza».

 

 

Il lavoro corporale

 

Il corpo può essere profondamente rimodellato innanzitutto in termini di volume e di forma. Qualunque amante della boxe conosce la trasformazione operata dal campione dei mediomassimi Michael Spicks che, per ottenere la cintura di campione del mondo dei pesi massimi nel 1985 è passato da 85 a 100 kg, scolpendo quello che si potrebbe chiamare “un corpo nuovo”[21] grazie ad un programma di allenamento che mescola allenamenti di corsa veloce e di aerobica ad una speciale dieta – tre pasti da 5.500 calorie al giorno, saturi di glucidi e proteine, completati da un sapiente mix di vitamine, sali minerali, polimeri di glucosio e amminoacidi – Spinks è arrivato a guadagnare 15 kg in sette mesi mentre la percentuale del suo grasso corporeo precipitava dal 10 al 7,2%.[22] È rimarchevole che la maggior parte dei nuovi fanno il tragitto interno: perdono rapidamente un numero importante ed inatteso di chili, guadagnandone in massa muscolare. Quando io sono entrato in palestra credevo che il mio peso di 70 kg fosse buono per un atleta ma ho velocemente scoperto che il mio “peso da battaglia” si situava attorno ai 60 kg.

I pugili inoltre si fanno un’armatura muscolare particolare tramite degli esercizi che permettono loro di rinforzare e di gonfiare il volume delle parti del corpo di cui hanno maggior bisogno al fine di proteggersi (spalle, addominali, bicipiti) o per trarne resistenza e forza nel colpo.

Tuttavia, ad esclusione di alcuni esercizi specifici, come la trazione del collo tramite un casco zavorrato con pesi per indurire i muscoli cervicali al fine di incassare meglio gli shock o lo schiacciare una palla di polistirene con la mano, il fisico scolpito di un pugile è il prodotto di un lavoro di allenamento senza posa. La preparazione universale di tutti i pugili: corsa a piedi, boxe-simulata (shadow-boxing),  colpire diversi tipi di sacco e su dei pallet rivestiti in cuoio tesi dal suo allenatore, salto alla corda, flessioni e serie di sparring (assalti guidati in allenamento). Contrariamente al sentire comune, i pugili non fanno esercizi muscolari, gli allenatori sono quasi tutti contrari all’alterofilia poiché, secondo loro, essa genera una muscolatura eccessiva e diminuisce la resistenza, l’agilità e la velocità delle mani. E poi, ovviamente, il corpo del pugile è continuamente trasformato dal combattimento stesso, attraverso le ferite e l’usura normale conseguente al fatto di essere ripetutamente percossi. Un giorno, dopo una sessione di sparring particolarmente viva, dove avevo saputo resistere ai duri attacchi del mio compagno, il mio allenatore mi fece notare: «Il tuo naso non si arrossa e non sanguina più come una volta… Louie, cominci a somigliare ad un vero pugile».[23]

La maggior parte dei pugili ama lavorare con e sul proprio corpo e apprezza gli sforzi ardui richiesti dal proprio allenatore, nonostante il suo carattere monotono e ripetitivo. Un mediomassimo che lavora part-time come personale di sicurezza compara la preparazione ad un incontro con il modellare l’argilla: «Tu vedi delle parti del tuo corpo che cominciano a svilupparsi … Senti che il dolore se ne va (schiocca le dita). Sai? Tutto questo! D’un sol colpo! Allora ti senti fresco, [senti] il tuo ossigeno, è geniale! Ti senti pronto! Hai la sensazione che potresti colpire un muro d’acciaio!». Un peso welter di ventotto anni, recentemente uscito dai marine, parla con lirismo della ricompensa inerente all’allenamento e all’esaltazione sensoriale che esso procura:

 

«[Quello che amo di più è] proprio come mi sento quando sono in forma, perché quando sei in forma, sai, ti senti bene, tu ti senti meglio, sai che sei più fresco e che il tuo corpo è più forte, tutto, tutto diventa più facile e anche quando boxi hai il ritmo con te, è un ritmo che è in te… e là, è là che sai di essere in forma, vedi quando io sono in forma io sento quel ritmo là e ho l’impressione che potrei colpire qualcosa con il mio sguardo e lo colpirebbe anche la mia mano, capisci?»

 

Ottenere questa sensibilità corporale particolare, che rende un pugile compiuto, suppone un processo lento e prolungato. Non si ottiene nulla da un atto di volontà o da un cosciente trasferimento di informazioni; l’educazione del combattente richiede piuttosto un’incarnazione impercettibile degli schemi mentali e corporei immanenti alla pratica pugilistica, che non ammette né sistematizzazione né mediazione discorsiva.[24] Questa autotrasformazione progressiva del corpo si apparenta così ad un processo di sedimentazione nel quale la padronanza pratica alle gestalt azionali costitutive della boxe «s’infiltrano impercettibilmente fino al fondo stesso dell’organismo».[25] Serve del tempo perché il corpo di un pugile si formi e “maturi” per il gioco. La maggior parte degli allenatori è d’accordo su questo punto: produrre un amatore sperimentato richiede quattro anni; e occorrerà contare altri tre anni per reinsegnargli il gioco come professionista,[26] poiché la boxe è uno sport totale che richiede di tenere allerta la quasi totalità dei sensi e dei muscoli, di eseguire correttamente i gesti richiesti e di resistere alla rude ed estenuante prova del combattimento.

