La forma del potere. Immanenza e critica


Martin Saar

Goethe-Universität Frankfurt am Main
saar@em.uni-frankfurt.de

 
 
 
Abstract: Foucault’s analysis of power is still a key topic in contemporary social-political discussions. Insofar as power is inherent in every field of society, it permeates and shapes every social relationship. Consequently, freedom, the possibility of action and subjectivity can no longer be conceived as independent of power and opposed to it, but rather they turn out to be intrinsically connected to power. The aim of this article is to show that Foucault’s analysis and critique of power (understood as a theory of the “multiple forms” and of the “immanence-character” of power) does not rule out the possibility of action and freedom. Action and freedom are instead conceived of as arising from power itself, and thus they do not require the full dissolution of power. For these reasons, Foucault’s idea of critique parallels the notion of immanent critique.
 
Keywords: Foucault; power; freedom; subject; immanent critic.
 
 
 
1. Introduzione: il potere secondo Foucault[1]
 
A oltre 40 anni dall’analisi del potere di Foucault e dal suo più celebre libro sul potere sono opportuni e sensati bilanci e verifiche sia dei concetti fondamentali che degli strumenti teoretici proposti in Sorvegliare e punire. Un motivo, che svolge in questo libro un ruolo centrale, è da ricostruire e discutere qui brevemente; motivo giustamente noto e che ha influenzato profondamente i riferimenti politici e filosofici al lavoro di Foucault come pochi altri. Riguarda la domanda sulla portata e forma del potere di cui Foucault parla e da cui delimita altre, precedenti forme di esso. La nuova forma storica del potere resta, così come le tesi storiche, e soprattutto a differenza delle precedenti, non esterna al corpo e all’anima dell’uomo ma passa «all’interno» stesso (cfr. Foucault 2004a, 298-309)[2].

Il potere di cui Foucault propone l’analisi è costitutivo, cosicché il descriverlo e criticarlo rimanda a qualcosa di essenziale e interno ai e nei rapporti sociali, non a qualcosa che può o non può spettare loro. Questo modo di descrivere il posto o luogo del potere è stato a suo tempo rivoluzionario in confronto alle «classiche» teorie del potere. La controversia socio-teorica e le implicazioni di questa concezione sono vive ancora oggi[3]. Che tutto ciò abbia persistenti implicazioni metodiche e politiche è evidente, poiché analizzare, criticare o opporre qualcosa a questo interno – moderno, nuovo – potere è difficile, forse addirittura impossibile. Infatti, tutto ciò che si potrebbe opporre ad esso – ossia ciò che nelle teorie classiche del potere potrebbe essere qualcosa come: libertà, capacità di agire, soggettività – sembra essere in questa nuova descrizione come pervaso e addirittura prodotto dallo stesso potere.

Quest’allusione alla complessità del potere e all’impossibilità di semplici opposizioni, formulate secondo relazioni moderne, è stata sin da subito, ed è fino ad oggi considerata da molti il fulcro del lascito foucaultiano; lascito che permette di attuare sia un’analisi politico-critica che una critica dei rapporti di potere, anche dove esso tenda a complicare enormemente la possibilità teorica e pratica di cambiamento e liberazione. Poiché il potere che è in noi – noi stessi, sì, siamo questo potere – non si lascia allora nemmeno combattere in un modo semplice e diretto o quantomeno trasformare.

In quanto segue dovrà essere proposta una chiave di lettura di questo problema o di questo topos di analisi del potere che da un lato assorba e prenda seriamente in considerazione questa proposta sistematica, e che da un altro si discosti nelle conseguenze, o quantomeno nell’accentuazione, dalla consueta interpretazione, che è stata qui già brevemente introdotta. Per fare ciò questa chiave di lettura dovrà assumere la forma di una teoria delle molteplici forme di potere. La tesi di carattere costitutivo, interno o immanente dei moderni, o nell’inasprimento [Zuspitzung] storico che propone Foucault, è la seguente: il potere post-sovrano è – in questa nuova concezione del potere – ambiguo, e la sua interpretazione storica è solo una tra molte. È più in generale una tesi sull’inevitabilità così come sulla superabilità del potere, poiché in questa concezione esso non è – per il soggetto – niente d’altro, estraneo e eterogeneo ma l’altro, l’estraneo ed eterogeneo giungono dal potere stesso, sono prodotti e allo stesso tempo coproducono il potere. Tutto questo non sminuisce il difficile compito di dover descrivere tali complessi e intensi rapporti di potere in tutta la loro eterogeneità e in tutte le loro mutevoli forme. Tuttavia, ci sono indicazioni che lasciano intendere ciò: Foucault è convinto che gli attuali rapporti di potere non siano né gli unici né gli ultimi. Questa prospettiva non è senz’altro ottenuta attraverso la diagnosi della forma vigente, nella quale essa si trova al momento inscritta. Un analisi del potere secondo Foucault sarebbe da intendere come qualcosa di più di una descrizione delle forme, nelle quali il potere può comparire e nelle quali esso è più o meno profondo o decisivo. È plausibile, prendendo le mosse da ciò, che analisi e critica delle forme del potere, e questo significa anche l’indotta trasformazione teorica della libertà, si trovino in una relazione intrinseca del tutto generale. Inoltre, che anche la possibilità della libertà, dell’agire-diversamente e poter-agire-contro che ha origine dal carattere immanente dello stesso potere, si risveglino dal potere in quanto tale come una delle sue forme.

