Il nulla e la nascita filosofica dell’Europa

Franca D’Agostini

(Università di Milano)
franca.dagostini@unimi.it

 
 
coypel europa
Abstract: In this contribution, I illustrate the reasons for which Fredegisus of Tours’ Epistula de nihilo et tenebris not only plays a prominent role in the history of philosophy, but also represents an invaluable tool to address contemporary philosophical inquiries into the status and the nature of ‘nothing’. Firstly, I analyse the logical and theoretical main arguments and characteristics of the Epistula; secondly, I illustrate the problem of the conceivability of nothingness in the light of contemporary discussions. In conclusion, I argue that a re-appraisal of the link between the ‘nihilistic’ roots of European philosophy and the vocation to open critical discussion is able to provide elements for re-thinking the European model of cultural and political integration.
 
Keywords: Fredegisus of Tours; nihil; Conceivability of Nothingness; Europe.
 
 
Introduzione
 
Quel che segue è il testo, rivisto e in parte integrato, di una conferenza tenuta a Santander, presso l’Universidad de Cantabria, a un convegno sul tema ‘La filosofìa medieval: exposiciòn de las grandes sìntesis medievales. Entre lo razonable y lo credible’ (3-8 ottobre 2011). Una versione un po’ diversa (senza riferimento all’Europa) è stata pubblicata in «Divus Thomas», con il titolo Il nulla e altri esistenti impensabili: una rilettura del De nihilo et tenebris.

Ciò che in queste pagine è interamente nuovo, rispetto a entrambi i testi, è la breve riflessione finale sulle attuali difficoltà politiche dell’UE (§ 4), lette nella prospettiva dell’insegnamento che possiamo trarre dallo sguardo sugli albori della filosofia in Europa. L’esplorazione dei rapporti tra filosofia e Unione Europea è un tema ricorrente di molti interventi europeisti (anche anteriori alla costituzione stessa dell’Unione). Ma è interessante notare che oggi la percezione di questa connessione diventa sempre più evidente, anche per osservatori che non sono filosofi, dunque non hanno ottiche preordinate in una simile direzione. È esemplare in questo senso la diagnosi dei problemi europei fornita nel 2014 da un politologo, Maurizio Ferrera, in un articolo apparso su «il Mulino» (Ferrera, 2014), in cui leggiamo:

 

Prima di (e al fine di) identificare i contenuti di policy e gli assetti istituzionali che consentano alla bicicletta europea di rimettersi a pedalare, è necessario interrogarsi a fondo sulla natura della UE come costruzione politico-simbolica […] e sulle possibili cornici ideali entro cui elaborare, per poi realizzare, le scelte di politica pubblica e di architettura istituzionale.

 
 

  1.  L’importanza del De nihilo et tenebris[1]

 
L’epistola De nihilo et tenebris, o De substantia nihili et tenebrarum[2], scritta nell’anno 800 da Fredegiso di Tours, allievo di Alcuino e protagonista della cultura carolingia, è uno dei documenti più noti e discussi dell’alto medioevo. Ne esistono quattro codici e sei edizioni critiche[3]. Nonostante l’estrema brevità e le molte perplessità che ha suscitato, il De nihilo è uno dei punti di riferimento essenziali per la valutazione della rinascita carolingia, ed è tra i primi testi filosofici originali della transizione dall’età tardoantica al medioevo.

Nel testo Fredegiso affronta un tema che era all’epoca frequentemente dibattuto: la natura e il significato dei termini indicanti privazione, come appunto ‘nulla’ e ‘tenebre’, intendendo dimostrare che parole come nihil e tenebrae designano ‘cose’ in qualche senso ‘esistenti’. Nel dire nulla noi ci intendiamo, comprendiamo il significato della parola: dunque deve esistere qualcosa che indichiamo con questo termine; allo stesso modo diciamo tenebre, non ci limitiamo a dire non luce, dunque dovrà anche in questo caso esistere un designato. Inoltre ripetutamente la Bibbia e i testi dei Padri si riferiscono al nulla e alle tenebre, alludendo a qualche sostanzialità o realtà dell’uno e delle altre: il mondo è stato creato ex nihilo; Dio separò le tenebre dalla luce; le tenebre «erant super faciem abyssi». Come dobbiamo interpretare queste indicazioni? In verità l’impegno ontologico che le caratterizza è evidente: dovremmo dunque non credere ai testi sacri, o pensare che essi cadano in errore?

Più avanti si vedrà più in dettaglio lo sviluppo delle tesi di Fredegiso, ma vorrei intanto indicare in sintesi le ragioni per cui ritengo che la lettera costituisca un documento importante, non solo per la storia della filosofia, ma anche per la riflessione filosofica attuale. Le ragioni sono essenzialmente quattro.
 
 
1.1. Elenchos
 
La prima ragione è che nella lettera si esprime quel tipo di argomento confutatorio (elenctico) che è la “scoperta” della Grecia classica, e che gli intellettuali della corte carolingia chiamavano Usia Graecae, il modo dei greci[4]. Ritroviamo questo argomento, ben noto alla storia della logica e della metafisica, in particolare nel Proslogion di S. Anselmo. Chi dice che Dio non esiste implica, per le peculiari caratteristiche del concetto di cui parla, che Dio esiste, dunque si contraddice. L’argomento di solito viene usato in funzione fondazionale, e più precisamente per confermare l’innegabilità (o irriducibilità) di concetti fondamentali, come verità o realtà o bene. Così viene usato da Socrate nei dialoghi di Platone, e da Aristotele nel IV libro della Metafisica. Sull’argomento esiste una letteratura sterminata[5]. Quel che è interessante nell’epistola è che un argomento così concepito venga usato non per dimostrare l’innegabilità della realtà, della verità, di Dio, come ens supremo e perfettissimo, ma l’innegabilità del nulla. Da questo punto di vista diventa interessante ed emblematico l’accostamento con S. Anselmo, il quale conosceva senz’altro l’epistola[6].
 

La tesi di Fredegiso è che nel suo essere nominato e pensato il nulla si rivela esistente. Anselmo nota che nel suo semplice essere pensato e detto Dio rivela il suo indubitabile esistere. La formulazione stessa è molto simile: «non appena [il negatore del nulla] dice ‘nihil’» scrive Fredegiso, deve ammettere che il nulla esiste; «non appena l’insipiente sente il nome di Dio», scrive Anselmo, deve ammettere che Dio esiste:
 
dum dicit ‘nihil’
 
cum audit nomen Dei
 
dum dicit, cum audit, sono precisamente le due formule evidenziali con cui i due autori presentano la stessa struttura argomentativa.
 
 
1.2. Due filosofie linguistiche
 
La seconda ragione è legata alla metodologia di Fredegiso. Gli argomenti dell’Epistola, sia per il nulla che per le tenebre sono di due tipi: esegetici, e linguistici. Si potrebbe anche dire: ermeneutici, e di analisi del linguaggio. Come sappiamo l’impostazione ermeneutica e quella analitica sono le componenti principali della «filosofia linguistica» del Novecento. La prima è stata caratteristica di una parte consistente della filosofia continentale, europea, mentre la seconda si colloca alle origini dello stile analitico, diffuso specialmente in America e in generale nei paesi di lingua inglese. Le due impostazioni hanno avuto uno sviluppo parallelo e in buona parte non comunicante, e sono state a lungo considerate incompatibili.

Nell’epistola si esprime invece un’ipotesi di integrazione. L’autore usa l’analisi logico-grammaticale e l’interpretazione testuale, congiuntamente, allo scopo di confermare la sua tesi. Le risorse filosofiche del linguaggio sia come fatto testuale (dunque il ricorso alla tradizione) che come fatto logico-grammaticale (dunque il ricorso alla valutazione razionale) sono ampiamente sfruttate: e si vedranno le interessanti conclusioni che Fredegiso riesce a trarne.

La filosofia del linguaggio più recente ha tentato varie ipotesi di combinazione tra ermeneutica e analisi concettuale. Ma su un programma di questo tipo gravano due difficoltà di base. La prima è che sulla nozione di ‘analisi concettuale’, o anche ‘analisi’ le opinioni sono divergenti, anche nell’ambito della filosofia che – a torto o a ragione – ha definito se stessa ‘analitica’. La seconda è che l’ermeneutica filosofica, pur essendo di fatto una tradizione relativamente più ristretta, non soltanto non ha mai creato un «canone» o una «ortodossia» ben definiti, ma è stata anche interpretata in modo perlomeno fuorviante. L’immagine dell’ermeneutica emergente e poi dominante negli Stati Uniti, e di lì un po’ ovunque, è stata fortemente segnata dal decostruzionismo di Jacques Derrida, e dal testualismo di coloro che si sono richiamati al suo lavoro, e ha finito per diventare una specie di antirealismo metafisico piuttosto lontano da quanto era previsto dalla versione originale[7].
 
 
1.3. La rinascita della filosofia dallo spirito dell’Europa
 
La terza ragione è ‘storica’ in senso lato. Nel medioevo carolingio, proprio con la contaminazione tra elementi anglosassoni ed elementi francesi e germanici, si pongono le basi della rinascita culturale europea[8]. L’età carolingia è stata a lungo trascurata nella storiografia, solo nella seconda metà del Novecento è iniziato un importante processo di rivalutazione, e si è scoperto che la speculazione di Scoto Eriugena, a lungo considerato «un gigante isolato nella sua epoca» nasceva in realtà da un lungo processo che inizia verso la fine del secolo VIII[9].

