Critica sociale e conoscenza

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Emmanuel Renault

Université Paris-X Nanterre
e.renault@u-paris10.fr

 
 
 
Abstract: In the first generation of the Frankfurt School, critical theory was promoting a strong interconnection between social critique and knowledge of the social world. Just as Marx considered that a critique of capitalism was impossible without a systematic knowledge of its laws, transformations and contradictions, so too Horkheimer and Adorno were convinced that social critique should be grounded on social theory. It is simply a fact that in contemporary critical theory, such a conviction does not play a role anymore. Critical theory has not only subjected itself to the division of intellectual labor in separate disciplines, becoming more and more a philosophical sub-discipline distinct from the social sciences. It has also conceived itself more and more as belonging to the genre of ìnormative political philosophy’, focusing its efforts more and more exclusively on the issue of normative foundation of social critique. and consequently, it has lost interest in epistemological discussions. The purpose of this article is to cast doubt on this broad consensus about the legitimacy of such a divorce between social critique and knowledge. In order to work toward this goal, I proceed in four steps. In a first step, I recall the ways in which the philosophical debate about social critique is currently articulated and how it disconnects social critique and knowledge. The three other steps consider the two main justifications for a disconnection between social critique and knowledge. In fact, critical theory focuses on the normative foundation of social critique by virtue of two main reasons. The first one relates to a vision of politics as consisting mainly in a conflict between normative principles, notably between conceptions of social justice. I criticize this vision of politics in the second step of this paper. The second reason relates to the criticism of the naturalist fallacy. The knowledge of the social world cannot play a decisive role in a discussion concerning the legitimacy of competing conceptions of social justice, so the argument runs, since the is should not be confused the ought. In the third step of the paper, I try to show that this argument run the risk of worsening epistemic injustices, and in the fourth step, I elaborate a conception of normativity that bridges the gap between the is and the ought.
 
Keywords: critical theory; social knowledge; normative foundation; epistemic injustice; pragmatism.
 
 
 
1. Introduzione[1]
 
Con la prima generazione della cosiddetta Scuola di Francoforte, la teoria critica aveva promosso una stretta interconnessione tra critica sociale e conoscenza della realtà sociale. Nell’articolo programmatico La situazione attuale della filosofia della società e i compiti di un istituto per la ricerca sociale, Horkheimer (1972) elaborò questa stretta interrelazione nei termini di una «filosofia sociale» coinvolta in ricerche sociali interdisciplinari. Negli scritti di Adorno degli anni ’50 e ’60[2], una simile interconnessione venne sviluppata in una «teoria sociale», concepita sia come autoriflessione delle scienze sociali, sia come strumento di intervento nei dibattiti politici e nelle discussioni interne alle scienze sociali particolari. Allo stesso modo in cui Marx riteneva che la critica del capitalismo fosse impossibile senza una conoscenza sistematica delle sue leggi, trasformazioni e contraddizioni, anche Horkheimer e Adorno erano convinti che la critica sociale dovesse fondarsi sulla teoria sociale. È semplicemente un dato di fatto che, nella teoria critica contemporanea, tale convinzione non gioca più alcun ruolo. Le riflessioni sulla critica sociale si sono rese sempre più indipendenti dai tentativi di produrre conoscenze accurate sulla realtà sociale. La teoria critica si è concentrata sempre più esclusivamente sul problema della fondazione normativa della critica sociale; essa ha, in generale, smesso di pensare a se stessa come teoria sociale, spezzando così il forte legame che la teneva unita alle scienze sociali e che, in un primo momento, era consustanziale all’idea stessa di teoria sociale. La teoria critica non solo si è sottomessa alla divisione del lavoro intellettuale in discipline separate, divenendo sempre di più una sotto-disciplina filosofica, del tutto distinta dalle scienze sociali, ma si è anche sempre più auto-concepita come appartenente al genere della “filosofia politica normativa”, perdendo, di conseguenza, interesse nei confronti delle questioni di ordine epistemologico (che invece, negli anni ’60, svolgevano un ruolo di fondamentale importanza nel pensiero di Adorno[3] e di Habermas). In altri termini, la stretta relazione tra critica sociale e conoscenza appare oggi come una delle caratteristiche più obsolete del progetto originale di una teoria critica della società, uno di quei tratti di cui ci si dovrebbe disfare, se si vuol continuare a tener viva l’idea stessa di teoria critica.

Lo scopo di questo saggio è quello di mettere in dubbio l’ampio consenso riguardante la legittimità di una simile divaricazione tra critica sociale e conoscenza. Per approssimarmi a questo obiettivo, articolerò il mio contributo in quattro sezioni. Nella prima, ricorderò i modi in cui si articola oggi il dibattito filosofico sulla teoria critica e in che modo esso separi teoria sociale e conoscenza. Mi concentrerò sulla distinzione tra critica esterna, interna e immanente, dal momento che la difesa dei modelli di critica immanente è uno dei contributi più importanti della teoria critica contemporanea alla riflessione sulla fondazione normativa della critica sociale. Le tre sezioni successive prenderanno in considerazione le due principali giustificazioni addotte per la separazione di critica sociale e conoscenza sociale. Infatti, se è ampiamente condivisa l’idea che la teoria critica debba concentrarsi sulla fondazione normativa della critica sociale, ciò accade in forza di due ragioni. La prima si collega a una concezione che vede la politica principalmente come un conflitto tra principi normativi differenti e, in particolar modo, tra concezioni della giustizia sociale[4]. Criticherò questa concezione della politica nella seconda sezione. La seconda ragione è invece legata alla critica della fallacia naturalistica: la conoscenza del mondo sociale non può svolgere un ruolo decisivo in una discussione relativa alla legittimità di concezioni della giustizia sociale rivali – così dice l’argomento – perché l’ “essere” non va confuso con il “dover essere”. Nella terza sezione di questo articolo, tenterò di mostrare come questo argomento corra il rischio di aggravare le ingiustizie epistemiche. Infine, nella quarta sezione, elaborerò una concezione della normatività che colmi il divario tra l’ “essere” e il “dover essere”.
 
 
2. Il dibattito sulle norme della critica sociale
 
La convinzione che la filosofia debba concentrarsi sulla fondazione normativa della critica sociale è condivisa da una serie di eminenti esponenti della filosofia politica contemporanea ed è anche ampiamente condivisa nell’attuale teoria critica; bastino i nomi di Rawls, Walzer e Honneth, a titolo esemplificativo. Tutti questi autori sembrano pensare che la funzione politica della filosofia politica sia quella di intervenire nei conflitti tra concezioni della giustizia e che il compito del filosofo sia quello di definire una concezione della giustizia sufficientemente universale da poter essere considerata legittima dai vari individui e gruppi coinvolti in un conflitto tra concezioni rivali di giustizia. Le prospettive di Rawls, Walzer e Honneth differiscono unicamente riguardo al tipo di universalità richiesta e al metodo che consente di definire una concezione della giustizia compatibile con questo tipo di universalità.