Per esempio, quando un pugile lavora da solo in shadow-boxing, deve costantemente sorvegliare tutte le parti del suo corpo e sincronizzare un gran numero di movimenti tra i quali la posizione, l’orientamento e lo spostamento dei suoi piedi, il suo equilibrio e la sua tensione muscolare, la traiettoria, l’altezza, la velocità e la posizione delle sue mani, dei suoi gomiti e del suo mento, tutto ciò visualizzando un avversario che gli tira addosso una gragnola rapida di movimenti difensivi ed offensivi. Le istruzioni date da un allenatore a un giovane peso welter, mentre fa le sue sequenze solitarie sul ring, meritano di essere citati in extenso perché il flusso continuo che esse formano da un idea dell’intensità del lavoro corporeo che implica questo esercizio a prima vista semplice:

 

«Gira la spalla, andiamo, giù il mento, avanza dietro il tuo diretto, avanza dietro il tuo diretto, il mento è troppo alto, trovami una buona nicchia, trova un buon colpo, andiamo, tieni le mani ben alte, mani ben alte. Scivola indietro, non restare mai senza muoverti, spostati tutto il tempo, girando, gira per tutto il tempo. Ecco il diretto corto che voglio! Torna dietro il tuo colpo, un colpo dietro il diretto, un gancio dietro questo diretto, gira la spalla, gira il culo, quando colpisci gira la mano, tutto
quello che voglio è che concateni tutto. Andiamo! Ok, funziona, si affinerà, più ci lavori, meglio sarai. Il tuo equilibrio quando ne tiri tre o quattro… dovresti essere in grado di tirarne altri quattro o cinque, è questo l’equilibrio, abbassati, abbassati di nuovo, giù ancora, rilassati, va tutto bene. Dai, veloce, rapido il pugno, rapido, corto e rapido, fra le sue braccia, fra le sue braccia. Questo è veloce, cammina avanti. I tuoi passi devono seguire i tuoi colpi, vagli sotto, e segui il movimento quando usi quel destro,  non iniziare con il destro, andiamo! subito con … ogni volta che usi il destro torni in difesa. Al lavoro! Vai, vai, tirati in posizione e colpisci,  colpiscilo là dove serve, colpisci il corpo e poi la testa, il corpo e la testa, si abbassa, rispondi con dei montanti, vai, vai avanti, tieni la sinistra ben sollevata, tu la lasci cadere la mano sinistra, sollevala, gomiti ben piegati, non abbassare la guardia, non dargli aperture, fai piccoli passi, rapidi in schivata, schiva e torna, sempre in movimento, sempre in equilibrio, girando, girando, così, facendo perno! Mi piace come rotazione, se viene su di te, tu ruota, lo lasci venire, il suo peso su di te, e snap-snap-snap, rapidi i colpi, andiamo, la spalla, il tuo didietro le mani, fai ruotare tutto, gira ecco! claque-claque, rapido, con entrambe le mani, entrambe le mani.
[più forte] Trenta secondi! Lascia andare, va ora! Vai ragazzo, lavora su tutto questo, ecco, mantieni il tuo equilibrio, sempre in controllo, sei tu che conduci il gioco, fai quello che vuoi di lui, portalo dove vuoi,  portalo con te, tirami questo gancio destro e ci siamo! [Improvvisamente abbandonando la cadenza] Time! Ok, rilassati, facciamo gli addominali. Vai duecento addominali Vinnie, andiamo, tu questo non lo bevi, sputalo».

 

Ciò che, per analogia col concetto di «lavoro emozionale» proposto da Arlie Hochscild[27] si potrebbe chiamare “lavoro corporale”, consiste, quindi, in una manipolazione intensa e sottilmente regolata dell’organismo che mira a imprimere sullo schema corporeo del pugile un insieme di posture, di movimenti e di stati emozionali soggettivi e cognitivi che fanno di lui un praticante assodato della “dolce scienza” dei pugni (come la chiamano i suoi amanti). Si tratta di una forma di “lavoro pratico” nel senso che «implica l’esercizio di un’intelligenza che si afferma attraverso la comunicazione con le realtà concrete e attuali del suo quadro naturale» e con il suo oggetto.[28] Esso riorganizza in modo pratico la totalità del campo corporeo del pugile, privilegiando determinati organi e capacità rispetto ad altre, al fine di trasformare non solo il fisico del pugile ma anche il suo “senso corporeo”, sarebbe a dire la coscienza che egli ha del suo organismo e, attraverso questo corpo trasformato, del mondo che gli è attorno.

Allo stesso modo nel quale apprendono a conoscere e sorvegliare l’interno del loro corpo, i pugili apprendono a giudicare il corpo del loro avversario attraverso una lettura della sua apparenza esteriore. Questo corpo diventa soggetto di una sintomatologia complessa intenta a rivelare le sue prestazioni passate e a diagnosticare lo stato e il suo potenziale del momento. Il corpo di qualunque pugile è una «nota di campo»[29] che descrive la sua carriera e racchiude tracce visibili del suo percorso pugilistico sotto forma di cicatrici, tagli, segni, lividi, contusioni e fratture.[30] Non si dice forse, di un pugile che incassa carrettate di colpi durante un combattimento, che  “si fa tatuare” ?

Prima di un incontro i pugili e i loro allenatori studiano metodicamente il corpo del loro avversario della sera cercando di dedurre gli indizi delle debolezze da sfruttare. Un ventre flaccido attira su di sé degli attacchi immediati; i tagli non ancora cicatrizzati e che possono essere riaperti facilmente sono oggetto di un’attenzione particolare. Durante un incontro, se uno dei combattenti si mette a sanguinare dall’arcata sopraccigliare, il suo avversario cercherà sistematicamente di raggiungere quell’occhio per allargare la piaga nella speranza che l’arbitro o il medico del ring interrompano il combattimento per la ferita.[31]

Tutti i pugili ben formati conoscono i “punti sensibili” (pressure points) del corpo che devono proteggere, quando si tratta di loro stessi, e raggiungere, quando si tratta dei loro avversari: la punta del mento e la punta del naso, gli zigomi, sotto le tempie e la parte posteriore dell’orecchio dove si trovano i centri nervosi, il plesso solare, sotto al cuore, il fegato e le reni. Tutti i buoni allenatori insegnano ai loro protetti l’arte di lavorare il corpo, per esempio: colpire i lati dell’addome e il torace dell’avversario per stancarlo (i colpi possenti al corpo causano dei traumi agli organi interni che possono durare diversi giorni), “spezzargli le gambe” per forzarlo ad abbassare la guardia e poi “risalire” e metterlo KO con dei colpi al viso, seguendo il noto detto pugilistico “ammazza il corpo e la testa morrà”. Una volta sul ring un pugile deve essere capace di valutare rapidamente il patrimonio fisico del suo avversario. Nei primi secondi del primo round, spiega un peso welter di livello mondiale, «cerco di sentirlo e vedere se è in grado di incassare quello che sto per tirargli. Parando i colpi puoi sempre sapere se il tipo colpisce forte». La tappa seguente consiste nello stabilire la strategia per trarre pieno profitto dei punti forti e dei punti deboli dell’avversario.