«Il debito che la cultura europea contrae con i carolingi è immenso» ha scritto P. Riché (1994). Le stesse letterature francese, tedesca, anglosassone prendono avvio sotto il dominio carolingio. L’equazione nascita dell’Europa = Europa carolingia è forse problematica sul piano di una storiografia generale, ma è inequivocabile dal punto di vista culturale, quando si consideri l’Europa come centro di irradiazione artistica, filosofica, letteraria. Il termine stesso ‘Europa’ ha una speciale fortuna all’epoca di Carlo Magno[10], e viene a significare anzitutto una articolazione di universalismo e peculiarità nazionali.

Ma da dove ha origine la rinascita? Sostanzialmente da due punti di forza: l’impegno pedagogico, e il combinarsi di pluralismo e centralità politica.

Nel 781, quando Carlo Magno incontra Alcuino (allora direttore della scuola di York) a Parma, gli appare subito chiaro che questo anglosassone può essere il promotore della rinascita della cultura greco-latina da lui progettata, e può far ciò soprattutto grazie alla tecnica didattica di Alcuino, già sperimentata a York. Questa prevedeva una chiara consapevolezza della «superiorità culturale» dei maestri greci e latini, ma anche un uso diretto e libero delle fonti, orientato dalla consapevolezza logico-grammaticale e dialettica. E sono precisamente queste le componenti che come ho accennato si esprimono in modo esemplare nell’epistola. Fredegiso esemplifica perfettamente le risorse della tecnica pedagogica di Alcuino, e in questo modo lancia la combinazione (o il reciproco richiamarsi) di fides et ratio che rimarrà la costante distintiva della scolastica.

Il pluralismo e il centralismo del progetto di Carlo Magno costituiscono poi il terreno su cui l’opera pedagogica di Alcuino può fruttare. Gli intellettuali che Carlo Magno raccolse intorno a sé erano di provenienze diversissime, oltre agli studiosi di York del circolo di Alcuino, alla corte arrivavano intellettuali francesi, tedeschi, italiani, e anche irlandesi. Carlo Magno stesso chiede proprio a un irlandese, Dungalo, un giudizio spassionato sulla lettera di Fredegiso. Nel codice B1 conservato nei Monumenta Germaniae Historica (IV, 36) l’epistola è anticipata dalla lettera che Carlo Magno scrisse (dettò) nell’801, in cui l’imperatore si dichiara perplesso delle conclusioni di Fredegiso.
In questo clima multiculturale, il «nuovo inizio» matura grazie alla particolare contingenza che il centralismo carolingio riesce a produrre. Va notato che la rinascita coinvolge anzitutto la logica, e il linguaggio. Non per nulla già lo sforzo culturale di Boezio, circa trecento anni prima di Alcuino, mirava a una riscoperta della componente logico-metafisica della tradizione. Il rapporto tra pluralismo centralizzato e logica credo sia importante. La tecnica o lo stile di esercizio del pensiero e del linguaggio che i greci, da Socrate in avanti, chiamarono filosofia sembra estremamente avvantaggiata dai due fattori del pluralismo culturale (non per nulla nasce dagli apporti delle colonie), e della centralizzazione (ossia dalla convergenza geografica e politica delle diverse culture). Possiamo dire più in generale che la “buona” filosofia nasce in una situazione storica che consente pluralità di prospettive all’interno di un pensiero universale (globale). Tuttavia, la filosofia richiede il confronto discussivo, dunque certamente una varietà di prospettive ulteriore a ogni tipo di ortodossia o dottrina religiosa, ma nessuna discussione fruttuosa e sensata può prodursi senza la condivisione di un linguaggio, inteso soprattutto come lingua concettuale (§ 4.1). È nell’analisi concettuale infatti che Fredegiso, riferendosi allo strano e contraddittorio concetto di nulla, scopre una strana articolazione di autorità e ragione: un modo di essere fedeli alla lettera, al linguaggio nella sua più immediata materialità, che esalta e non umilia l’intelligenza.
 
 
1.4. Dal nulla al nichilismo europeo
 
La quarta ragione riguarda più propriamente il tema del nulla, che più avanti provo ad esaminare chiedendomi direttamente: ‘è possibile pensare il nulla?’ e mettendo a confronto la posizione di Fredegiso con il linguaggio e lo stile della filosofia contemporanea (§ 3). Va notato che il tema del nulla non ha un’occorrenza casuale, non soltanto perché come vedremo ha un’importanza del tutto particolare per la filosofia carolingia e per l’alto medioevo in generale, ma anche perché costituisce un filo conduttore che collega gli interessi metafisici dei carolingi alla riflessione ontologico-metafisica contemporanea.

L’esistenza delle cose designate dai termini non denotanti è un tema cruciale per tutta la tradizione analitica, e anzitutto per un autore che i filosofi analitici più tradizionali hanno considerato soprattutto per prenderne le distanze, e che oggi ha un’importanza centrale. Si tratta di Alexius von Meinong, la cui tesi basilare è: ci sono oggetti che non esistono[11]. Questa tesi in fondo non è molto scandalosa, se si ricorda che proviene dalla lettura che Brentano (maestro di Meinong) fece della Metafisica di Aristotele, sottolineando la questione della multivocità dell’essere. La tesi del ‘meinongismo’ è: l’essere si dice in molti modi, ma – come Aristotele stesso riconosce – si dice anche del non essere, di ciò che non esiste. Le ricadute di questa tesi sul piano logico, metafisico, semantico, sono importanti. E salta agli occhi immediatamente l’affinità con gli argomenti di Fredegiso.
I carolingi non conoscevano le opere ontologiche di Aristotele (e conoscevano solo in parte quelle logiche), ma l’impostazione che Fredegiso dà al problema ha come vedremo importanti punti di contatto con la tesi meinongiana.

D’altra parte la riflessione sulla negatività, sia essa intesa in termini hegeliani come «l’immane forza del negativo» o in termini nietzscheani come nichilismo o forza critica, è un elemento essenziale della riflessione ontologica non analitica, tanto nell’ermeneutica quanto in altre correnti. Questa riflessione nella filosofia continentale si è concentrata in modo intenso (e quasi esclusivo, per un certo tempo) proprio sulla problematica del «nichilismo europeo», la diagnosi nietzscheana a cui Karl Löwith ha dedicato un’ampia riflessione[12].

Come cercherò di spiegare più avanti (§ 4), la singolare affinità tra i primordi della riflessione europea e i suoi esiti otto-novecenteschi che ci suggerisce la lettera di Fredegiso è specialmente importante, proprio per precisare meglio ciò che ho suggerito: l’idea che l’unità politica dell’Europa coinvolge in modo rilevante il destino storico della materia che chiamiamo ‘filosofia’.
 
 
2. Analisi del testo
 
Siamo di fronte a una questione «indiscussam inexaminatamque», oppure considerata «impossibilem ad explicandum»; i «molti» che se ne sono occupati non sembrano essere pervenuti a un risultato definitivo. Dopo averla svolta a lungo «tra me e me», confessa Fredegiso, ho deciso di sciogliere i nodi da cui era avvinta e consegnare infine la mia soluzione alla posterità.

La questione da risolvere è così formulata: «nihilne aliquid sit, an non»: se il nulla sia qualcosa o non lo sia. Il discorso si sviluppa in due fasi. La prima è dedicata alla soluzione del problema in senso stretto, ossia la risposta alla domanda: il nulla esiste, ovvero è una cosa, è qualcosa? La seconda è dedicata all’indagine su che cosa è e come è il nulla. Conviene subito notare (circostanza forse non adeguatamente rilevata dalla critica) che come vedremo alla prima domanda l’autore dà una risposta affermativa, mentre alla seconda non dà alcuna risposta, o meglio dichiara che è impossibile rispondere: così il nulla ad avviso di Fredegiso è qualcosa (aliquid) di esistente, ed esiste (o meglio è esistito), ma non si può dire con esattezza che cosa sia (sia stato).
 

Dall’antifrasi all’elenchos – L’esordio dell’epistola è l’antifrasi del nulla (antifrasi = una parola o un’espressione che dice il contrario di quel che dice). Il negatore del nulla, mentre dice (dum dicit) «il nulla non esiste» o «il nulla non è nulla», al tempo stesso conferisce al nulla un’esistenza, dunque simultaneamente ottiene il contrario di quel che intende ottenere con le sue parole: afferma invece di negare, assegna, invece di togliere, l’esistenza al nulla. Fredegiso sta qui riferendosi a un problema di sintassi logica del linguaggio, che interpreta come impossibilità di negare il nulla. Altri testi provenienti dal circolo di Alcuino, proprio in quegli anni, affrontavano lo stesso argomento. La premessa si trova nel gioco lanciato da Agostino nel De magistro, che è una delle fonti molto probabili dell’Epistola: Transeamus ergo inc, quomodo se habet, ne res assurdissima nobis accidat.  Quae tandem? Si nihil nos teneat, et moras patiamur. Sorvoliamo dunque su questo argomento, affinché non ci accada una cosa totalmente assurda. – Che cosa? – Che nulla ci trattenga, e tuttavia siamo trattenuti [dal nulla].

