Dalla critica ricostruttivo-immanente della modernità alla genealogia del neoliberalismo. Axel Honneth e i problemi di una teoria critica della società oggi


Giorgio Fazio

Università di Roma “La Sapienza”
giorgiofazio77@gmail.com

 
 
 
Abstract:The article reconstructs Axel Honneth’s attempt to reformulate the original model of immanent critique of the first generation of Frankfurt’s School. Moving from the lesson of Habermas, Honneth clarified the socio-theoretical, philosophical and political problems that underlied this model of social criticism, but he also defended it as a valid alternative to other models of social criticism, which are prevalent today. The attempt to reformulate an immanent critique of society leads in Freedom’s Right into the innovative methodology of normative reconstruction, on which is based the ambitious program to renovate Hegel’s Rechtsphilosophie. This model of critique fails, however, when it has to describe adequately the normative innovations introduced by the “neoliberal revolution”. To analyze this historical discontinuity Honneth is therefore forced to change methodology and to take a genealogical approach, like in his sociological writings dedicated to neoliberalism. Here Honneth focus on the contradictions and the paradoxes of capitalism, giving an other meaning to the immanent critique and testifying the nonautonomy of a reconstructive model of critique wich is based on the presumption of normative potentials within the capitalist economic system.
 
Keywords: critical theory; immanent critique; social pathologies; paradoxes of capitalism; neoliberalism.
 
 
 
1. Il ritorno a Francoforte e le sue insidie
 
Tutti i tentativi che sono stati compiuti negli ultimi decenni per riformulare il programma di una teoria critica della società, ricollegandosi alle intenzioni della prima Scuola di Francoforte, si sono dovuti misurare con una sfida concettuale di non facile soluzione. Questa sfida è consistita nel riappropriarsi del modello di critica sociale che ispirava originariamente le ricerche dell’Istituto fondato da Horckheimer e Adorno, senza più poter fare ricorso, però, a molti dei presupposti, di ordine teorico-sociale, filosofico e politico, che ne stavano originariamente alla base e ne giustificavano l’attuazione.

È stato in particolare Axel Honneth ad aver chiarito questo nodo problematico, nei tanti contributi che ha dedicato negli ultimi anni a ripensare il senso dell’eredità francofortese, con l’obiettivo di riattualizzarne il lascito filosofico e culturale e farlo dialogare con il dibattito teorico contemporaneo (Honneth 2000; 2007). Honneth ha invitato innanzitutto a focalizzare l’attenzione sul principio ispiratore che orientava i lavori della prima generazione di teorici critici francofortesi: ossia l’idea-guida di una critica della società che procede in modo ricostruttivo-immanente, e che acquisisce senso e legittimità da un legame essenziale con un’«istanza intramondana di trascendenza». Tra le due guerre mondiali, la teoria critica nacque in Germania come un’impresa intellettuale che si prefiggeva di far cooperare tra loro teoria filosofica e ricerca empirica, per decifrare i meccanismi di dominio della società borghese-capitalistica, ma allo stesso tempo per divenire «il lato intellettuale del processo storico di emancipazione» e «il momento di una pratica tesa a nuove forme sociali» (Horckheimer 2014, 29-30). Questo scopo trovava la sua ragion d’essere, come si legge nel celebre testo programmatico di Horckheimer Teoria critica e teoria tradizionale (1937), nel fatto che la teoria critica, consapevole, a differenza della teoria tradizionale, della propria determinazione storica e sociale, rinveniva una spinta all’emancipazione nella stessa realtà sociale: un’istanza preteorica, che doveva essere quindi soltanto articolata concettualmente, al fine di orientare una prassi di trasformazione capace di superare tutti quei rapporti strutturali ingiusti, reificanti e alienanti, riconducibili in primis all’organizzazione capitalistica dell’economia, che ostacolavano la realizzazione di tendenze e possibilità già racchiuse nella realtà presente, e anticipanti una società pienamente libera e razionale.

Per i primi rappresentanti della Scuola di Francoforte, tuttavia, il bisogno di legarsi ad un punto di vista critico all’interno della società non era una questione che impegnava un’autonoma trattazione metodologica. Essi davano per assodato, infatti, che questo punto di vista fosse garantito dalla presenza di un soggetto rivoluzionario: il proletariato industriale. Ciò che rendeva superflue ulteriori spiegazioni circa quali esperienze o pratiche sociali potessero garantire che il sistema sociale dato poteva essere trasceso, era la garanzia offerta da una classe sociale determinata che, al di là di tutte le differenze rinvenibili tra le concrete condizioni spirituali dei suoi membri (Honneth 2016, 57), veniva immaginata come un soggetto collettivo, che si presumeva possedesse un interesse unitario nel rovesciare le relazioni capitaliste: un interesse che, nella sua particolarità, doveva coincidere con quello universale dell’umanità.

Honneth non ha mancato di ricordare come, in realtà, furono proprio le prime ricerche condotte in seno all’Istituto di ricerche sociali di Francoforte, sull’«autoritarismo» dei lavoratori e sulle basi socio-psicologiche del consenso di massa al regime nazista, a svolgere un ruolo fondamentale nel destabilizzare questo tipo di convinzioni irriflesse. Queste ricerche, infatti, provavano, con la forza dell’evidenza empirica, che non esisteva alcun automatismo tra le specifiche condizioni di vita di una classe sociale e la loro traduzione in determinati interessi. Fu a partire da questo punto, però, che si aprì il problema, all’interno della teoria critica, di collocare diversamente l’istanza del trascendente intramondano. Inizialmente, questa venne localizzata semplicemente ad un livello di profondità maggiore: ossia nella struttura stessa del lavoro sociale. Ma già nella Dialettica dell’Illuminismo del 1947 (Adorno, Horkheimer 2000), i primi francofortesi erano giunti alla conclusione che anche il processo del lavoro sociale è causa della reificazione e del dominio, e come tale non può essere garante della possibilità di trascendenza. Fu a partire da questo momento che la prima teoria critica assunse un andamento sempre più negativistico. Nel secondo dopoguerra, poi, le tesi sul dominio capitalistico e sulla manipolazione culturale vennero a tal punto radicalizzate, da recidere la stessa possibilità di rinvenire, all’interno dei processi di riproduzione e di produzione della società, qualsiasi istanza di trascendenza immanente capace di far segno verso un rovesciamento dell’ordine vigente. Furono altri i presupposti che alimentarono la teoria critica della società, offrendo garanzie sostitutive della necessità di trascendere il sistema sociale dato, come la ragione mimetica per Adorno o le pulsioni umane e il principio dell’eros per Marcuse. Ma certo, rimaneva il paradosso, di lavorare con presupposti teorico-sociali che di fatto rendevano impossibile cogliere nella realtà alienata e reificata delle società vigenti, un momento concreto di trascendenza intramondana, capace di giustificare la stessa teoria critica, in quanto, appunto, teoria che si prefigge di divenire il «momento di una pratica tesa a nuove forme sociali».

Recentemente Honneth ha ribadito come, se si allarga lo sguardo all’intera tradizione del pensiero critico di matrice marxista, oltre al «legame trascendentale» con il proletariato e, più in generale, con un movimento sociale determinato, di cui sul piano empirico divenne sempre più problematico dimostrare l’esistenza, sulla prima teoria critica pesavano anche altre ipoteche, che accompagnavano come corollari lo stesso presupposto di un soggetto rivoluzionario della storia: ossia il «paradigma della produzione» e i paradigmi della filosofia della storia. Mentre il primo di questi due presupposti ha fatto sì che in seno a questa tradizione non si è riuscito per lungo tempo a riconoscere un valore normativo autonomo alla sfera istituzionale della formazione democratica della volontà, e ai diritti di libertà fondamentali – ridotti a simulacro ideologico dell’atomismo e dell’individualismo regnanti nella sfera delle attività economiche, quale unico luogo, d’altra parte, di realizzazione della libertà sociale – il secondo presupposto, veicolando l’idea di una direzionalità normativa del processo storico e, quindi, della rivoluzione come esito di una necessità storica che agisce dietro le spalle dei soggetti, ha ostruito per molto tempo ogni forma di approccio di tipo sperimentale alla storia (Honneth 2016, 54-66). In generale, l’insieme di questi presupposti, sebbene subito problematizzati dai primi francofortesi, lasciarono in eredità alla teoria critica difficoltà strutturali a portare avanti il progetto di una critica immanente della società. Difficoltà che si tradussero, anche, nel problema di collegarsi in modo convincente al mondo della prassi e della politica. Problema quest’ultimo, drammaticamente confermato, anche sul piano simbolico, dal noto episodio della contestazione dei giovani del ’68 ad Adorno a Francoforte, con tutti gli strascichi polemici che seguirono a questo evento.