Infine il corpo è la risorsa chiave della quale i pugili dispongono ai fini dell’impression management.[32] La presentazione e l’ornamento del corpo sono alla base delle strategie dispiegate dai pugili per instillare paura nell’avversario o per captare l’attenzione dei media e l’ammirazione del pubblico.

Certi pugili si rasano la testa o, al contrario, non si rasano per settimane per apparire più feroci. Altri portano delle tuniche, dei pantaloncini, dei ponpon o dei costumi di scena o si fanno tagliare i capelli a misura per comunicare dei messaggi senza ambiguità. “WAR” , “TKO”, ”KILLER”, o, in un registro più convenzionale, “Dite di no alla droga”. Sonny Liston era conosciuto perché portava pesanti stivali e imbottiva il suo accappatoio di asciugamani per apparire più massiccio di quanto non fosse. L’allenatore di Mohammed Alì si adoperava affinché quest’ultimo fosse attorniato da uomini bassi di modo che Alì proiettasse sempre «l’immagine di un gigante».[33] Un peso leggero del nord di Chicago utilizza una strana tattica per fare a pezzi la determinazione del suo avversario che consiste nel fargli credere che il combattimento sarà facile:

 

«Mi piace avere l’aria di non essere nessuno, mi piace indossare un coso che sembra uno straccio, dare l’impressione che (parla dolcemente come se mormorasse di soddisfazione) “Uao! Questo tipo è una scarsina lo frego come niente”  e guardarlo con un’aria patetica, mentre lui, lui ha l’aria, vedi, si serra il mento come se stesse per ammazzare qualcuno. Io lo lascio fare tutto questo. Sul ring lui fa la stessa cosa fino al momento in cui iniziamo a darci dentro».

«Ci sono molti buoni combattenti che non hanno abbastanza comprendonio per il sacrificio, fare il loro “roadwork” [corsa su strada corredata di shadow-boxing ogni mattina] come si deve, allenarsi come si deve, ma non ci arrivano in ogni caso. Sono di più i buoni pugili che non ci arrivano che il contrario. Non è che non ne abbiano i mezzi ma perché non hanno voglia di sacrificare quello che mangiano, non vogliono alzarsi la mattina e andare a correre, non vogliono lasciare tranquille le ragazze quando è il momento: me ne frego delle capacità di un pugile (usa un tono didattico) che non ci arriva, Questa è la prima cosa, come dico sempre, la disciplina: se non hai la disciplinadello spirito e del corpo, non sarai mai un pugile».

 

Come indica questa citazione dell’allenatore del Woodlawn Boys Club la nozione di “sacrificio” è alla base del sistema di credenze del pugile professionista.[34] Essa fornisce il principio organizzatore della quotidianità dei suoi praticanti all’interno come all’esterno della palestra e fissa tutta l’economia morale dell’universo specifico.

Il “sacrificio” implica prima di tutto una sorveglianza costante delle principali funzioni fisiologiche come l’alimentazione, il sonno e il riposo, i rapporti sessuali (soprattutto la secrezione di sperma e altre sostanze organiche) che influenzano, o si suppone che influenzino, la messa a frutto del capitale corporeo e lo stato di preparazione del corpo del pugile prima del combattimento.

La nozione del sacrificio condensa una visione del mondo secondo la quale occorre pagare con il proprio corpo tutto ciò che s’intende ottenere. «Non hai nulla senza sacrificio», esorta un arbitro e pugile di vecchia data. «Se uno vuole veramente boxare ed essere un buon combattente deve vivere alla maniera giusta», aggiunge un manager. Il sacrificio si affratella a un’ascesi corporea profana, ovvero, per parafrasare Max Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, la subordinazione metodica e razionale delle pulsioni e dei desideri individuali al perseguimento dell’eccellenza pugilistica attraverso “un lavoro accanito, sistematico e continuo” col e sul proprio corpo.[35]

Così si deve includere sotto l’etichetta generica di lavoro corporeo la gamma completa dei rituali di autodisciplina e delle routine ordinarie d’oblazione destinate a stabilire la padronanza del corpo e a riorganizzare tutta la vita del combattente in funzione del bisogno di garantire una prestazione corporea ottimale.

Poiché il corpo «non diventa forza utile se non è insieme corpo produttivo e corpo assoggettato»,[36] il fisico del combattente diviene un’autentica colonia del sé che deve essere totalmente soggiogata e metodicamente sviluppata. “Dedizione”, “disciplina”, “Sacrificare tutto”, “abnegazione”, “fare quello che serve” e “rimanere pulito”, tutte queste espressioni che si riferiscono non solo al lavorio corporale nella palestra ma anche alle pratiche regolate di astinenza nei tre campi che formano quella che potremmo chiamare la trinità del sacrificio pugilistico, per la cronaca, nutrizione, vita sociale e sesso.

Non è affatto sorprendente quindi constatare che questi tre elementi sono, in ordine decrescente, quelli più spesso evocati dai pugili quando gli si domanda qual è il più grande sacrificio al quale hanno dovuto acconsentire prima di un incontro.[37]

I pugili combattono in classi di peso predefinite ed è nel loro interesse boxare nel limite superiore della più bassa categoria di peso che possano raggiungere senza un’eccessiva dispersione di forza fisica. Per esempio un pugile che voglia fare carriera nei pesi welter (da 140 a 147 libbre) deve salire sul ring pesando esattamente 147 libbre o poco meno. Se supera questo limite il mattino dell’incontro egli dovrà perdere l’eccesso di chili sul campo  – con grande gioia del suo avversario – oppure dichiarare forfait, annullando così settimane di preparazione estenuante, a meno che il suo avversario non lo lasci combattere sopra il limite della sua classe di peso, cosa che farà per lo più per mezzo di una remunerazione compensativa.