Le testimonianze della presenza dell’antifrasi nell’ambiente frequentato da Fredegiso sono moltissime. Nella Disputatio Pippini Alcuino proponeva l’indovinello: quid est quod est et non est? Che cos’è ciò che è e non è? E il figlio di Carlo rispondeva: nihil (nulla), intendendo tanto: ‘il nulla è e non è nello stesso tempo’, quanto: ‘non c’è nulla che sia e non sia nello stesso tempo’. Il componimento in versi di Teodulfo di Orlèans dal titolo Delusa expectatio, presenta un fanciullo che racconta al padre di aver sognato un bue capace di parlare, e quando il padre chiede che cosa mai il bue gli abbia detto, il fanciullo risponde: ‘nihil’. Se ha detto ‘nulla’ ha parlato, ma se è nulla ciò che ha detto, allora non ha parlato affatto. D’altra parte, come ha mostrato d’Onofrio (1991) il De nihilo et tenebris appartiene alla tradizione delle teorizzazioni «prearistoteliche» sui termini negativi: una tradizione che va da Agostino ad Alcuino, Fredegiso e Teodulfo, da Scoto Eriugena a Pier Damiani e Anselmo. E si può pensare che uno snodo cruciale in questa tradizione sia proprio dovuto all’epistola di Fredegiso, visto che, come scrive Marcia Colish (1984, 758), i dibattiti sul nulla e concetti affini «agitarono i maestri carolingi dall’800 fino almeno all’860».

L’eccentricità di Fredegiso è però evidente, e non si tratta soltanto, come è stato detto, di una «ingenuità» del nostro autore, che prende sul serio le nominalizzazioni, non vedendone il carattere di gioco verbale (la differenza con S. Anselmo in effetti, come dice I. Sciuto (1989), consisterebbe nel fatto che Anselmo avrebbe una più chiara visione del carattere linguistico e non ontologico del fenomeno). In particolare, mentre in Agostino e negli altri autori la nominalizzazione del nulla genera una contraddizione (niente ci trattiene, e perciò siamo trattenuti; dico nulla e perciò dico nulla e qualcosa nello stesso tempo) in Fredegiso il gioco antifrastico si trasforma in una affermazione elenctica di innegabilità; il «quod est et non est» non è uno scherzo, semplicemente perché consiste nel presentarsi di un problema. L’impossibilità di negare il nulla costituisce infatti la prima evidenza, il primo enigma che dà l’avvio al discorso. Se non è possibile o è difficile per ragioni logico-grammaticali negare l’esistenza del nulla; se il nulla è nel linguaggio «quod est et non est», ciò che nello stesso tempo è e non è, allora occorrerà prendere una decisione al riguardo, tentare una dimostrazione razionale che permetta di uscire dall’impasse.
 

Videtur – Nel passaggio dall’antifrasi all’elenchos un ruolo cruciale è svolto dal videtur. Con un leggero slittamento dal piano iniziale, l’autore precisa che già nel mi sembra della formula «mi sembra che il nulla non sia» è incluso un qualcosa oggetto d’esperienza. L’esperienza è comunque e sempre esperienza di qualcosa, dice ragionevolmente Fredegiso, ciò che assolutamente in nessun modo è non può essere esperito, neppure come assente. «Quod si aliquid esse videtur, ut non sit, quodammodo videri non potest» (MGH, 805-6). Occorre prestare attenzione a questo scarto, perché mette in campo implicitamente una seconda figura dell’argomentazione, una figura che si potrebbe chiamare la continuità dell’esperienza. L’esperienza continua a essere esperienza di fronte al nulla, e alla mancanza; anche il negativo sta dentro all’esperire: esso “appare” fenomenicamente come qualsiasi altra cosa. Siamo di fronte a un elenchos analogo a quello che Agostino mette in campo nei Soliloqui per dimostrare l’innegabilità della verità: «se tutto il mondo perisse e con esso la verità stessa, sarebbe vero che il mondo e la verità stessa sono periti» («verum erit veritatem occidisse», II, 3). La verità fa orizzonte, diventa luogo onniabbracciante, e include anche la fine della verità; allo stesso modo, l’esperienza è l’orizzonte onnicomprensivo in cui si manifesta anche l’esperienza del nulla, dell’assente.
Ora Fredegiso aggiunge: fino a quando il negatore del nulla si mantiene alla proposizione semplice «il nulla non esiste», vale l’argomento, ma se egli si spinge ad affermare il seguente enunciato complesso: «mi sembra che il nulla sia nulla e non sia qualcosa» («Videtur mihi nihil nec aliquid esse»), allora le cose cambiano: non c’è propriamente autocontraddizione. Si può tuttavia affermare senza esitazioni una tesi di questo tipo? Che cosa mi sembra nel ‘sembrarmi’ del nulla?
 

Ragione o rivelazione? – A questo punto, avverte Fredegiso, sarà necessario mettere in campo per lo scioglimento dell’enigma due nuove istanze: anzitutto la ragione, quindi l’autorità delle Scritture. La struttura dell’argomentazione è ben ripartita: tre tesi vengono addotte a partire dall’indagine “razionale”, due tesi vengono derivate dalle Scritture. Il primo gruppo di argomenti risolve il problema ontologico, o referenziale (esiste un referente della parola ‘nulla’?), il secondo risolve (o meglio dissolve) il problema attributivo (che genere di cosa è il nulla?).

La questione delle “autorità” in gioco è stata per un certo tempo un punto controverso. I codici P e V infatti davano una identificazione di ragione e auctoritas: «deinde auctoritate, non qualibet, sed ratione duntaxat, quae sola auctoritas est». Ciò faceva di Fredegiso uno straordinario ed estremo razionalista: una posizione curiosamente in contrasto con la sua ostinata fedeltà alla lettera delle Scritture. Per risolvere l’enigma si sono avanzate varie proposte (per esempio Prantl suggeriva di interpretare ratione come rivelazione), fino a quando la scoperta del codice B1, dove al posto di ratio compare divina, ha permesso di chiarire l’enigma: non qualunque auctoritas, ma l’autorità divina. L’autorità divina agisce come discrimine razionale: in caso di dubbio, abbiamo a disposizione questa fonte di primaria importanza.
Il fraintendimento è però interessante, perché ci fa capire una peculiarità dell’epistola: il mantenersi fedele al linguaggio, alla materialità e letteralità del testo, colloca Fredegiso in certo modo al di là dell’antagonismo tra ragione e rivelazione. Nella rivelazione stessa Fredegiso trova elementi di conferma di ciò che la semplice ‘razionalità linguistica’ dei carolingi (a cui lui anzitutto si appella) è in grado di scoprire.
 

Dal nome alla cosa – Fredegiso passa quindi a svolgere l’argomento che definisce «razionale». Egli osserva che, in primo luogo, quando pronunciamo un nome, per esempio uomo, pietra, albero, comprendiamo la cosa da esso designata. In secondo luogo, ‘nulla’ è un nome «finito» (ut grammatici asserunt), e come ogni nome finito significa qualcosa, cioè si riferisce (refertur) a qualcosa (esattamente: la cosa che “comprendiamo”). In terzo luogo, nulla è una vox significativa, è un suono dotato di significato. Ogni significato si riferisce a ciò che significa come a qualcosa di esistente, ed è impossibile che il “qualcosa” così designato non sia: «Ex hoc etiam probatur non posse [nihil] aliquid non esse», conclude Fredegiso (MGH: «non posse»). Poiché la significazione, il designato del nulla, è qualcosa, questo qual-cosa deve (non può non) essere esistente.

In questa «teoria realistica del riferimento» si concentrano alcuni concetti-chiave delle teorie semantiche diffuse all’epoca di Fredegiso. Anzitutto, il concetto aristotelico di ‘nomen finitum’: presente tanto nel commento boeziano alle Categorie, quanto nello scritto pseudoagostiniano Categoriae decem, molto citato da Alcuino, che era forse il più diffuso testo di logica negli anni in cui Fredegiso operava. Inoltre il concetto ricorre nei manuali di grammatica, e i «gramatici» a cui accenna Fredegiso sono quasi certamente Donato e Prisciano, oltre ad Alcuino stesso (cfr. Mignucci 1979; Colish 1984). Secondariamente, va considerata la nozione – di origine stoica – di vox significativa o semantiké phoné (Corvino 1953), di cui si serve ancora Boezio nel Commento alle Categorie, e che di nuovo figura nel Categoriae decem. L’accenno al dato fenomenologico, cognitivo, “comprendiamo”, che apre l’argomentazione, ricalca l’intellectus, terzo elemento del processo significativo che si trova nella letteratura altomedievale dedicata alla categorialità. A partire dunque dalle disponibilità logiche della sua epoca Fredegiso poteva facilmente inferire l’esistenza del nulla come res designata dalla vox significativa.

Molti commentatori (in particolare Colish 1984) hanno sottolineato i limiti della semantica qui proposta da Fredegiso. In particolare, Fredegiso non contempla l’eventualità che l’aliquid designato da nihil possa essere esclusivamente mentale: una parola senza cosa, come suggerisce Alcuino stesso nella Disputatio Pippini («nomen est et res non est»). L’idea di un referente esclusivamente mentale nota Colish è d’altronde presente in tutte le teorie semantiche dell’epoca. Perché Fredegiso non tiene conto di questa soluzione? L’opinione di Colish è che egli avesse dimenticato o letto troppo affrettatamente il De dialectica.