In Una teoria della giustizia (Rawls 1971), l’opzione rawlsiana consiste nel mettere tra parentesi quasi tutte le credenze sull’organizzazione del mondo sociale al fine di costruire una situazione astratta, la «posizione originaria», dove gli individui possano deliberare sul modo migliore di soddisfare un insieme di aspettative di base. Il punto nodale dell’argomento è che tutti gli individui convergerebbero su quest’unico modo migliore, qualora, grazie ad un «velo di ignoranza», non conoscessero la propria posizione sociale effettiva. I principi della giustizia che Rawls descrive in Una teoria della giustizia sono, quindi, universali in senso forte: essi sono universali, in primo luogo, perché il loro contenuto è definito dal fatto che chiunque potrebbe concordare sulla loro legittimità e, in secondo luogo, perché – dal momento che sono elaborati indipendentemente da qualsiasi conoscenza di qualunque società particolare – si potrebbero applicare ad ogni genere di società[5].

Quest’universalità forte consente ai filosofi di intervenire nei conflitti politici alla stregua di una sorta di giudice, che tenta di mostrare a un querelante che la sua richiesta non è legittima perché la sua concezione di giustizia non è abbastanza universale o, viceversa, che ha ragione di essere accolta. Walzer è noto per aver criticato tale concezione della funzione politica della filosofia politica con un argomento politico. Determinare se una rivendicazione politica, o un assetto sociale, siano o meno conformi a dei principi di giustizia non è l’unico elemento in gioco nella politica. Ciò che più conta, infatti, è combattere contro determinate ingiustizie per rendere la società più giusta. Come viene sottolineato nella Prefazione a Sfere di giustizia, quello di giustizia sociale è un «concetto abolizionista» (Walzer 1983, XXII), cioè un mezzo per formulare rivendicazioni e orientare le lotte contro l’ingiustizia. Pertanto, ponendo la questione nei termini di Interpretazione e critica sociale (Walzer 1993), la critica sociale perde la sua funzione critica se non può essere articolata nel linguaggio normativo o nel senso comune di coloro che sono concretamente interessati dalle lotte contro l’ingiustizia sociale. Il modello razionalista proposto da Rawls dovrebbe allora essere sostituito da un modello ermeneutico di critica sociale. Il filosofo, nel momento in cui interviene nei conflitti, dovrebbe provare a rendere espliciti i presupposti normativi condivisi dai gruppi coinvolti, aiutandoli a superare il conflitto. In altre parole, la funzione politica del filosofo non è quella di un giudice in una Corte, ma quella del giudice di pace. È importante notare che l’obiettivo di Walzer è quello di connettere critica sociale e realtà sociale e non quello di separarle, come invece avviene nel modello costruttivista. Ma quest’interconnessione è effettuata per via ermeneutica, mediante un’interpretazione del senso comune vigente in una specifica società, piuttosto che attraverso un’attività orientata alla conoscenza delle istituzioni e delle relazioni interne a tale società. Lo spazio per la conoscenza, intesa come specifica attività cognitiva, non è maggiore nel modello razionalista di critica sociale che in quello ermeneutico. Infatti, se intendiamo la conoscenza non nel senso vago e sostanziale della credenza vera, ma in un senso più specifico e processuale, e cioè come attività specifica orientata verso la produzione di credenze, il cui preteso valore di verità è giustificato su basi logiche o empiriche[6], non c’è alcun dubbio sul fatto che le nozioni di costruzione, interpretazione e conoscenza facciano riferimento a tre distinte attività cognitive.

Sinora ho preso in considerazione unicamente i dibattiti esterni alla teoria critica, anche se questi hanno prodotto effetti profondi sullo sviluppo delle riflessioni contemporanee sulla critica sociale e hanno contribuito a quella che potrebbe essere considerata una svolta normativa nella teoria critica. In particolare, Una teoria della giustizia di Rawls ha giocato un ruolo cruciale non solo rispetto alla divaricazione tra critica e teoria sociale in seno alla teoria critica contemporanea, ma anche rispetto al nuovo interesse sulla sfera del diritto (a partire da Fatti e norme di Habermas)[7]. Il dibattito tra liberalismo politico e comunitarismo è stato anche fonte d’ispirazione per gli allievi di Habermas, come ad esempio Honneth e Forst[8]. Ma anche la teoria critica contemporanea ha contribuito al dibattito che vede contrapposti il modello razionalista e quello ermeneutico di critica sociale. Tale contributo è consistito segnatamente nell’introduzione di un terzo modello: quello della critica immanente (Iser 2008; Celikates 2009; Stahl 2013; Jaeggi 2013). Laddove il modello razionalista è esterno al contesto sociale della sua applicazione e il modello ermeneutico è a esso interno, il modello di critica immanente è pensato per superare la distinzione tra esterno e interno. Axel Honneth ha aperto la strada a questa concezione di critica immanente, mettendo in luce come i presupposti normativi del senso comune vigente in una società siano incapaci di articolare le rivendicazioni che sono richieste dalle lotte contro l’ingiustizia, non appena queste rivendicazioni divengono, in qualche misura, radicali (Honneth 1994, 71-79). Egli ha inteso fondare la critica sociale su dei principi normativi immanenti al contesto sociale, a partire però dall’idea che questi principi normativi dovrebbero essere reperiti nelle strutture normative della vita sociale, piuttosto che nel senso comune. In Lotta per il riconoscimento, egli ha tentato di esplicitare le aspettative normative di riconoscimento che strutturano l’esperienza sociale, al fine di individuare una concezione di giustizia che eviti le insidie dell’approccio ermeneutico e razionalista. Le nostre interazioni con l’ambiente sociale sono guidate da tacite aspettative di riconoscimento, che iniziano a divenire esplicite nelle esperienze sociali negative e che alimentano i movimenti sociali innescati da alcune di queste esperienze. Renderle completamente esplicite significa elaborare concezioni della giustizia che sono quelle dei movimenti sociali e che hanno un potenziale di trasformazione maggiore di quello delle concezioni della giustizia proprie del senso comune. Ne Il diritto della libertà è, invece, proposto un diverso modello di critica immanente: Honneth cerca qui di mostrare che le istituzioni fondamentali della modernità incarnano un insieme di promesse di libertà e giustizia sulle quali la critica sociale dovrebbe fondarsi. La teoria normativa non assume più la forma di una teoria dell’esperienza, ispirata da Mead, bensì quella di una teoria della modernità ispirata da Durkheim. Il suo potenziale critico non è più definito dal primato adorniano delle esperienze negative, come le esperienze di negazione di riconoscimento, ma da una concezione habermasiana della modernità come «progetto incompiuto». È allora opportuno notare che Honneth ha elaborato due diversi tipi di teoria sociale e di critica immanente[9]: nel primo, le norme sono immanenti all’esperienza sociale, mentre nel secondo sono immanenti alle istituzioni, le quali derivano la loro validità sociale dalle premesse normative associate al modo in cui esse strutturano le nostre interazioni con l’ambiente. Entrambi questi modelli di critica immanente si oppongono al modello ermeneutico ed entrambi sono pensati per aiutare le lotte sociali contro l’ingiustizia ad articolare le loro specifiche rivendicazioni relative a specifiche istituzioni sociali, senza precludere la possibilità che sia del tutto legittimo intraprendere delle trasformazioni radicali di queste istituzioni, ad esempio nel verso di una trasformazione socialista del capitalismo contemporaneo (Honneth 2015). Un’ulteriore differenza rispetto al modello ermeneutico di critica interna è che la connessione tra critica sociale e contesto sociale si determina mediante l’interpretazione e la conoscenza del contesto sociale, piuttosto che attraverso la sola interpretazione. Infatti, per dimostrare che una norma è immanente – sia essa immanente all’esperienza sociale o alla struttura istituzionale della modernità – è sempre necessaria una specifica attività cognitiva orientata alla conoscenza del mondo sociale. La teoria sociale normativa di Honneth è allora una teoria delle norme immanenti alla vita sociale e il suo metodo consiste nel far riferimento alle scienze sociali per elaborare una teoria delle norme immanenti all’esperienza sociale o alla struttura fondamentale di una società. Cionondimeno, nella teoria sociale di Honneth, la conoscenza ha un ruolo solo strumentale, fatto che spiega il disinteresse mostrato da Honneth nei confronti dei problemi epistemologici. In questo senso, egli si differenzia notevolmente dallo Habermas di Teoria dell’agire comunicativo. Il punto in gioco non è, come in quest’ultima opera, quello di produrre una conoscenza sistematica dei vari livelli del mondo sociale e combinare i diversi paradigmi delle scienze sociali; si tratta piuttosto soltanto di selezionare le scoperte empiriche e le elaborazioni teoriche delle scienze sociali che potrebbero avvalorare il carattere immanente delle norme della critica. Un secondo punto di contrasto con la Teoria dell’agire comunicativo di Habermas è che i modi in cui vengono selezionate e utilizzate queste rilevazioni empiriche ed elaborazioni teoriche non è giustificato dal punto di vista di una discussione epistemologica. Honneth è probabilmente colui che tra i teorici critici contemporanei ha preso più sul serio la teoria sociale. Cionondimeno, sembra che ciò avvenga più per fondare l’immanenza della critica sociale e per specificare i modi in cui la critica immanente dovrebbe essere applicata alle varie istituzioni del mondo contemporaneo[10], che per produrre una conoscenza del mondo sociale.