Se al contrario il pugile non pesa abbastanza e si presenta con un peso di 142 libbre concederà al suo avversario un vantaggio di peso. Siccome il “peso di combattimento” di un pugile si situa in generale ben al di sotto del suo peso ordinario (walkingaroud weight), deve impegnarsi in una guerra implacabile contro la tentazione gastronomica. Secondo numerosi combattenti il regime alimentare necessario per restare “in forma” è l’aspetto più crudele della disciplina dell’allenamento. Quando gli chiedo qual è il versante più aspro della vita di un pugile professionista, un mediomassimo che lavora part-time come camionista esclama:

 

«Sicuramente di mangiare così, il cibo, di evitare… Cazzo, io sono d’origine italiana, dovresti vedere come cucina mia madre. È incredibile! (entusiasta) Io passo a casa la domenica ed è tipo, loro sono là ad abbuffarsi di pasta con polpette di carne e costolette e io devo mangiare una scodelluccia con un niente di pasta e squagliarmela in fretta sennò mi ingozzerei di tutto e questa credo sia, probabilmente è la cosa più dura».

 

Fin dove possono finanziariamente e finché la loro vita personale è sufficientemente stabile, i pugili in fase di preparazione per un incontro seguono una dieta rigorosa composta da: carne magra (pollo e tacchino arrostiti), pesce, legumi cotti al vapore, frutta e di tè o acqua; i fritti, lo zucchero, il pane, i latticini, le bibite gassate (“pop” delle quali si dice che “si attacchino ai fianchi”) sono da evitare come la peste. Così loro possono passare settimane intere a languire i loro piatti preferiti, chi il cocomero, altri il gelato o dei cheesburger. «È come essere una donna incinta, vedi, avere delle voglie ma tutte al momento sbagliato, è dura!». Mangiare come si deve è così importante che numerosi allenatori divengono, per forza di cose, cuochi sperimentali, e dietisti amatoriali per supervisionare al meglio l’alimentazione di quelli fra i loro combattenti che hanno delle prospettive di carriera o che disputano dei campionati a livello nazionale e internazionale.[38] Seguire tali diete draconiane, mentre si esercita un’intensa attività fisica, implica un’enorme sofferenza psicologica, comparabile a quella che provano i culturisti nelle ultime settimane della loro preparazione, allorquando il loro allenamento è più duro mentre il tasso della glicemia è talmente debole da intaccare le difese naturali del loro corpo contro il dolore.[39]

Idealmente, un allenamento, del riposo e una dieta adeguata debbono permettere al combattente di perdere i chili necessari in maniera progressiva di modo che si raggiunga il peso contrattuale il giorno (o alla vigilia) dell’incontro. Nonostante ciò, in numerosi casi, le cose non si svolgono così e il pugile dovrà affamarsi nelle ultime settimane o i giorni precedenti al combattimento per “fare peso”. Non è raro che un combattente di 60 chili ne perda tre o più nelle quarantotto ore precedenti la pesatura, atto che si effettua grazie a dei lunghi bagni di vapore, delle corse a piedi o delle serie di salto alla corda in uno sweat suit (completo sportivo in vinile) o ancora facendo dello shadow-boxing accanto ad una doccia bollente sotto una spessa tuta sportiva, oppure, infine, eliminando qualunque nutrimento e succhiando dei limoni per giorni. Un’altra pratica correntemente usata è di “seccarsi” (to dry out) la vigilia e l’anti-vigilia dell’incontro, ovvero di non assorbire più liquidi. Sono rari i pugili che non hanno conosciuto l’agonia della fame o dell’allenamento fatto con la bocca talmente secca da poter a malapena muovere la lingua. L’obiettivo che ci si pone con il drying out è di ridurre temporaneamente il peso del pugile ma funziona anche come tecnica di mortificazione e di purificazione del corpo. Così alcuni pugili scelgono di privarsi di ogni bevanda alla vigilia di un combattimento anche se non sono in eccesso di peso perché questa pratica oblativa fa parte della routine che gli consente di “accordarsi” fisicamente e mentalmente con il ring.[40]

Occorre ricordare che la parola inglese diet (dieta) proviene dal greco diaita che significa “modo di vita”.[41] I pugili non digiunano solo da un punto di vista alimentare ma in tutti gli aspetti della loro vita. Un arbitro mi confida: «Il vero allenamento non è in sala, è fuori della sala». Il sacrificio penetra fino al cuore della vita personale del pugile in maniera da cancellare la frontiera fra pubblico e privato, la sala e la casa, il ring e la camera, al punto che tutta la sua esistenza, in ogni più piccolo dettaglio, si trova sottomessa all’imperativo della cura e dell’accumulazione di capitale corporeo.

Innanzitutto l’allenamento occupa una buona parte del centro della giornata del pugile al punto che gli risulta difficile passare del tempo con sua moglie ed i suoi figli. Inoltre i rigori della preparazione esigono che il corpo si riposi sufficientemente e regolarmente.

Sveglia alle 5.00 per fare il suo roadwork, il combattente deve andare a letto presto e dormire otto ore di sonno filate tutte le notti, se non vuole trovarsi estenuato dall’allenamento e la perdita di peso. Questo significa che non può né uscire con gli amici né ricevere persone a casa e non può assistere a delle soirées che raramente. Questo regime stipula «uno stile di vita che non si allontana troppo da quello di una sedia» e che ricorda un po’ quello di Iron Man descritto da Connell,[42] che rende la vita in famiglia impraticabile e può essere fonte di problemi coniugali:

 

«La vita di un pugile non è per una donna, punto e basta, perché è talmente fastidiosa ed esigente e non è giusto per una donna di stare con un tipo che parla sempre di andare a letto presto, di alzarsi presto, che non può mai uscire la sera e tutte queste cose qua. Una donna non ha bisogno di un tipo così da sposare. Non è una vita normale.» (Peso supermedio di colore, 32 anni, pompiere).

 

Certi pugili tentano di blindarsi contro la tentazione di rapporti sociali “normali” vivendo soli o ritirandosi dal loro ambiente familiare durante i giorni che precedono il combattimento.

L’élite del corpo pugilistico, quelli che combattono nelle classifiche internazionali più alte per cifre abbastanza alte da giustificarne la spesa, passano le ultime settimane della loro preparazione nella istituzione votata alla protezione intensiva e allo sviluppo del capitale corporeo del pugile che è il “campo di allenamento” (training camp).