In altre parole vi sarebbe un’identificazione di essere e linguaggio erronea anche rispetto all’insegnamento di Alcuino. Sembra che Fredegiso distorca la semantica di Alcuino per adattarla ai suoi scopi. Eppure, mantenendoci al testo, ci accorgiamo che Fredegiso sta presentando una posizione del tutto particolare, la cui premessa è precisamente l’eliminazione dell’intermedio tra essere e linguaggio. Quel che vediamo e in cui stiamo è l’essere, quel che vediamo e interpretiamo è il linguaggio: la sfera del mentale è l’oscura connessione, senza traccia, che dovrebbe legare l’uno all’altro: ma ne abbiamo davvero bisogno?

Di questo “testualismo” di Fredegiso sono interessanti soprattutto le conseguenze sul piano ontologico. Fredegiso dice che il nulla è qualcosa, e qualcosa che possiamo comprendere come tale, ma non specifica la natura del qualcosa di cui si tratta, se abbia un’esistenza fisica, spirituale, potenziale, mentale o attuale. Tale dimensione del problema non lo riguarda realmente. Ciò è perfettamente giustificato, se si considera che l’epoca in cui Fredegiso si muove è «prearistotelica» nel senso di: premetafisica, perché la metafisica aristotelica mancava ai carolingi[13].

Che tuttavia egli avesse una percezione del problema metafisico, ossia avvertisse la necessità di specificare ulteriormente la res o meglio l’aliquid a cui era pervenuto, è dimostrato dal successivo svolgimento del discorso.
 

La creatio ex nihilo – Considerando dunque dimostrata l’esistenza dell’aliquid-nulla, si tratta ora di comprendere la sua natura, e a tale scopo è necessario ricorrere all’autorità delle Scritture. La lettera del testo biblico ci fa capire, scrive Fredegiso, che il nulla esiste, è “qualcosa”, e probabilmente (anche se non possiamo dirlo) è una cosa piuttosto grande («etiam magnum quiddam»), poiché la Chiesa dice in modo unanime ed esplicito che tutte le creature furono prodotte dal nulla («divinam potentiam operatam esse ex nihilo terram, aquam, aera et ignem, lucem quoque et angelos, atque animam hominis»).

La collocazione del nihil nella scena creazionale è all’origine di quella serie di interpretazioni dell’epistola che a partire dall’Ahner (1878, 42) hanno voluto cogliere nel riferimento alla teoria dell’ex nihilo l’intento fondamentale dell’autore. Diversi passi dell’opera agostiniana anticipano su questo punto il testo di Fredegiso (cfr. in particolare Corvino 1956). Nelle Confessioni (XII, 8), Agostino scrive «Tu enim Domine, fecisti mundum de materia informi, quam fecisti de nulla re pene nullam rem». L’abisso primordiale, egli spiega, «era un tutto assai vicino al nulla, perché era ancora assolutamente informe, pur essendo tale da poter assumere una forma. Tu, o Signore, hai tratto il mondo da una materia informe [Sap., 11, 18], un quasi nulla da te tratto dal nulla, per trarne le grandi cose che noi, figli degli uomini, ammiriamo» (Agostino 1997, 673; tr. Moda).

Tanto l’impostazione quanto la soluzione del problema divergono però profondamente in Agostino e in Fredegiso. Tra il nulla assoluto (increato) e il mondo, Agostino colloca il quasi nulla della materia (creata), invece Fredegiso non riconosce questa fase intermedia. Egli mantiene la questione creazionale (ossia il nulla per così dire “prima dell’essere”) legata alla dimensione logico-grammaticale: il nulla dentro la frase, il nihil come nomen, vox significativa, soggetto di enunciazione. La connessione tra i due piani appare illuminante: così come non è necessario porre un concetto (un’entità mentale) quale intermedio tra nome e cosa, allo stesso titolo Fredegiso non reputa necessario porre un quasi-nulla tra il nulla e l’essere del creato.
 

La limitazione della conoscenza – La peculiarità della posizione di Fredegiso si può allora misurare considerando la natura del problema: si tratta di concepire il prima-dell’essere a partire, in definitiva, dai soli strumenti che ci sono dati, i quali appartengono all’essere e vi restano profondamente legati. Infatti, pur dovendo ammettere che se il mondo è stato creato dal nulla il nulla in qualche modo esiste, Fredegiso afferma che non ci è possibile dire di che cosa si tratti, e ciò avviene proprio perché noi stessi, e tutta la creazione, proveniamo dal nulla. Come può un elemento della natura valutare e definire la natura stessa?, si domanda il nostro autore. Egli ammette che il nulla sia qualcosa, contro l’avviso di Agostino, ma non si spinge a dire di che cosa si tratti, e come sia: se sia un altro Dio accanto a Dio, se sia increato o creato, fatto di sostanza materiale o spirituale. In questo senso come si è suggerito possiamo dire che Fredegiso suggerisce una ‘ontologia’ del nulla senza ‘metafisica’. Nel caso del nulla, secondo Fredegiso, abbiamo una soluzione al problema ontologico: il nulla c’è; ma non a quello metafisico: come sia fatto resta non specificato[14].

La prima acquisizione positiva di cui abbiamo notizia a partire dall’indiscutibile giudizio della «Chiesa tutta», cioè la tesi dell’originarietà del nulla, è dunque corretta dal ricordo della finitezza della nostra comprensione. A conclusione del discorso, si presenta un passo che è stato giudicato ambiguo, ma che si spiega forse come un’ultima offensiva contro il negatore della realtà del nulla. La sostanza della tesi è: se qualcuno volesse appuntarsi sulla incomprensibilità di questo nulla anteriore alla creazione per decretarne l’inesistenza e l’ineffabilità, dovrà considerare che anche altre cose, di cui comunemente si parla come esistenti, sono incomprensibili e indefinibili. Parliamo di angeli, anima, luce, pur non conoscendone, in fondo, la natura: non perciò decidiamo che la luce, gli angeli, le anime non esistono. Allo stesso modo, parliamo del nulla, pur non conoscendone l’entità la collocazione e le caratteristiche, e d’altra parte, se il nulla è l’increata origine degli angeli, della luce e delle anime, a maggior ragione non conoscendo quelli sarà difficile sperare di conoscere la natura di ciò che ne costituisce la condizione increata.
 

Le due tesi conclusive – Possiamo allora ripercorrere gli ultimi passaggi della lettera (nella parte sul nulla) nel modo che segue. La domanda inespressa è: se il nulla esiste, in che cosa consiste, e come mai non ne abbiamo conoscenza? Fredegiso formula a quanto sembra le seguenti risposte: 1. noi proveniamo dal nulla, dunque non possiamo valutarlo, perché nessuna cosa può valutare e capire ciò da cui proviene; 2. in fondo, di molte altre cose non abbiamo una esatta cognizione, per esempio di quelle “prime cose” che provengono dal nulla, come angeli, anime, luce: perché dunque non dubitiamo dell’esistenza delle anime, degli angeli e della luce, se non ne conosciamo la natura con esattezza, non più di quanto comunque conosciamo la natura del nulla?

Fredegiso sfiora così una conclusione che solo molti secoli dopo apparirà plausibile. Egli mette in luce che per rispondere alla domanda sull’esistenza occorre partire dal linguaggio, non c’è altro modo. Il linguaggio di cui si tratta è insieme testo e lingua concettuale, logica ed ermeneutica. Tuttavia, il linguaggio nelle sue due dimensioni è solo la voce (o anzi come dicono gli heideggeriani la «casa») dell’essere, ma non è l’essere. Di questo Fredegiso è perfettamente consapevole: e le sue conclusioni sono appunto chiare: il linguaggio (la sintassi logica, i testi) ci dice un modo d’essere del nulla, come ciò che anticipa l’essere (il creato). Ma non ci dice nulla di più.
 
 

    3. La pensabilità del nulla

 
Poiché pensiamo Dio, abbiamo il concetto di Dio, e abbiamo il nome ‘Dio’, non possiamo né pensare né dire che Dio non esiste (S. Anselmo). Poiché pensiamo il nulla, e ne abbiamo il nome e il concetto, dobbiamo pensare e dire che il nulla esiste (Fredegiso). La critica classica a questo genere di argomenti è quella suggerita da Kant, nell’Unico argomento per una prova dell’esistenza di Dio: dal mero pensiero di una cosa non possiamo dedurne l’esistenza. Un argomento si discute mostrando che le premesse non sono vere, o mostrando che l’inferenza non è valida (o entrambe le cose): Kant evidentemente discute l’inferenza, ossia dà per assodato che abbiamo il pensiero-concetto di Dio, e pensiamo un essere perfettissimo, dotato di tutti i possibili predicati, però sostiene che da ciò non ci è legittimo derivare l’esistenza di Dio. Volendo si può applicare lo stesso ragionamento al nulla: abbiamo il concetto e il nome nulla, ma da ciò non ci è lecito derivarne l’esistenza.

Ma potremmo anche adottare una diversa strategia, e chiederci se in definitiva non siano le premesse a costituire l’errore. Ci chiediamo allora:
 

(a) davvero possiamo pensare il nulla?
 