Mettendo in luce e facendo diventare ciò visibile come opzione pratica, si potrebbe contraddistinguere un procedimento della critica che accetti l’essere-immanente del potere e da esso tragga le conclusioni. In altro senso, rispetto a quello utilizzato dal contemporaneo dibattito socio-politico che riguarda la forma della critica, questo procedimento si potrebbe chiamare “critica immanente”. Questa è essenzialmente conscia dell’idea che il potere è sempre presente in una determinata forma o che esso possa anche mutare. Tuttavia, abbandona la pretesa d’intervenire essa stessa nel gioco o nella lotta delle forme di potere.
 
 
2. Il potere
 
Alla fine delle sue lezioni sulla Società punitiva nel marzo 1973, dalle quali Sorvegliare e punire è sorto durante una molteplicità di rielaborazioni e modificazioni, Foucault schematizza con un gesto a lui caratteristico il tipo di concezione del potere che ha utilizzato fino a quel momento nella sua analisi delle istituzioni punitive. Tale concezione risulta essere opposta alle alternative consuete. Foucault qui cita i quattro schemi ai quali vuole limitare la propria analisi: lo schema dell’«acquisizione» del potere, della «localizzazione» del potere, della «sottomissione» (qui in aperto conflitto con le storiografie marxiste nel senso di: sottomissione ai modi di produzione) e lo «schema dell’ideologia» (Foucault 2015, 310-321). Egli rifiuta questi quattro schemi in toto: il potere non «appartiene» a nessuno; esso non possiede nessun luogo evidente o non è da assegnare univocamente a determinate istituzioni; è estremamente più complesso rispetto a una semplice imposizione di un determinato rapporto di sovranità o sfruttamento; e non si lascia piegare all’alternativa di produrre l’ordine sociale o attraverso la costrizione o attraverso la manipolazione ideologica.

Il potere, invece, dovrebbe essere concepito diverso, più ampio e decentrato. Anche se tutto ciò in queste lezioni viene abbozzato da Foucault solamente in relazione al loro specifico oggetto di ricerca, viene ripreso più volte anche nei suoi studi materiali degli anni settanta. Il potere è da concepire: come una domanda della diretta e indiretta conduzione e regolamentazione dei comportamenti senza un chiaro centro; come domanda delle abitudini e norme affettive, della condotta e strutture sociali costituenti il sapere; infine, come problema del legame degli individui ai modi di comportamento (Foucault 2015, 322). Questa – secondo la tesi storica nuova – forma di potere disciplinare «viene esercitata sulla normalizzazione, sull’abitudine, sulla disciplina (Foucault 2015, 326). Questi intrecci tra potere e sapere, prassi e norma nel soggetto della disciplina, questo è il punto conclusivo a cui giunge Foucault nella sua lezione, vengono articolati a partire dal diciottesimo secolo consciamente o inconsciamente in un discorso che diviene sempre più possente; discorso che si pronuncia a favore delle norme e della loro perizia in quanto discorso competente (ovvero come tale viene innanzitutto prodotto), vale a dire nel «discorso normalizzante delle scienze umane» (Foucault 2015, 326).

Con queste osservazioni è richiamata la metatesi metodologica di Foucault, secondo la quale il vero operare delle forze sociali si lascia descrivere solamente in un quadro complesso di relazione di specifici rapporti di conoscenza, di potere e del sé: vale a dire come un processo di trasformazione continuo ma non riducibile ai suoi elementi, che può modificare e adattare l’uno all’altro oggetti epistemici, istituzioni e auto-stereotipi sociali, coscienze di sé e pratiche di sé[4]. Il potere è in questa prospettiva sia qualcosa che è formato e assume una specifica forma sia qualcosa che plasma, forma, e conia forme, ossia forme dei soggetti, del sapere, del sociale.