L’attuale detentore del titolo dei pesi medi, “Terrible” Terry Norris, vive e si allena in un ranch isolato nel deserto californiano cinque giorni a settimana e non torna a casa che nei week-end per vedere la moglie e i bambini. Un combattente di Chicago è arrivato perfino a traslocare dal suo vecchio allenatore, il quale gli affitta una camera personale:

 

«[Vivere solo con il mio allenatore] aiuta molto, perché mi tiene sulla retta via, vedi. Ogni tanto ho voglia di sforare ma non me lo lascia fare, ecco. Va bene perché c’è…, si deve sacrificare molto per essere un pugile e se mi sacrifico, fino al punto che sacrifico proprio tutto me stesso, è meglio se abito anche con il mio allenatore».

Domanda: «Cos’è che devi sacrificare?»

Risposta: «Beh, niente donne, niente alcol, cioè, niente feste, ci si allena per strada. Certi tipi di cibo che devo mangiare, insomma. Allora, beh, è… è un vero sacrificio, duro, vedi perché non puoi veramente… non hai una vita personale. Non hai proprio vita personale, è questo il sacrificio, privarti di fare qualunque cosa ti vada e non avere una vita personale».

(Peso welter di colore, 20 anni, sostenuto dal suo manager)

 

Tuttavia per molti pugili professionisti l’aspetto più difficile, a volte il più duro, del loro mestiere è la regola dell’astinenza dal contatto sessuale e da ogni compagnia femminile. Dal punto di vista dell’asceta la sessualità, come l’alimentazione, è un’attività bruta dell’organismo che sfugge alla regolamentazione abitudinaria del desiderio,[43] questo spiega il fatto che molti allenatori, soprattutto negli sport “di sangue” o di contatto come il football americano,[44] consiglino ai loro atleti di evitare qualunque rapporto sessuale alla vigilia o all’antivigilia di un incontro. Ma, nel caso della nobile arte, gli allenatori sostengono che i loro combattenti devono “trattenersi” (chill out) e astenersi da qualunque rapporto sessuale diverse settimane prima dell’incontro (tra due e otto a seconda della lunghezza dell’incontro e della sua presunta durata) al fine di conservare al meglio tutte le proprie forze. La maggior parte dei pugili cerca – o pretende – di rispettare la regola ma solo a prezzo di immense frustrazioni:

 

Domanda: «Cosa ti piace di meno nell’allenamento, nella vita del pugile professionista?»

Risposta: «Il sacrificio di dovermi tenere alla larga dalla mia donna, quando io, beh, voglio dire, (risolino imbarazzato) non vorrei avere l’aria di un ossesso ma insomma… ti diventa duro ecco. Sono certo che tutti, insomma, finiscono per averne voglia, perché cribbio siamo umani. Allora, ecco, tu ne hai voglia e, caspita! Nulla è come sapere che, perbacco, la tua donna è lì, accanto a te ed è no-no-no (ride ancora nervosamente). Allora vorresti dire “E andiamo, giusto una” Naah! (risate) beh, lo sai cosa intendo dire, questa è la cosa più difficile».

(Peso gallo di colore, 29 anni, tuttofare)[45]

 

Sulla base di una «fisiologia profana»,[46] che associa ad una gamma di atti sessuali – dalla masturbazione al coito – una serie di conseguenze negative su diverse parti e processi corporei, gli allenatori avvertono esplicitamente i pugili di “restare puliti” (keep clean). «Gli dico “guardati dalla tua compagna”, tento di farne uno scherzo, vedi, gli dico “Ehi! Bisogna tenere le mani pulite!”». Un altro allenatore è ancora più preciso: «Se vai con una ragazza e hai rapporti o ci fai sesso, il giorno dopo tu starai tipo supercontento e non avrai quello scatto nei colpi. Ti rilasseresti troppo». «Ti indebolisce, capiscimi, le gambe e tu conosci il sesso, è, sono nervi, vedi, ti rende più debole», rincara un terzo. Un altro allenatore mi rivela che consiglia segretamente ai suoi migliori combattenti di evitare il sesso anche subito dopo un incontro difficile, per paura che essi non subiscano dei danni cerebrali causati da uno sforzo sessuale supplementare nel momento in cui il loro corpo ha bisogno di recuperare. Anche in quel caso il corpo del pugile lo “tradirà” se non si è comportato in accordo con la morale professionale. La maggior parte degli allenatori credono di poter dedurre una violazione del codice sessuale del pugile dagli indizi fisici come il tremore delle gambe o la maniera nella quale egli respira:

 

«Sì, in generale posso sapere se ha fatto l’idiota, se ha bevuto un po’ o se è stato con delle ragazze, lo posso vedere durante l’allenamento, dal modo in cui il suo corpo si comporta… Gli dico, questo non mi va, perché io ci metto tutto il mio meglio e voglio che anche lui dia il meglio di sé, questo è il sacrificio, e se vuoi un sacco di soldi e diventare un campione tu devi mettertici».

 

Le severe restrizioni imposte sulle funzioni fisiologiche e sulla vita sociale dei pugili spiegano la loro ansia di arrivare alla fine del combattimento: «Finiscila così potrai uscire. Tutto il sacrificio, tutto quello che fai, ti rende teso!».

Alla fine del match la barriera libidinale che il pugile e il personale che gli è attorno hanno alzato pazientemente per intere settimane esplode bruscamente: in un rilassamento orgiastico egli esce con i suoi amici, porta la sua donna a ballare e “recuperano” al letto. Certi combattenti “gozzovigliano” (pig out) per giorni[47] e riprendono velocemente una buona parte del peso che avevano perso durante la loro preparazione all’incontro – se non di più. Il mio compagno di allenamento Ashante aveva l’abitudine di festeggiare le sue vittorie inghiottendo quattro chili di gelato al cocco nelle due ore successive all’incontro, invece un altro dei mie compagni di sala si lanciava su qualunque pizza o bibita gassata che gli capitasse a tiro.

Numerosi pugili hanno fama “di esplodere” (blow up) fra i combattimenti, prendendo più di venti chili se sono fra i più pesanti, quando il loro corpo è provvisoriamente ritirato dal mercato pugilistico e l’ethos del sacrificio temporaneamente sospeso.