Una critica sociale immanente, al pari di una critica sociale interna o esterna, mira a discernere non solo tra rivendicazioni legittime e illegittime, ma anche tra sviluppi sociali e programmi di trasformazione sociale giusti e ingiusti. A tal fine, essa applica norme immanenti a insiemi di fatti, discorsivi e non. Ora, l’applicazione di una norma di critica sociale a una base fattuale non richiede una specifica produzione di conoscenza, ma unicamente delle descrizioni condivise rispetto a cosa sta accadendo nella nostra società e la consapevolezza dei problemi articolati nella sfera politica pubblica o dei progetti di governo. In breve, anche se, da un lato, l’identificazione delle norme come immanenti dipende da una specifica produzione di conoscenza del mondo sociale nel quadro di una teoria sociale basata sulle diverse teorie sociologiche e psicologiche e sulle ricerche empiriche, dall’altro, la critica immanente adempie la propria funzione politica indipendentemente da ogni produzione di conoscenza. Come nei modelli di critica interna ed esterna, la funzione politica della critica immanente è quella di intervenire nei conflitti rispetto alle rivendicazioni politiche a partire dalla concezione della giustizia che esse presuppongono.
 
 
3. La politica come conflitto tra concezioni della giustizia
 
Finora ho cercato di mostrare che Rawls, Walzer e Honneth concordano sul fatto che la funzione politica della filosofia politica sia quella di intervenire nei conflitti tra concezioni della giustizia e che a tal fine non è richiesta alcuna specifica produzione di conoscenza. Quest’assunzione condivisa sarebbe del tutto legittima se i conflitti polittici consistessero unicamente in opposizioni tra concezioni normative, ad esempio, della giustizia. Ma non è questo il caso: i conflitti politici hanno sì una dimensione normativa, ma anche cognitiva[11] ed epistemologica e, in qualche caso, le dimensioni normative sono connesse a questioni cognitive ed epistemologiche. Pertanto, non c’è alcuna ragione per la quale i filosofi politici dovrebbero limitarsi a considerare unicamente la dimensione normativa dei conflitti. Inoltre, non è neppure possibile considerare tutti gli elementi della dimensione normativa dei conflitti politici da un punto di vista unicamente normativo.

Prendiamo l’esempio di un gruppo di attori politici che chiedono la presa in esame di uno specifico problema e la sua soluzione a mezzo di una trasformazione sociale. E più nello specifico, consideriamo i problemi della “sofferenza lavorativa” connessa alle attuali condizioni di lavoro e la rivendicazione di una trasformazione di queste condizioni di lavoro finalizzata a ridurre il livello di sofferenza lavorativa. La legittimità o meno di tale richiesta dipende dalla concezione della giustizia presupposta. Si potrebbe infatti ritenere che la protezione dalla sofferenza non sia un diritto di base e, di conseguenza, che la sofferenza lavorativa non rientri nel dominio di applicazione di criteri di giustizia e ingiustizia sociale. Ma si potrebbe anche far notare che questa sofferenza è prodotta socialmente e che, dal momento che tale sofferenza non è egualmente distribuita all’interno della società e che costituisce un male che chiunque vorrebbe evitare, va a definirsi come un’ineguaglianza sociale illegittima, o una forma di ingiustizia sociale. O ancora, le rivendicazioni legate alla sofferenza lavorativa potrebbero essere rigettate anche in forza del fatto che non disponiamo di alcun criterio per distinguere tra sofferenza sociale giusta e ingiusta[12].

Di conseguenza, a un primo esame, le rivendicazioni politiche inerenti la sofferenza lavorativa sembrano suscitare un conflitto tra due concezioni della giustizia alternative, una formulata in termini di diritti di base e l’altra posta in termini di disuguaglianze sociali illegittime: dove la prima esclude dal dominio della giustizia e dell’ingiustizia ogni riferimento alla sofferenza, e la seconda no. Ora, a un’analisi più approfondita, sembra che una delle domande sollevate dal conflitto tra queste due concezioni riguardi proprio il problema cognitivo dell’eziologia della sofferenza lavorativa: questo tipo di sofferenza dovrebbe essere considerato come un fenomeno essenzialmente psicologico, dal momento che è prodotta da cause psichiche e biografiche? O piuttosto, al contrario, dovrebbe essere riguardata soprattutto come un fenomeno sociale, dal momento che è principalmente causata dalle condizioni lavorative contemporanee? Non vi è alcun dubbio sul fatto che, in certi casi, il conflitto tra concezioni della giustizia alternative può essere affrontato solo a partire da un punto di vista normativo. Ma, nel caso del conflitto normativo tra concezioni rivali della giustizia menzionato in precedenza, non sembra possibile affrontare normativamente la questione della sofferenza lavorativa senza affrontare il problema cognitivo relativo alle cause di questo specifico genere di sofferenza. E questo problema cognitivo implica peraltro delle difficoltà epistemologiche, dal momento che l’approccio psicologico e l’approccio sociologico alla sofferenza lavorativa conducono generalmente a modi piuttosto diversi di comprendere le cause della sofferenza e spesso, di conseguenza, a conclusioni opposte circa le sue cause[13].