Una société punitive oppure société disciplinaire è una società nella quale tutto ciò avviene per mezzo delle «discipline» e tecniche, apparati e norme di disciplina, nella quale questi mezzi e strategie producono sapere disciplinare, forme sociali disciplinar-affini e soggetti disciplinari (nella forma del delinquente). Queste all’inizio sono limitate e locali, poi però di crescente portata e si estendendono alla totalità del corpo sociale. Il «panopticon» benthamiano è divenuto per questo motivo l’immagine mentale centrale e anche la grandiosa metafora dell’ultima parte di Sorvegliare e punire. Qui, nelle lezioni del 1973, questa metafora è solamente un breve e, per motivi di tempo, inconcluso esempio tra altri contenuto nel manoscritto (Foucault 2015, 300).

La lezione teorica sul potere – delocalizzazione[5], decentramento e relazionamento con il sapere e l’auto(condotta) – è ricca di sviluppi, in quanto cambia la grammatica delle dichiarazioni sul potere: il potere non si può possedere, può solo essere esercitato; non può essere fissato (o localizzato), ma solamente essere descritto in un campo; non può essere concepito come fattore di definizione e determinazione del sapere e della soggettività, ma solamente come un polo d’interazione in una complessa relazione con questi. Il potere è da pensare ogni volta nella sua forma di società specifica ed essere spiegato nel suo rapporto plasmante con le altre forme (del sé e del sapere).

Da queste implicazioni segue che il potere non è da pensare in modo classico, ossia come sovranità. Ciò conduce ad un punto centrale: il potere è da pensare «produttivo», non «negativo». Questo è l’inasprimento che Foucault qui già esegue e realizzerà poi nella La Volontà di sapere in modo dettagliato (Foucault 1977, 250). In questo modo vengono messe a tema le seguenti questioni: che il corpo sottoposto a discipline ed esercitazioni, innanzitutto, viene prodotto in queste come corpo docile e produttivo; che il «potere produce il sapere»; che l’individuo «è una realtà che è prodotta dalle specifiche tecnologie di potere della disciplina»; e che l’«anima esiste», poiché «viene continuamente prodotta – per il corpo, sul corpo, nel corpo» (Foucault 1977, 39, 41, 175, 250).

Lo spostamento concettuale dalla sottomissione alla produzione, dalla determinazione alla relazione, e dall’accentramento alla diffusione ha allora una conseguenza particolarmente importante per l’immagine del potere che può essere abbozzata attraverso la trascrizione della vecchia, classica, «sovrana» immagine: il potere non può più essere una relazione d’anteposizione [Überordnung], un evidente esterno/interno o sopra/sotto. L’immagine «strategica» del potere dispone i livelli l’uno accanto all’altro, elimina presunte fisse gerarchie e sistema gli elementi su un piano. In quest’immagine l’effetto del potere non è altro che il disporre e essere-sistemato, il mettersi-in-relazione delle cose epistemiche, sociali e soggettive (cfr. Foucault 1979, 124; Lemke 2003). Il potere è il metaconcetto [Überbegriff] usato per una molteplicità di affetti dispositivi e la denominazione per molti fatti che concernono questo essere-disposizionato. È «il nome che si dà ad una complessa situazione strategica in una società». Foucault riassume una lunga catena di determinazioni del potere che ritraduce questo singolare in una pluralità di «rapporti di forza», poiché – una riga dopo – «la condizione di possibilità del potere» è circoscritta «alla fragile base dei rapporti di forza, i quali generano attraverso la loro diversità incessanti situazioni di potere che sono sempre locali e instabili» (Foucault 1979, 113).

Però se le cose stanno così in questa teoria, ossia, che le condizioni di possibilità del potere sono la molteplicità dei rapporti di forza, i quali non sono nient’altro che ciò per cui sta il nome del potere, questo non è nulla fuori di sé e opera in ciò che esso non è, vale a dire nel sapere, nei soggetti o nella società nella sua totalità. Qui si mostra chiaramente la complessità e non-classicità dell’immagine del potere di Foucault: pensare il potere vuol dire sì pensare effetto e determinazione interamente in accordo con le classiche definizioni di dynamis, potentia, force, ma anche nel senso di una determinazione o effetto interno, producente e immanente[6]. Se il potere post-sovrano è qualcosa che si lascia comprendere e determinare, allora si lascia descrivere solamente come qualcosa di agente e producente nell‘intimo, vale a dire come qualcosa di costitutivo. L’esercizio o l’effetto del potere è accadere costitutivo e nulla che qualcuno voglia fare o conseguire in senso stretto ma qualcosa che accade e (totalmente funzionale o strategicamente descrivibile) produce effetti[7].

