Negazione e corporeità. Un itinerario nella filosofia moderna

Adriano Bertollini e Giacomo Rughetti

 

osvaldo licini

Introduzione

Il presente lavoro è la rielaborazione di un seminario avvenuto durante il II semestre dell’A.A. 2012/2013 nel corso magistrale del prof. Roberto Finelli.

L’occasione di questo studio è la lettura del testo La contraddizione in Hegel di Sergio Landucci, che ha fornito lo spunto per un’analisi del modello di soggettivazione hegeliano in relazione alle tematiche della corporeità e della negazione. Riguardo a tali argomenti, la prospettiva hegeliana ci ha poi condotti a un paragone con altri due pensatori cruciali della modernità: Nietzsche e Spinoza.

Il primo paragrafo è dedicato all’analisi del testo di Landucci, con una nota storico-filosofica finale dedicata al rapporto Kant-Hegel.

Il secondo paragrafo è una messa a confronto dei modelli di soggettività hegeliano e nietzscheano.

Al modello spinoziano di soggettività è infine dedicato l’ultimo paragrafo.

 

1. La contraddizione in Hegel

Prendiamo le mosse dal testo di Landucci, la cui analisi ci porterà a rispondere alle seguenti domande:

1) la nozione hegeliana di negazione-contraddizione può essere spiegata mediante il solo riferimento alle forme di negazione della logica classica?

2) Il principio di non-contraddizione classico e il principio di contraddizione hegeliano devono essere considerati il medesimo principio?

Seguendo Landucci in un breve itinerario nelle varie forme di negazione della logica classica, si vedrà se Hegel vada oltre i limiti della logica tradizionale, ovvero se egli introduca un nuovo principio nella logica. Tale principio, se vorrà appunto superare la logica classica, dovrà scalfirla nel suo assioma fondamentale: il principio di non-contraddizione. Questo percorso analitico attorno alla negazione, dal quale verrà progressivamente fuori il concetto di contraddizione hegeliana, passa per le seguenti quattro tappe: privazione, termini contraddittori, correlatività, contrarietà.

1.1. Le forme di negazione della logica classica.

1.1.1. La privazione

Per privazione si intende la negatività come mera mancanza. Hegel fa discendere tale concezione dal mito speculativo del prestigio assoluto dell’essere: la negatività come privazione è il modo in cui la filosofia occidentale ha provato a esorcizzare il negativo (si vedano i sistemi monisti, come ad esempio quello di Plotino e il Cristianesimo, ma anche l’intellettualismo etico socratico). La privazione è ciò che v’è di più lontano dalla filosofia di Hegel, in quanto contravviene a uno dei due principi cardine della sua logica. Si tratta del principio della positività del negativo: per il filosofo di Stoccarda il negativo è insieme anche il positivo. A partire da questo principio la negatività è intesa come qualcosa di positivamente esistente ed è pertanto agli antipodi di una concezione del negativo come mancanza, come vuoto d’essere.

La privazione è il pensiero della più rigida e fissa identità, la quale vede l’altro da sé  come pura esteriorità: l’identità non passa per nessuna mediazione del negativo. Nonostante siamo estremamente distanti dalla concezione hegeliana, si può ritrovare la privazione all’interno del sistema, precisamente nella sfera della natura inorganica. L’inorganico è l’ambito della ripetitività, della ricorsività, dell’irriflesso succedersi dei fenomeni naturali che Hegel esprime come «inadeguatezza al concetto» (Landucci, 1978, p.9). Sembrerebbe che qui siamo ai margini del logos, al di fuori della vita, dal momento che essa è l’unione del concetto con la realtà[1].

Abbiamo fin qui stabilito la prima caratteristica essenziale della negazione hegeliana, la positività del negativo. In virtù di questo principio siamo costretti a rigettare la privazione come modo della negazione nella logica di Hegel.

1.1.2. I termini contradditori

Analizziamo adesso la particolare opposizione tra termini contraddittori in logica classica, la quale ha due possibili accezioni: la disparatezza e la differenza.

Nel suo significato di disparatezza, non A è «il puro altro dell’A» (Hegel, 1812, p. 463). Si tratta dei giudizi infiniti kantiani, come ad esempio “il cane è non bianco”. In questo caso la negazione è dopo la copula e quindi il soggetto appartiene alla classe “non bianco” (non A). Tale classe esprime la totalità dell’esistente meno la classe “bianco” (A). In altre parole i termini contraddittori bianco e non bianco (A e non A) esauriscono tutto il reale: tramite questo tipo di negazione il soggetto (cane) è dunque relegato a un’estrema indeterminatezza. Può questa concezione della negazione soddisfare le esigenze di Hegel? Evidentemente no. È egli stesso infatti a dire che il principio della positività del negativo implica che la negazione sia determinata: ad ogni positivo si oppone un solo negativo, che è il suo (Selbst) altro.

Siamo dunque arrivati a stabilire le due caratteristiche fondamentali della negazione hegeliana: positività e determinatezza.

Analizziamo adesso la seconda accezione classica dei termini contraddittori: la differenza. Abbiamo in questo caso a che fare con un giudizio del tipo “il cane non è bianco”, nel quale, come si vede, la negazione è prima della copula. Non A è definito come ciò che è differente da A, ovvero come tutti i termini facenti parte del genere di A, escluso A. Nel caso dell’esempio, il soggetto appartiene alla classe dei colori escluso il bianco. Hegel osserva che si tratta dell’uso normale della negazione: il giudizio negativo diventa affermativo, ossia predica l’appartenenza di un soggetto allo stesso genere della qualità negata nel predicato. Abbiamo quindi una delimitazione della indeterminatezza al genere del predicato, limitazione tuttavia insufficiente a soddisfare i requisiti della negazione hegeliana.

1.1.3. La correlatività.

La correlatività è il rapporto tra due termini positivi che sono l’uno il negativo dell’altro, ad esempio padre e figlio.

Molti studiosi hanno letto la contraddizione hegeliana come metafora della correlatività: visto che Hegel vuole fondare una ontologia della relatività di contro a una ontologia della irrelatività o identità (e cioè non contraddizione), questi formulerebbe il principio di contraddizione con scopi meramente polemici. Così identificata con la correlatività, la contraddizione significherebbe che ogni cosa è un fascio di relazioni ad altro e cioè che tutto è connesso con tutto. Landucci rintraccia tre motivi per i quali questa interpretazione non può essere ritenuta valida:

α) Hegel stesso, quando parla dei concetti di relazione, afferma che in essi «la contraddizione si dà a divedere immediatamente» (ivi, p. 492). Non è dunque la correlatività a essere la contraddizione, bensì la contraddizione ad annidarsi in ogni rapporto di relazione.