Ma esistono anche altri due modi di rifiutare la legittimità delle rivendicazioni legate alla sofferenza lavorativa che non cadono in alcun tipo di conflitto tra concezioni normative. Chiunque sarebbe disposto ad ammettere che, per poter giustificare l’occorrere di una trasformazione sociale, un problema sociale dovrebbe essere abbastanza diffuso, o avere conseguenze sufficientemente gravi. Pertanto, un argomento piuttosto comune rivolto contro le istanze politiche orientate alla trasformazione sociale consiste nell’obiettare che il problema sociale sollevato è infrequente e che le sue conseguenze non sono rilevanti. Ad esempio, si potrebbe sostenere che il termine ‘sofferenza lavorativa’ non denoti niente di più che lo ‘stress’ implicato da qualunque attività lavorativa, e che è oltremodo raro che lo stress così inteso produca effetti dannosi sugli individui. In questo caso, la legittimità delle istanze legate alla sofferenza lavorativa è contestata non da un punto di vista normativo, ma piuttosto da un punto di vista fattuale. In forza di ciò, un simile conflitto non può essere risolto se non attraverso un’indagine circa le forme e le conseguenze della sofferenza lavorativa, e circa l’incidenza dei suoi effetti più dannosi sulla salute e sulla vita sociale extra-lavorativa.  Anche in questo caso, i problemi cognitivi ed epistemologici sono tra loro interconnessi: la questione cognitiva relativa all’incidenza e alla gravità della sofferenza lavorativa implica, infatti, un’investigazione epistemologica circa le ipotesi teoriche e i metodi empirici impiegati nell’indagine sulla sofferenza lavorativa. Un ultimo argomento contro la legittimità delle istanze circa la sofferenza lavorativa potrebbe articolarsi così: anche qualora fosse pienamente riconosciuto che la sofferenza lavorativa ha cause sociali e che è un fenomeno di notevole incidenza e gravità, tale malessere dovrebbe essere considerato come un effetto collaterale dell’organizzazione economica contemporanea, il cui funzionamento, però, non dovrebbe essere messo in questione o trasformato, dal momento che è più efficiente di quello di ogni altra organizzazione economica. Ancora una volta, per rispondere ad un simile argomento, sarebbe necessario produrre una conoscenza specifica che sia in grado di mostrare come delle condizioni lavorative implicanti un minor stress non sarebbero meno efficienti da un punto di vista economico[14]. E, ancora una volta, i problemi cognitivi porterebbero a discussioni epistemologiche.

Dall’analisi di questo esempio seguono due conseguenze: la prima è che i conflitti politici non sono riducibili a conflitti tra concezioni normative. Esistono, infatti, anche conflitti tra diverse concezioni della società[15]: conflitti tra definizioni dei fenomeni meritevoli di considerazione, tra modelli esplicativi distinti, e anche conflitti sulla presunta necessità di un dato meccanismo o di un insieme di relazioni sociali. Questa dimensione cognitiva del conflitto sociale incide profondamente sui conflitti politici: se la filosofia politica vuole ottemperare alla sua funzione politica, essa dovrebbe intervenire non solo nell’ambito dei conflitti tra principi normativi, ma anche nei conflitti tra concezioni della società differenti. Un’obiezione contro questa prima conclusione potrebbe essere la seguente: affrontare i problemi cognitivi nel mondo sociale è compito del sociologo, non del filosofo. Tuttavia, pur ammettendo che questo potrebbe anche essere vero in generale, riallacciandoci all’esempio considerato, sembrerebbe che ricada a pieno titolo nel problema cognitivo proprio il fatto che tanto gli approcci classici della sociologia alla sofferenza di origine sociale (ad esempio ne Il suicidio di Durkheim e ne La miseria del mondo di Bourdieu), quanto approcci classici della psicologia (ad esempio ne Il disagio della civiltà di Freud), non riescano ad affrontare il tema della sofferenza lavorativa[16]. Il problema è anche che i vari programmi di ricerca che si occupano della sofferenza lavorativa sono contestati da un punto di vista epistemologico. Allora, proprio al fine di sistematizzare i vari programmi di ricerca sulla sofferenza lavorativa nelle scienze umane e sociali, di superare le barriere disciplinari e di rispondere alle obiezioni epistemologiche sollevate contro una ricostruzione empirica e teoria della sofferenza lavorativa, si rende necessario uno specifico lavoro teorico. Tale lavoro teorico corrisponde ad alcuni dei compiti che Adorno assegnava alla teoria sociale[17].

La seconda conseguenza è che, persino quando si ha a che fare con conflitti politici tra concezioni normative, non si può escludere che la filosofia politica debba avere il compito di connettere gli argomenti normativi con la produzione di conoscenza della società. Nel nostro esempio, non è possibile determinare quale concezione della giustizia sia legittima, fintantoché il problema delle sue cause non viene risolto. Forse Marx, Horkheimer e Adorno si sbagliavano quando credevano che la critica sociale dovesse essere sempre legata ad una teoria sociale che identificasse le cause e le possibili soluzioni dei problemi sociali. Forse, in alcuni casi, è sufficiente identificare un’ingiustizia da un punto di vista normativo e attendere che le cause e le soluzioni del problema vengano scoperte nel corso di un processo di sperimentazione sociale che non consiste, stricto sensu, in una pratica di critica sociale[18]. Ma in altri casi, è semplicemente impossibile identificare un problema sociale come un’ingiustizia partendo da un punto di vista meramente normativo. Nel nostro esempio, per affrontare i problemi normativi sollevati dalla sofferenza lavorativa, si rende necessaria una specifica forma di produzione di conoscenza da condursi nel contesto di una teoria sociale capace di mettere in relazione le varie conoscenze elaborate dalle scienze umane e sociali e di giustificarne l’interconnessione da un punto di vista epistemologico. È necessaria, cioè, quella stretta articolazione tra critica, conoscenza interdisciplinare e auto-riflessione epistemologica che Horkheimer e Adorno avevano proposto nelle loro ricerche di filosofia sociale o di teoria sociale.
 
 
4. Il criterio di universalità e i rischi di ingiustizia epistemica o di dominazione simbolica
 
Un altro presupposto condiviso da Rawls, Walzer e Honneth è quello secondo cui l’universalità costituisce il criterio della validità normativa. Tutti e tre sembrano infatti pensare che la critica sociale dovrebbe consistere in un confronto tra una norma che ha carattere di legittimità e una serie di descrizioni della realtà sociale data o della trasformazione sociale richiesta. E dal momento che i principi di giustizia dovrebbero essere indipendenti da queste descrizioni, al fine evitare le trappole della fallacia naturalista, il criterio di validità dovrebbe essere esso stesso normativo. Questo criterio è, appunto, l’universalità: tutti dovrebbero essere in grado di considerare questa norma come cogente. Come abbiamo già sottolineato, quest’universalità potrebbe essere concepita secondo modelli diversi: l’universalità estesa dell’insieme dei principi che potrebbero essere razionalmente accettati da tutti, qualora fossero date tutte le condizioni per una deliberazione pubblica razionale (Rawls); l’universalità culturalmente circoscritta delle assunzioni condivise di un senso comune invalso all’interno di una particolare società (Walzer); l’universalità implicita nelle aspettative di riconoscimento fondamentali, le quali stimolano l’estensione e la rimodulazione della nostra definizione di giustizia (Honneth 1); l’universalità storicamente circoscritta delle promesse istituzionali della modernità (Honneth 2). Tuttavia, nonostante queste differenze, la funzione politica della filosofia rimane sempre quella di sottoporre i presupposti normativi di una rivendicazione controversa alla prova dell’universalità: può questa rivendicazione essere soggetto di consenso razionale (Rawls)? Può essa essere compatibile con le assunzioni condivise e implicite nel senso comune (Walzer)? Può essa soddisfare al meglio le aspettative universali di riconoscimento (Honneth 1)? O può essa costituire il modo per adempiere al meglio le promesse della modernità, che sono generalmente considerate come costitutive della legittimità delle società moderne (Honneth 2)? È possibile muovere due obiezioni alla definizione dell’universalità come criterio di validità normativa: dove la prima fa riferimento alla teoria politica, la seconda è connessa alla definizione filosofica di validità normativa. Per iniziare, il problema politico è che questa concezione di validità normativa conduce a reputare irrilevanti i problemi sociali formulati a partire da norme che non soddisfano il criterio dell’universalità.