(b) davvero possiamo nominarlo, ossia: esiste davvero questo nome?
 

Vediamo prima la perplessità (b), e consideriamo due punti di riferimento contemporanei: Carnap, e Meinong.
 

(b1) Rudolf Carnap, nel famoso articolo su Il superamento della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio discute Che cosa è la metafisica? di Heidegger, e in particolare critica ciò che Heidegger in quel testo dice del nulla. L’argomento di base di Carnap consiste nel mostrare che l’espressione ‘il nulla’ è insensata, in quanto viola la sintassi logica del linguaggio. Infatti ‘nulla’ è solo la negazione dell’espressione ‘esiste almeno un…’ che in logica è il quantificatore esistenziale. Da questo punto di vista, dire ‘il nulla’ è come dire ‘l’anche’, o ‘il purtuttavia’ o ‘il benché’. Chiedersi se il nulla esista o sia qualcosa è come chiedersi se esistano l’anche o il benché. Si tratta in altri termini di una parte sincategorematica del discorso, e la nominalizzazione di una parte sincategorematica è evidentemente impropria. Nell’ottica di Carnap i giochi dei carolingi e di Agostino, e naturalmente la stessa lettera di Fredegiso sono semplici insensatezze, divertissement irrilevanti. Il problema dell’esistenza o dell’esserci di una cosa o non-cosa chiamata ‘nulla’ è uno pseudo-problema, e come tale va dissolto. Ma la soluzione di Carnap è davvero definitiva?

La discussione sul tema è stata molto ampia[15], ma quel che ci interessa ora osservare è che se è vero che l’antifrasi, come tale, non ha grande interesse sul piano logico-ontologico, è anche vero che come si è visto Fredegiso non ha del tutto torto nel prendere sul serio i giochi di Agostino, di Alcuino e dei suoi compagni. Infatti, almeno un argomento contro Carnap è piuttosto decisivo. Non possiamo dire che con ‘il nulla’ intendiamo qualcosa di esattamente equiparabile a ‘l’anche’ o ‘il benché’, perché con l’espressione ‘il nulla’ ci riferiamo a qualcosa che, se l’universo (dunque la totalità degli esseri che noi consideriamo esistenti) ha avuto un inizio nel tempo, doveva in qualche modo esserci. Se ciò è vero, c’era qualcosa, ossia precisamente il nulla, prima che qualsiasi cosa vi fosse in assoluto. Ma ciò è contraddittorio. Questo significa forse che non si può dire che l’universo abbia avuto un inizio nel tempo: ma allora non c’è stata creazione. Anche supponendo che l’ottica ‘creazionale’ non sia da noi accettata, possiamo senz’altro prendere questa decisione ontologica spensieratamente, e ammettere che l’essere che conosciamo non abbia avuto alcun inizio?

In altri termini, con la parola ‘nulla’ noi denotiamo essenzialmente il complesso problematico costituito dall’idea che l’essere è stato creato, ha avuto una storia, una vicenda, e che dunque occorre capire in quale senso ‘c’era’ un prima e un dopo, e in quale senso, invece, prima non ‘c’era’ propriamente nulla, e il nulla stesso non era un essere che in qualche modo ‘vi fosse’. Ecco dunque il problema che pone Fredegiso: se c’era un prima del tempo, c’era un essere che non era (ancora) essere; questo esserci nel passato di ciò che non è mai stato né mai sarà è linguisticamente e concettualmente problematico: ma perché non dovremmo per l’appunto provare a «sciogliere» l’enigma?
 

(b2) Ci si chiede ora: posto che il nome ‘nulla’ sia sintatticamente plausibile, e con esso si intenda il prima dell’essere, e l’altro dall’essere, che senso ha chiedersi se il nulla esista, o sia esistito, o anche: se sia o sia stato qualcosa? Sarebbe come chiedersi che tipo di azzurro ha una cosa che non è azzurra, ovvero: che cosa è ciò che non è? (quid est quod est et non est?).

Ora dobbiamo riferirci alla seconda questione, di cui Carnap qui non tiene conto e che però è senza dubbio uno dei punti cruciali dell’epistola. Si tratta dell’esistenza degli oggetti designati dai nomi non denotanti, un problema cruciale per lo sviluppo di tutta la tradizione analitica. Il dibattito sull’argomento (che ha origine con On denoting di Russell) è oggi dominato da due posizioni che si profilano con una certa chiarezza: i quineani (da Quine) e i meinongiani. In estrema sintesi[16], i primi non ammettono una sostanziale differenza tra esserci ed esistere, i secondi invece ammettono che tale differenza vi sia, e che “vi siano” oggetti che non hanno propriamente esistenza spazio-temporale.

Quine ha fondato l’ontologia analitica più ortodossa identificando il ‘c’è’ del quantificatore esistenziale in logica con l’‘esiste’ ontologico: quando dico ‘esistono gatti’ intendo dire che ‘c’è qualche x che ha la proprietà G’ (G = essere un gatto). Questa soluzione sembrava semplificare molto il quadro dell’ontologia, permettendo un immediato aggancio della logica (in particolare la semantica dei quantificatori) alla metafisica, e alla riflessione su ciò che esiste e non esiste. Rispetto a questa scelta metodologica, il meinongismo consiste nell’ammettere che ci siano oggetti non esistenti, e ciò equivale a ‘liberare’ il quantificatore esistenziale dal predicato di esistenza, ammettendo che quando diciamo ‘esistono gatti’ non intendiamo ‘c’è qualche x che è G’ ma piuttosto: ‘ci sono nel mondo attuale oggetti che hanno la proprietà G’ o anche: ‘c’è qualche x che è un G e sta nel mondo’.

Ora è abbastanza evidente che l’identificazione di c’è ed esiste proposta dai quineani lascia aperti molti problemi. Per esempio: ci sono le emozioni? Dal momento che ne parliamo, e le pensiamo e le proviamo, ci sono, ma non possiamo dire propriamente che esistono. Ci sono le guerre, ma possiamo dire che esistono, come oggetti determinati in senso spazio-temporale? Forse esistono i singoli eventi di guerra, ma non c’è ‘la guerra’ come tale. E poi c’è il mio mal di testa, ma non esiste come fatto fisico, bensì se mai come una collezione di reazioni chimiche e nervose, ecc. Come si vede: la ‘semplificazione’ di Quine sembra generare grandi difficoltà.
La soluzione dei meinongiani sembra più plausibile e intuitiva. Consiste essenzialmente nell’ammettere che parliamo di molti oggetti, pensiamo molti oggetti, ma non tutti gli oggetti a cui pensiamo e di cui parliamo esistono, ossia appartengono al mondo spazio-temporale. Un oggetto è in effetti (per la logica standard) una qualsiasi entità che possa essere caratterizzata, cioè a cui si possano assegnare predicati. Dal punto di vista meinongiano, un oggetto caratterizzato, sia pure in modo abbozzato e incompleto c’è, dunque diremmo: non è necessario per l’esserci dell’aliquid designato un nomen finitum. Per esempio ‘i figli di Kant’ posto che Kant non ha mai avuto figli, ci sono, in quanto sono pensati e caratterizzati, la «montagna dorata» c’è in quanto è pensata e caratterizzata; anche «il quadrato rotondo» c’è, in quanto è caratterizzato come qualcosa che è quadrato, ed è anche rotondo. Ma ammettere che questi oggetti ci sono non ci vincola affatto ad ammetterli come esistenti. Kant non ha mai avuto figli, non ci sono mai state nel mondo attuale (a quanto sappiamo) montagne dorate, e la convergenza delle proprietà essere quadrato ed essere rotondo non può darsi in natura.

(a) Da questo punto di vista, il problema (b) è risolto: abbiamo il nome nulla, e con questo nome indichiamo semplicemente l’altro dall’essere. Non soltanto: il nulla c’è in quanto oggetto caratterizzato. Ma è davvero così?
 

Occorre ora passare alla questione (a), e chiederci: posto che il nome esista, esiste davvero un designato, almeno nel pensiero? Pensiamo davvero il nulla, come tale? Fredegiso forse non ha torto a ignorare la soluzione mentalista, ossia l’idea del nulla come un pensato non esistente, visto che in fondo, come vedremo, non sembra essere molto risolutiva.
La prima questione da notare è che l’esserci del nulla sembrerebbe più simile all’esserci del quadrato rotondo che all’esserci della montagna dorata. In effetti c’è una notevole differenza tra i due oggetti che ci sono ma non esistono. Nel caso della montagna dorata, l’oggetto in questione non soltanto c’è in quanto caratterizzato, ma c’è anche in quanto pensabile, figurabile, o anche: possibile (come i figli di Kant). Invece l’oggetto quadrato rotondo c’è in quanto detto (nomen est) ma forse non è propriamente pensabile, non soltanto non è una res, ma non è neppure un cogitatum. La domanda “si può pensare il nulla?” sembrerebbe allora equivalere alla domanda: si possono pensare contraddizioni? In effetti molti tra i meinongiani sono anche logici paraconsistenti, che cioè ammettono contraddizioni, e sostengono che alcune contraddizioni non soltanto sono pensabili senza disastrose conseguenze, ma sono anche in qualche modo esistenti. Ma il concetto di nulla è davvero internamente contraddittorio? E in quale misura riusciamo davvero a pensare la contraddizione di cui si tratta?
 