Foucault stesso ha più tardi rivisto quasi noncurante l’interpretazione storica di questo schema inteso nel senso di una successione dal vecchio al nuovo, dalla forma di potere sovrano a quello disciplinare. Egli ha indotto a pensare, attraverso questa revisione, che così, nel senso di uno stacco, egli non abbia mai inteso questo schema (Foucault 2004b, 22)[8]. Contro questa revisione parla la retorica completamente storica ed epocalizzante con la quale viene inscenato il contrasto tra «sovrano» e potere disciplinare. Per quanto riguarda questa questione è giusto però comprendere che in questo cambiamento, che concerne la forma in cui si parla del potere, v’è qualcosa di più di una tesi storica sul cambiamento delle forme esteriori del potere. Il cambio semantico è, infatti, anche risultato di una genuina revisione concettuale di ciò che generalmente viene designato come «potere» e, innanzitutto, una revisione decisiva di ciò che effetto o determinazione possono significare in questo contesto (cfr. Macherey 1991, 171-192).

La moderna, post-sovrana forma del potere, ma anche il potere in generale, è compresa allora con e secondo Foucault, nel quadro qui presentato, non in qualche luogo da dove agisce su qualcos’altro. Il potere è al contrario nelle cose, rapporti, relazioni e interazioni, che esso plasma, struttura e costituisce. Vivere nel potere, vivere da esso e di esso, è il destino del soggetto delle società moderne nelle quali vale ciò che Foucault dice sulle loro discipline, esercitazioni e controlli.
 
 
3. Immanenza
 
Il carattere di interiorizzazione e produzione del potere, che, come appena visto, Foucault evidenzia nelle forme disciplinari post-sovrane del potere, è allo stesso tempo un completamento sistematico di un altro modo di parlare del potere. Questo carattere dice qualcosa sui rapporti di potere in generale che sono stati descritti solo insufficientemente come rapporti tra grandezze esterne l’una all’altra. Alle forme del potere corrispondono le forme della teoria di potere, ossia modi della descrizione del potere. Se il potere passa ai rapporti epistemici, sociali e del sé, non è rispetto a questi ultimi nulla di esterno e perciò neanche nulla di esterno alla loro sopraffazione e variazione di forma ma è qualcosa al loro interno, qualcosa che li plasma. Tutto ciò ha conseguenze per il modo in cui si può riflettere sul rapporto tra il potere e la libertà e le loro forme vigenti. Foucault tratta questa domanda in modo relativamente consistente nei suoi testi dalla metà degli anni settanta. Nel suo celebre testo Soggetto e potere del 1982, che fu scritto per un ampio pubblico straniero di cui la familiarità con i suoi lavori storici non è da dare per scontata, Foucault presenta la domanda sul potere e la libertà come una domanda su un rapporto relativamente chiaro e univocamente definibile e senza alcuna qualificazione storica:
 

L’esercizio del potere non è una semplice relazione tra ‘partner’ individuali o collettivi ma una forma di effetto agente sugli altri. Di fatto i rapporti di potere sono definiti attraverso una forma d’agire che non produce effetti direttamente e immediatamente sugli altri ma sul loro agire. (Foucault 2005a, 269-294)

A questa quasi-definizione seguono ulteriori qualificazioni:
 

[L’esercizio del potere] è un insieme di azioni, che si rivolgono a un agire possibile, e operano in un campo di possibilità in rapporto al comportamento del soggetto agente. Questo esercizio offre stimoli, induce, invoglia, facilita o complica, esso amplia o limita possibilità d’agire, aumenta o riduce la probabilità di azioni e in casi limite ottiene con la forza o impedisce l’agire ma si rivolge sempre a soggetti agenti, in quanto essi agiscono o possono agire. Esso è un agire che si rivolge all’agire stesso. […] Il potere può essere esercitato solamente su ‘soggetti liberi’, in quanto sono ‘liberi’. […] Il potere e la libertà non si escludono allora l’uno con l’altro. […] In questo rapporto la libertà è la premessa per il potere (come condizione preliminare, in quanto la libertà deve essere presente affinché il potere possa venir esercitato, e anche come condizione permanente, poiché se la libertà si sottraesse al potere esercitato su di essa, scomparirebbe il potere in questa stessa mossa e dovrebbe rifugiarsi nella pura costrizione o semplice violenza). Però la libertà deve allo stesso tempo opporsi all’esercizio della forza che mira infine a disporre completamente di essa. (Foucault 2005a, 286)

Molto di ciò, che è contenuto in questi noti passaggi, necessita di un interpretazione: il modo di procedere sistematico-concettuale, che sembra avanzare senza esitazioni e che sta come minimo in tensione con le prime tesi storiche di questo testo per quello che riguarda la storicità delle forme di governo; le virgolette sulla parolina «libero» o la differenziazione che qui viene incontrata quasi di sfuggita tra libertà e costrizione[9]. Soprattutto appare però qui urgente la domanda sistematica sull’interiorizzazione del potere. Il potere ha bisogno, necessita, presuppone che ci siano soggetti agenti e capaci di agire, in questo senso perciò «liberi», poiché il potere è azione («agire») sul comportamento e sull’atto. Che il potere abbia effetto sui soggetti ovvero sul loro agire, non significa che la loro libertà si dissolva, non li piega (come la costrizione), ma si rapporta ad essi, li modula, agisce su di essi, non dal di fuori (come la costrizione), ma da vicino, da uno spazio interno d‘influenza.