Prendiamo nuovamente in considerazione l’esempio della sofferenza lavorativa. Le rivendicazioni mosse contro le condizioni lavorative che generano questa sofferenza sono normalmente articolate in riferimento a un insieme di norme che definiscono quali dovrebbero essere le condizioni di lavoro. In primo luogo, esse dovrebbero rendere possibile compensare la sofferenza lavorativa con la soddisfazione lavorativa. Ciò significa che non solo dovrebbe essere possibile “fare un buon lavoro” nella propria attività professionale, ma anche che dovrebbe essere possibile godere del riconoscimento della sostanza e del valore del proprio lavoro da parte dei colleghi e della dirigenza. In secondo luogo, le condizioni di lavoro dovrebbero mettere chiunque in condizione di trovare protezione dalle molestie, dal mobbing e dal lavoro eccessivo. Ciò significa che i gruppi di lavoro dovrebbero essere abbastanza cooperativi da poter offrire riconoscimento e protezione ai propri membri; che dovrebbe essere previsto uno spazio pubblico interno dove i problemi possano essere discussi; e che la direzione non dovrebbe cercare di aumentare la produttività favorendo la competizione di tutti contro tutti nei gruppi di lavoro, ma che dovrebbe piuttosto offrire riconoscimento e protezione ai lavoratori più vulnerabili e incentivare i comportamenti cooperativi[19]. Ora, è un semplice dato di fatto che non è possibile conseguire un accordo né sui criteri relativi al valore di un’attività lavorativa, né sui modi in cui la direzione o i gruppi di lavoro potrebbero offrire sostegno. Né vi è, inoltre, consenso sull’idea che il lavoratore dovrebbe essere riconosciuto in relazione al valore della sua attività, dal momento che alcuni lavoratori sono più interessati al livello del loro salario, piuttosto che a questo genere di riconoscimento. Inoltre, non vi è consenso rispetto alla preferibilità di gruppi di lavoro cooperativi, dal momento che alcuni lavoratori preferiscono il lavoro individuale o interazioni competitive. In altri termini, è possibile formulare argomenti normativi, basati sulla prova dell’universalità, contro la legittimità delle norme impiegate per articolare le rivendicazioni sulla sofferenza lavorativa. Questo genere di argomenti è stato utilizzato da Honneth (2008) contro ogni tentativo di fondare la critica sociale delle condizioni di lavoro su norme presuntivamente immanenti all’attività lavorativa (come, ad esempio, le aspettative di un riconoscimento sulle attività lavorative). Il punto dell’argomento è che nessuna di queste norme potrebbe superare un test di universalizzazione. Non v’è dubbio che Honneth riterrebbe che anche le rivendicazioni relative alla sofferenza lavorativa sono affette dallo stesso deficit normativo. Non basterebbe, infatti, determinare la sofferenza come una disuguaglianza socialmente prodotta, ma sarebbe anche necessario definire quando questa disuguaglianza diviene illegittima, dal momento che non ogni disuguaglianza è illegittima. E il problema sarebbe che non si dispone di un criterio dotato di un consenso sociale sufficiente ad avere validità normativa.

Quest’argomentazione getta luce sui rischi politici in cui incorrono coloro che identificano la validità con l’universalità: essi, infatti, corrono il rischio di escludere molti problemi sociali dalle questioni che meriterebbero di essere prese in considerazione e di contribuire ad aggravare le ingiustizie epistemiche, patite da coloro che non si considerano legittimati a sollevare una rivendicazione politica (ingiustizia testimoniale) o capaci di spiegare in che modo il loro problema derivi da un’ingiustizia sociale (ingiustizia ermeneutica)[20]. Se il discorso filosofico, in quanto discorso dotato di un alto livello simbolico, esclude un problema sociale dal dominio del giusto e dell’ingiusto, può contribuire ad aumentare i sentimenti di ingiustizia di coloro che subiscono il problema sociale, o a instillare in essi l’impressione che le loro sensazioni di ingiustizia siano illegittime, rafforzando così la credenza di non essere legittimati ad avanzare rivendicazioni politiche. Un simile discorso filosofico potrebbe quindi aggravare la già esistente ingiustizia testimoniale. Ma esso potrebbe anche confermare un’ulteriore credenza di coloro che sono riguardati da questo problema e, segnatamente, la credenza secondo la quale non è dato alcun linguaggio normativo che possa aiutarli ad articolare rivendicazioni rispetto al problema sociale di cui soffrono. In questo modo, il discorso filosofico peggiorerebbe anche l’ingiustizia ermeneutica esistente. Ma la funzione politica della filosofia politica non dovrebbe piuttosto essere quella di combattere questo genere di ingiustizie?

Per realizzare questo obiettivo, ci sono due opzioni metodologiche. La prima è quella della «critica dischiudente» nel senso attribuitogli da Honneth (2000) e a sua detta esemplificato dalla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. Al fine di dirigere l’attenzione su una serie di problemi sociali resi invisibili, questo tipo di critica descrive la gravità delle loro implicazioni e, per combattere ogni tentativo di edulcorazione di questi problemi, fa ricorso a mezzi retorici quali l’esagerazione. In questo caso, la critica sociale non è fondata su norme e non consiste, quindi, nella loro applicazione ai contesti sociali. Piuttosto, essa consiste nel descrivere i fenomeni sociali come insostenibili, in modo da mettere in dubbio le giustificazioni sociali di tali fenomeni e da incentivare gli sforzi pratici volti alla soluzione dei problemi corrispondenti a questi fenomeni. È interessante notare che Honneth, presumibilmente durante un breve periodo della sua evoluzione filosofica, abbia ritenuto che i modelli di critica immanente che andava sostenendo dovessero essere integrati da un modello di “critica dischiudente”. Tuttavia, è anche importante notare che in questo suo modello di “critica dischiudente” c’è ancora meno spazio per la conoscenza della realtà sociale rispetto a quanto avveniva per il modello di critica immanente. L’attività cognitiva della descrizione rimpiazza l’attività cognitiva orientata verso la conoscenza: l’esagerazione rimpiazza la conoscenza delle cause delle ingiustizie e delle loro implicazioni; i mezzi retorici rimpiazzano la teoria sociale.