(a1) Per capire meglio la questione dobbiamo anzitutto riferirci a un altro testo classico, il passo della Scienza della logica in cui Hegel affronta l’analisi dei concetti di essere e nulla. Lì appare una ‘caratterizzazione’ essenziale: il concetto di nulla è la negazione non dell’essere ma del qualcosa; il che significa per Hegel con ‘nulla’ si intende l’assenza di ogni condizione di determinazione. Ecco dunque la contraddizione: nel voler pensare il nulla noi vogliamo pensare la determinata impossibilità di ogni determinazione; in termini meinongiani: la caratterizzata impossibilità di ogni caratterizzazione.

Da questo punto di vista, spiega Hegel, appare con chiarezza che il puro nulla coincide perfettamente con il puro essere. Infatti prendiamo per esempio una fragola. La fragola è rossa, morbida, dolce, acquosa, dotata di fibre, vitamine, ecc.. Se noi vogliamo cogliere l’essere puro della fragola, il qualcosa che essa è al di là delle sue proprietà, troviamo il “nudo sostrato qualcosa”, una x inespressiva, che come tale è un assoluto nulla. Se poi vogliamo cogliere l’assenza, il nulla, ci occorre togliere anche questa x. Ecco dunque il coincidere perfetto dell’essere e del nulla: che differenza c’è tra nulla ed essere, visto che la x che è puramente, senza proprietà, essenzialmente già non c’è, prima ancora che sia tolta?

Il fatto è che per Hegel concetti come ‘il nulla’ e l’essere’ possono essere pensati solo come mutuamente connessi. Il nostro fallimento quando cerchiamo di determinare questi concetti da soli non dimostra che essi siano impensabili, o inafferrabili, ma piuttosto che la loro determinazione è di tipo speciale: non è come la determinazione del concetto di sedia o di bottiglia.
Per dimostrare il carattere speciale dei concetti di nulla ed essere Hegel introduce la sua famosa discussione dell’argomento dei “cento talleri” di Kant. Nell’Unico argomento per una prova dell’esistenza di Dio Kant aveva distinto concetti semplicemente posti, e concetti posti come esistenti (la prima è la posizione della possibilità, nel pensiero; la seconda è la posizione assoluta, della realtà senza contatti con il pensato). Per esempio: ho il pensiero dei cavalli alati, dopodiché cerco di aggiungervi l’esistenza, e fallisco; allo stesso modo i cento talleri da me immaginati differiscono dai cento talleri reali, che eventualmente ho nelle mie tasche.

Questa però secondo Hegel è una teoria che ha un certo rilievo per quel che riguarda talleri e cavalli, ossia per i concetti di cose sensibili (diremmo: determinate in senso spaziotemporale). Ciò avviene essenzialmente perché queste cose ci servono, e abbiamo interazioni empiriche con esse. I cento talleri reali differiscono dai talleri immaginati in quanto i primi hanno una “rilevanza patrimoniale”; la sedia solo pensata è diversa dalla sedia reale, poiché se provo a sedermi sulla prima cado per terra. Ma, dice Hegel, questo non vale per concetti speciali, come appunto nulla, essere, Dio. Queste speciali essenze “onto-teologiche” infatti non hanno esistenza extraconcettuale: in esse il concetto coincide perfettamente con la cosa. Ed è in questo senso che tali entità esibiscono la necessità nel loro essere meramente concepite, anche se – come si è visto – non sono concepibili se non accanto e insieme al loro opposto. A quanto sembra l’elenchos di Fredegiso (§ 1.1) voleva catturare precisamente questa necessità.
 

(a2) Anche per Hegel dunque il nulla (inteso come altro dall’essere e assenza di determinazioni e condizioni) è un inevitabile o irriducibile del pensiero, ed esibisce la sua necessità nel suo mero essere concepito, esattamente come l’essere, la verità o Dio. Ma resta sempre la domanda: davvero questa inevitabilità ha un contenuto concettuale, di qualche tipo, un pensabile, distinto dal semplice linguaggio in cui la troviamo?

Nella domanda ‘il nulla è pensabile?’, dobbiamo allora concentrarci non sul nulla ma sul pensabile: che cosa intendiamo per pensabile? Per esempio, pensare significa in questo caso raffigurare, mentalmente o meno? In The Art of the Impossible Roy A. Sorensen ha promesso un premio di cento dollari a chi gli portasse la raffigurazione di una vera impossibilità. Non è una grande somma di denaro, perché Sorensen stesso ha il dubbio che in definitiva si possa fare, e nel seguito dell’articolo spiega le condizioni che la figura dovrebbe soddisfare. Per esempio, dovrebbe essere la raffigurazione di un’autentica impossibilità non una figura impossibile: le scale di Escher o la sirena rovesciata di Magritte (una donna con le gambe di donna e il busto da pesce) sono figure di cose impossibili-inesistenti, non raffigurazioni di impossibilità-inesistenze effettive. Al termine dell’articolo, Sorensen dice che raffigurare il nulla è comunque impossibile, perché il nulla è per definizione il contrario di ogni raffigurabile.

Sullo sfondo dell’articolo opera la convinzione, di derivazione humeana, che pensare un oggetto significhi in definitiva raffigurarlo, e il non raffigurabile, anche se dicibile è impensabile. È una tesi piuttosto estrema, anche se forse ha le sue ragioni. Possiamo discostarcene leggermente, ipotizzando che pensare significhi almeno raffigurare mentalmente, ossia immaginare. Possiamo immaginare il nulla?

Intuitivamente, si può procedere per sottrazione. Guardo ciò che mi sta intorno, quindi “elimino” progressivamente tutto: i mobili, il pavimento, il soffitto, la casa, la strada, le altre case e strade, poi gli alberi, le colline, le pianure i fiumi fino a togliere di mezzo la regione, la Spagna, l’Europa, e arrivo a ottenere il globo vuoto del mondo-Terra. Ciò non sarà ancora, naturalmente, l’assoluto niente: fino a che non avrò eliminato dal quadro anche la Terra il Sole e i pianeti del sistema solare, e le galassie, non potrò dire di aver davvero immaginato il nulla. Ma non soltanto: alla fine del processo, quando tutto ma proprio tutto sarà stato tolto, non sarò in grado di eliminare l’immagine sia pure parziale e vaga di me stessa, responsabile della sottrazione.

Questo famoso argomento di irriducibilità dell’essere è un correlato sul piano immaginativo dell’argomento di innegabilità da cui siamo partiti, l’argomento elenctico. Esistono concetti innegabili non soltanto logicamente e linguisticamente ma anche concettualmente: tra questi senza dubbio è il concetto di essere. Ci è impossibile immaginare l’assenza di essere perché l’immaginazione richiede esistenza. Ma ciò vuol dire che allora non possiamo in nessun caso pensare il nulla? Se si identifica pensare con immaginare in termini figurali forse sì, non è possibile: il nulla non è pensabile né concepibile[17].
 

(a3) Ci sono però molte cose che possiamo pensare e anche trattare concettualmente, anche se non possiamo propriamente figurarle o raffigurarle nella mente. Per esempio: gli oggetti matematici, i grandi numeri espressi da potenze, i numeri decimali periodici espressi da frazioni, rette non tracciabili espresse da equazioni… La matematica è un grande repertorio di esistenti impensabili, e cose che ci sono ma forse non esistono. E forse ‘il nulla’ è pensabile nello stesso modo. L’espressione ‘il nulla’ equivarrebbe allora all’espressione 9/7, che contiene l’infinito del periodo 1,285714….. «in sé racchiuso», scrive Hegel. Ma come avviene questo processo? L’operazione che da 9/7 porta a 1,285714… ci è nota, mentre il passaggio da ‘il nulla’ al vuoto degli spazi cosmici senza cosmo resta un enigma.

Visto che l’argomento per sottrazione soggettiva è fallito, proviamo allora un argomento per sottrazione oggettiva[18] Stabiliamo che un ‘mondo’ sia canonicamente una totalità compiuta di fatti o stati di cose. Consideriamo ora una variazione progressiva, a partire dal mondo attuale. Supponiamo che i fatti di cui consiste il nostro mondo siano in numero n, e ipotizziamo il mondo n – 1, quindi n – 2 , ecc… Evidentemente, il mondo n – n sarà il mondo vuoto, il mondo-nulla, quello che c’era prima del mondo e avrebbe potuto esserci al posto del mondo. Ma significativamente questo mondo-nulla non sarà neppure propriamente un mondo mancando in esso la condizione della mondità ossia la presenza di almeno un fatto. Sarà dunque propriamente il nulla: il mondo senza mondo.

Questo è solo un modo in cui si può “pensare” il concetto di nulla. Notiamo che non si tratta di immaginarlo, ma di derivarlo per inferenza, attraverso una costruzione concettuale. In questo senso, il nulla esiste, ed è pensabile, esattamente come esiste ed è pensabile per esempio la radice di due. In effetti possiamo pensare la radice di due, perché possiamo pensare un triangolo rettangolo di cateto 1 (e se non possiamo immaginarlo, non importa affatto per stabilirne l’esistenza): in base al teorema di Pitagora, l’ipotenusa di quel triangolo sarà effettivamente la radice di due. Non c’è dunque una grande differenza nel modo di pensare il nulla rispetto al modo di pensare entità matematiche più o meno complesse. Ma questo vuol dire che il nulla è un concetto matematico, esattamente equiparabile allo zero? In realtà no, e la differenza tra il concetto di nulla e l’inizio non numerico della serie dei numeri naturali ci permette di capire meglio la differenza tra l’astrazione matematica e quella filosofica.