β) Unità negativa più indifferenza reciproca[2]: ecco come Hegel intende la correlatività. Unità negativa perché i due termini che si oppongono sono positivi e l’uno il negativo dell’altro; indifferenza reciproca perché la relazione con l’altro termine non esaurisce l’identità del termine in questione: il padre, oltre al essere padre del figlio, è anche molto altro (marito, lavoratore, ecc.). Ma uno dei requisiti della negazione hegeliana è la determinatezza (“il suo altro”) e da questo principio deriva che la identità di ogni termine è esaurita nella relazione oppositiva con l’altro. La contraddizione hegeliana non può quindi essere spiegata attraverso la correlazione, sebbene in essa ogni termine includa ed escluda l’altro (unità negativa).

γ) La correlatività non conosce altro momento che il per-altro. Come sappiamo Hegel distingue, in logica, tre livelli di maturazione: logica dell’essere (Seinslogik), logica dell’essenza (Wesenslogik) e logica del concetto (Begriffslogik). Ognuna di queste esprime un tipo di considerazione del sé in relazione all’altro. Nel primo livello il soggetto definisce il proprio sé senza relazione ad altro. Per questo la logica dell’essere corrisponde al piano dell’in-sé (an sich). Nel secondo livello si fa una passo in avanti: l’altro è concepito come determinante per la definizione del sé, ma in maniera ancora inadeguata. Scrive Landucci:

Nel vivente e nello spirito è tutt’altro che sparita la relazione ad altro (in tal caso non conterrebbero contraddizioni affatto); ma, che la correlatività non sia il valore supremo, nella Logica di Hegel, lo dice appunto la sua stessa strutturazione complessiva: un privilegiamento della logica dell’essenza non ha alcuna plausibilità. L’irrompere della ‘relazione’, in tale sezione della logica, ne determina di certo la superiorità rispetto alla logica dell’essere: in questa, poiché la relatività reciproca delle determinazioni vi rimaneva celata (Log., p.119), prevaleva l’«immediatezza», ovvero l’indifferenza reciproca (è un modo diverso di dire la stessa cosa), mentre nella logica dell’essenza la relatività reciproca acquista lo statuto d’esser posta, come Hegel s’esprime (Landucci, 1978, pp. 27-28).

La correlatività corrisponde, come detto, al piano della logica dell’essenza (del per altro, für sich), che è «un collegamento ancora imperfetto dell’immediatezza e della mediazione» (Hegel, 1830, § 114). Solamente nella logica del concetto si giunge alla compiutezza della mediazione che si esprime nella negazione determinata. In questa relazione negativa l’altro è totalmente costitutivo del sé, ovvero è, ripetiamo, il suo altro. Qui la coscienza è “in-sé-e-per-sé” (an und für sich), in quanto la negazione è riflessa, ossia costituiva di entrambi i poli della relazione: l’esser contrapposto è la determinazione propria dei termini in opposizione; il Selbst domina l’altro mantenendolo in se stesso.

Un rilievo epistemologico ci fornisce un motivo in più per negare l’equazione tra correlatività e contraddizione hegeliana. Coloro i quali sostengono tale equazione non si avvedono del fatto che ciò comporta una gnoseologia secondo cui conoscere un oggetto vuol dire svolgere le relazioni che lo legano alla totalità dell’esistente. Tale modello conoscitivo è proprio di un paradigma premoderno, nel quale conoscere è collocare l’oggetto in una fitta trama di nessi gerarchici organizzati in generi e specie. Si evidenzia così la fallacia di tale concezione della negazione in Hegel. Sarebbe infatti impensabile assimilare la gnoseologia hegeliana a quella di stampo platonico-aristotelico.

1.1.4. La contrarietà.

Contrari sono due termini che costituiscono gli estremi di uno stesso genere (per esempio bianco e nero nel genere “colore”). La contrarietà possiede l’esigenza della determinatezza, in quanto di contrario ne esistono solo due per ogni genere. Ma i contrari non possono esprimere la relazione di negazione contraddittoria, in quanto ammettono termini intermedi in rapporto al genere di cui fanno parte.

Si è pensato pertanto di poter ridurre la concezione della contraddizione di Hegel alla semplice somma di correlatività e contrarietà. Quest’ultima sarebbe infatti integrata dall’unità negativa propria della correlazione che, viceversa, riceverebbe dalla contrarietà la determinatezza. Ma in tale soluzione com’è da concepirsi l’unità degli opposti? Come il genere prossimo ai due contrari: l’unità di “bruto” e “razionale” è nel genere prossimo “animale”. Si evidenzia qui lo stesso problema presente nella correlatività, ovvero l’assimilazione della teoria della conoscenza di Hegel a un modello epistemologico prerogativa dell’antico, inconciliabile con le esigenze teoriche del pensatore di Stoccarda. Se per la logica tradizionale l’unità è nell’astrazione del genere prossimo, per Hegel l’unità è nel concreto, ovvero in un piano non trascendente le determinazioni in opposizione, come si vedrà nel prossimo paragrafo.

1.1.5. La non contraddizione.

Questione centrale è stabilire il rapporto tra la contraddizione hegeliana e il principio di non contraddizione. Molti interpreti hanno pensato che la contraddizione debba esser espulsa dal livello speculativo; diverse sono però le motivazioni addotte a sostegno di tale asserzione:

α) il principio di contraddizione hegeliano non invalida il principio di non contraddizione (da qui in poi si utilizzerà la sigla PNC). Chi sostiene questa interpretazione vede nel rifiuto del PNC o un’iperbole retorica volta a porre l’accento sulla relazione[3], oppure il seguente sofisma: l’unità degli opposti designerebbe la contraddizione degli opposti non potendo essere un principio logico[4]. Al di là delle divergenze ermeneutiche, tale lettura del principio di contraddizione non può essere accettata, innanzi tutto per il fatto che Hegel sostiene la realtà oggettiva del principio. Quest’ultimo, come il PNC aristotelico, è uno statuto dell’essere oltre che una legge del pensiero. Inoltre il principio di contraddizione è più volte rivendicato contro la logica classica, il che vuol dire che in entrambi i principi si tratta della stessa contraddizione. Tale argomento è suffragato dal fatto che Hegel non ridefinisca mai il termine contraddizione, ma anzi utilizzi le stesse formule di Aristotele, ovvero “nello stesso tempo” (άμα) e “sotto il medesimo riguardo”[5].