La seconda strategia consiste, al contrario, nell’attirare l’attenzione su un insieme di problemi sociali che sono stati resi invisibili o edulcorati attraverso la conoscenza. Si tratta della strategia che impiega Bourdieu ne La miseria del mondo, o Dejours in Souffrance en France: la conoscenza della natura, delle cause e delle conseguenze, dell’importanza e della serietà, di una serie di problemi sociali costituisce il mezzo attraverso cui combattere il fatto che la sofferenza sociale in generale, secondo Bourdieu, e la sofferenza lavorativa in particolare, secondo Dejours, non siano prese in considerazione nello spazio pubblico politico. Questo secondo modello di critica dischiudente ha risvolti politici ancora più significativi di quello precedente. Infatti, tale critica dischiudente a mezzo di conoscenza, non solo è pensata per combattere l’invisibilizzazione e l’edulcorazione di specifici problemi sociali, ma cerca anche e al contempo di contribuire alle mobilitazioni contro questi problemi. Come esperienza individuale e psicologica, l’esperienza di sofferenza sociale tende a portare gli individui a sentirsi responsabili dei problemi sociali nei quali sono coinvolti; la sofferenza sociale, esattamente come la sofferenza lavorativa, genera quelli che si potrebbero chiamare “sensi di colpa”. E va da sé che tali complessi ostacolano la critica sociale e la mobilitazione collettiva. La conoscenza delle cause sociali di queste esperienze di sofferenza può aiutare a superare questi ostacoli. La conoscenza dell’incidenza e della serietà di un problema può inoltre contribuire alla mobilitazione collettiva. Essa può aiutare convincendo coloro che subiscono un problema sociale che la loro esperienza sociale può essere condivisa da altri e che questo problema sociale è abbastanza grave da giustificare una mobilitazione collettiva volta a risolverlo. La conoscenza delle cause del problema sociale aiuta, inoltre, a dare un orientamento alla mobilitazione, dal momento che è necessario adoperarsi per la trasformazione sociale di queste cause.

Non vi è alcuna ragione valida per ritenere che la fondazione normativa della critica sociale sia l’unico contributo rilevante alla mobilitazione collettiva. Né vi sono più ragioni per credere che i filosofi non dovrebbero contribuire alla lotta contro il deficit di conoscenza, esperito come problematico da certi movimenti sociali, e contro gli ostacoli epistemologici con cui essi si scontrano. Marx ha provato a sostenere le lotte del movimento operaio contro la tesi per la quale le leggi del capitalismo sono naturali e il capitalismo è ineludibile. Foucault ha provato a sostenere la mobilitazione dei detenuti e la critica sociale dei manicomi attraverso la decostruzione delle cosiddette giustificazioni scientifiche delle prigioni e degli istituti psichiatrici. Secondo Marx e Foucault, è proprio attraverso la produzione di conoscenza che i filosofi dovrebbero contribuire allo sviluppo delle mobilitazioni collettive che incontrano ostacoli cognitivi e epistemologici.

La conoscenza gioca un ruolo decisivo nelle mobilitazioni collettive: gli ostacoli cognitivi che esse incontrano possono essere risolti solo attraverso una specifica produzione di conoscenza. Tutti questi aspetti sono normalmente sottovalutati dalla filosofia politica contemporanea e dalla teoria critica. Il presupposto generale sembra costituito dal ritenere che gli attori politici siano forniti di abilità cognitive sufficientemente ricche da renderli in grado di identificare la natura, le cause e le soluzioni dei problemi con cui si scontrano[21]. Inoltre, è stato talvolta sostenuto che una concezione democratica della filosofia dovrebbe rifiutare l’idea che i filosofi e gli scienziati sociali siano in grado di produrre una conoscenza dei problemi sociali dotata di un valore epistemico superiore a quello della conoscenza prodotta da coloro che vivono tali problemi[22]. Gli attori sociali avrebbero, cioè, sufficienti abilità per identificare la natura e le cause dei problemi sociali, così come la trasformazione da attuare, e, pertanto, non avrebbero bisogno di alcuna conoscenza del mondo sociale. È solo nella circostanza in cui le loro istanze vengano portate nello spazio pubblico che gli attori sociali si esporrebbero a un conflitto di giustificazioni in cui la riflessione filosofica poterebbe essere d’aiuto: ma questa riflessione dovrebbe occuparsi unicamente della fondazione normativa della critica sociale. È dato quindi per assunto che ogni tentativo da parte delle scienze sociali o della filosofia di produrre conoscenza si riduca a un qualche tipo di ingiustizia (il rifiuto di un riconoscimento dell’abilità cognitiva di uomini e donne ordinari) e a una qualche forma di dominazione (un tentativo di usare il prestigio sociale delle scienze sociali o della filosofia per creare una gerarchia tra le credenze di uomini e donne ordinari e quelle degli studiosi di scienze sociali o di filosofia). Ora, è semplicemente un dato di fatto che uomini e donne ordinari possano fare esperienza di un bisogno di conoscenza insoddisfatto. Certamente, l’attività della conoscenza corre il rischio di indurre una dominazione simbolica, esattamente come la filosofia normativa corre il rischio di aggravare l’ingiustizia epistemica, ma questi rischi dovrebbero essere considerati come sfide da raccogliere, piuttosto che come argomenti per desistere dalle pratiche conoscitive o dalle discussioni normative. Prima di proporre nella prossima sezione un modo per affrontare la sfida dell’ingiustizia epistemica, consideriamo la sfida della dominazione simbolica.

La tesi dell’attore competente, come pure l’argomento democratico e la critica della dominazione simbolica attraverso la conoscenza, è spesso riferita al filosofo sociale pragmatista John Dewey. Ma è importante notare che ne Il pubblico e i suoi problemi, Dewey (1927) evidenziava che un pubblico, fintantoché è costituito solo da una collezione di individui che sperimentano una situazione sociale come problematica, resta allo stato incoativo. Egli sottolinea che, per poter “identificarsi”, un pubblico deve identificare la natura e le cause del problema di cui fa esperienza. Dewey ha spiegato inoltre che il disorientamento dell’opinione pubblica contemporanea è dovuto alla mancanza di conoscenza del mondo sociale, a causa del mancato sviluppo e della volgarizzazione delle scienze sociali. L’obiettivo della sua filosofia sociale era proprio fornire conoscenza, basata su una teoria sociale inter-disciplinare, che potesse essere utile all’opinione pubblica disorientata o, in altre parole, alla mobilitazione collettiva. Ma, in ultima analisi, egli riteneva anche che dovesse esser l’opinione pubblica stessa, cioè il movimento sociale, a decidere se le teorie elaborate dalle scienze sociali e dalla filosofia sociale fossero utili per far fronte alle questioni cognitive e sociali con cui si scontrava[23]! Infatti, una cosa è affermare che, al fine di raggiungere la verità, la teoria dovrebbe essere elaborata indipendentemente dalla pratica (concezione tradizionale della teoria), ma che dovrebbe cionondimeno dirigere le pratiche sociali di trasformazione sociale (concezione intellettualistica della relazione teoria-pratica); altra cosa è, invece, concepire la teoria come tenuta a fornire strumenti cognitivi ed epistemologici che possano essere utili alle pratiche sociali di trasformazione sociale (concezione critica della teoria), e ritenere che la verità delle teorie dipenda dalla validità strumentale nelle pratiche di trasformazione sociale (concezione strumentalista o pragmatista del rapporto teoria-pratica).

Per Dewey, come anche per Marx, per Horkheimer negli anni ’30 e per Adorno negli anni ’60, è attraverso una teoria sociale che deve essere elaborata la produzione di conoscenza utile alla critica sociale (cfr. Renault 2017c). L’obiettivo della loro teoria sociale non è solo quello di elaborare una concezione sistematica dei vari livelli della vita sociale e di interconnettere i vari paradigmi delle scienze sociali, ma anche quello di fornire i mezzi per intervenire in specifici dibatti rispetto alla natura del problema specifico, attorno al quale si svolgono conflitti politici. Per tutti loro (Dewey, Marx, Horkheimer, Adorno), erano necessarie discussioni epistemologiche per far fronte agli ostacoli cognitivi contro cui urtavano i movimenti sociali. Potrebbe darsi che alcuni di loro abbiano sottostimato il rischio di dominazione simbolica mediante conoscenza, ma non c’è alcun dubbio che questo rischio sia stato affrontato seriamente, ad esempio, dalla teoria dell’esperienza conoscitiva di Dewey, o dalla teoria del rapporto tra ragione e dominio di Horkheimer e Adorno. Non vi è alcuna ragione per ritenere che il rischio di dominazione simbolica costituisca una sfida più difficile da affrontare rispetto al rischio di ingiustizia epistemica.
 