Gli effetti di tale influenza [Einflusswirkung] rimangono determinanti per l’agire che hanno interessato oppure tangibili nella sua modulazione. Causano qualcosa in ciò su cui hanno effetto o su quella cosa che è essa stessa interessata come agente. Questi effetti sono mediati o legati a ciò che l’agente o l’attrice stessi già fanno di per sé. Solo per questo motivo la presenza o l’avere effetto del potere può significare che esso – come nella citazione sopra – «offre, induce, invoglia, facilita o complica stimoli». Ciò che «facilita o complica» qualcos’altro lo fa da vicino, in un certo senso dall’interno, non da fuori, poiché dall‘esterno verrebbe al massimo permesso o bloccato[10].

Tutto ciò significa, tradotto in maniera molto astratta, che il potere ha effetto su e nella libertà. In determinati casi ha effetto nella libertà stessa, infatti, l’agire liberale stesso è un agire nel potere che appartiene ad una concezione dello stato specifica [Staatsverständnis] o nell’ambito di una determinata razionalità politica. Questa ha – per questo motivo si chiama «liberalismo» – reso la libertà stessa il suo proprio principio-potere [Macht-prinzip], vale a dire come suo criterio di esercizio del potere. Che ciò sia possibile (e criticabile) poggia sul fatto che in generale «potere e libertà non si escludono l’uno con l’altro» (Foucault 2005a, 287).

Da qui in poi c’è da effettuare solamente un piccolo passo argomentativo, cioè, affermare che non può esserci «alcuna società senza rapporti di potere» e niente rapporti di potere senza renitenza [Widerspenstigkeit] o «resistenza» (Foucault 2005b, 889, 892). Poiché questo significa solamente che ci dev’essere, affinché gli effetti possano essere presenti, effetto su qualcosa che sia un polo opposto [Gegenpol] senza essere un al di fuori. Questa renitenza o resistenzialità[11] non proviene dal potere stesso ma non giunge neanche da nessun luogo. Ha origine dallo stesso piano delle forze, piano sul quale queste si ostacolano o promuovono, facilitano o complicano l’una con l’altra.

Queste meditazioni sui rapporti tra concetti potrebbero sembrare quasi ironiche, tuttavia, hanno enormi conseguenze politico-teoriche e addirittura pratiche. Le conseguenze che seguono sono: che l’eliminazione del potere non può essere uno scopo politico; che il richiamo al valore della libertà non può offrire alcuna protezione dagli effetti del potere; e che l’agire politico stesso, anche dove esso stesso sposi determinati scopi o intenzioni, non sta mai all‘esterno ma sempre all’interno di rapporti di potere e rapporti di forza, ai quali le strutture, che egli vuole combattere, appartengono. Una politica che ha origine da queste premesse non potrà mai essere una «liberazione» totale[12].

Mi sembra sensato utilizzare la formula filosofica dell’immanenza del potere per riferirmi a questo tipo di affermazioni sulla relazione interna tra potere e norma, tra potere e libertà e tra potere e contro-potere (cioè resistenza). Il motivo di ciò è che questa formula non designa in prima istanza nient’altro che i rapporti d’intenzionalità del potere in o verso (presunti) altri oppure l’interna relazionalità che lega il potere al suo effetto. Qui i poli di un rapporto, che non permette alcuna completa esclusione ma implica una mutua costituzione, sono appartenenti o immanenti l’uno all’altro. Questa determinazione strutturale non è da intendere come una domanda sulla forma storica specifica del potere, così come fa l’insegnamento storico sulle forme di potere. Questo essere-immanente [Immanent-sein] spetta al potere per antonomasia, anche quando esso si mostra concretamente, quando s’incarna in forme di potere o relazioni di potere specifiche.