β) La contraddizione è esclusa dal livello speculativo della ragione, in quanto considerata come momento provvisorio e non come principio del reale. La filosofia di Hegel sarebbe quindi un tentativo di superare le contraddizioni del reale, le quali esprimerebbero una parzialità rispetto alla totalità non contraddittoria. Chi sostiene tale tesi, la argomenta a partire dal fatto che la contraddizione “si risolve” nel concetto, e in effetti questo è proprio il modo in cui Hegel si esprime. Ma, secondo Landucci, questa lettura travisa il senso del risolversi della contraddizione: «Per comprendere la dottrina del risolversi della contraddizione, occorre badare, questa volta, al rapporto fra quei due momenti o livelli logici […] distinti da Hegel con le formule ‘ragione negativa’ e ‘ragione positiva’» (Landucci, 1978, pp. 53-54). La ragione negativa appartiene a un atteggiamento scettico che vede la contraddizione risolta in un nulla di conoscenza. Si tratta del caso delle antinomie della ragion pura di Kant, secondo le quali di una coppia di proposizioni opposte e alternative, entrambe logicamente valide, non è possibile stabilire valore di verità (vedremo meglio tale argomento nel prossimo paragrafo). La ragione positiva è propriamente la concezione hegeliana della contraddizione. Scrive Landucci:

Invece, date le due affermazioni contrapposte, la soluzione non sta nel riconoscimento di una pari esattezza e di una pari inesattezza tanto dell’una quanto dell’altra – dice Hegel -, bensì nel riconoscimento della «idealità» di entrambe, di modo che «nella loro differenza, quali negazioni reciproche, esse siano soltanto momenti». Solo in questo modo, cioè allorché i pensieri contrapposti siano mantenuti integri, però anche effettivamente riuniti insieme, la contraddizione è «risolta e conciliata», ma senza che perciò essa sia «astrattamente sparita»; e così «si dà a vedere la natura del pensare speculativo…» (Log., p. 155 s.).

La contemporanea verità di due proposizioni che si contraddicano: ecco cosa si ritrova, dunque anche al fondo della dottrina hegeliana del ‘risolversi’ della contraddizione. Ma, ora, con l’indicazione del modo in cui ciò va pensato: concependole quali momenti, le proposizioni che si contraddicono cioè tali che abbiano la loro verità solo nella loro unità. […] In ciò consiste il famoso Aufheben (ivi, p. 55).

La distinzione tra ragione positiva e ragione negativa può anche essere resa a partire da una diversa valutazione del ruolo epistemologico della ragione (e dell’intelletto). Per Kant il sapere scientifico si fonda sull’intelletto il quale funziona secondo il PNC, scontrandosi quindi con l’impossibilità di risolvere la contraddizione delle antinomie prodotte dalla ragione. È proprio di questa impossibilità che si parla nella Dialettica trascendentale. Lo scopo di tale parte della prima Critica è porre un argine alle aporie determinate in sede conoscitiva da un uso incontrollato della ragione. In Hegel assistiamo invece a un recupero di quest’ultima a scapito dell’intelletto. Nella ragione si pone infatti la verità delle determinazioni contraddittorie nella loro unità. L’unità in questione non stabilisce tra le due determinazioni una mera identità, una sintesi in cui gli opposti diventino indiscernibili, ma essa è pensata insieme alla differenza e alla non-identità degli opposti. Il luogo in cui l’unità si esprime è il terzo momento, ossia il concetto (Begriff), ma esso non è un qualcosa che si aggiunge esteriormente (e quasi magicamente) ai due momenti, i quali sarebbero pensati come preesistenti a esso; si tratta piuttosto di comprendere sia la verità di ognuno dei termini in opposizione, sia che ogni determinazione è ciò che è solo e interamente in relazione alla determinazione opposta.

Il fatto che il concetto non sia un qualcosa di ulteriore ed esteriore alle due determinazioni opposte è pensabile per Hegel solo a partire da una quadruplicazione dei termini. Vediamo di chiarire questo nodo concettuale. Prendiamo due determinazioni in opposizione: A e non-A. Il concetto è la consapevolezza che, allo stesso tempo, A è A e non-A, come pure non-A è non-A e A, ovvero che ogni determinazione trova l’altro nel sé e il sé nell’altro. La relazione di A con il suo (selbst) altro è costitutiva, in quanto esauriente la sua identità.

Appare ormai chiaro che il principio di contraddizione hegeliana è essenzialmente e intimamente una negazione del PNC classico. Vi è infatti una riconsiderazione radicale delle conclusioni a cui era giunto Kant nel cuore della Critica della ragion pura, nella Dialettica trascendentale:

Ciò che viene ‘superato’, dunque, è in realtà soltanto la forma dell’antinomia, come intesa in base alla logica della non contraddizione; mentre viene invece mantenuto integro il contenuto concettuale dell’antinomia, nella forma dell’unità di esso nel concetto concreto. Così, lungi dal segnalare qualcosa come una marcia indietro rispetto all’affermazione della necessità e della realtà della contraddizione, la richiesta della soluzione di essa, o della ‘conciliazione’, significa invece la richiesta di pensare quel simul esse degli opposti in un medesimo soggetto (il concreto che volta a volta si dia), che da sempre indicava appunto la contraddizione logica. Ma, secondo Hegel, al pensiero si impone questo compito, ond’esso adegui l’oggettività: ‘risolvere’ le contraddizioni non indica dunque un’operazione soggettiva, bensì avvedersi di come esse siano risolte di fatto, obiettivamente (Landucci, 1978, p. 56).

D’altronde Hegel è chiaro sin dalla sua prima opera sistematica, la Fenomenologia dello spirito: «L’oggetto è il contrario di sé stesso sotto un unico e medesimo riguardo», poiché «è per sé in quanto per altro ed è per altro in quanto è per sé»[6] (Hegel, 1807, p. 104).

1.2. Il superamento hegeliano

L’ultimo tassello che Landucci pone a completare il puzzle dell’analisi della contraddizione in Hegel è il confronto con Kant. La posta in gioco è lo statuto della contraddizione. Si è accennato in precedenza al fatto che Kant affronti il tema della contraddizione nella Dialettica trascendentale, ma per comprendere la sua concezione del negativo è necessario prendere in esame uno scritto precritico, ovvero il Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative. In questo scritto Kant affronta il tema dell’opposizione, di cui distingue due tipi: opposizione reale e opposizione logica. La prima è quella che si ha tra due forze aventi stessa direzione ma verso opposto. Un esempio di opposizione reale è il caso del battello che si mantiene fermo sul fiume poiché la corrente e il vento che agita le vele hanno uguale forza e verso opposto. L’opposizione di questo tipo si risolve quindi in uno zero di movimento. Le due forze sono due positivi ognuno il negativo dell’altro, ma pur essendo in un’unità negativa permane un residuo di indifferenza. Ogni forza infatti esiste a prescindere dall’altra. L’opposizione reale kantiana è dunque una relazione solo esteriore di unità negativa tra due termini, poiché non è l’elemento costitutivo della loro identità. Al contrario si è già visto come in Hegel la determinatezza del negativo sia uno dei due elementi (l’altro è la positività del negativo) da cui si genera la contraddizione. Volendo collocare tale tipo di opposizione kantiana in una delle categorie analizzate in precedenza, potremmo sussumerla sotto il caso della correlatività. Si è infatti visto che essa è sintetizzabile nella formula “unità negativa più indifferenza reciproca”, la quale vale anche per l’opposizione reale kantiana.