Il governo del corpo è un’impresa collettiva che esige del «lavoro di squadra»[48] e che suppone una sorveglianza consistente non solo da parte dell’allenatore, del manager e dei “compagni di scuderia” del pugile ma anche quella di sua moglie o della sua ragazza e dei suoi parenti più prossimi. D’altronde gli allenatori fanno regolarmente appello alle compagne dei loro combattenti per aiutarli sul fronte domestico, in modo che praticare la boxe diventi effettivamente «un lavoro 24 ore su 24».[49] Il sacrificio si estende, quindi, all’entourage diretto del pugile e dà una responsabilità particolarmente gravosa al suo allenatore ed alla sua compagna. Lei deve aver cura di non mostrare delle esigenze emotive o sessuali eccessive o fuori luogo; lei deve assumersi la responsabilità del funzionamento domestico, sopportare gli sbalzi d’umore del pugile e offrirgli innanzitutto e senza sosta del sostegno morale quando la tensione si fa più forte per l’approssimarsi del combattimento – altrimenti detta, caricarsi della stroking function (funzione delle carezze) deputata alle donne nella divisione sessuale del lavoro tradizionale.[50] Quanto agli allenatori, rivestono spesso il ruolo di padri adottivi dei loro ragazzi, consacrando quantità smisurate di tempo e di energia a risolvere i loro problemi di cuore, le loro difficoltà finanziare ed altri problemi personali, oltre ad avere l’incombenza di consegnare i pugili in perfetta forma e al peso giusto la sera dell’incontro. A mano a mano che l’incontro si avvicina, anche loro vivono sul filo del rasoio.

La rete dei rapporti di informazione e comunicazione che s’intesse tra allenatore, manager, compagni di sala, gli amici e la sposa forma un dispositivo quasi panottico che, idealmente, sottomette il pugile ad una supervisione continua di ogni suo istante volta a permettere un accumulazione massimale di capitale corporeo prima del combattimento.

Una delle ragioni che rendono i pugili capaci di sopportare questo spirito spartano e di appropriarsene è l’affinità elettiva con la loro condizione sociale d’origine: per la maggior parte dei combattenti la negazione sociale è una costante inscritta nella loro vita a partire dall’infanzia. La boxe si accontenta di dare un’espressione sistematica, codificata e (per alcuni) profittevole a un’esperienza familiare di deprivazione radicata nel dominio di classe e di esclusione razziale.[51]

Riunite insieme, le tre regole dell’astinenza – digiuno, celibato, privazione delle distrazioni e dei piaceri mondani – convergono per operare una “civilizzazione” specifica del corpo (per parlare come Norbert Elias) che mira a riservare le risorse somatiche per il ring. Sotto alle restrizioni che esso impone nel quotidiano, il sacrificio ingloba la disciplina e la corvée dell’allenamento in sé, la «giostra e l’usura di venire in palestra» tutti i giorni, come dice laconicamente un peso massimo bianco.[52] Alzarsi prima dell’alba sei giorni a settimana, fare la propria corsa a piedi (fra i cinque e i dieci chilometri alternando corsa, shadow-boxing e scatti), recarsi in sala per ripetere all’infinito lo stesso allenamento alla lunga ha i suoi costi – specialmente quando devi mantenere in equilibrio allo stesso tempo i tuoi obblighi familiari e le restrizioni di un lavoro a tempo parziale o full-time, come nel caso della maggior parte dei pugili professionisti.[53]

«La parte più dura è qui, in palestra, andare all’incontro è la parte più facile, tutto quello che devi fare è passare il tuo esame e prendere un buon voto» (Peso medio di colore, 30 anni, finanziato dal suo manager). Si capisce meglio l’entusiasmo dei combattenti per la battaglia fra le corde quando si tiene conto dei rigori quotidiani che debbono sopportare per settimane in vista dell’incontro. «Tu sei in prigione quando ti alleni, è come la galera, vedi». La sera in cui montano nel quadrato la luce è, sotto questo punto di vista, una vera liberazione da un imprigionamento consentito.

 

 

 

 



[1] Barry Glassner, Bodies, G. P. Putnam, New York 1988.

 [2] Bryan S. Turner, The Body and Society. Explorations in Social Theory, Basil Blackwell, Oxford 1984.

[3] John O’Neil, Five Bodies. The Human Shape of Modern Society, Cornell University Press, Ithaca 1985.

 [4] Randy Martin, Performance as Political Act. The Embodied Self, Bergin and Garvey, New York 1990, p. 13-80.

 [5] Jean-Michel Berthelot e al., Current Sociology, vol. 33, n° 2 (Les sociologies et le corps), Sage Publications, Londres, 1985 e Arthur W. Frank, Bringing Bodies Back: A Decade Review, Theory, Culture, and Society, vol. 7, n° 1, 1990, p. 131-162.

 [6] Loïc Wacquant, Corps et âme : notes ethnographiques d’un apprenti-boxeur, Actes de la Recherche en Sciences Sociales, n° 80, novembre 1989, p. 33-67 e “Busy Louie” aux Golden Gloves, Gulliver, n° 6, aprile-giugno 1991, p. 12-33. Si veda anche Id., Corps et âme. Carnets ethnographiques d’un apprenti-boxeur, Agone, Marseille 2000.

[7] I cinquanta pugili intervistati rappresentano la quasi totalità dell’universo dei pugili professionisti attivi nella regione metropolitana di Chicago-Gary al momento dell’inchiesta (estate 1991). Comprendono trentasei neri (due provenienti dai Caraibi), otto bianchi, cinque portoricani e un messicano. Queste interviste semi-aperte della durata media di due ore hanno generato più di duemila pagine di trascrizioni.

[8] Joyce Carol Oates, On Boxing, Doubleday, Garden City 1987, p. 5.

[9] I “nomi da ring”, che i pugili si danno presto nella loro carriera, fanno spesso riferimento al patrimonio specifico che possiedono, come la velocità di mano, la potenza del colpo o la forza pura. Così citiamo Meldrick “TNT” Taylor, Roberto “Manos de piedra” Duran e “Iron” Mike Tyson, per limitarci solo a tre campioni recenti. Fra i pugili di Chicago troviamo: “La Roccia” (The Rock), “Temporale” (Thunderstorm), “Speedy”, “La Freccetta” (The Dart), e “Il Serpente” (The Snake).