L’indicazione critica, che il potere non è esterno ma immanente alla libertà o al soggetto libero e che esso costituisce e produce entrambi, potrebbe allora suonare come un gesto evasivo che disillude quasi cinicamente sulla reale libertà. Sullo sfondo di queste prime determinazioni ontologiche ciò non mi sembra adattarsi al caso in questione. Pensare la libertà non al di là del potere ma in rapporto con esso, in rapporto con il potere che la costituisce – vale a dire intendere il rapporto di potere e libertà immanentemente e così comprendere la libertà come una forma del potere tra altre oltreché sullo sfondo offerto dal principio dell’immanenza del potere – significa solamente pensarla in maniera differente rispetto all’immagine classica: non come rottura, non come totale spontaneità e creazione da sé ma localizzata, sempre trattando con forze già presenti, arginandole, ma non soverchiandole. Assumendo che «ci siano relazioni di potere, che percorrono tutto il campo sociale, allora di conseguenza ciò accade, in quanto c’è ovunque la libertà», e questo vale per definitionem (Foucault 2005b, 890). In questo modo viene a crearsi uno spazio teorico e pratico, sì, addirittura la necessità dell’agire, dell’«etica» in senso ampio, di «una prassi riflessa della libertà» (Foucault 2005b, 879). Questa non starà completamente di fronte e opposta al potere ma si formerà in questo come qualcosa che non è solo potere, che non è solamente un qualcosa di ottenuto. La relazionalità che è stata descritta come immanenza del potere è ambigua: presa seriamente si rivolge sia contro un trionfalismo della libertà assoluta, che non è altro che indeterminatezza, sia contro un nichilismo del potere assoluto, che tende a non conoscere nulla come effetto della sua propria potenza [Mächtigkeit].
 
 
4. Critica
 
Se queste affermazioni sul potere e sulla sua immanenza sono sensate, si lascia intendere facilmente che Foucault non debba essere considerato un semplice critico del potere nel senso più comune.[13] Rifiutare il potere nel senso qui proposto, ossia come costitutivo e produttivo, sarebbe solamente un gesto senza senso, quasi contraddittorio. «Il potere», «il potere in sé» o più che mai «il potere in sé malvagio» non esiste. Oltretutto, il potere, i corpi, la soggettività, le relazioni sociali costituite (e costituite in un certo modo) non si lasciano semplicemente rifiutare, poiché facendo così, tutto ciò che esiste verrebbe rifiutato in quanto tale – e non rimarrebbe nulla. Allora risulta estremamente evidente che tutti gli esercizi all’interno dell’analisi del potere, intrapresi da Foucault per tutta la sua vita, erano critiche del potere in un senso diverso, tuttavia serio, come rifiuti, sezionamenti e rivelazioni di specifici accomodamenti di potere, indicazioni su alcune possibilità di plasmare e strutturare, che vengono aperte, e su altri effetti, che vengono invece conclusi, di costellazioni di potere specifiche o di forme del potere.

In maniera interessante le spiegazioni di Foucault, che concernono questa direttrice critica del suo lavoro, risultano essere articolate più chiaramente nei suoi testi e lavori più brevi. Qui si fa riferimento a quei lavori biografici rintracciabili nel periodo successivo all’analisi di potere e alla genealogia (in senso più stretto) – sebbene ciò potrebbe essere anche inteso come una indicazione su come ci portino poco lontano le  categorizzazioni e suddivisioni – a noi tanto care – delle opere. I testi su critica e illuminismo dei primi anni ottanta sono in questo caso nuovamente i più fruttuosi e alcune delle più importanti riflessioni metodologiche si trovano all’interno di uno schema negativo/positivo. Il tentativo di sviluppare un «êthos» filosofico viene designato prima di tutto come «rigetto» di determinati elementi dell’illuminismo e dell’umanesimo e poi come un «atteggiamento limite» (Foucault 2005c, 229). Al di là di un’«alternativa del fuori e del dentro» la critica dovrebbe essere un’«analisi dei limiti e la riflessione su di essi» (Foucault 2005c, 229). Questo implica una riflessione sul necessario e non necessario (cioè contingente), inoltre, questo «atteggiamento limite» deve in questo modo condurre a una «critica pratica nella forma del superamento possibile» (Foucault 2005c, 230).

Questo superamento viene (con riferimento a Nietzsche) ulteriormente spiegato:
 

E tale critica sarà genealogica nel senso che non dedurrà quello che ci è impossibile fare o conoscere dalla forma di ciò che noi siamo; ma coglierà, nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare o non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo. (Foucault 2005c, 230)

Come molti altri lettori, io interpreto questi passaggi come riflessioni e aggiunte metodologiche di Foucault alle sue proprie pratiche testuali e di pensiero, cioè come un commento alle sue proprie «ricerche storiche» che hanno consegnato ripetutamente ritagli, aspetti e contributi di questa «ontologia critica di noi stessi» (Foucault 2005c, 230). Questa ontologia era ed è «un lavoro di noi stessi su noi stessi, in quanto esseri liberi» e in quanto noi siamo esposti al potere e nel potere e dal potere siamo formati (Foucault 2005c, 231).