L’opposizione logica è invece quel tipo di relazione dialettica che esiste tra le tesi che la ragione genera solo a partire da sé. Tale relazione è messa in luce nel capitolo della Dialettica trascendentale denominato L’antinomia della ragione pura. Un’antinomia è un conflitto delle idee della ragione, come ad esempio quello fra la tesi «il mondo nel tempo ha un cominciamento, e inoltre, per lo spazio, è chiuso dentro limiti» e l’antitesi «il mondo non ha né cominciamento né limiti spaziali, ma è, così rispetto al tempo come rispetto allo spazio, infinito» (Kant, KrV B 454-455). Nel testo seguono due dimostrazioni entrambe logicamente valide che sono però in contraddizione tra loro perché la verità della tesi implica la falsità dell’antitesi e viceversa. L’opposizione tra le due conduce a un esito scettico, dal momento che non può essere mai stabilito il valore di verità delle proposizioni. Le idee della ragione infatti non sono frutto della sintesi effettuata dall’intelletto sui dati sensibili, ma asserzioni – ripetiamo – che la ragione genera a partire solo da sé e non a partire dall’esperienza.

A questo punto è possibile tirare le somme riguardo all’opposizione kantiana. L’opposizione reale, in quanto reale non è contraddittoria; viceversa, l’antinomia, in quanto opposizione contraddittoria e logica, non è reale.

Il superamento che Hegel fa della logica kantiana consiste nel seguente passaggio: la contraddizione hegeliana è a un tempo logica e reale. In altre parole ciò che viene superato è la correlatività e dunque il residuo di indifferenza reciproca tra i due termini in opposizione. I termini in questione costituiscono infatti la loro identità nell’opposizione con l’altro termine – e non indipendentemente da essa – dando luogo a una contraddizione (A e non A) che però rappresenta la conoscenza più profonda e vera sui poli contrapposti e non un errore che non produce sapere e da cui guardarsi in sede conoscitiva. Scrive Landucci:

Questa è la novità, rilevantissima: ora il positivo e il negativo devono esser pensati in modo che, per ognuno di essi, l’esser contrapposto all’altro non sia meramente un momento; ma tale, nient’altro che meramente un momento, era la relatività reciproca come si presentava prima, poiché le si accompagnava necessariamente il momento contrario, dell’irrelatività. Siffatta irrelatività, poi, equivaleva ad una riflessione in sé, di ognuno dei due termini, onde conseguiva l’esternità della relazione all’altro. Ora, invece, ciascuno di essi si presenta come riflesso in sé solo in quanto è riflesso nell’altro. […] La riflessione in sé, cioè, non viene più a presentarsi in alternativa a quell’«unica mediazione», fra gli opposti, che precedentemente costituiva il momento della relatività reciproca; e così tutto viene esaurito da questa, ora: la loro verità consiste solo nel loro rapporto reciproco».

L’esaustività della relazione reciproca: ecco dunque ciò che contraddistingue la categoria dell’opposizione, in Hegel. L’“autosussistenza”, degli opposti, indica questa messa fuori gioco dell’eventualità di una reciproca indifferenza. […] Intesa in questo senso, l’opposizione deve esser definita come una relazione «immanente», o costitutiva, se si vuole, nel senso che i suoi termini non possono darsi al di fuori di essa, e sono quello che sono solo in essa (Landucci, 1978, pp. 70-71).

Contingenza e necessità sono pertanto due categorie con cui leggere il concetto di opposizione in Kant e Hegel. Se per Kant l’opposizione reale è l’incontro contingente tra due forze esistenti indipendentemente l’una dall’altra, al contrario per Hegel l’opposizione è necessaria proprio in quanto costituisce l’essenza dei termini in relazione. È cosi superata la rigida alternativa kantiana tra pensiero ed essere: non più opposizione logica o reale, bensì opposizione logica e reale. La contraddizione hegeliana esprime proprio tale unità che nella prospettiva kantiana è rifiutata. È bene notare, come fa a più riprese Landucci, che l’opposizione è per Hegel il criterio limitativo in cui è ammessa la contraddizione; solo nel rapporto di opposizione essa ha senso e non in qualsiasi rapporto di negazione. Con ciò è confutata l’interpretazione del principio di contraddizione hegeliano secondo cui, seguendo tale logica, sarebbero ammissibili affermazioni assurde quali “l’uomo è un trireme”. La contraddizione hegeliana non ha luogo tra due termini a caso ma tra un termine e il suo altro. Dunque non è possibile parlare di contraddizione in senso hegeliano rispetto alla frase “l’uomo è un trireme” in quanto uomo e trireme non sono termini in relazione di opposizione nel modo in cui la intende Hegel.

Ma come è possibile superare la formulazione kantiana dell’opposizione reale? Per rispondere analizziamo innanzitutto i diversi scopi teoretici dei due pensatori.