È a partire da questo resoconto, quindi, che Honneth ha chiarito il problema di fronte a cui si è trovato chiunque abbia provato a riprendere in mano il programma di una teoria critica della società, in seguito alla crisi delle premesse che inizialmente, più o meno esplicitamente, lo rendevano possibile. Questo problema è quello di riagganciare il modello di critica sociale ricostruttivo-immanente, ad un diverso elemento di pratica o esperienza, capace di far segno verso «un momento della ragione socialmente incarnata, nella misura in cui possiede un surplus di norme razionali o principi di organizzazione che premono per la loro stessa realizzazione» (Honneth 2007, 284). Dove reperire però questa pratica o esperienza preteorica, in grado di dare plausibilità a un modello di critica immanente che lavora sui potenziali immanenti alla realtà per poi spingere a realizzarli?

Honneth ha insistito del resto sul fatto che si può continuare a parlare di un’identità della teoria critica, «in maniera sufficientemente specifica da consentire di distinguere questa tradizione da altri approcci di critica sociale», (Honneth 2017, 95), solo se si comprende che l’ambizione di questo approccio non è solo quella di reperire i criteri della critica da prassi e ideali attinti all’ordine sociale vigente, ma anche quella di riuscire a dimostrare che quegli ideali e quelle prassi incarnino uno snodo ulteriore del processo di razionalizzazione della società. «Nell’hegelismo di sinistra della Scuola di Francoforte […] il problema di fondazione che affligge tutte le forme immanenti di critica sociale viene risolto interpolando il postulato supplementare di una progressiva razionalizzazione della società». «Da questo punto di vista il modello di critica adottato dalla Scuola di Francoforte deve presupporre, se non proprio una filosofia della storia, quantomeno la nozione di uno sviluppo lineare della razionalità umana» (Honneth 2017, 94).

Ma appunto, di nuovo, come rimanere fedeli a questa identità, fuori dal paradigma della produzione, da ogni metafisica del soggetto rivoluzionario, e senza ricadere nelle spire di una filosofia della storia che presuppone una direzionalità normativa del processo storico oggettiva e garantita?

Di fronte a queste difficoltà, non può certo stupire che, in seguito alla crisi del marxismo, sono stati altri i modelli di critica sociale che hanno prevalso nel dibattito contemporaneo, candidandosi a saturare le opzioni legittimate a compiere un esame critico della società liberal-democratiche. In particolare, due altre forme della critica hanno dominato il dibattito filosofico, soprattutto anglosassone: da una parte il modello di una critica sociale «costruttiva», d’ispirazione kantiana, esemplificato ai suoi massimi livelli da John Rawls in Teoria della giustizia (Rawls 2008); d’altra parte un modello di critica ermeneutica o interna, come per esempio quello teorizzato e praticato, contro lo stesso Rawls, da Michael Walzer in Sfere di giustizia (Walzer 2008). Il problema di ancorare la critica della società ad un «momento della ragione incarnata», non è un problema condiviso da una filosofia politica normativa che affida la definizione dei parametri della critica a procedimenti argomentativi di validità universale, ritenuti capaci di costruire norme giustificate, capaci di consenso universale, a prescindere da ogni preliminare verifica empirica; norme, che, solo in un secondo momento servono come criteri di valutazione dell’ordine istituzionale vigente e delle domande di giustizia che lo contestano. D’altra parte, un tipo di critica contestualista ed ermeneutica, come quella praticata da Walzer, se pure ammette, come uniche risorse legittime della critica sociale, principi e ideali che si sono già profilati nel quadro dell’ordine esistente – non esponendosi con ciò al rischio, proprio invece del normativismo, di elitismo, di paternalismo o, anche di dispotismo morale – si limita ad interpretare le risorse del senso comune di una data collettività. Essa non pretende, quindi, che gli ideali attinti dalle pratiche sociali, e assunti come criterio della critica, possiedano una validità universale in quanto incarnazione delle operazioni della ragione umana, nel suo processo teleologico di realizzazione storica.
 
 
2. Habermas e la svolta comunicativa della teoria critica
 
Per Honneth è stata la svolta teorico-comunicativa impressa alla teoria critica da Habermas, ad aver indicato la strada per riaprire la possibilità di concepire un modello di critica ricostruttivo-immanente, fuori da ogni addentellato metafisico. Spostando l’attenzione dal lavoro sociale all’interazione simbolica mediata linguisticamente, l’esponente di punta della seconda generazione francofortese ha scoperto una nuova sfera sociale preteorica, su cui la critica immanente ha potuto far leva: un punto di vista capace di assicurare un surplus normativo di validità universale all’interno della realtà sociale e «un duraturo rinnovamento di energie e motivazioni che si propagano in un sistema» (Honneth 2007, 287).  Habermas ha mostrato come nelle interazioni sociali spontanee dei mondi di vita moderni, è ricostruibile un processo di razionalizzazione comunicativa, ossia di progressiva appropriazione, da parte degli attori sociali, di contenuti precedentemente non tematizzati, attraverso processi comunicativi e cooperativi, che li aprono ad una tematizzazione riflessiva. Agganciandosi a questa razionalizzazione comunicativa dei mondi di vita moderni, la teoria può ricostruire, con gli strumenti di una teoria pragmatica del linguaggio, le specifiche presupposizioni normative implicitamente contenute nelle competenze comunicative degli attori sociali: presupposizioni che, nel loro insieme, anticipano una «situazione comunicativa ideale», fondata sul rispetto reciproco, l’ascolto delle ragioni dell’altro, l’impegno a giustificare unicamente con argomenti razionali le proprie affermazioni di fronte a qualsiasi partner dialogico (Habermas 1981; 1991). Honneth ha evidenziato quindi che, sebbene Habermas, con la sua etica del discorso e, in seguito, con la sua teoria discorsiva della democrazia articolata in Fatti e norme (Habermas 2013), si sia riavvicinato a Kant, è sempre rimasto fedele, per altro verso, ad un procedimento critico ricostruttivo-immanente. Nel suo schema teorico, infatti, la «razionalità procedurale è trapiantata nel processo di riproduzione collettiva della società sotto forma di una pratica di fondazione discorsiva» (Honneth 2017, 92-93).

Tuttavia, Habermas si è anche congedato allo stesso tempo dalla prospettiva di una razionalizzazione comunicativa onnicomprensiva della società, affiancando, per questo, ad un tipo di critica ricostruttivo-immanente, anche altre forme di critica, di tipo morale o esterno e di tipo ermeneutico o interno. Secondo lo schema delineato dalla sua poderosa teoria della modernità, lo stesso processo di razionalizzazione comunicativa dei mondi della vita ha reso possibile la formazione di ordini sociali – il mercato economico capitalistico e le strutture burocratico-amministrative dello Stato – che si sono staccati in modo irreversibile da una coordinazione sociale comunicativa, legata ad aspettative di senso e di legittimità dei partecipanti. In questi ambiti, regolati rispettivamente dai media del denaro e del potere, i meccanismi di coordinazione delle azioni avvengono sulla base prevalentemente di atteggiamenti strategici e orientati allo scopo, e le decisioni prese dagli attori sociali soggiacciono a imperativi funzionali, che agiscono dietro le loro spalle e le loro intenzionalità. Assimilando aspetti centrali della teoria della differenziazione sistemica di Luhmann, Habermas ha argomentato che il processo di autonomizzazione funzionale dell’economia e della burocrazia statale non è criticabile in quanto tale: questo processo coincide con un aumento di efficienza dei meccanismi di riproduzione materiale della società, reso necessario dall’aumento di complessità sociale. Ciò su cui l’esercizio critico deve puntare lo sguardo – dall’esterno, quindi – sono i processi di sconfinamento e di colonizzazione degli imperativi sistemici nel mondo della vita, con i loro effetti di distorsione e di paralisi reificante dei processi di intesa comunicativa. E se è compito delle istituzioni del diritto e della democrazia arginare questa colonizzazione e garantire un ragionevole equilibrio tra integrazione sistemica e integrazione sociale, è compito della filosofia ricostruire i principi procedurali a cui la formazione democratica della volontà politica deve obbedire, per produrre norme di diritto quanto più possibili giustificate razionalmente, in grado di farsi udire dai sistemi, e di recepire i bisogni e gli interessi che prendono forma in una sfera pubblica mobilitata democraticamente.