A questo punto si lasciano connettere i motivi presenti in entrambi i paragrafi sul potere e l’immanenza precedentemente esposti. Se il potere è nella sua costitutività [Konstitutivität] ciò che ci – e anche tutto il resto – costituisce e ci ha lasciato diventare così come siamo, allora il lavoro critico su di noi, che qui sta a significare «ontologia critica», non può essere nient’altro che analisi di potere, riflessione di potere e descrizione di potere. Queste, tuttavia, nella misura in cui pongano la domanda sul necessario e non necessario, vale a dire sulla libertà e la contingenza, saranno critica di potere senza superamento, critica del potere che non rifiuta il potere stesso.

Così, attraverso la revisione del concetto di potere, ha cambiato il suo significato anche il discorso sulla critica nella formula di una critica del potere[14]. Questa critica non può né essere una misurazione nostalgica o un confronto di figure di potere con rimando a forme precedenti e meno decisive né un pesare in maniera neutrale successioni, il quale ha la sola funzione di descrivere, ma tenterà di capire e valutare la nostra forma di potere attuale e ogni volta dominante. Essa stessa verrà fuori da questa forma del potere e la supererà dall’interno.

A questo punto mi sembra sensato accogliere con riconoscenza un’ambiguità terminologica e utilizzare il titolo di “critica immanente” per denominare questo esercizio che si trova presente nell’ontologia storica e critica in particolare; questo passare in rassegna le limitazioni e le possibilità aperte alla soggettività. Solitamente viene usata questa formula in senso metodologico, soprattutto pensando ad Hegel, per designare un atteggiamento critico, nel quale i criteri della critica stessa abbiano origine dal suo oggetto oppure derivino da un iterazione con esso[15]. La critica immanente «parte da contesti dati e da criteri che si trovano nella cosa, si fonda, tuttavia, con ciò su una comprensione del modo in cui le norme sono efficaci all’interno delle pratiche sociali»; essa «localizza la normatività delle pratiche sociali in condizioni d‘esecuzione di queste stesse pratiche» (Jaeggi 2013, 277). Anche qui è presente una pretenziosa, da un punto di vista filosofico, affermazione d’immanenza [Immanenzbehauptung] che è collocata tuttavia tra norma (del giudizio) e esecuzione (di una prassi sociale). Le cose, alle quali si rapporta questa forma di critica immanente, sono «norme che sono state immagazzinate nelle pratiche sociali» (Jaeggi 2013, 308)[16]. La critica è o resta in questo contesto immanente, poiché non accosta nessun altro criterio alla prassi oltre a quelli in essa già «immagazzinati».

In tutt’altro senso è da intendere la critica del potere qui ricostruita, questa critica del potere immanente, una critica immanente, una critica che non giunge da fuori, non è esterna. Questo dipende però dal fatto che non le norme, ma il potere stesso è iscritto in essa, ossia dal fatto che la critica è (co)prodotta dal potere stesso senza che questo la indebolisca. Anche questa critica al potere, e non alle forme di vita, deve giungere da un interno che non sia un’interiorità ma un rapporto d’intra [Binnenverhältnis], in quanto anche il suo oggetto, il potere, è interno. Il potere, infatti, si trova all’interno dello stesso soggetto della critica. Poiché il pensiero sul potere [Machtdenken], che è stato presentato qui, insiste sul fatto che non solo le norme ma anche il potere è costitutivo del soggetto, delle pratiche e strutture sociali, segue che anche questo pensiero fa affidamento su un rapporto immanente e di intra. Tuttavia, questa base del potere è, in maniera molto differente rispetto alle norme, in sé ambivalente. Rendere possibile uno sguardo su di esso non mostra alcun valore [Werthaftigkeit] interno o normatività immanente ma solamente conflittualità o dinamicità, vale a dire il fatto, che ciò che è espressione dei rapporti di forze e potere che agiscono sempre in controtendenza. Questo sguardo piuttosto che giudicare dinamizza e problematizza, la sua forza critica piuttosto che portare fuori da una crisi porta prima di tutto in essa.

La problematizzazione delle coscienze di sé, attraverso il rimando all’intreccio immanente di potere e soggetto, si rivolge allora contro descrizioni acritiche e neutrali che presentano ciò che il soggetto stesso potrebbe essere senza il potere. Così è critica di sé, critica del sé in se stesso nato dal potere, critica che non può mai – completamente – rifiutare questo sé, in quanto questo è il suo stesso portatore o medium (Saar 2007, 289-292). Una critica del genere non può perciò essere puramente distruttiva e non può neanche distanziarsi completamente dal suo oggetto ma sarà in tutto e per tutto critica affermante, conservante [erhaltend], affermativa, cioè una critica che un soggetto esercita attivamente; soggetto che in questo modo si costituisce e trasforma. È critica ad una forma del potere nella quale si forgia un’altra forma del potere[17].