Ciò che motiva la speculazione di Kant è la volontà di dare un fondamento alla scienza moderna, dopo le epocali scoperte di Newton. Tale obiettivo viene perseguito attraverso il criticismo, ovvero tramite una filosofia che non consista in un corpo di dottrine, ma che si interroghi sulle possibilità e sui limiti delle facoltà umane – tanto in campo conoscitivo quanto in campo pratico. La filosofia critica comporta la separazione tra le condizioni di possibilità della conoscenza che precedono l’esperienza e ciò che, mediante l’esperienza stessa, vi si aggiunge. Ciò che precede e rende possibile l’esperienza è la forma (che è detta trascendentale proprio in quanto condizione di possibilità), mentre il dato sensibile ne è il contenuto. Per Kant ogni conoscenza inizia con l’esperienza e non è mai tale senza di essa pena lo scadimento, involontario quanto inevitabile, nelle idee della ragione per natura antinomiche e prive di valore di verità (come già detto in precedenza). Il criterio di verità per Kant è dunque insieme il modo in cui si conosce (che precede l’esperienza) e il dato sensibile che si dà nelle forme. Un qualcosa che affètta la facoltà ricettiva di ogni individuo è imprescindibile affinché sia possibile una conoscenza. Appare chiaro come il dato sensibile sia un elemento costitutivo della realtà della cosa. Non a caso la realtà è per Kant una categoria che ha per schema (ovvero per determinazione temporale) il continuo. Ciò vuol dire che la realtà è un susseguirsi ininterrotto di modificazioni della sensibilità: la sensazione è qualcosa di reale solo in quanto in relazione di continuità con la sensazione che la precede e che la segue. Le sensazioni sono da un lato positivamente esistenti (in quanto affettano i sensi) e dall’altro in relazione differenziale rispetto alle sensazioni contigue. Ricapitolando: se la sensazione è modificazione allora è per sua essenza relazione[7]; il tipo di relazione che intercorre tra due sensazioni è la correlatività. Si è visto infatti come quest’ultima sia caratterizzata da un’unità negativa con un residuo di indifferenza tra i termini ed è proprio questo il caso della sensazione, la quale, in quanto modificazione, è in unità negativa con le altre sensazioni, pur mantenendo un’esistenza autonoma (indifferenza reciproca). La realtà si costituisce in virtù di un quid esterno che affètta la sensibilità e del quale non si sa niente. L’essere umano è dunque costitutivamente aperto a qualcosa di eterogeneo rispetto a lui, che gli si dà però nelle sue forme proprie. Il motivo di ciò è la presenza del corpo nel processo conoscitivo.  Solo tramite esso, infatti, è possibile il darsi delle sensazioni e la costituzione della realtà. Il corpo è il motivo dell’eteronomia dell’essere umano in campo conoscitivo e conseguentemente del fatto che la realtà è non contraddittoria. È questa la ragione per cui secondo Kant reale e contraddittorio sono tra loro alternativi, come si è visto nel caso dell’opposizione. In tale concezione del reale l’alterità rispetto alla coscienza è imprescindibile: non c’è realtà senza eteronomia e se quest’ultima si ha solo in quanto è presente un corpo, allora il corpo è elemento costitutivo e ineliminabile della realtà: logos senza corpo è astrazione.

Si è visto che lo scopo di Kant è la fondazione della scienza moderna attraverso la filosofia critica; diverse sono le esigenze speculative di Hegel. La sua riflessione giovanile prende infatti le mosse dalla filosofia morale kantiana, rivelando in primis un interesse pratico. Se per il filosofo di Königsberg il soggetto umano in campo conoscitivo è di necessità – in quanto ha un corpo – in una condizione di eteronomia, come è possibile la libertà per l’uomo? Solo mediante una esclusione del corpo. In campo pratico infatti la massima dell’azione morale non deve essere dettata da motivi contingenti: affinché un’azione possa dirsi morale è necessario che il suo movente sia tratto esclusivamente dalla ragione – facoltà dell’universale – in relazione a sé stessa. Causa del giusto agire non è l’osservanza di un corpus di regole positive prodotte dall’uomo in un determinato contesto storico, bensì il rispetto di una massima che l’essere umano produce da sé a partire solamente delle sue capacità razionali, bagaglio trascendentale della specie-uomo. Priva di una serie di comandamenti positivi, la morale kantiana si configura come puramente formale: un’azione è morale solo se la massima che la motiva è in sintonia con la forma-uomo, cioè se si può volere che essa valga come legislazione universale (in qualunque tempo e in qualunque luogo). Dunque i dettami pratici non sono fondati su condizioni storiche particolari (né ne tengono conto), dovendo prestare attenzione solo all’universale: il genere umano cui ogni individuo appartiene. Queste condizioni fanno sì che Hegel consideri astratto l’impianto morale di Kant, in quanto avulso dalla concretezza della dimensione storica. La critica che Hegel muove a Kant sin dai suoi studi giovanili si fonda sull’impossibilità per la filosofia trascendentale di unificare concretamente la realtà. Per Hegel l’universale kantiano, a partire dal piano morale, è un universale astratto, in quanto lascia fuori di sé i bisogni concreti che si manifestano storicamente. Al contrario, lo scopo della riflessione hegeliana è una salda e concreta unificazione della realtà, ovvero la produzione di un vettore di universalizzazione che non lasci cadere niente fuori di sé. Tale proposito implica il superamento dell’impianto kantiano, a partire dalla fondamentale separazione tra forma e contenuto che determina l’eteronomia del soggetto in campo conoscitivo. In Kant il reale è formato dal soggetto ma sempre a partire da qualcosa a esso eterogeneo; per Hegel bisogna invece che la realtà sia interamente posta dal soggetto, che egli non vi riconosca niente di irriducibile a sé. Il rapporto tra il sé e l’altro non è esteriore, ma ogni termine ritrova la sua verità nell’inalienabile legame con l’altro termine, secondo quella quadruplicazione di cui si è già parlato. Ciò implica che il PNC sia messo al bando perché l’altro è il sé e il sé è l’altro: l’alterità cessa di essere un elemento costante di eterogeneità che la coscienza deve ridurre a sé, diventando un prodotto esclusivo del logos (cioè della potenza del negativo). È dunque il corpo – in quanto fonte di eteronomia – a fare le spese della svolta hegeliana, corpo che non ha più un valore imprescindibile in sede conoscitiva, costituendo ora soltanto un momento della maturazione del soggetto e della sua produzione di senso. Reale è ciò che viene prodotto dal logos e dunque da ciò che è tipicamente ed esclusivamente umano: solo così può proporsi un Soggetto che abbia l’ardire di ergersi a totalità. Volendo Hegel ridurre a unità il reale, deve pensarlo come totalità e può far ciò solo mediante un declassamento del corpo in sede teoretica. Conseguenza (ed esemplificazione) del passaggio storico-filosofico sopra esposto è la radicale differenza tra il concetto kantiano e quello hegeliano. Se per Kant il concetto è trascendentale e cioè condizione di possibilità del fenomeno, per Hegel esso è il vero che viene fuori dalla contraddizione posta in essere dal pensiero: il concetto hegeliano è il terzo momento che non esprime nient’altro che la verità contraddittoria dei termini in opposizione.

 

2. Subjekt versus Übermensch

La concezione hegeliana della realtà, di cui si è provato finora a fornire alcune linee guida, si colloca, come è noto, agli antipodi di quella di uno dei pensatori più radicali dell’Ottocento: Friedrich Nietzsche. Per rendere con chiarezza l’opposizione tra i due autori proponiamo le tre seguenti coppie oppositive all’interno delle quali si intrecciano i temi di negazione e corporeità: logos-corpo, Aufhebung-eterno ritorno, totalità-continua possibilità.