Tra i concetti matematici (lo zero come la radice di due) e il nulla c’è una decisiva differenza di contenuto. Vale a dire: l’operazione che li vede- li costituisce è simile, ma il risultato differisce profondamente. I concetti matematici infatti hanno un contenuto esiguo, che si riduce alla loro costruzione. Il concetto di nulla invece come ogni concetto filosofico fondamentale, è ampio e impuro, pieno di implicazioni e risonanze culturali, e anche in certo modo pratiche e politiche. Ha un contenuto vastissimo, che tocca le radici della nostra civiltà e dei nostri modi di pensare e descrivere la realtà, l’esistenza di Dio, e anche, cosa di cui i carolingi erano perfettamente consapevoli, le trappole e le risorse del linguaggio, la rivelazione e l’enigma dei testi della tradizione. Aveva dunque ragione Fredegiso nel definirlo «magnum quidam ac preclarum»[19].
 

4. Europa?
 

L’EU, come scrive Ferrera (2014) oggi rappresenta «un sistema profondamente malato». Minacciata dai populismi di tipo «sovranista» (ossia rivendicanti autonomie politiche, economiche e monetarie), ferita dalla brexit, accompagnata dalle esternazioni anti-europeiste del nuovo presidente americano[20], in generale oggetto di perplessità e sfiducia, deve affrontare enormi difficoltà pratiche, come l’ondata migratoria e gli squilibri economici, che sembrano smentire nei fatti la stessa opportunità di coltivare principi sovranazionali di interesse comune.

Eppure il programma europeo aveva e avrebbe requisiti tali da renderlo esemplare, da più punti di vista «l’Europa è l’unica parte del mondo che è riuscita a combinare e salvaguardare ufficialmente in trattati comuni, rispetto per i diritti fondamentali, pluralismo, giustizia sociale, non-discriminazione, norme ambientali, e meccanismi di sicurezza collettiva»[21]. L’ex presidente degli Stati Uniti osservava, nel 2015: «ciò che siete riusciti a realizzare – più di 500 milioni di gente che parla 24 lingue in 28 paesi, 19 dei quali con una moneta unica, in una sola Unione Europea – rimane la più grande conquista politica ed economica dei tempi moderni».
 

4.1. Il passaggio di stato
 

Che cosa non funziona? Nel suo articolo uscito su «il Mulino» nel 2014, Maurizio Ferrera ha chiarito due importanti problemi di fondo. Anzitutto, il «passaggio di stato» dalla gestione nazionale delle risorse e delle scelte politiche, in particolare con la realizzazione dell’unità monetaria, ha creato un sistema di azioni e interrelazioni «irriducibili alle caratteristiche delle unità componenti (i paesi membri e le loro relazioni inter-governative) e dotate di autonomo potere causale». In altri termini, l’Europa è diventata un fatto, e ogni pretesa di trattarla come un’opzione di diritto, pertanto rivedibile, è il frutto di una visione distorta e falsidica della realtà. «Per usare una nota metafora, quando il dentifricio è stato premuto fuori dal tubetto, non si può ri-premerlo dentro».

Questa evidenza, osserva Ferrera, è nota in alcune sedi del dibattito scientifico, ma non sembra aver catturato l’attenzione pubblica. I dibattiti europei sono ancora affetti a ogni livello «dal “nazionalismo metodologico”» che fondava «il modello del federalismo fra esecutivi», e che «non è più in linea rispetto alla realtà». In pratica «molti studiosi, esperti, policy makers, politici, e soprattutto la quasi totalità degli elettori ancora pensano all’UE come a un concerto di stati indipendenti legati da Trattati che si potrebbero anche abolire, facendo tornare i paesi membri –ormai largamente fusi tra loro- allo stato “solido” preesistente».

Un secondo fattore problematico è l’«allarmante mancanza di grandi visioni (quelle che Weber chiamava Wertideen)» all’interno della «sfera intellettuale». Non per nulla si è parlato di un nuovo «tradimento storico» degli intellettuali, divenuti sistematicamente incapaci «di fornire ampie e virtuose cornici interpretative dello status quo e su come superarlo» (Müller 2012, cit. in Ferrera 2014). È da notare che in conseguenza di questo venir meno del ruolo degli intellettuali,

 

la crisi ha portato alla ribalta e ampliato i poteri decisionali di una ristretta comunità di leader ispirati da principi di incrementalismo tecnocratico, sotto la guida politica di fatto di Angela Merkel. Vi è stata una netta sterzata verso un federalismo “fra esecutivi”, con credenziali democratiche molto deboli. La logica inerente a tale sistema è del tutto inadeguata a risolvere i dilemmi di azione collettiva e di legittimazione popolare che affliggono l’agenda UE. In seno a questa Europa (economica) tecno-intergovernativa non c’è “politica” nel senso pieno della parola (ricerca di soluzioni ispirate da ampie evidenze epistemiche e riferimento a valori, attenzione al consenso e alla legittimazione “larga”), ma solo un insieme di contrattazioni diplomatiche e astuti giochi di potere. (Ferrera 2014).

 

Questa diagnosi credo sia ineccepibile. Da un lato abbiamo un gioco di disinformazione pubblica, e una mancata analisi dei processi reali e di quanto questi siano avanzati rispetto alle progettualità politiche, e al modo di trattarne (ancora affetto da «nazionalismo metodologico»). Dall’altro, abbiamo una sistematica e strutturale incapacità, da parte di coloro che potrebbero porre rimedio a questa difficoltà, di provvedere i chiarimenti e le analisi necessarie. La conseguenza è la perdita della «politica», più precisamente di un significato di ‘politica’ che sembra strutturale per il realizzarsi effettivo di un programma ambizioso come è quello europeo («… la più grande conquista politica ed economica dei tempi moderni»).

«Il punto di partenza obbligato – osserva Ferrera – è tornare a ragionare sull’idea d’Europa»; più precisamente «per accrescere la consapevolezza di come stanno, ormai, le cose in un’Europa irreversibilmente integrata» occorre oltrepassare «sia il punto di vista aggregativo sia il nazionalismo metodologico». E di fatto il primo aspetto è ciò che legittima il secondo. Una delle tesi più frequentate dalle teorie «filosofiche» dell’Europa in effetti è che il pluralismo europeo è una risorsa. Salvaguardare le differenze figura dunque come il primo imperativo etico-pratico. Eppure, se davvero il «passaggio di stato» è avvenuto, occorre qualcosa di diverso, «occorre riconcettualizzare la natura dell’Unione europea, abbandonando (forse per sempre) la logica della somma e dell’aggregazione». In questo senso non è di mero pluralismo che occorrerà parlare, ma piuttosto riconsiderare quel nesso tra unità «emergenti» e pluralità costitutive che come si è suggerito (§ 1.3) è il tema di fondo di un universalismo non repressivo né sacrificale.

È significativo il fatto che Ferrera, nel riflettere sui dissensi teorico-politici che si agitano in Europa faccia riferimento proprio all’arte dialettica medievale.

 

Intorno ad alcune tematiche particolarmente controverse, le università medievali organizzavano disputationes in cui si adducevano argomenti e contro-argomenti, evidenze e contro-evidenze al fine di raggiungere la verità. A volte si concludeva che non poteva esserci verità: la domanda iniziale era infatti mal posta data la natura ontologica del disputandum. (Ferrera 2014).

 

È a questo punto che un ripensamento degli albori della filosofia europea può aiutarci, in un duplice senso. Anzitutto, presentandoci come ho suggerito un’idea di centralizzazione «non punitiva», ma liberatoria, focalizzata precisamente sulla promozione di una diversa (visione della) cultura, e dell’attività intellettuale. In secondo luogo identificando come segno distintivo della fragile identità europea una filosofia che ha tenuto conto dei fenomeni della negatività in modo significativo.

Se nel § 3 ho dunque sottolineato il rapporto tra la lettera di Fredegiso e alcune riflessioni contemporanee sulla pensabilità del nulla, qui intendo brevemente riflettere sul rapporto nulla-Europa, e più precisamente sul «nichilismo europeo».
 

4.2. Il nichilismo europeo
 

Ciò che è anzitutto interessante dello scritto di Löwith Der europäische Nihilismus, redatto in tedesco nel 1939 e pubblicato in giapponese nel 1940, dunque in un’epoca decisiva per la storia europea, è che ha come primo obiettivo ciò che viene problematicamente indicato da Ferrera: l’auto-identificazione dell’Europa. Löwith nota immediatamente che il nome e il concetto di Europa non si riferiscono a un’unità determinata in senso geografico o razziale, dal sangue o dal suolo; l’Europa non ha confini precisi, è abitata da stirpi diverse, la razza bianca è largamente diffusa molto al di là dei suoi confini, e razze extraeuropee penetrano profondamente al suo interno. «Il nucleo della sua unità non va dunque assolutamente inteso in senso materiale: esso rimanda invece a un comune modo di sentire, di volere e di pensare sviluppatosi nel corso della storia europea e a una determinata modalità di concepire e di dare forma a se stessi e al mondo» (Löwith, 1986, 7). Che cosa è dunque questo «modo di pensare», da cui proviene una «unità spirituale» (quella stessa che ancora cerchiamo oggi, come si vede nell’analisi di Ferrera)?