 [10] Pierre Bourdieu, The Forms of Capital, in John G. Richardson (a cura di), Handbook of Theory and Research for the Sociology of Education, Greenwood Press, New York 1986, p. 241. Per una discussione del concetto generale del capitale e delle sue diverse forme cfr. Pierre Bourdieu e Loïc Wacquant, An Invitation to Reflexive Sociology, Chicago, The University of Chicago Press, Polity Press, Cambridge 1992, p. 115-120; per un’elaborazione concettuale, Michel Grossetti, Métaphore économique et économie des pratiques, Recherches Sociologiques, vol. 17, n° 2, 1986, p. 233-246.

[11] Lascerò da parte la complicazione introdotta dal fatto che la maggior parte dei pugili professionisti siano legalmente legati ai manager che, da contratto, godono dei diritti esclusivi sulle loro prestazioni fra le corde. Si può dire, in sintesi, che i pugili possiedono il loro capitale corporeo mentre i manager sono proprietari del diritto di convertirlo in valore pugilistico (potenziale). Ciò che importa per la presente analisi è che siano i pugili a detenere il controllo del loro corpo in senso fenomenologico.

 [12] Le parole o le espressioni fra virgolette e in corsivo sono tratte da interviste e da conversazioni con pugili e allenatori o sono delle espressioni che fanno parte dell’insieme delle conoscenze ordinarie condivise dai membri dell’universo pugilistico. Salvo menzione contraria i corsivi nelle citazioni sono degli intervistati.

[13] Karl Marx, Capital, [1867], Vintage, New York 1977, vol. 1, p. 173.

 [14] Daniel Halpern, Distance and Embrace, in Joyce Carol Oates, Daniel Halpern (a cura di), Reading the Fights, Prentice-Hall Press, New York 1988, p. 278.

[15] Loïc Wacquant, Corps et âme, op. cit, p. 62-67.

 [16] Certi promotori si specializzano nella fornitura di “capital corporeo d’occasione”, sarebbe a dire di pugili “bolliti” o di “faire valoir” (opponents) che offrano una resistenza valida ma senza rischio a dei pugili emergenti che hanno bisogno di formarsi un carnet. Sono conosciuti nel mestiere come “venditori di carne da cannone”; per una descrizione del traffico degli “avversari” vedere Steven Brunt, Mean Business. The Rise and Fall of Shawn O’Sullivan, Penguin, Harmondsworth 1987, p. 200 e ss. e Michael Shapiro, Opponents, in Joyce Carol Oates ,Daniel Halpern, Reading the Fights, op. cit., p. 242-249.

 [17] D’altro canto i pugili che hanno una potenza eccezionale nel colpo possono avere delle lunghe carriere se arrivano a mettere i loro avversari KO molto presto durante l’incontro, cosa che riduce per conseguenza il numero di minuti passati fra le corde.

[18] Peter E.S. Freund, Bringing Society into the Body : Understanding Socialized Human Nature, Theory and Society, vol. 17, n° 6, 1988, p. 839-864.

 [19] F. J. J. Buytendijk, Prolegomena to an Anthropological Physiology, Duquesne University Press, Pittsburgh 1974.

[20] Laurent Arsac, Le corps sportif, machine en action, in Claude Genzling (a cura di), Le Corps surnaturé. Les sports entre science et conscience, Éditions Autrement, Paris, Sciences en société , n° 4, aprile 1992, p. 79-91.

[21] Joyce Carol Oates, On Boxing, op. cit., p. 7.

[22] Robert Cassidy, Fistic Training Goes High-Tech, in World Boxing, ottobre 1991, p. 36.

[23] Le trasformazioni del corpo potevano prendere una forma più estrema nel caso di quei pugili che, nei “tempi antichi”, avevano le terminazioni nervose del naso bruciate o subivano un’asportazione chirurgica della cartilagine nasale per prevenire delle potenziali fratture, che avrebbero potuto minacciare la loro vita (proiettando pezzetti d’osso nel cervello). Poi si facevano rimpiazzare queste cartilagini una volta che la loro carriera era terminata.

  [24] Loïc Wacquant, The Social Logic of Boxing in Black Chicago: Toward A Sociology of Pugilism », in Sociology of Sport Journal, vol. 7, n° 3, settembre, 1992.

 [25] Drew Leder, The Absent Body, The University of Chicago Press, Chicago 1991, p. 32.

 [26] La schiacciante maggioranza dei campioni è sul ring dall’adolescenza. Mohammed Alì ha cominciato a boxare a dodici anni, Sugar Ray Leonard a quattrodici e Mike Tyson a tredici. La maggioranza dei pugili classificati di Chicago è costituita da veterani di sala d’allenamento che hanno “calzato il loro primo guanto” tra i dodici ed i sedici anni.

   [27] Arlie Russell Hochschild, Emotion Work, Feeling Rule, and Social Structure, in American Journal of Sociology, vol. 85, n° 3, novembre 1979, p. 551-575.

 [28] Eggon Bittner, Technique and the Conduct of Social Life» in Social Problems, vol. 30, n° 3, 1973, p. 253.

  [29] Jean E. Jackson, I am a Fieldnote: Fieldnotes as a Symbol of Professional Identity, in Roger Sanjek (a cura di), Fieldnotes. The Making of Anthropology, Cornell University Press, Ithaca 1990, p. 3-33.

 [30] Per dirla altrimenti: «Nella boxe gli errori più importanti non si trovano solamente nei giornali e nei registri delle liste d’onore. Rimangono per sempre registrati sul tuo viso». Sam Toperoff, Sugar Ray Leonard and Other Noble Warriors, McGraw-Hill, New York 1987, p. 61.

  [31] «I tagli sono dei bersagli», spiega il campione dei pesi leggeri Pernell “Sweet Pea” Whitaker. «Quando taglio il mio avversario sorrido perché questo mi dà qualcosa di più su cui lavorare. Attacco il corpo, e quando le mani scendono per proteggerlo miro alle ferite». (Intervista post-incontro in Sports Illustrated, 75-16, 14 ottobre 1991, p. 22).