1) Logos – corpo.

α) Logos. Condizione di possibilità della piena autonomia del Soggetto è, in Hegel, l’esclusione del corpo, residuo di passività ancora contemplato all’interno del sistema kantiano. Ma come è possibile realizzare tale possibilità? Attraverso l’equazione tra logos e reale. La realtà è infatti per Hegel qualcosa di totalmente posto dal soggetto e solo in tal modo può configurarsi come contraddittoria. Il logos è il principio della realtà operante in tutti i suoi livelli come negazione. Essa, contrariamente a quanto si è portati a credere, è già attiva anche al livello più basso e povero della coscienza: si sta parlando del campo del sensibile, analizzato nel primo capitolo della Fenomenologia dello spirito intitolato per l’appunto La Certezza sensibile. L’oggetto sensibile colto da una coscienza povera che lo ritiene in sé autosussistente, si mostra come intimamente permeato e determinato dalla negazione, senza la quale non sarebbe neanche possibile il darsi di tale oggetto alla coscienza:

 

La certezza sensibile, in sé stessa, mostra l’universale come verità del suo oggetto; a tale certezza quindi resta come essenza il puro essere; ma non come un immediato, anzi come un qualcosa a cui sono essenziali negazione e mediazione; quindi anche non come ciò che noi opiniamo come essere, ma l’essere con la determinazione che esso è astrazione o il puro universale; e la nostra opinione per la quale il vero della certezza sensibile non è l’universale, è ciò che solo resta di fronte a questo vuoto o indifferente ora e qui (Hegel, 1807, p. 85).

Se in Kant la sensibilità è eterogenea all’intelletto, il quale deve per questo operare una sintesi discorsiva sui dati sensibili mediante le categorie, per Hegel le due sfere sono omogenee, nel senso che il logos già determina il sensibile a partire da sé.

β) Corpo. Per Nietzsche invece il logos è mistificazione: reale è solo il corpo con il susseguirsi delle sue pulsioni. Il logos è il portato di un gioco di forze più originario e l’io penso è l’altra faccia della cattiva coscienza. Quest’ultima nasce dal misconoscimento della pulsione che nel corpo ha uno statuto di egemonia. Spieghiamo meglio: per Nietzsche l’essere umano è un susseguirsi ininterrotto di forze materiali in divenire – che hanno sede nel corpo – organizzate gerarchicamente secondo la propria potenza.  Suo compito è quello di assecondare la forza che di volta in volta si presenta come egemone: chi non è in grado di affermare la propria potenza di vita nell’immediatezza della pulsione ricorre alla mediazione del logos come tutela della conservazione del sé. “Non posso, dunque non voglio”, è questa la frase che potrebbe essere eletta a motto della cattiva coscienza. Chi, per paura della potenza disgregativa e lacerante delle pulsioni, non riesce a dire di sì all’immediatezza della vita, nega una parte sostanziale del sé e la sua vita è depotenziata. L’incapacità di sentire la potenza del proprio corpo fa sì che l’essere umano si configuri come coscienza, come io penso, come soggettività e dunque come permanenza di contro al dileguante divenire che è il vero. Mediante la ragione le pulsioni vengono organizzate collettivamente trascendendo la loro naturale gerarchia. L’uomo del logos, l’uomo della contrattazione discorsiva dei valori collettivi è colui che ha perso la sintonia col proprio corpo e che non vive dunque in modo armonico con esso.

 

2) Aufhebung – eterno ritorno.

α) Aufhebung. Se la realtà è per Hegel interamente posta dal soggetto allora essa è l’esito di un processo. Tale processo è chiamato dal filosofo di Stoccarda Aufhebung: colui il quale si considera identico a sé e dunque sciolto da ogni legame relazionale, nel momento in cui comprende la sua essenza relazionale, supera la parzialità precedente e muove verso una comprensione più adeguata del proprio sé. Il soggetto non è un individuo sussistente in sé al di là della relazione, ma è il processo di liberazione da concezioni inadeguate del sé. Decisivo è qui il momento della considerazione dell’altro. Si è infatti visto, nell’analisi della contraddizione hegeliana, in che senso vada inteso il rapporto con l’altro da sé. Seguendo la divisione della Scienza della logica si può dire che nella sfera dell’essere il negativo è ancora subalterno al positivo, cioè si nega la sua positività e il soggetto si configura ancora come in-sé (an sich), ovvero considera la propria identità senza alcuna relazione all’altro da sé; nella Logica dell’essenza, invece, si afferma il dominio dell’assolutamente negativo: la negazione nega se stessa e critica tutti quei momenti di apparenza in cui si pretende di negare qualcosa di autonomo e irrelato; nella logica dell’essenza l’identità non è più fuori dalla relazione, è il momento del per-sé (für sich); la sfera del concetto è l’ultimo livello della logica e corrisponde alla piena consapevolezza della quadruplicazione dei termini e del rapporto contraddittorio della relazione di opposizione: l’identità dei poli opposti si determina completamente nella loro contrapposizione e contraddizione. Il soggetto è in-sé-e-per-sé (an und für sich). Nell’Aufhebung dunque ogni parzialità è insieme tolta e mantenuta in un progressivo avvicinamento alla pienezza del reale.

β) eterno ritorno. L’unico modo in cui per Nietzsche è possibile un’affermazione della pulsione egemone è attraverso una riconsiderazione temporale: l’eterno ritorno. Solo nell’istante può darsi l’affermazione del valore ed eterno è il ritornare continuo e infinito dell’istante come possibilità, per l’appunto, di affermazione della pulsione. A ritornare è la possibilità di affermare nell’istante il divenire delle forze corporee. Il valore è solo nella capacità di assecondare la propria potenza pulsionale: etica e politica si consumano nel corpo. Bene e male sono nel corpo che è al di là di essi: il valore è nell’asse verticale di relazione, e non in quello orizzontale che genera un’identità, un soggetto e una temporalità che trascendono l’istante.

 

3) Totalità – continua possibilità.

α) Totalità. I primi due punti del pensiero hegeliano posti in evidenza implicano il concetto di totalità. Solo se il logos pone il reale mediante una serie di superamenti dialettici (Aufhebung) è possibile considerare il corpo come un momento e dunque, togliendo così ogni residuo di eteronomia, fondare totalmente la realtà su un principio interamente razionale. Totalità e contraddizione vanno di pari passo: l’opposizione è insieme reale e contraddittoria solo a patto che il logos sia l’unica fonte di senso della realtà, facendo sì che non resti nulla di residuale ed eterogeneo rispetto alla coscienza.