 
5. Legittimità normativa
 
Ho appena elaborato un argomento volto a suggerire che i filosofi, se vogliono evitare il rischio di divenire compartecipi dell’invisibilizzazione e dell’edulcorazione di certi problemi sociali e di aggravare certe ingiustizie epistemiche, dovrebbero integrare la loro riflessione sulle norme della critica sociale con un modello di critica dischiudente basato sulla conoscenza. Tuttavia, il nostro problema iniziale era che ad essere responsabile di questo rischio è proprio l’identificazione della normatività con l’universalità. La domanda, allora, potrebbe essere posta in questi termini: in che modo dovremmo pensare i problemi normativi? Siamo obbligati a pensare alla validità normativa in termini di universalità, nonostante questo rischio? O dovremmo invece pensare alla validità normativa in altri termini? La filosofia normativa contemporanea ritiene che le norme della critica sociale devono essere giustificate nello spazio pubblico politico e che dovrebbero perciò poter essere accettate da tutti. In altri termini, la natura della validità normativa è definita dal punto di vista della giustificazione pubblica. Ma questa concezione della validità normativa presuppone che la funzione primaria di una norma della critica sociale dipenda dalla giustificazione pubblica. Tale presupposizione è discutibile perché dipende da una concezione della normatività troppo statica e semplicistica.

Quali sono le funzioni delle norme della critica sociale? Sembra che la prima funzione di tali norme sia quella di essere strumenti atti a rendere esplicito ciò che vi è in gioco nelle nostre esperienze sociali problematiche; la seconda, invece, è quella di aiutare ad orientarci nei nostri sforzi pratici per trasformare l’esperienza problematica in una più soddisfacente. È solo in terza istanza, quando questi sforzi, siano essi individuali o collettivi, si scontrano con delle resistenze che provengono da altri individui o da altri gruppi, che emerge il problema della giustificazione e che le norme potrebbero costituire strumenti di giustificazione. Le norme della critica sociale sono primariamente fattori di spiegazione delle aspettative normative (ad esempio, esse aiutano a identificare un’esperienza problematica come un’esperienza di ingiustizia) e fattori di orientamento pratico (ad esempio, orientano i tentativi pratici di trasformare la situazione data in una situazione meno ingiusta). Ora, è unicamente rispetto a questa funzione giustificatoria che l’universalità può essere considerata come criterio della normatività.

Secondo questa analisi sequenziale delle funzioni della normatività, ispirata dal pragmatismo di Dewey, l’identificazione della normatività con l’universalità non ha alcun senso, in primo luogo perché ciascuna di queste tre funzioni definisce una forma di validità normativa tra le altre, e in secondo luogo perché la validità giustificatoria presuppone altre forme di validità normativa. Dal momento che la principale funzione delle norme della critica sociale è quella di contribuire all’identificazione e alla soluzione dei problemi sociali, la validità delle norme della critica sociale dovrebbe essere valutata dal punto di vista della loro capacità di cogliere le principali questioni normative in gioco in problemi sociali significativi, e orientare le pratiche che mirano alla loro soluzione, invece che essere primariamente definita dal test di universalizzazione. Ad esempio, le discussioni sulla giustizia sociale dovrebbero svolgersi a partire da una teoria dell’esperienza dell’ingiustizia piuttosto che da una teoria sui principi universali della giustizia, e rivolgersi alla questione della giustificazione solo in un secondo momento (cfr. Renault 2017d).

Esiste una pluralità di tipi di validità normativa e questa pluralità implica che l’affermazione per cui l’universalità è il criterio della validità normativa poggi su una serie di fallacie. In primo luogo, come è stato già notato, si dovrebbero distinguere vari tipi di validità normativa: una validità pragmatica può essere distinta da una validità giustificatoria. Una norma ha validità pragmatica se può aiutare ad articolare ciò che vi è in gioco in un’esperienza problematica e orientare con successo gli sforzi pratici verso la sua soluzione, anche se la rilevanza di questa norma non ottiene un consenso universale. Per converso, una norma che ha validità giustificatoria potrebbe non riuscire a rendere esplicito ciò che vi è di problematico nell’esperienza di un problema sociale, né il modo in cui esso potrebbe essere risolto, difettando così di validità pragmatica. La fallacia consiste, quindi. nel confondere il criterio di una forma particolare di validità normativa con la validità normativa in generale. Ritenere che differenti norme con diverse funzioni dovrebbero essere soggette allo stesso criterio è tanto assurdo quanto lo sono i tentativi di subordinare le norme pragmatiche, le norme etiche e le norme morali, nell’accezione che Habermas (1995) attribuisce a questa distinzione, a un solo e medesimo criterio.

In secondo luogo, un altro problema è connesso alla dipendenza dal contesto delle norme che hanno validità pragmatica. La funzione primaria delle norme della critica sociale è quella di identificare ciò che vi è in gioco in specifiche esperienze problematiche, ma la maggior parte dei problemi sociali sono prodotti in contesti sociali specifici, nei quali le azioni sociali sono guidate da specifiche attese normative. La maggior parte dei problemi sociali che danno origine alla critica sociale dipendono dal contesto, dal momento che consistono nella mancata soddisfazione di aspettative normative altrettanto dipendenti dal contesto (ad esempio le aspettative di riconoscimento sul luogo di lavoro differiscono dalle aspettative normative nelle interazioni ordinarie, o nella sfera privata)[24]. Ne consegue che alcune delle norme che hanno validità pragmatica in un contesto sociale specifico appariranno come pienamente legittime solo a coloro che hanno un’esperienza del contesto sociale ad esse associato e, più in particolare, dei problemi che queste norme sono in grado di articolare. Per esempio, per coloro che non fanno esperienza della dominazione sul lavoro, la norma dell’autonomia sul lavoro non avrà lo stesso senso che ha per coloro che sperimentano questo tipo di dominazione. Dal momento che queste norme dipendono dal contesto, vi è un bias in ogni discussione riguardante la conformità delle norme contestuali a requisiti universali (persino ai requisiti universali ristretti che caratterizzano i modelli ermeneutici e ricostruttivi). Inoltre, in una situazione contestuale, problemi differenti potrebbero appellarsi a norme contestuali differenti. Ad esempio, sul luogo di lavoro, le norme di autonomia individuale e collettiva sono distinte dalle norme di giustizia lavorativa. In molte situazioni lavorative problematiche, il problema in gioco è quello di connettere queste norme contestualmente, non quello di integrarle come norme universali[25].

In terzo luogo, anche se si concedesse che la risoluzione dei problemi politici ha bisogno del maggior consenso possibile, sarebbe una fallacia derivarne l’idea che le norme di critica sociale dovrebbero essere le più universali possibili. Il consenso politico richiesto riguarda gli obiettivi dell’azione pubblica e i tipi di trasformazione sociale o giuridica richiesta. Ora, norme diverse potrebbero essere usate da gruppi di persone diverse per giustificare ai propri occhi obiettivi politici e progetti di trasformazione sociale specifici. Le persone possono essere in disaccordo riguardo alle ragioni per le quali dovrebbero essere d’accordo. Pertanto, una mancanza di validità giustificatoria delle norme della critica sociale a nostra disposizione non è incompatibile con la validità giustificatoria di un programma di trasformazione sociale. In altri termini, non è necessario che una norma superi il test di universalizzazione perché contribuisca al consenso.