Löwith ricorda che l’Europa si definisce originariamente per i Greci in relazione all’Asia. La coppia concettuale «ereb», il paese dell’oscurità e del sole calante, e «asu», il paese del sole nascente, che figura nei documenti assiri è probabilmente fonte del nome. L’idea permane nei termini tedeschi Abendland e Morgenland, ma l’«opposizione» trova un contenuto e una perfetta caratterizzazione in Hegel, il quale nelle Lezioni sulla filosofia della storia scrive: in Oriente «nasce il sole esteriore e fisico che tramonta in Occidente», ma qui, in Europa, «nasce il sole interiore dell’autocoscienza che diffonde un più alto splendore». Löwith aggiunge: «lo splendore dello spirito assolutamente libero, e quindi critico, di cui l’Oriente non ha finora conosciuto pericoli e grandezze» (Löwith 1986, 5).

Ecco dunque la connessione tra lo «spirito europeo» e il nichilismo, secondo la lettura di Löwith: ciò che distingue l’Europa è precisamente il lavoro libero dell’autocritica. Attraverso la rivoluzione francese, l’epoca napoleonica, il «concerto europeo» contro Napoleone e in seguito le ribellioni ottocentesche e la critica del sistema capitalistico l’Europa ha maturato e incessantemente riproposto un’autocritica, «che supera per radicalità, sincerità e ostinazione quella degli stranieri» (Löwith 1986, 8). Di questo «stile» autocritico fanno parte le guerre, l’antagonismo tra paesi, in particolare tedeschi-inglesi, interpretati come «lotte per l’Europa» che – dice Löwith – si sono ritorte «contro l’Europa stessa» (Löwith 1986, 12).

Löwith osserva che tra i filosofi tedeschi Max Scheler è stato il più preciso interprete della prima guerra mondiale come conflitto suicida, e cita alcune pagine che ci paiono oggi quanto mai attuali:

 

L’Inghilterra vivrà in sé l’acuta contraddizione di rappresentare, a un tempo, una componente culturale e un outsider politico della società degli Stati Europei […] Non siamo noi a voler escludere l’Inghilterra dall’unità dell’Europa, ma è essa stessa che con i suoi metodi politici si autoesclude dalla sua politica; e dobbiamo essere noi a costringerla, per la salvezza dell’intera Europa, a porsi anche politicamente dal punto di vista del ‘buon Europeo’, invece di [fare] i conti con l’Europa soltanto come un fattore tra gli altri del suo grande calcolo economico-politico. (Scheler 1915, cit. in Löwith 1986, 6-7).

 

Scheler parla nel 1915, all’apertura del conflitto, ed è con la fine della prima guerra infatti che l’egemonia politica, economica, e anche culturale dell’Europa entra in crisi, ed emerge (come Hegel prevedeva) il dominio americano. In una prospettiva di «geofilosofia», o di «filosofia delle mentalità» (con tutti i limiti di imprese di questo tipo) si può dire che in effetti la relativa ‘giovinezza’ dello sguardo collocato in un «estremo Occidente», dunque là dove il percorso ricomincia (Hegel – nota Löwith – con programmatica cautela non si interessa dell’America), non conosce l’elemento autocritico, negativo. Che ciò costituisca un demerito, ne sarebbero un chiaro segno il consumismo delle società tardo-capitalistiche denunciato dai teorici della Scuola di Francoforte, e l’uni-dimensionalità dello sguardo catturato dal sistema repressivo-permissivo delle democrazie occidentali secondo Marcuse.

Ma la lezione dei carolingi ci insegna a non concedere troppo a questo genere di osservazioni. L’Europa non ha bisogno di abbracciare le tesi dell’anti-americanismo su base economico-politica, come non ha bisogno di usare la propria auto-identificazione per difendersi dagli immigrati o da altre forze politiche mondiali, esattamente come non ha bisogno di difendere la propria identità contro le eventuali minacce di altre culture: tanto ‘americane’ quanto islamiche. In effetti, l’insegnamento dialettico non consiste nel dire che non esiste differenza all’interno di un universalismo concettuale (sovra-nazionale) ma che anche per criticare, differenziarsi e dissentire, occorre fare appello a una affinità e a una condivisione di fondo. Non per caso, le disputationes medievali a cui fa riferimento Ferrera avevano un requisito importante, che noi oggi non conosciamo: potevano avvalersi di una filosofia prima, uno sfondo di regole e acquisizioni fondamentali e trasversali: precisamente quella filosofia prima che i carolingi iniziarono a costruire. Quel tipo di «universalismo complesso» ipotizzato nelle prime fasi della ricostruzione culturale europea forse può dirci ancora qualcosa di utile per superare il modello puramente «aggregativo» e il «nazionalismo metodologico» in cui ancora ci muoviamo. I carolingi iniziarono a metterlo in pratica, nella misura in cui compresero le risorse pedagogiche e politiche della dialettica filosofica lanciata dai greci. È in questa prospettiva che la destinazione europea al ‘nulla’ – più precisamente a tutti quei fattori intellettuali che spingono la libertà critica e autocritica verso l’autodistruzione, come è evidenziato nell’analisi di Löwith – può cessare di essere la cifra del «suicidio», e trasformarsi in risorsa.
 

Riferimenti bibliografici
 
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Note al testo
 

[1]Riprendo qui in parte e in forma rinnovata alcuni argomenti che ho presentato nel lungo saggio premesso alla mia traduzione del De nihilo, Fredegiso di Tours (1998).
[2]La lettera ci è stata tramandata con i due titoli. C. Gennaro nella sua edizione critica (Gennaro 1963) sceglie De substantia nihili et tenebrarum, io preferisco l’altro titolo, e ne spiego le ragioni in D’Agostini (1998).
[3]I codici sono: Pat. Nat. Lat. 5577, ff. 134r-137r [P]; Vat. Reg. Lat. 69, ff. 90v-93r [V]; Bruxelles, Bibl. Royale de Belgique 9587, ff. 51v-53r [B1]; Bruxelles, Bibl. Royale del Belgique 9587, ff. 168r-170-r [B2]. Le edizioni critiche più recenti sono: Dummler (1895) [il testo che ho seguito nella traduzione]; Corvino (1956, 280-6); Gennaro (1963, 123-138).
[4]Cfr. Marenbon (1981).
[5]Una sintesi si trova in Bellissima, Pagli (1996); cfr. anche Tarca (1993), che esplora le occorrenze dell’argomento nella discussione filosofica del secondo Novecento.
[6]La continuità tra il De nihilo et tenebris e la formazione della logica e della filosofia del linguaggio anselmiane è stata sottolineata da più autori, e in particolare da Sciuto (1989).
[7]Cfr. per esempio le posizioni di Richard Rorty, particolarmente influenti nel diffondere un’idea di relativismo e decostruzionismo ermeneutico che non ha più alcun rapporto con l’analisi del linguaggio e il suo uso in filosofia, e diventa pertanto non commensurabile al programma analitico, in qualsiasi versione.
[8]Cfr. i saggi raccolti in AA. VV. 1981.
[9]Cfr. Riché, 1981.
[10]Cristiani, 1995.
[11]Una recente ricostruzione del dibattito è offerta da Berto (2013).
[12]Cfr. Löwith (1986).
[13]Sto usando qui ‘metafisica’ distinta da ‘ontologia’ nel senso indicato da Varzi (2005, 18-21): la seconda è la ricerca filosofica su ciò che «c’è» o esiste, mentre la prima è la ricerca su «come è fatto ciò che esiste». È interessante notare che nel caso del nulla, secondo Fredegiso, abbiamo una soluzione al problema ontologico: il nulla c’è; ma non a quello metafisico: come sia fatto resta specificato.
[14]Si conferma perciò l’idea – che Varzi difende – della priorità dell’ontologia rispetto alla metafisica. Non so se ciò valga in ogni caso, ma forse nel caso del nulla possiamo dire che è così. È questa una delle ragioni per cui ho suggerito che il concetto di nulla ha un potere istitutivo: per così dire retroagisce metodologicamente sulle teorie che se ne occupano.
[15]Cfr. per un quadro aggiornato Simionato (2015).
[16]Seguo sostanzialmente Lewis (1990) e van Inwagen (1998).
[17]Cfr. per un quadro aggiornato Simionato (2015).
[18]È il metodo suggerito da Baldwin (1996).
[19]Il discorso sulla pensabilità del nulla naturalmente non si riduce a queste conclusioni: ma ho destinato gli sviluppi a un altro mio lavoro: D’Agostini (2010).
[20]«Non credo che l’Unione Europea giochi un ruolo importante per gli Stati Uniti. Non ho mai creduto che fosse importante. Oltre tutto, l’Unione è stata fondata per colpire gli Stati Uniti nel settore del commercio, non è vero? Quindi, non mi importa se si separa o resta unita, per me non ha importanza» (Cfr. Donald Trump intervista al Times e a Bild, nel gennaio 2016).
[21]Da un articolo di Natalie Nugayrède, sul Guardian.

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