β) Continua possibilità. Vivere la pulsione e l’istante che eternamente ritorna vuol dire viversi come continua possibilità d’essere, in piena coincidenza con il divenire del proprio corpo. Ciò implica che la forma di vita più alta e realizzata, quella dello Übermensch (superuomo – oltreuomo), è quella in cui vi sia una totale aderenza al reale, cioè alla vita pulsionale, senza la mediazione del logos.

 

Da quanto detto risulta che: se si basa il proprio pensiero sul logos-negazione come unica fonte del reale, si ha come conseguenza (ed effetto collaterale) una esclusione del corpo; viceversa, se è questo ad essere posto come unico fondamento della realtà, come conseguenza abbiamo una esclusione del logos-negazione. Delle due l’una: o negazione-contraddizione, o corporeità. Negare è infatti prendere la distanza da ciò che si dà ai sensi, è un differire; se però si vuole vivere in una aderenza totale rispetto alla propria corporeità non ci si può permettere il lusso della negazione, tratto distintivo del linguaggio umano. Si vede dunque che, secondo la prospettiva assunta in questa breve analisi, Hegel può essere definito un pensatore contro il corpo, mentre Nietzsche, paradossalmente, un pensatore contro il pensiero (logos). Le proposte dei due autori possono dunque essere definite parziali, o meglio, con un richiamo hegeliano, due “momenti” di un’opposizione che, in quanto tali, non devono essere visti uno come l’alternativa dell’altro, dovendo piuttosto trovare la loro verità nella loro unità. Il pensiero esiste solo come funzione di un corpo, il quale ha senso solo in quanto è sentito e pensato: il logos e il corpo sono due principi eterogenei e complementari. Chi, nella storia della filosofia, ha pensato il rapporto mente-corpo secondo questa prospettiva è un ebreo eretico vissuto nel XVII secolo: Baruch Spinoza.

 

3. Dialettica della relativizzazione

 Per spiegare, alla luce di quanto detto su Hegel e Nietzsche, alcuni punti del pensiero di Spinoza che riteniamo nodali, si ripropone qui una tripartizione analoga a quella del paragrafo precedente. Le coppie oppositive sopra citate si “risolvono” nelle seguenti teorizzazioni: parallelismo mente-corpo, relativizzazione, totalità come continua possibilità.

1) Parallelismo mente-corpo. «L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose» (Ethica II, P7). Questa proposizione esprime la particolare concezione del rapporto mente-corpo in Spinoza. Una realizzazione delle proprie possibilità corporee non implica un’esclusione del logos, come pure il dispiegarsi del pensiero non riduce mai totalmente a sé l’alterità corporea. Tutt’altro. Per Spinoza ciò che accade nella mente accade anche a livello fisico (e viceversa) in modo tale che pensiero ed estensione si configurino come due principi eterogenei[8] ma, allo stesso tempo, intimamente uniti e dunque impossibilitati ad affrancarsi l’uno dall’altro. Una mente che non pensi il corpo è inconcepibile tanto quanto un corpo che non abbia come correlato degli atti mentali.

2) Relativizzazione. «L’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il Corpo, ossia un certo modo dell’Estensione, esistente in atto, e nient’altro» (Etica, II, P13). Negli assiomi e postulati che seguono la proposizione è contenuta una breve esposizione della “natura dei corpi” secondo Spinoza. Il corpo umano è composto da numerose parti a loro volta divisibili. Ciò che lo caratterizza è la sua natura di composto che vive dell’equilibrio esistente tra le sue parti. A partire da questa molteplicità interna la vita dell’uomo è segnata – così come quella degli altri viventi – da uno sforzo (conatus) di conservazione e riproduzione dell’equilibrio vitale. Quest’ultimo è il limite irraggiungibile che esprime la proporzione tra le parti che costituiscono il corpo-mente dell’essere umano. Non si può mai coincidere con l’equilibrio, in quanto espressione della totale attività di tutte le parti del corpo e della mente. L’essere umano è infatti per Spinoza costitutivamente in altro, è cioè un essere limitato da ciò che si dà al suo corpo-mente (in questo senso è modo e non sostanza[9]). Tale alterità è foriera di paradossali possibilità: da un lato attenta alla conservazione del sé in quanto rischia di far saltare l’armonia corporea; dall’altro è l’unica occasione che si ha per sopravvivere. Il mondo-ambiente che ci circonda rischia continuamente di compromettere la nostra vita, pur essendo l’unico orizzonte in cui essa può essere vissuta. Ma come si passa dal rischio all’occasione? Ciò è possibile solo attraverso un processo di relativizzazione. Relativizzare il mondo esterno vuol dire esporre il proprio corpo-mente a più modificazioni che permettono la riproduzione dell’equilibrio vitale: un corpo che sia affetto da un numero limitato di agenti esterni (ad esempio un uomo che viva nella monotonia dell’abitudine) ha anche limitate parti del proprio corpo ad essere messe in moto e conseguentemente una vita della mente più povera. Per la teoria del parallelismo, non vivere alcune parti del proprio corpo significa non esperire alcune possibilità delle proprie facoltà cognitive. Tale modalità di esposizione al mondo esterno, infatti, comporta una maggiore difficoltà di mantenere l’equilibrio vitale nella continua modificazione: se il corpo-mente è esposto in maniera limitata al mondo esterno allora lascia inattive alcune sue parti e in tal modo ha maggiori difficoltà a riprodurre ciò verso cui si tende, e cioè il proprio equilibrio vitale, coincidente con la completa funzionalità di tutte le parti di cui è composto.

Ma cosa lega mente e corpo permettendo che il potenziamento dell’uno sia potenziamento dell’altro e viceversa? La risposta si può trovate nel Corollario alla Dimostrazione della Proposizione sopra citata: «Ne segue che l’uomo consta di Mente e Corpo e che il corpo umano, in quanto lo sentiamo, esiste» (Etica, II, P13, Corollario). Sentire il proprio corpo è dunque la spia di un aumento o di una diminuzione della propria potenza di vita.