In Habermas, l’abbandono della critica immanente in favore di altri tipi di critica trova espressione però anche in altro. Di fronte alla moderna pluralizzazione delle forme di vita culturali e dei legami valoriali, e alla corrispettiva impossibilità di formulare giudizi di valore di carattere sostanziale sulle questioni relative alla buona vita, Habermas ha fatto propria la distinzione kantiana tra morale ed etica, tra questioni “pubbliche” del giusto e questioni “private” del buono. Secondo questa distinzione, le questioni etiche, ossia le domande sulla buona vita o sulla felicità, si dischiudono sempre nel contesto determinato di una concreta forma di vita, nel momento in cui questa si accerta riflessivamente della sua identità storico-esistenziale e dei valori di fondo alla luce dei quali progettarsi (Habermas 1991). Per questa ragione, non è possibile elevare forti pretese di validità rispetto a questa dimensione del ragionamento pratico. Riguardo a queste questioni, deve valere piuttosto il principio di una giustificata astensione neutrale da parte della ragione critica e il riconoscimento della piena sovranità ermeneutica da parte di ogni forma di vita, individuale e collettiva, sui valori alla luce dei quali essa decide di riconoscere il proprio più autentico progetto di vita. La critica deve limitarsi a valutare se in questo processo di articolazione e di definizione ermeneutica della propria identità, una forma di vita, individuale o collettiva, contravviene ai principi di una morale universalistica di ispirazione kantiana. Una morale cioè che, rimanendo neutrale rispetto a opzioni di natura etica, si limita a regolare conflitti tra interessi divergenti in modo giusto e imparziale, stabilendo le procedure argomentative e i loro presupposti normativi, che rendono possibile l’eguale considerazione delle ragioni e degli interessi di ciascuno e il riconoscimento delle fondamentali norme del rispetto della dignità di ciascun essere umano.
 
 
3. Dalle lotte per il riconoscimento alla ricostruzione normativa
 
Nel momento in cui ha voluto raccogliere la sfida di riattualizzare il programma di una teoria critica della società, Honneth si è posto chiaramente sulla scia di Habermas. Tuttavia, fin dai primi passi della sua ricerca, egli ha mosso al suo maestro due critiche fondamentali. In primo luogo, Honneth ha criticato il fatto che, con la sua pragmatica del linguaggio, Habermas ha finito per collocare la normatività in regole e procedure comunicative che tendono a separarsi dal terreno concreto delle esperienze morali dei soggetti, e per di più postulano un télos dell’intesa, immanente alla comunicazione, che finisce per agire, di nuovo, dietro le spalle dei soggetti in carne ed ossa (Honneth 1985).

D’altra parte, Honneth si è sempre rifiutato di seguire Habermas sulla strada di Luhmann, contestando una teoria della società che si fonda sul dualismo sistema-mondo della vita. Per Honneth, anzi, proprio la riduzione habermasiana del mercato economico ad un «sistema libero da norme», ha contribuito non poco a spostare il fuoco dell’attenzione della teoria critica contemporanea sulle questioni concernenti l’integrazione politica e i diritti civili, perdendo di vista un’analisi immanente del mondo del lavoro e delle trasformazioni radicali che lo hanno investito negli ultimi decenni. La critica è stata così resa impermeabile alle richieste razionali volte ad una riorganizzazione dei rapporti di lavoro, che hanno continuato ad attraversare il mondo del lavoro, anche nella forma di pretese di autonomia e bisogni di senso frustrati e disattesi (Honneth 2008).

Muovendo da queste due critiche, Honneth ha proposto di completare la svolta teorico-comunicativa habermasiana con una svolta teorico-riconoscitiva. L’ituizione di partenza che ha dato avvio a questo originale percorso teorico è stata quella di localizzare le fonti della trascendenza intramondana nei sentimenti morali di «disrispetto» che accompagnano le esperienze di misconoscimento dei soggetti. Sono proprio queste esperienze di ingiustizia a permettere di ricostruire, ex negativo, l’insieme di aspettative normative di riconoscimento reciproco che strutturano il campo sociale della modernità. Aspettative che, una volta esplicitate, permettono di reperire un criterio immanente di razionalità sociale, su cu far leva per criticare l’ordine istituzionale vigente e dar forza alle lotte dei movimenti sociali in vista di processi sempre più inclusivi di riconoscimento. Il nucleo normativo della teoria critica è stato così spostato dall’idea di una comunicazione libera dal dominio alle sue precondizioni intersoggettive e sociologiche. In Lotta per il riconoscimento (Honneth 1992), l’individuazione di tre distinte e interrelate sfere di riconoscimento – la famiglia, i diritti individuali e la stima sociale – ciascuna con il proprio specifico ruolo nel garantire le condizioni di sviluppo di una vita individuale autonoma – la sicurezza in se stessi, il rispetto di sé, l’auto-stima – ha permesso di delineare una concezione formale di vita etica (Honneth 2004). Con quest’ultima, Honneth ha inteso l’insieme di quelle condizioni intersoggettive, che possono essere indicate come pre-condizioni necessarie per l’autorealizzazione individuale.

Nel suo opus magnum, Il diritto della libertà (Honneth 1999), Honneth ha però riformulato il programma di una teoria critica immanente, in un modo ancora diverso. Rispetto al modello maggiormente intersoggettivo e interazionista di Lotta per il riconoscimento, il filosofo ha assegnato un peso maggiore alle istituzioni e ai meccanismi di ruolo che rendono possibile le esperienze di riconoscimento. I criteri della critica sociale sono stati così ricavati, non partendo dalle esperienze morali negative dei soggetti, ma dalla ricostruzione normativa di quelle istituzioni e di quelle pratiche, isolate nella realtà sociale, che incorporano e riproducono le aspettative di riconoscimento reciproco. Questi critieri sono stati poi utilizzati per esporre le pratiche esistenti alla incompleta implementazione dei potenziali normativi che operano già nella realtà sociale, sotto forma di aspettative normative istituzionalizzatesi.

Il percorso che ha portato all’opera matura è stato reso possibile dalla riscoperta dello Hegel della Filosofia del diritto. Si è trattato di un Hegel riletto sempre in chiave post-metafisica, sullo sfondo cioè di un congedo dalla sua Logica e dalla sua nozione ontologica di spirito. Ma si è trattato anche di un Hegel che ha offerto gli strumenti per mettere in questione le direzioni teoriche che più avevano allontanato Habermas dal terreno di una critica immanente della società: ossia la distinzione, stabilita in sede di architettonica della ragione pratica, tra etica e morale, e quella stabilita in sede di teoria sociale, tra sistema e mondo della vita.

A partire dal Il dolore dell’indeterminato (Honneth 1999), ciò che Honneth in particolare ha assimilato dalla lezione hegeliana sono state le due nozioni di «spirito oggettivo» e di «eticità». Con il primo concetto, egli ha voluto riabilitare l’idea secondo cui la realtà sociale moderna, possiede una struttura razionale alla quale le nostre pratiche sociali sono già da sempre intrecciate, scontrarsi con la quale, attraverso false e insufficienti concezioni della libertà produce effetti negativi, ossia patologie sociali. Con il secondo concetto, Honneth ha voluto rivalutare l’idea secondo cui nella realtà sociale si possono incontrare sfere dell’agire nelle quali passioni e norme morali, interessi e valori sono fusi in forme di interazione istituzionalizzate.

La rivisitazione di questi concetti è servita, quindi, in primo luogo, a mettere in questione il dualismo sistema-mondo e a riaprire la possibilità di una critica immanente anche dell’economia di mercato capitalistica, a partire dall’assunto che anche il mercato è una sfera d’azione normativamente integrata e compenetrata eticamente, in quanto parte dello «spirito oggettivo»: può essere criticato, quindi, facendo leva sulle stesse aspettative normative di reciproco riconoscimento che lo attraversano e lo legittimano. Recuperare la concettualità hegeliana, ha significato in secondo luogo mettere in questione il generale trend normativista e kantiano seguito da Habermas negli ultimi decenni, concependo una teoria della giustizia come analisi della società e mostrando tutti i pericoli insiti in un’autonomizzazione della morale dall’etica, ossia appunto dalle pratiche sociali e dalle istituzioni nelle quali principi e orientamenti morali sono già incorporati: pericoli di una giuridificazione e di un astratto moralismo che assolutizzano le norme della libertà legale e di quella morale; ma anche pericoli di “irrazionalizzazione” dei contenuti di valore e delle scelte etiche relative all’identità.[1]

Sulle orme di Hegel, ne Il diritto della libertà Honneth è partito quindi dalla tesi che, tra tutti i valori etici divenuti predominanti nella società moderna solo uno si è rivelato adatto a caratterizzarne davvero l’ordinamento istituzionale: la libertà nel senso dell’autonomia dell’individuo.
 