La conclusione di queste riflessioni è che vi sono ragioni sia filosofiche sia politiche per dare priorità alla validità pragmatica e contestuale delle norme: dar loro priorità è infatti l’unico modo per combattere il rischio dell’ingiustizia epistemica da un punto di vista normativo. Da un punto di vista metodologico, ne consegue che si dovrebbe promuovere un approccio filosofico alla critica sociale come teoria non-ideale, un approccio secondo il quale ciò che è prioritario non è la definizione delle norme della critica sociale in generale, ma l’analisi di un problema specifico e delle norme specifiche che sono in grado di affrontarlo. Ora, al fine di elaborare una simile analisi del problema specifico e delle specifiche norme atte a individuarlo e risolverlo, è necessaria la conoscenza della situazione. Se è necessaria una concezione della critica come teoria non-ideale, questo è anche perché nella critica sociale non sono in gioco solo le norme che consentono di identificare qualcosa come problematico, di dare orientamento e giustificazione ai tentativi di trovare soluzioni pratiche, ma anche la conoscenza delle cause dei problemi e lotta contro gli ostacoli cognitivi e epistemologici. L’esempio della critica sociale del lavoro ha illustrato questi aspetti, ma altri esempi sono possibili[26].

Nel far riferimento alla concezione deweyana della normatività e a un tipo di difesa pragmatista di teorie non ideali come teorie utili ai movimenti sociali, potremmo avere l’impressione di esserci allontanati dalla tradizione della Scuola di Francoforte: ma non è questo il caso. Delle alleanze sono state strette da Habermas, tra teoria critica, Pierce e Mead, e da Honneth con Mead e Dewey[27]. E in tempi più recenti le relazioni tra la teoria critica e il pragmatismo sono diventate ancora più strette, soprattutto in riferimento al pensiero di Dewey[28]. Esattamente come Horkheimer e Adorno, anche Dewey voleva fondare il contributo filosofico alla critica sociale su una teoria sociale. Ed esattamente come Adorno, Dewey ha impresso un qualche tipo di orientamento negativista alla sua teoria sociale: si è concentrato infatti sulle esperienze sociali “problematiche”, proprio come Adorno si è rivolto alle esperienze sociali “negative”. Queste nuove alleanze e queste affinità tra teoria critica e pragmatismo, e in particolare quelle tra Adorno e Dewey, rendono possibile l’impiego di argomenti pragmatisti per sostenere l’originario progetto francofortese di una più stretta interconnessione tra critica sociale e conoscenza nel quadro di una teoria sociale.
 
 
 
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Note al testo
 
[1] Traduzione a cura di Miriam Aiello e Marta Libertà De Bastiani, da Renault, E. (forthcoming), Social Critique and Knowledge.
[2] Si vedano, per esempio, le tre lezioni sulla sociologia e sulla teoria sociale: Adorno (1993; 2008; 2011).
[3] Si veda, in particolare, Adorno (1969).
[4] La filosofia politica contemporanea presenta i conflitti politici anche come scontri tra concezioni della democrazia. Cionondimeno, i dibattiti sul tema della giustizia sociale sono stati più pervasivi. Di qui in avanti, per semplicità, farò riferimento solo alla giustizia.
[5] Questo argomento non è più valido nel secondo Rawls.
[6] Faccio qui riferimento a una definizione processuale della conoscenza, la quale assume che l’attività di produzione di conoscenza non porta a produrre credenze vere, ma credenze la cui pretesa di verità è solo provvisoriamente – logicamente o empiricamente – fondata. Si tratta fondamentalmente della definizione di conoscenza elaborata da Dewey con il concetto di ‘esperienza cognitiva [N.d.T. ‘cognitional’]’. Si veda in proposito: Renault (2015a).
[7] Un quadro generale della questione si trova in Scheuermann (2017).
[8] Si vedano in proposito Honneth (1993) e Forst (2002).
[9] Ho analizzato le differenze tra Honneth (1995) e Honneth (2014) nell’introduzione a Renault (2017a).
[10] Nel panorama contemporaneo della teoria critica, Honneth e Fraser con i loro contributi alla teoria sociale costituiscono delle eccezioni, come ha notato lo stesso Honneth (ad esempio in un’intervista di prossima pubblicazione nella rivisita Sociologie). Ma nel lavoro attuale di Fraser la teoria sociale del capitalismo gioca un ruolo di maggiore importanza rispetto alla teoria di Honneth. Si vedano, ad esempio Fraser (2012; 2013; 2014).
[11] Utilizzo il termine “cognitivo” [N.d.T. ‘cognitional’] per denotare le attività cognitive orientate alla conoscenza. Cfr. infra, n. 5 e, in ogni caso, Renault (2015a).
[12] Ho criticato questo argomento in Renault (2017b, cap. 4): non tutte le ingiustizie sono soggette al criterio della giustizia.
[13] Su queste riflessioni di ordine epistemologico si veda: Renault (2017b, cap. 1).
[14] Per una replica a questi vari argomenti, si veda Dejours et al. (2018, forthcoming).
[15] Si veda in proposito Bourdieu (2000).
[16] In generale, essi falliscono nell’elaborazione di una concezione accurata della sofferenza sociale. Si veda Renault (2008, cap. 4).
[17] Ho esposto i principali orientamenti della teoria sociale di Adorno in Renault (2012). Rispetto ai modi in cui questa teoria sociale potrebbe essere applicata al problema della sofferenza sociale, si veda Renault (2010).
[18] Si confronti con la valorizzazione della sperimentazione sociale e politica presente in Honneth (2015).
[19] Tutte queste osservazioni sono state svolte soprattutto in Dejours (1998).
[20] Per metterla nei termini di Fricker (2007).
[21] Si veda, per esempio, Joas (1996).
[22] Si veda, per esempio, Boltanski, Thevenot (2006).
[23] Su queste varie questioni, si veda Gautier (2015).
[24] Questi problemi sociali sono dipendenti dal contesto anche a causa della specificità delle cause sociali che sono responsabili del mancato soddisfacimento di queste aspettative (ad esempio, l’esperienza dell’ingiustizia sul lavoro dipende dalla specificità delle relazioni sociali nel contesto di lavoro, dalle condizioni lavorative e dei rapporti di forza sul lavoro).
[25] Rispetto alla distinzione tra queste norme di giustizia e di autonomia al lavoro si vedano Deranty, Renault (2012) e Renault (2013).
[26] Ad esempio, in Anderson (2010) è sostenuto un approccio in termini di teoria non-ideale perché, ai fini di una critica sociale della segregazione razziale, è necessaria più di ogni altra cosa l’analisi delle cause e delle conseguenze di questo fenomeno e, ai fini di questa analisi, la conoscenza prodotta dalle scienze umane e sociali deve essere presa in considerazione.
[27] Ho descritto alcuni aspetti di quest’alleanza in Renault (2015b) e Renault (2018, forthcoming).
[28] Si veda, ad esempio, il recente volume del «Journal of Speculative Philosophy», Särkelä, Serrano Zamora (2017).
 
 
 

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