3. Totalità come continua possibilità. «Per modo intendo le affezioni di una sostanza, ossia ciò che è in altro, per mezzo del quale anche è concepito» (Etica, I, Def. 5). Nell’ontologia spinoziana si dà un’unica sostanza, la quale possiede infiniti attributi e modi. L’essere umano è un modo di questa sostanza e ne conosce gli attributi di cui è composto: mente e corpo, pensiero ed estensione. La sostanza è la totalità del reale, l’infinità di tutte le realtà esistenti in natura. Vivere la totalità non è possibile se non nell’esperire parallelo delle due modalità d’essere che caratterizzano l’uomo: escludere una tra mente e corpo produce una vita parziale, manifestazione di una considerazione inadeguata del sé e dunque di una mistificazione del reale. Ma il corpo-mente, proprio in quanto appartiene alla totalità come suo modo, è ciò per cui l’esistenza dell’essere umano è limitata a una dimensione finita. Egli infatti partecipa della sostanza nella continua e infinita apertura all’altro da sé. L’altro è l’orizzonte di soggettivazione sia in senso verticale sia in senso orizzontale. Solo passando per l’approfondimento dell’alterità corporea è possibile un’apertura all’orizzonte relazionale e viceversa. In questo modo non si dà opposizione tra i due assi: una conoscenza più adeguata si accompagna a un sentire potenziato.

Quella di Spinoza è una filosofia del limite, in cui è possibile vivere quel comune, insieme corporeo e mentale, per cui ogni essere umano appartiene alla totalità. È un invito all’arduo compito dell’onestà e della modestia, nel lavoro infinito di liberazione del sé dalla schiavitù di paure e pregiudizi. Ma, si sa, «le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare» (Etica, V, P42, Scolio).

 

4. Conclusioni 

L’analisi del testo di Landucci ha messo in luce la funzione centrale e genetica della logica hegeliana all’interno del sistema filosofico del pensatore di Stoccarda. Essa è la condizione di possibilità per quel sistema di costituirsi come totalità che abbracci l’intero campo del reale senza lasciare nulla al di fuori di sé. La contraddittoria logica hegeliana si delinea nel confronto-superamento della logica trascendentale di Kant e nella diversa concezione dell’opposizione. L’alternativa kantiana tra opposizione logica e opposizione reale viene trasformata da Hegel in una congiunzione: opposizione logica e reale. Perché però avvenga un superamento del genere bisogna passare per una tappa fondamentale: la corporeità. In Kant il corpo è quell’elemento esterno alla coscienza che fa sì che l’opposizione, in quanto reale, non possa essere contraddittoria (antinomica). Viceversa in Hegel l’assimilazione della corporeità alla coscienza, che fa di essa un mero momento, costituisce il reale come totalità contraddittoria.

Il peculiare punto di vista di questo articolo sulla filosofia hegeliana è il rapporto mente-corpo, preso poi come vertice ottico anche dell’analisi di Nietzsche e Spinoza. Nel primo si assiste a un netto capovolgimento rispetto a Hegel. In ultima istanza, tutto è ridotto al corpo e alle forze che lo agitano. Le visioni dei filosofi sono riduzioni del reale a due principi tra essi alternativi: monismo[10] della mente (e riduzione a essa del corpo) in Hegel; monismo del corpo (e riduzione a esso della mente) in Nietzsche. Punto mediano tra i due estremi è Spinoza. Per evitare l’alternativa tra mente e corpo questi propone un parallelismo, all’interno del quale bisogna muoversi nel processo di soggettivazione. Interazione e non assimilazione: la realtà non si dà in una sola delle due dimensioni ma nella continua compresenza. Vivere la totalità del reale non è, per quanto possibile per l’essere umano, far prevaricare una dimensione sull’altra, bensì svilupparle parallelamente nell’unità di cui il sentire si fa garante.

 

Bibliografia 

Burnyeat, Myles

1982    Idealism and Greek philosophy: what Descartes saw and Berkeley missed, in The Philosophical Review, XCI, No. 1 (January 1982).

 

Hegel, Georg Wilhelm Friedrich

1807    Phänomenologie des Geistes, trad. it. Fenomenologia dello Spirito, E. De Negri (a cura di), 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1973 (ristampa anastatica dell’edizione riveduta del 1960).

1812    Wissenschaft der Logik, trad. it. Scienza della Logica, Moni-Cesa (a cura di), Laterza, Bari 1968.

1830    Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, B. Croce (a cura di), Laterza, Bari 1963.

 

Kant, Immanuel

1763    Versuch den Begriff der negativen Grössen in die Weltweishet einzuführen, trad. it. Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative, in Id., Scritti precritici, P. Carraballese e R. Assunto (a cura di), Laterza, Roma-Bari, 1982, pp. 249-290.

1781    Kritik der reinen Vernunft, J.F. Hartknock, trad. it. Critica della ragion pura, P. Chiodi (a cura di), Utet, Torino 2012.

1788    Kritik der praktischen Vernunft, trad. it. Critica della ragion pratica, P. Chiodi (a cura di) Utet, Torino 2010.

 

Landucci, Sergio

1978    La contraddizione in Hegel, La Nuova Italia, 1978.

 

Nietzsche, Friedrich

1887    Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, trad. it. Genealogia della morale, Colli-Montinari, Adelphi, Milano 1984.

 

Scaravelli, Luigi

1968    Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1973.

 

Spinoza, Baruch

1677    Ethica. More geometrico demonstrata; trad. it. Etica. Dimostrata con metodo geometrico, E. Giancotti (a cura di), Editori Riuniti, Roma 2007.

 


[1] La vita è definita tecnicamente come unione di concetto e realtà.

[2] Cfr. Landucci, 1978, p. 26.

[3] Cfr. paragrafo 1.1.3. La correlatività.

[4] Tale interpretazione è propria degli studiosi di scuola marxista.

[5] Cfr. Aristotele, Metafisica, libro Г.

[6] Nel passo citato, Hegel non sta parlando esplicitamente della negazione/contraddizione, bensi della Percezione (Wahrnehmung). Nonostante ciò, il passo è esplicativo dello stampo contraddittorio della logica hegeliana, operante anche nei livelli più bassi, come appunto la percezione.

[7] Cfr. Scaravelli, 1968.

[8] «La Mente umana non conosce lo stesso Corpo umano, né sa che esso esiste, se non per mezzo delle idee delle affezioni dalle quali il corpo è affetto» (Ethica, II, P19). «La Mente umana non implica una conoscenza adeguata delle parti che compongono il Corpo umano» (Ethica, II, P24). Cfr., in generale, le proposizioni della seconda parte dell’Etica, dalla 19 alla 31.

[9] Cfr. Etica, I, def. 3 e 5.

[10] Si intendono qui idealismo e materialismo come due forme di monismi. Ci si rifà a Burnyeat (1982, p. 8): «I take it that if the label “idealism” is of any historical use at all, it indicates a form of monism: monism not about the number of things in existence, but about the number of kinds of things. Just as materialism is the monism which asserts that ultimately nothing exists or is real but matter and material things, so idealism is the monism which claims that ultimately all there is is mind and the contents of mind».

Rughetti

 

 

 

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