Se un solo valore costituisce la base di legittimazione ultima dell’ordine sociale moderno, i suoi diversi sistemi di azione incarnano aspetti del principio etico che impone di aiutare tutti i soggetti, nella stessa misura, a raggiungere la libertà individuale, ma in modi diversi, a seconda dei vari ambiti funzionali tra loro differenziati e oganicamente connessi. (Honneth 2015, 77)

Nella modernità si sono venuti definendo, quindi, diversi complessi d’azione istituzionale a seconda del tipo di libertà che in essi s’incarna: complessi istituzionali della libertà giuridica e di quella morale, e sistemi d’azione nei quali ha assunto configurazione istituzionale la libertà sociale, ossia quel tipo di libertà che è data dove i soggetti s’incontrano nel riconoscimento reciproco. Le prime due forme di libertà, con le loro corrispondenti istituzioni, sono importanti elementi di una società giusta e razionale, perché costituiscono ambiti d’azione o di conoscenza all’interno dei quali il singolo individuo può essere sicuro delle proprie possibilità di ritrarsi dal mondo della vita sociale, ed esercitare forme di libertà “negativa” e “riflessiva”. Ma questi complessi istituzionali hanno posto in una società razionale, solo in quanto derivati rispetto al terzo tipo di istituzioni, nelle quali può essere effettivamente sperimentata, in diverse forme dell’agire comunicativo, la libertà sociale: il «noi dei rapporti familiari», il «noi dell’agire economico», il «noi della formazione democratica della volontà politica». Laddove viene smarrita la consapevolezza del carattere derivato delle norme che vigono nei complessi istituzionali della «libertà legale» e della «libertà morale» si generano patologie sociali. Si tratta di quegli «sviluppi che si manifestano a un livello superiore della riproduzione sociale, dove è in gioco l’accesso riflessivo ai sistemi primari di azione e di norme: là dove alcuni o tutti i membri della società non sono più in grado, in forza di cause sociali, di comprendere adeguatamente il significato di queste pratiche e norme» (Honneth 2015, 107). Non si tratta, quindi, di un accumulo sociale di patologie individuali, ma dell’aver disimparato, a causa di influssi sociali, «a praticare correttamente la grammatica normativa di un sistema d’azione di per sé intuitivamente familiare» (Honneth 2015, 107). Ciò che si esprime in «tendenze all’irrigidimento del comportamento sociale e della relazione con se stessi, riflesse in stati d’animo di abbattimento e disorientamento» (Honneth 2015, 107). Nella sfera della libertà giuridica, sono questi i processi che spingono, per esempio, le persone a progettare le loro azioni dal punto di vista delle prospettive di successo in tribunale, perdendo il senso dei loro interessi e delle loro aspirazioni non articolabili in termini giuridici (Honneth 2015, 112). Nella sfera della libertà morale, questi processi sfociano in forme di rigido moralismo o di terrorismo motivato moralmente, generate dalle tendenze ad assumere la prospettiva di un legislatore universale, slegato da ogni vincolo, alla luce del quale le le norme etiche già esistenti dei rapporti sociali non possiedono più alcuna validità. (Honneth 2015, 145-154). Rispetto ai sistemi di azione della libertà sociale, invece, la critica ricostruttiva deve puntare lo sguardo non su patologie sociali, ma su quelle distorsioni dello sviluppo sociale che falliscono nel realizzare l’aspirazione alla libertà sociale che sta alla base dela rispettiva sfera. Questi sviluppi distorti o regressivi non rappresentano patologie nel senso proprio del termine, in quanto non sono deviazioni indotte dal sistema d’azione, ma «anomie le cui origini vanno ricercate altrove e non nelle regole costitutive dei rispettivi sistemi d’azione» (Honneth 2015, 165).[2]
 
 
4. Una cririca ricostruttiva senza riserva genealogica
 
Con Il diritto della libertà, Honneth è giunto a delineare la sua proposta sistematica più compiuta di riattualizzazione del modello di critica ricostruttivo-immanente di matrice francofortese. Con questo testo, egli ha indicato anche il modo in cui è possibile rispondere alla sfida concettuale più spinosa di fronte a cui si trova qualsiasi tentativo di questo tipo: ossia, come si è detto, riuscire ad estrarre i criteri razionali della critica, validi in termini universali, da un’istanza di «trascendenza intramondana» presente all’interno dei rapporti criticati stessi. Un’istanza, che, tuttavia, non può più coincidere con un soggetto o un movimento sociale determinato, esposto ai flussi e riflussi della storia, né può essere più agganciata ad una filosofia della storia in senso proprio. Per riattualizzare questo modello di critica, Honneth ha puntato sul procedimento della ricostruzione normativa dei valori incarnati nelle istituzioni e pratiche esistenti della modernità e, quindi, su una sorta di riformulazione “neo-hegeliana” dell’idea habermasiana della modernità come «progetto incompiuto» (Habermas 1985). Questo procedimento poggia esplicitamente su una comprensione teleologica della storia, secondo la quale la modernità ha compiuto dei progressi normativi, rispetto alle epoche che l’hanno preceduta, che possono vantare un carattere di validità universale e irreversibile. Certo, riconosce Honneth, Hegel poteva essere sicuro che nella società del suo tempo si potessero ritrovare istituzioni razionali, che danno spazio e sostegno alla forma sociale, ossia evoluta, della libertà, perché fondava la sua visione della storia occidentale su presupposti metafisici e su una teleologia oggettiva della storia. Tuttavia, per Honneth, questa visione progressiva della storia può essere conservata, anche quando viene sganciata dei suoi fondamenti metafisici e da una teleologia oggettiva. Essa può semplicemente significare che, nella «conservazione vitale» delle istituzioni garanti della libertà, da parte dei membri delle società moderne, risiede la prova che questi ultimi sono convinti di appartenere a una realtà sociale che, in confronto con il passato, è normativamente superiore e merita un energico sostegno. «Finché i soggetti conservano e riproducono attivamente nel loro agire le istituzioni che garantiscono la libertà, ciò può essere considerato la dimostrazione teorica del loro valore storico» (Honneth 2015, 70). È quindi questo dato, quello cioè del consenso dei membri della società moderna alle istituzioni che garantiscono la libertà, e in particolare la libertà social – consenso provato dalla loro adesione routinaria ad esse – ciò che in ultima istanza giustifica la validità normativa dei criteri della critica, attinti dalla stessa realtà sociale: quanto rende superfluo un procedimento di giustificazione di questi stessi criteri, di tipo trascendentale e costruttivo. Se è vero, scrive Honneth, che lo spirito umano ha scoperto nella libertà come autodeterminazione individuale – cioè nella forza di pervenire a propri giudizi – non una proprietà contingente qualunque, ma l’essenza della sua attività pratico-normativa, allora il fatto che nella modernità questa idea è riconosciuta come punto di riferimento normativo di tutte le concezioni della giustizia, e principio di legittimazione di tutte le istituzioni, può essere considerato un progresso morale di validità universale. Questo fatto deve anche valere in termini universali, in quanto rappresenta un progresso normativo nei confronti di ogni autocomprensione politico-normativa premoderna, che non riconosceva come principio di legittimazione delle istituzioni il principio dell’autodeterminazione individuale. Questa conquista può essere revocata, solo al prezzo di un imbarbarimento cognitivo. Laddove una simile regressione avvenisse effettivamente, susciterebbe un’indignazione morale «negli animi di tutti gli spettatori (che non sono coinvolti essi stessi in questo gioco)» (Honneth 2015, 9).

Alla luce di queste ultime proposizioni veramente fondamentali per l’edificio sistematico de Il diritto della libertà, si capiscono anche le quattro premesse metodologiche che guidano il procedimento ricostruttivo-immanente del libro. La prima premessa è la tesi, formulata facendo ricorso alla teoria sistemica della società di Parsons, secondo cui la riproduzione della società avviene a condizione che vi sia un orientamento generale a ideali e valori fondamentali: ossia appunto un consenso normativo di fondo, che legittima tutti gli ordinamenti sociali, senza eccezione, attraverso il rimando a valori etici e ideali degni di essere perseguiti. La seconda premessa è che il concetto di giustizia non può essere inteso indipendentemente da questi valori sociali generali: devono essere considerate giuste le istituzioni e le pratiche che sono adatte a realizzare i valori comunemente accettati, laddove si assume che i valori dominanti nella società moderna sono normativamente superiori agli ideali di società precedenti. La terza premessa coincide con lo stesso procedimento metodico della ricostruzione normativa: è l’idea, quindi, di un procedimento che ordina le routine sociali e le istituzioni esistenti, secondo l’importanza del loro specifico contributo alla stabilizzazione e all’applicazione dei valori generalmente accettati. La quarta premessa è che questo procedimento offre sempre anche l’opportunità di un’applicazione critica, nella misura in cui rende possibile interpretare la realtà sussistente in base ai potenziali di una prassi capace di realizzare meglio, ossia più ampio e più fedele, i valori generali.

Il diritto della libertà è stato oggetto, da quando è uscito, di un vivace dibattito. In questa discussione, una critica ricorrente è stata quella secondo cui l’approccio metodologico all’orizzonte normativo della modernità, rappresentato dal procedimento della «ricostruzione normativa», tradirebbe l’intenzione di non voler più aderire alla prospettiva di una trasformazione critica radicale dell’ordine sociale dato[3]. Corentemente con la ripresa del modello hegeliano della Filosofia del diritto, Honneth tradirrebbe quindi una tendenza a conciliarsi con la realtà istituzionale delle società liberal-democratiche, così come già è. La critica incoraggerebbe un approccio riformista a questa realtà sociale e abbandonerebbe definitivamente un approccio rivoluzionario. Honneth ha discusso questa critica e il suo libro successivo, L’idea di socialismo, è stato motivato anche per rispondere a critiche di questo tenore. Con questo secondo testo, infatti, egli ha tentato di dimostrare che, in realta, è sufficiente una piccola rotazione della prospettiva assunta in Il diritto della libertà per dischiudere la possibilità di un ordinamento sociale completamente diverso sul piano istituzionale, ossia appunto un ordinamento non liberal-democratico ma socialista. (Honneth 2016, 10).