 [32] Erving Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, Penguin, Harmondsworth 1959.

 [33] Dave Anderson, In the Corner. Great Boxing Trainers Talk About their Art, Morrow, New York 1991, p. 66.

 [34] Si potrebbero ammassare pagine e pagine di citazioni di pugili, di allenatori e di manager sull’ethos del sacrificio. Goody Petronelli, il manager-allenatore dell’antico re dei pesi medi “Marvellous” Marvin Hagler, lo esprime molto chiaramente: «Per essere pugile bisogna darsi a fondo. Dapprima al mattino per andare a correre, niente droga, niente alcol. Nessuna uscita tardi la sera. Rientri presto perché ti servono otto ore buone di sonno. Se non metti questo corpo in forma ti suoneranno come una campana. Vuoi veramente fare tutte queste cose ed essere un pugile?» (in Dave Anderson, In the Corner, op. cit., p. 39).

  [35] Max Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, [1905] (trad. T. Parsons), Charles Scribner’s Sons, New York 1958, p. 172.

 [36] Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975, p. 31.

 [37] Solo due dei cinquanta pugili professionisti che ho intervistato hanno ritenuto che la boxe non implicasse sacrifici significativi per loro, per delle ragioni che sono facili da comprendere: uno è un mormone praticante e l’altro un vecchio rissaiolo di strada che per lungo tempo ha terrorizzato il suo vicinato come “one-man-gang” prima di dedicarsi alla Nobile Arte e che si è affidato alla sua eccezionale forza nei colpi senza mai veramente sommettersi pienamente ai rigori dell’allenamento (e ne ha molto sofferto quando la sua carriera è andata in declino improvvisamente e prematuramente).

 [38] Dave Anderson, In the Corner, op. cit., p. 98 e pp. 190-191.

 [39] Philip Levine, Encore “un” Amérique, Gulliver, n° 6, aprile-giugno, 1991, p. 214. Una delle ragioni per cui i pugili si ritirano dalla professione è che non possono più sopportare l’esigenza di “fare peso”,  lo stesso modo è per i lottatori che concorrono anche loro per categorie di peso.

  [40] Resta logico che il digiuno draconiano e la perdita di peso eccessiva poco prima dell’incontro minino la forza di qualunque pugile. Troppo spesso vediamo combattenti che arrivano sul ring già sfiniti per aver “fatto il peso”. Un pugile dall’apparenza emaciata che non suda durante i due primi round è un atleta che non ha più nel suo corpo liquidi ai quali ricorrere a causa del drying out e che incorre in danni fisiologici molto seri.

 [41] Bryan S. Turner, The Government of the Body Medical Regimens and the Rationalization of Diet, in British Journal of Sociology, n° 33, 1982, p. 254-255.

  [42] Robert W. Connell, Iron Man: The Body and Some Contradictions of Hegemonic Masculinity, in Michael A. Messner, Donald F. Sabo (a cura di), Sport, Men, and the Gender Order, Human Kinetics Books, Champaign 1990, p. 86.

 [43] Bryan S. Turner, The Body and Society, op. cit., pp. 16-18 e pp. 163-165.

 [44] Donald F. Sabo, Joe Panequinto (a cura di), Sport, Men, and the Gender Order, op. cit., p. 120.

  [45] Il welter di venti anni, al quale abbiamo sentito ora spiegare perché aveva deciso di abbracciare il celibato e vivere con il suo allenatore, ci ha lasciato questo patetico commento: «Il più grande sacrificio per me, direi che sono le donne. Devi controllarti. Beh, non puoi uscire e farlo tutto il tempo, occorre che tu, beh – non hai del tempo per te, per andare con delle ragazze e questo è quello che odio di più: che non ho tempo per il sesso».

 [46] Christine Durif, Corps interne et physiologie profane, in Ethnologie Francaise, vol. 22, n° 1, gennaio-marzo 1992, p. 71-78.

  [47] Alan M. Klein riporta delle simili pratiche di «gozzovigliamento istituzionalizzato» (institutional gorging) fra i professionisti del culturismo in California del Sud in Pumping Irony: Crisis and Contradiction in Bodybuilding, in Sociology of Sport Journal, vol. 3, n° 2, giugno 1986, p. 124.

  [48] Erving Goffman, The Presentation of Self, op. cit., p. 85-102.

   [49] L’ho scoperto solo quando sono entrato nella competizione e mi sono ritrovato come risucchiato dalla palestra e catturato nei suoi lunghi tentacoli, incapace di fare qualsivoglia lavoro intellettuale, altro se non prendere le mie note di campo, e anche quello con delle difficoltà considerevoli. (Loïc Wacquant,“Busy Louie” aux Golden Gloves, op. cit., p. 12-33).

  [50] Loïc Wacquant, Manufacturing Men: Boxers,Women, and Sex in a Ghetto Gym, Comunicazione all’ Annual meetings of the American Sociological Association, Pittsburgh, 22 agosto 1992.

 [51] Come spiega Floyd Patterson: «Che la boxe fosse o meno uno sport, io volevo farne uno sport perché era una cosa dove potevo riuscire. E cosa richiedeva? Sacrificio. Punto. Per chiunque vanga da un quartiere come Bedford-Stuyvesant  a Brooklyn, il sacrificio viene facile. E quindi ho continuato a combattere e un giorno sono diventato il campione del mondo dei pesi massimi… E voi vi domandate come posso sacrificarmi, come posso privarmi di tanto. Voi non vi rendete semplicemente conto da dove vengo. Voi non comprendete dov’ero quando tutto è cominciato per me». Citato in Gay Talese, Fame and Obscurity, Dell Publishing, New York 1986, p. 118.

 [52] Loïc Wacquant, The Social Logic of Boxing in Black Chicago, art. cit.

 [53] Solo il 18% dei pugili della grande Chicago sono sostenuti finanziariamente dai loro manager (o dai soli guadagni fra le corde). La metà lavora a tempo pieno e il 12% esercita un impiego a tempo parziale; il resto vive dei frutti dell’economia di rapina della strada.

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