In questa discussione critica, tuttavia, un punto non ci sembra sia stato ancora preso sufficientemente in considerazione: al di là dell’alternativa, anche antiquata, riformismo-rivoluzione, Honneth non dà conto, nel testo, di un’assunzione metodologica molto importante, che invece aveva teorizzato in altri scritti. Si tratta della convinzione secondo cui una critica di tipo ricosruttivo-immanente, come quella da lui praticata in Il diritto della libertà attraverso il metodo della ricostruzione normativa, non può essere mai considerata autonoma e sufficiente, avendo bisogno di un’integrazione: ossia l’integrazione di una «riserva genealogica». In uno dei suoi testi metodologici più densi, Una critica ricostruttiva con riserva genealogica (Honneth 2017, 85-101), Honneth ha ricordato come il modello di critica ricostruttivo-immanente praticato dalla prima teoria critica presupponeva, inizialmente, che i principi normativi riscontrati nella realtà sotto forma di ideali, e assunti come incarnazione di una razionalità sociale superiore, avessero «un nucleo di senso sufficientemente stabile da risultare immune a qualunque abuso sociale». Proprio a quest’utima premessa la prima teoria critica dovette però rinunciare, quando dovette dar conto della devastante esperienza storica del nazionalsocialismo, ossia di una frattura nella civiltà che dimostrava come il vigere degli ideali moderni non aveva ostacolato in nessun modo lo sviluppo di una prassi sociale agli antipodi del loro significato morale: una prassi che aveva rovesciato nel suo opposto il progetto dell’Aufklärung e il modello di razionalità ad esso collegato. Proprio per dar conto di questo rovesciamento, nella Dialettica dell’Illuminismo, Horckheimer e Adorno si sono riavvicinati in modo sistematico alla genealogia nietzscheana, senza d’altra parte giungere a mettere in questione il loro iniziale metodo ricostruttivo-immanente. Secondo Honneth essi hanno piuttosto «innestato sul loro modello ricostruttivo un momento genealogico inteso come prospettiva metacritica» (Honneth 2017, 96). Alla luce di questo richiamo alla Dialettica dell’illuminismo, nel testo Una critica ricostruttiva con riserva genealogica Honneth ha insistito, quindi, sul fatto che un procedimento ricostruttivo-immanente ha sempre bisogno di una metacritica di tipo genealogico. Infatti, una norma morale non prescrive affatto da se stessa le modalità della sua applicazione in campo sociale: al contrario, «il suo contenuto semantico può andare soggetto a modifiche impercettibili e trasformarsi via via fino a smarrire il nucleo normativo che in origine costituiva la sua ragion d’essere» (Honneth 2017, 96).
 

Qualunque tentativo di svolgere una critica sociale immanente, vincolata al presupposto di un processo di razionalizzazione della società, deve accompagnarsi a un progetto genealogico, cioè all’esame dell’effettivo contesto di applicazione delle norme morali, poiché in assenza di una verifica storica supplementare nulla può garantire che nella prassi sociale gli ideali invocati dalla critica posseggano ancora il significato normativo che li caratterizzava in origine. (Honneth 2017, 96)

La genealogia è un procedimento finalizzato a «criticare un ordine sociale in modo tale da mostrare in chiave storica fino a che punto gli ideali e le norme che lo definiscono possono risultare funzionali alla legittimazione di pratiche disciplinanti o repressive» (Honneth 2017, 91).

Ora, è significativo, dicevamo, che Honneth, nonostante questa teorizzazione, non concede nessuno spazio a questo lavoro metacritico e genealogico ne Il diritto della libertà. In questo testo, la ricostruzione normativa è praticata senza nessuna «riserva genealogica». Questo ha però l’effetto di ingessare la ricostruzione normativa in uno schema di taglio teleologico che tende a proiettare sulla materia storica e sociale trattata, un nucleo di senso «troppo stabile», non tenendo conto, fin da principio, di quegli «abusi sociali» e di quelle inversioni di significato a cui le norme e le istituzioni sono sempre esposte nella realtà concreta, a causa di meccanismi di potere e di dominio, e del gioco variabile dei conflitti politici e ideologici.

Tutto questo trova una conferma lampante, nelle trattazioni che Honneth riserva ne Il diritto della libertà all’economia di mercato capitalistica. Per stessa ammissione di Honneth, è in queste pagine che il metodo ricostruttivo-immanente si inceppa e va incontro ad un vero e proprio fallimento. Questo avviene, in particolare, quando Honneth deve ricostuire il passaggio storico che ha condotto dall’età socialdemocratica all’età del neoliberalismo. Honneth ha difficoltà a descrivere questo passaggio semplicemente come uno sviluppo distorto rispetto a un nucleo di potenziali normativi stabili. Infatti, la «rivoluzione neoliberale» è riuscita a intervenire nella stessa infrastruttura normativa del mercato capitalistico, mutandone il significato..

Honneth ha dedicato al tema del neoliberalismo e alle trasformazioni normative da esso messe in moto anche altri studi, di taglio prevalentemente sociologico e diagnostico. È in questi studi che Honneth impiega, di fatto, un metodo critico genealogico, nel senso da lui associato a questo termine (cfr. in particolare Honneth 2002; 2004a; 2004b; 2011b), discostandosi visibilmente da un approccio di tipo ricostruttivo-immanente. Tuttavia, nonostante questi studi siano precedenti alla stesura di Il diritto della liberta, Honneth non li menziona nel testo, e quando lo fa, non li «innesta» realmente nella linea metodologica del volume. L’impressione è tuttavia che se Honneth avesse realmente innestato una «riserva genealogica» nel metodo ricostruttivo de Il diritto della libertà, egli avrebbe dovuto rivedere l’intero impianto di teoria sociale posto alla base del suo tentativo di riattualizzare in termini post-metafisici la Filosofia del diritto di Hegel. Esiste infatti un’evidente tensione tra la teoria sociale che viene posta a fondamento del metodo della ricostruzione normativa, ispirata dichiaratamente alla teoria sociale di Talcott Parsons, e un approccio genealogico che tende per sua natura a smascherare la normatività incorporata nelle istituzioni e l’adesione routinaria dei soggetti ad essa come un dispositivo dietro il quale operano rapporti di potere e di disciplinamento, non puramente repressivi ma anche, se non soprattutto, produttivi. Prima di tornare su questo punto, e svolgere a partire da qui alcune considerazioni conclusive sui deficit politici dell’approccio di Honneth, sarà utile soffermarsi con più attenzione sulle analisi che Honneth dedica al neoliberalismo ne Il diritto della libertà, e a quelle, di diversa natura, che svolge negli scritti sociologici di taglio genealogico a cui abbiamo adesso fatto riferimento.
 
 
5. L’assenza di «contro-movimenti normativi» nel capitalismo neoliberale
 
Ne Il diritto della libertà, la ricostruzione normativa dell’economia di mercato capitalistica si prefigge di raggiungere innanzitutto un obiettivo negativo: quello di dimostrare l’inadeguatezza di tutte quelle teorie del mercato capitalistico, oggi prevalenti, secondo le quali il mercato capitalistico rappresenta un sistema libero da norme, impenetrabile ad ogni richiesta normativa. Tanto le teorie neoclassiche, quanto le interpretazioni marxiste dell’economia, quanto da ultimo l’interpretazione sistemica del capitalismo di Habermas e di Luhmann, osserva Honneth, muovono dal presupposto che le dinamiche del mercato non possono essere comprese nel senso di un «soddisfacimento delle pretese di legittimità». Per queste teorie, i processi di scambio economico sono soggetti a limitazioni funzionali – della valorizzazione del capitale e della massimizzazione dei profitti – così forti che non si può parlare di una normatività interna dell’ordine economico capitalistico. Per Honneth, si tratta allora di mostrare innazitutto che è impossibile esaminare gli imperativi funzionali, ai quali le decisioni economiche sono comunque soggette, in totale isolamento dalle aspettative di senso e di legittimità dei partecipanti al mercato, come se le loro aspettative normative non fossero parte delle stesse dinamiche del mercato. Se si considera la sfera istituzionale del mercato capitalistico sufficientemente legittimata, in quanto soddisfa soltanto le condizioni giuridicamente accettate della libertà negativa di assumere decisioni strategiche, «sfugge completamente in quale misura la sua accettazione sociale è legata anche all’adempimento di norme e valori antecedenti al mercato». (Honneth 2015, 258). Infatti, affinché agli occhi dei soggetti coinvolti risulti effettivamente comprensibile e legittima, la concorrenza istituzionalizzata mediante il mercato deve poter essere intesa in una prospettiva di «cooperazione comune» (Honneth 2015, 258). La legalità del mercato non incontra quindi i suoi limiti normativi nei valori generati dal mondo della vita e appartenenti ai sottosistemi contingui, come vuole Habermas, ma nella «promessa – che ne esprime l’intera legittimità – di contribuire attraverso i processi di scambio a un’integrazione complementare degli intenti d’azione individuali» (Honneth 2015, 259). Se il rispecchiamento all’interno del mercato, entro certi limiti, delle norme generalmente accettate viene meno, la conseguenza prevedibile è non solo un malfunzionamento del meccanismo di mercato, ma anche una perdita di legittimazione – tacita o articolata pubblicamente – agli occhi della popolazione.

Richiamandosi alla tradizione dell’economismo morale, in particolare di Hegel e di Durckheim, Honneth sviluppa quindi una ricostruzione normativa del mercato capitalistico, il cui fine è quello di procedere, idealizzando, in modo da evidenziare nello sviluppo storico del mercato capitalistico il percorso che, sotto la spinta dei movimenti sociali, della protesta morale e delle riforme istituzionali, ha condotto ad una progressiva realizzazione dei principi di libertà sociale, già inscritti potenzialmente nella sua infrastruttura morale.  Il criterio immanente e ciò nondimeno formale per valutare normativamente le dinamiche del mercato è quindi la consapevolezza della cooperazione comune. Al contrario di quello che pensava Marx, per Honneth, questa consapevolezza può essere ancorata ai meccanismi del mercato, dove pure vigono comportamenti strategici e meccanismi di integrazione sistemica, dal momento che gli interessi individuali che muovono gli attori sul mercato hanno una natura plastica, che può essere resa sempre più compatibile con la considerazione delle esigenze degli altri partecipanti. Si tratta allora di focalizzare in particolare l’attenzione su quei meccanismi di formazione della coscienza che si dimostrano, di volta in volta, adatti a spingere i soggetti interessati ad andare oltre le loro strategie d’azione orientate al profitto.

I meccanismi istituzionali su cui concentrarsi, nella ricostruzione normativa, sono in particolare le procedure discorsive di armonizzazione degli interessi tra gruppi costituiti in forza di affinità professionali e i processi di istituzionalizzazione delle basi giuridiche dell’uguaglianza di opportunità.

Dando avvio alla sua «ricostruzione idealizzante», Honneth non manca di riconoscere le enormi resistenze da parte di diverse forze sociali, e in primis degli interessi imprenditoriali, nei confronti dei ripetuti tentativi di realizzare la libertà sociale nella sfera del mercato. Tuttavia, nonostante la prevalenza in questa sfera di sviluppi normativi distorti, egli mostra come effettivamente una serie di conquiste sociali e giuridiche permettano di ricostruire una linea ascendente di progresso normativo anche nella sfera del mercato capitalistico. Il culmine di questa linea è rappresentato dall’insieme di conquiste sociali raggiunte nel «capitalismo organizzato» dei trent’anni gloriosi dell’era socialdemocratica. In questa fase, non solo sono state promosse riforme che hanno significativamente esteso le forme di pari opportunità nella sfera dell’educazione, della politica sociale e della politica del lavoro. Ma in tutte le aree sociali si è arrivati ad una forma di integrazione normativa delle società capitalistiche che ha esibito progressi sociali, molto al di là di quelli che prima erano considerati compatibili con le condizioni del capitalismo. In questo periodo ha guadagnato progressivamente terreno perfino la convinzione che solo «un’attiva inclusione dei lavoratori salariati nei processi decisionali delle aziende avrebbe effettivamente portato ad addomesticare gli interessi imprenditoriali e quindi alla delimitazione cooperativa del mercato» (Honneth 2015, 352).

Senonché, questa linea ascendente di conquiste sociali discontinue, e tuttavia capaci di lasciar trasparire, «certo non esplicitamente, ma comunque nel senso di un tacito dettato della coscienza», la diffusa convinzione che «il mercato economico dovesse tornare a beneficio di tutti i partecipanti e dunque andasse inteso come un’istituzione della libertà sociale» (Honneth 2015, 353), si spezza a partire dal momento in cui si avviano quei processi di deregolazione del mercato che, nei paesi dell’Europa occidentale, si accompagnano alla dissoluzione del capitalismo organizzato.

Tra i principali fattori che determinano la crisi del modello di capitalismo organizzato, Honneth menziona: 1) l’indebolimento delle attività di direzione dello Stato sociale sotto la pressione dei processi di globalizzazione economica, del sempre maggior potere delle imprese globali, della internazionalizzazione dei flussi finanziari, ma anche a causa di un mutamento dei modelli interpretativi di politica economica che suggerisce di stimolare le imprese con esenzioni fiscali e incentivi al mercato finanziario; 2) una sempre maggiore tendenza del management aziendale a rivolgersi all’azionariato, per cui l’influenza degli azionisti sulle imprese aumenta nella stessa misura in cui diminuisce quella esercitata dagli altri gruppi coinvolti, come le organizzazioni dei lavoratori; 3) un’erosione progressiva dello status normativo del lavoro salariato, causata da una deregolamentazione del mercato del lavoro per effetto della quale diventano la regola rapporti di lavoro precari, i cui salari stanno al di sotto del minimo necessario alla sussistenza.

È chiaro che, commisurati ai principi di legittimazione del mercato presupposti all’inizio della ricostruzione, questi processi rappresentano sviluppi distorti e regressioni normative. Tuttavia, non sono questi processi in quanto tali, a mettere in crisi il procedimento della ricostruzione normativa. Questo procedimento s’inceppa per un’altra ragione. Honneth osserva come nonostante le riforme neoliberali siano soggettivamente registrate e generalmente considerate “ingiuste” dai soggetti colpiti, esse non hanno suscitato finora reazioni di difesa collettive, come quelle ancora colte da Hegel con il suo concetto di «indignazione». Nella realtà sociale del mercato del lavoro contemporaneo, il “rifiuto”, quando si manifesta, ha tendenzialmente assunto un carattere silenzioso e individualizzato, al quale sembra mancare la forza per articolarsi pubblicamente. Non ci si si imbatte più in articolazioni collettive degli interessi, ma per lo più in forme privatizzate di resistenza. Per Honneth questa «mancanza di struttura nell’immagine sociale del proletariato odierno» può essere solo in parte ricondotta alle nuove forme di lavoro, dove spesso manca la possibilità oggettiva di riconoscere in modo realistico la propria appartenenza ad un gruppo sociale e la propria controparte. Per spiegare questa assenza di indignazione pubbica bisogna piuttosto riferirsi al ritorno del «predominio di un’interpretazione del mercato capitalistico che non lo vede come una sfera della libertà sociale, bensì come una sfera della libertà puramente individuale» (Honneth 2015, 351). Sullo sfondo di questa diversa immagine del mercato, si è nuovamente diffusa l’idea che il tenore di vita e il successo economico dipendono soltanto dalla capacità di affermarsi del singolo, «come se queste ultime non fossero determinate dalla condizione sociale della famiglia di provenienza e dalle sue opportunità di garantirgli un’istruzione» (Honneth 2015, 356). Un sintomo di questo mutamento è la disseminazione tra tutti i settori del lavoro di forme di auto-condanna per tutti quei fallimenti lavorativi, interpretati come fallimenti personali della propria carriera professionale.  È a questo punto, tuttavia, che viene meno il presupposto sulla base del quale Honneth aveva fino a questo punto analizzato il mercato economico capitalistico, inserendolo nella sua ricostruzione normativa. L’assunto di partenza era infatti che il mercato economico capitalistico deve la sua legittimità ad uno sfondo condiviso di aspettative normative. In presenza di sviluppi economici che contraddicono in modo radicale queste aspettative, la conseguenza sarebbe dovuta essere un «fallimento normativo» del mercato, ossia contromovimenti normativi fatti di lotte e conflitti sociali, o comunque di forme di dissociazione. A fronte di una nuova ondata di modernizzazione capitalistica, che ha affossato le conquiste dell’età socialdemocratica, nulla di tutto questo è avvenuto. Da qui l’ipotesi che la mancanza di protesta pubblicamente visibile affondi le proprie origini in un mutamento diffuso dei quadri normativi con cui si interpreta il mercato. Il resoconto che Honneth dà delle lotte e delle insubordinazioni all’interno del nuovo mercato del lavoro deregolamentato è forse troppo selettivo. E oltre a questo, Honneth rischia di contraddire in questi passaggi del testo la critica che egli ha sempre rivolto ad ogni restrizione della soffferenza sociale e del malcontento morale solo a quelle parti che hanno ottenuto visibilità nella sfera pubblica dalle organizzazioni pubblicamente riconosciute (Fraser, Honneth 2007, 141). E tuttavia, ciò che qui interessa mettere in evidenza è che, al termine di questa ricostruzione, Honneth è costretto ad ammettere che lo slittamente dei modelli culturali con cui si interpreta il mercato, da lui ricostruito, «pone la ricostruzione normativa nella condizione di non poter più puntare, per il presente, su contromovimenti normativi»[4]. Giunto a questa conclusione, però, Honneth muta il modo in cui descrive lo stesso mercato capitalistico. Ora egil sottolinea, come non aveva fatto in precedenza, che nelle società moderna dell’Europa occidentale si sono sempre fronteggiate due concezioni del mercato moderno, «l’una che considerava questa istituzione come un’opportunità di reciproco soddisfacimento degli interessi, l’altra come un’occasione per moltiplicarne i vantaggi personali» (Honneth 2015, 352). Secondo questa nuova descrizione, quindi, non solo l’eta socialdemocratica, in cui ha prevalso una concezione solidaristica del mercato, torna ad essere una parentesi storicamente determinata, ma il mercato capitalistico in quanto tale cessa di essere descritto come un’istituzione ancorata ab origine ad uno spettro di aspettative normative condivise. Esso viene descritto piuttosto, in modo più realistico, come un campo conteso tra valori, interessi e forze tra loro inconciliabili, che si confrontano per un’interpretazione radicalmente diversa delle norme e delle pratiche che lo strutturano, ciascuna delle quali mira ad una propria egemonia culturale. Nella stessa trattazione, si passa così da una teoria sociale fortemente normativista e teleologica, come quella ispirata a Talcott Parsons e a Durkheim, a una teoria sociale conflittuale e pluralistica, dove la lotta tra opzioni culturali, interessi e forze tra loro contrapposte, per l’interpretazione del senso del mercato capitalistico, è aperta, non ha un esito scontato, ed è costantemente sottoposta a differenziali di forza e di potere: è quindi, si potrebbe dire, una lotta continua non sull’interpretazione della libertà sociale, ma sull’interpretazione della libertà tout court. Un allontanamento ancora più radicale dall’impianto sistematico de Il diritto della libertà si lascia ricostruire nei testi che Honneth aveva dedicato in precedenza alle trasformazioni del neoliberalismo.
 
 
6. Una genealogia del neoliberalismo
 
In testi come Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione (2012), Riconoscimento come ideologia (2014) Paradossi del capitalismo (2014), Honneth ha impiegato strumenti concettuali e metodologici molto diversi da quelli di cui si è servito poi ne Il diritto della libertà. Le trasformazioni neoliberali non vengono interpretate qui come un semplice «sviluppo distorto» rispetto alle aspettative normative incorporate nello stesso mercato capitalistico. Esse sono interpretate, piuttosto, come l’espressione di un vero e proprio cambio di paradigma culturale, oltre il quale lo stesso critero che guida la ricostruzione normativa del mercato ne Il diritto della libertà, ossia il criterio della cooperazione attraverso il mercato, sembra divenire, da criterio «immanente», un criterio puramente «esterno» al capitalismo.

Nell’analisi delle trasformazioni neoliberali, Honneth ricorre in particolare al concetto di contraddizione paradossale. «Una contraddizione è paradossale – spiega – quando, proprio attraverso la tentata realizzazione di una certa intenzione, diminuisce la probabilità di realizzare questa stessa intenzione» (Honneth 2010, 164): quando, quindi, il tentativo di realizzare una intenzione normativa produce delle condizioni che operano contro la stessa intenzione originaria.

Questo strumento metodologico si rivela appropriato per analizzare le trasformazioni neoliberali, per Honneth, in quanto queste sono state imposte facendo leva su un vocabolario normativo emancipativo, a cui però è stato mutato senso e funzione rispetto al suo contesto originario. Le idee-guida normative dei decenni trascorsi hanno conservato sì, ancora, una loro attualità performativa, e tuttavia sembrano aver perso sotterraneamente il loro significato emancipativo, o perlomeno averlo trasformato: «in molti casi esse sono infatti diventate dei concetti volti meramente a legittimare una nuova fase dell’espansione capitalistica» (Honneth 2010, 164). Per analizzare questo processo, Honneth si richiama in particolare alle analisi di Luc Boltanski e di Ève Chiapello, sviluppate nel libro Il nuovo spirito del capitalismo.  L’assunzione di partenza di queste analisi è che le pratiche capitalistiche hanno bisogno di una giustificazione, dal momento che da sé sole non riescono a mobilitare sufficienti risorse motivazionali. Ma, a differenza del capitalismo tra “il 1930 e il 1960”, nel quale le grandi imprese adottarono un indirizzo volto ad offrire ai propri collaboratori delle possibilità di carriera sul lungo periodo, coadiuvandolo con la creazione di un ambiente sociale protettivo, lo spirito del capitalismo contemporaneo può invece essere descritto come «orientato ai progetti». In esso «le persone più apprezzate sono quelle in grado di mostrare disponibilità a mettere le proprie competenze e risorse emotive al servizio di progetti individualizzati, assumendosene la responsabilità personale». (Honneth 2010, 160-161). «Il lavoratore si trasforma così in un imprenditore-forza-lavoro, o in un imprenditore di se stesso, che non prende più parte alle pratiche capitalistiche sotto la pressione di costrizioni o stimoli esterni, ma per così dire in virtù della forza della sua stessa autonoma motivazione alla prestazione» (Honneth 2010, 160). Per operare questa trasformazione, il nuovo capitalismo è riuscito quindi a mobilitare delle nuove risorse motivazionali, facendo leva sugli stessi principi normativi – autonomia individuale, merito, autorealizzazione, diritti individuali – che erano stati alla base dei percorsi di emancipazione sociale nella seconda metà del XX secolo, e delle critiche rivolte contro lo Stato sociale e contro le strutture tayloriste e fordiste del lavoro. Il punto è che, sotto la pressione delgli imperativi economici del capitalismo, ciò che prima si sarebbe potuto inequivocabilmente analizzare quale incremento della sfera dell’autonomia individuale, nel quadro nella nuova forma organizzativa del capitalismo flessibile e orientato a progetti assume invece la forma di «pretese eccessive, di disciplinamento o di insicurezze che, nell’insieme, conducono ad una desolidarizzazione sociale» (Honneth 2010, 172). È sulla base di questa nuova eticizzazione del capitalismo, quindi, che quest’ultimo è riuscito a formulare nuove giustificazioni dell’ineguaglianza sociale, dell’ingiustizia e della discriminazione. Honneth sottolinea come il «nuovo» capitalismo è strutturato in modo di per sé contraddittorio, ma poi queste contraddizioni vengono traslate nelle sfere d’azione non economiche. Gli effetti paradossali emergono perciò precisamente allorché i soggetti, entro queste sfere d’azione, continuano a vedersi alla luce delle norme che contraddistinguono tali sfere – autonomia, merito, autorealizzazione, amore – ma queste norme mutano di significato, perché vengono ormai assunte nel quadro dell’accettazione di un capitalismo flessibilizzato anche sul piano normativo. Da qui anche una serie di nuove patologie sociali, che si riflettono in stati d’animo come depressione, vuoto interiore, perdita di senso, alienazione, autostrumentalizzazione. Patologie sociali, quindi, che tornano ad essere viste in queste analisi come prodotti non di una semplice falsa interpretazione della grammatica normativa delle pratiche sociali, ma della contraddittorietà delle pratiche stesse e delle norme che le strutturano (cfr. Honneth 2002)[5].

Non è possibile proseguire qui per ragioni di spazio nell’analisi di queste linee di ricerca, che indubbiamente rappresentano parti molto interessanti della ricerca di Honneth negli ultimi anni. Del resto, gli sviluppi della teoria critica negli allievi diretti di Honneth, Rahel Jaeggi e Martin Saar, partono proprio da queste linee di ricerca, più che dagli sviluppi sistematici della teoria di Honneth ne Il diritto della libertà. In particolare, una chiara linea di continuità si lascia tracciare tra gli studi sui paradossi della modernizzazione capitalistica di Honneth e la proposta teorica di Jaeggi di riformulare una critica immanente delle forme di vita contemporanea, e del capitalismo come forma di vita, a partire da una rivisitazione dei concetti marxiani di ideologia e di contraddizione normativa. (Jaeggi 2005; 2016). Quel che qui si vuole mettere in evidenza, un’ultima volta, però è solo la distanza tra la metodologia di questi studi e quella de Il diritto della libertà. Come si è visto, mentre ne Il diritto della libertà, seguendo Parsons, Honneth era partito dall’assunto che la sfera del mercato capitalistico è un’istituzione che trae la sua legittimazione dall’adempimento di norme e valori antecedenti al mercato, ossia quelli della cooperazione attraverso il mercato, in questi studi, seguendo le analisi di Boltanksi e Chiappelo, il capitalismo diventa un insieme di pratiche che hanno bisogno di una giustificazione, per mobilitare risorse motivazionali, funzionali alla sua logica espansiva. Mentre ne Il dirtto della libertà Honneth muove dall’assunto secondo cui sviluppi distorti che contraddicono i principi cooperativi del mercato, devono necessariamente accendere «contromovimenti normativi», in questi studi sociologici le trasformazioni neoliberali hanno efficacia e successo, e quindi non si confrontano con opposizioni, perché riescono a creare un nuovo ordine di giustificazione. Mentre ne Il diritto della libertà Honneth assume che l’accettazione routinaria, da parte dei soggetti, delle istituzioni nelle quali vivono, dimostra la loro adesione normativa ad esse, in questi scritti sociologici egli riconduce l’adesione dei soggetti al capitalismo neoliberale, soprattutto all’effetto dell’internalizzazione di meccanismi ideologici disciplinanti e repressivi.
 
 
7. Conclusioni  
 
Abbiamo visto come la ricerca di Honneth è stata mossa fin dall’inizio dalla volontà di riattivare un legame produttivo con l’eredità della prima Scuola di Francoforte, in particolare attraverso la riabilitazione del modello di critica immanente che ispirava la ricerca dei primi francofortesi. Incamminandosi su un terreno già dissodato da Habermas, Honneth ha chiarito lucidamente i problemi di ordine teorico-sociale, filosofico e politico che stavano alla base di questo modello di criticismo sociale, ma ha anche difeso le ragioni che giustificano gli sforzi per riformularlo e per riproporlo oggi, anche come alternativa ad altri modelli di critica sociale, oggi prevalenti. La proposta sistematica più compiuta a cui è pervenuto questo tentativo di riattualizzazione è quella consegnata alle pagine dell’opus magnum di Honneth: Il diritto della libertà. Qui, il metodo della critica immanente prende la forma di una innovativa metodologia, denominata «ricostruzione normativa», che serve a perseguire l’ambizioso programma di riprendere in mano, dopo due secoli, l’intento hegeliano di «progettare una teoria della giustizia a partire dai presupposti delle società di oggi» (Honneth 2015, XXXVI). Abbiamo visto, tuttavia, come questo programma di ricerca, proprio per la sua tendenza a inscrivere l’incandescente materia storica, sociologica e politica, in un quadro normativo e teleologico «idealizzante», si espone a smentite e a fallimenti, in particolare quando deve dar conto di discontinuità storiche radicali, che rappresentano veri e propri cambi di “epoca”, e che non riescono ad essere ricondotti a semplici sviluppi distorti rispetto ad una prevalente linea di progresso normativo. Ne Il diritto della libertà, la frattura storica che pone la ricostruzione normativa di fronte a delle evidenti difficoltà, fino a farla in qualche modo fallire, è il complesso di mutamenti di ordine economico, ma anche politico, culturale e ideologico, ricondotti dallo stesso Honneth sotto l’etichetta di “rivoluzione neoliberale”. Di fronte a questa discontinuità storica, che ha interrotto il ciclo di progressi sociali raggiunti durante l’età socialdemocratica, il metodo della ricostruzione normativa non riesce più a trovare contro-movimenti normativi, immanenti all’economia di mercato capitalistica, su cui far leva per isolare potenziali di trasformazione, di progresso morale e di civilizzazione del capitalismo. Honneth diagnostica infatti un mutamento della stessa grammatica morale con cui i soggetti percepiscono il mercato e agiscono in esso; mutamento che rende problematico continuare a postulare, all’interno dello stesso mercato, uno spettro di aspettative normative sociali condivise da tutti i partecipanti agli scambi economici, come fino a quel momento era stato fatto. Ben più promettente si è rivelata allora l’altra linea di analisi che Honneth ha seguito nei suoi studi di taglio sociologico, dedicati ad analizzare i paradossi del capitalismo neoliberale. Qui la critica immanente assume un altro significato: quello di ricostruire le contraddizioni paradossali interne al capitalismo contemporaneo e, di riflesso, alle sfere sociali contigue. In questi testi, inoltre, torna prepotentemente al centro della ricerca del filosofo una rinnovata critica dell’ideologia, nonché un’analisi delle patologie sociali, lette di nuovo, diversamente da Il diritto della libertà, come sofferenze sociali determinate non da deficit cognitivi, ma dalla stessa struttura contraddittoria delle pratiche sociali e delle norme che le legittimano, così come si presenta agli attori sociali stessi, all’interno del nuovo capitalismo flessibile e disorganizzato. Si tratta di contraddizioni paradossali che poi di riflesso si propagano nelle sfere sociali contigue, a causa della tendenza del capitalismo ad espandersi, in termini totalitaristici, in ogni altra sfera sociale. Questo processo non può essere letto, tuttavia, come una «colonizzazione» dei mondi di vita sociali da parte delle logiche sistemiche di un capitalismo privo di normatività, secondo lo schema habermasiano. Si tratta, piuttosto, di un processo per certi aspetti inverso, perché il capitalismo si è per così dire fatto «colonizzare» ed «eticizzare» dai principi che avevano precedentemente orientato la critica al capitalismo organizzato e al Welfare State – l’autorealizzazione individuale, l’autonomia, i diritti individuali, il principio del merito, la sfera dell’amore – per poi però invertirli di senso e renderli funzionali all’espansione capitalistica. Da questi processi paradossali discendono nuove forme di alienazione e di reificazione, che svuotano interiormente le soggettività, proprio nel momento in cui ne sollecitano al massimo le espressioni e le prestazioni. Patologie sociali, queste, emblematicamente condensate dai paradossi ai quali è esposto un lavoratore-imprenditore di sé, spinto a «ottimizzare» il proprio «potenziale», a mobilitare le sue risorse emotive e comunicative, e allo stesso tempo a cadere vittima di sentimenti di impotenza, di svuotamento interiore, di perdita di senso. Di fronte a questo ordine di trasformazioni, la ricostruzione normativa si rivela uno strumento metodologico spuntato, che ha bisogno, quindi, di un’integrazione genealogica, capace di smascherare in chiave storica fino a che punto alcuni ideali e alcune norme istituzionalizzatesi nell’età socialdemocratica, in quanto originariamente veicoli di emancipazione, siano divenute funzionali alla legittimazione di pratiche repressive e disciplinanti, integrate nella logica dell’espansione capitalistica. Laddove, quindi, questi stessi ideali e queste stesse norme non possono essere più sic et simpliciter assunte come criterio di riferimento della critica immanente, ma devono essere a propria volta sottoposte ad una critica immanente. Si potrebbe concludere, quindi, notando che il tragitto di ricerca di Honneth e le tensioni che lo attraversano provano come un rinnovamento del modello di critica immanente francofortese oggi può riuscire solo attraverso un pluralismo metodologico, in grado di incrociare diversi sguardi critici sul presente. Queste diverse ottiche critiche devono essere capaci di riportare alla luce le potenzialità di trasformazione racchiuse nella realtà sociale, senza indulgere però in alcun eccesso di teleologismo e di normativismo: senza trascurare le contraddizioni e i paradossi che attraversano le stesse pratiche e la stessa normatività che dovrebbero fungere da criteri della critica, così come i rapporti di dominio e i differenziali di forza e di potere che si nascondono dietro di essi.Rimane tuttavia un compito ancora inevaso da questa linea di ricerca, quello di offrire spiegazioni plausibili dei fattori sociali, economici, politici e culturali, che hanno reso possibile il vero e proprio mutamento d’epoca compiutosi con la fine dell’età socialdemocratica e con l’avvento della rivoluzione neoliberale. Un mutamento che rischia di trasformare ogni critica immanente al capitalismo, compiuta nel segno dell’emancipazione, in una critica esterna ad esso.
 
 
 
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Note al testo
 
[1] Cfr su questo l’ulteriore elaborazione della critica alla distinzione tra morale ed etica in: R. Jaeggi, Kritik der Lebensformen, Suhrkamp, Berlin 2013.
[2] Sulla differenza stabilita in Il diritto della libertà tra «patologie sociali» e «sviluppi distorti», e sul mutamento di prospettiva così operato rispetto alla precedente concettualizzazione delle patologie sociali, cfr. per lo meno F. Freyenhagen (2015);  A. Laitinen, S. Särkelä, Tra normativismo e naturalismo. Honneth sul concetto di patologia sociale, traduzione in questo numero di «Consecutio Rerum».
[3] A questa critica fa riferimento lo stesso Honneth nella Prefazione del libro L’Idea di socialismo (2016), con un rimando agli articoli raccolti in: Special Issue on Axel Honneth’s Freedom’s Right (2015).
[4] Per Honneth, «un’alternativa a questi sviluppi regressivi sembra prefigurarsi soltanto là dove forze oppositive organizzate si accingono a lottare per una rinnovata delimitazione a livello transnazionale del mercato del lavoro». Quanto più forti diventeranno queste comunità transnazionali, tanto più «tornerà a dischiudersi la prospettiva di una civilizzazione morale dell’economia di mercato capitalistica» (Honneth 2015, 357-358).
[5] Su questo cfr. anche Vorwort, in Ehrenberg (2010).
 
 
 

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