Queste descrizioni non fanno di Foucault un pensatore acritico e affermativo[18]. Tuttavia, lo caratterizzano, sì, come un pensatore critico-affermativo la cui analisi è allo stesso tempo critica e la cui critica è allo stesso tempo superamento, o, detto altrimenti, le cui decostruzioni sono costruzioni. Questa posizione risulterebbe acritica solamente se le “soluzioni” al problema del potere giungessero da qualche parte ma non dal potere stesso. Esse provengono però dalla stessa materia, dallo stesso campo di forza di tutto ciò che esse combattono, sostituiscono, superano. Il punto di vista teorico sull’immanenza del potere richiede allora il mettere-sé [Sich-Einlassen] pratico nell’immanenza, un restare-immanente della critica, per condurre da lì, dall‘interno, la «prova» del suo possibile superamento. Questo passo, il movimento critico, nasce però da uno spazio interno. È un passo verso fuori (da forme già esistenti) in un aperto [Offenes] (di una nuova forma) che non è totalmente altro ma un poter-essere-altro del sé. Questo passo e questo gesto, sebbene radicali, non sono nessuna invenzione o creazione. Tuttavia, questo è forse sufficiente per determinare gli obiettivi di atti critici che non devono essere radicalmente nuovi, originali, totalmente altro – questo sarebbe in ogni caso terrore però un terrore assolutamente diverso che non può essere completamente accertato. Chi può fare questo è contemporaneamente definito e ridefinibile, rideterminato, ma è anche libero. E ciò non avviene in uno spazio vuoto ma nel bel mezzo della vita, nel bel mezzo del gioco di forze e forme, nel gioco del potere e contro-potere.
 
 
 
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Note al testo
 
[1] Traduzione a cura di Omar del Nonno, da Saar, M. (2017), Die Form der Macht. Immanenz und Kritik, in Rölli, M., Nigro, R., hrsg., Vierzig Jahre „Überwachen und Strafen“. Zur Aktualität der Foucault’schen Machtanalyse, Bielefeld: transcript Verlag, 157-173.
[2] Le citazioni con riferimento alle opere tedesche sono state tradotte dal traduttore [N.d.T.].
[3] Che il potere non si trovi mai nelle mani di persone specifiche viene argomentato da Foucault nel dettaglio nelle prime due lezioni di In difesa della società (Foucault 2001). Dal punto di vista della storia delle idee sono sorprendenti i paralleli con Niklas Luhmann (1969).
[4] Per una descrizione coincisa sul tema della dimensione del sapere vedi Vogelmann (2014).
[5] La parola qui utilizzata è Entlokalisierung ed è formata dall‘unione del prefisso ent– e la parola Lokalisierung. In tedesco il significato di ent– rimanda a qualcosa che è ri-portato ad uno stato precedente rispetto alla parola a cui si aggancia. Qui Saar intende affermare che il luogo che era stato dato al potere viene tolto, cioè il potere non ha più luogo specifico ma è, in questo senso, delocalizzato [N.d.T.].
[6] Vedi Röttegers (1990) per una dettagliata ricostruzione dei legami storico-concettuali e Strecker (2012) per informazioni sullo stato attuale del dibattito che concerne la storia del concetto di potere.
[7]Queste domande si ritrovano anche nel contesto proposto dalla ricezione francese di Spinoza e sono state profondamente influenzate dalla concezione della causalità strutturale proposta da Louis Althusser. Vedi su questo tema Montag (2013, 141-170).
[8] Un’affascinante lettura anti-storica è proposta da Nealon (2008, 24-53).
[9] Cfr. su queste domande da una prospettiva interpretativa anche Richter (2005, 108-117), Saar (2007, 206-213) e Allen (2008, 22-44).
[10]Il qui presente discorso sull’“interno” può essere facilmente frainteso. Interno non dev’essere assolutamente interpretato qui o in passi successivi come un’“interiorità” da intendere in senso psicologico ma solamente come ciò che è all’interno di un rapporto costitutivo. Ringrazio Anne Sauvagnargues e Marc Rölli, i quali importanti lavori sull’immanenza in Deleuze rendono valida questa terminologia propria della mia interpretazione, e alcuni dei partecipanti alla giornata di studi viennese su Sorvegliare e punire per la loro insistenza su questo punto.
[11] La parola qui usata da Saar è Widerständigkeit composta dall’aggettivizzazione della parola Widerstand e l’aggiunta del suffisso –keit che serve a formare concetti astratti. Ciò che vuole esprimere Saar qui è un idea astratta di resistere che non è espressa né dal termine resistere né da resistenza, poiché entrambe rimandano ad una dimensione concreta e non puramente concettuale [N.d.T.].
[12]In questo senso si potrebbe chiamare il progetto critico-politico di Foucault etica della liberazione ma non del emancipazione. Su lo scetticismo di Foucault riguardo questo concetto cfr. Foucault (2005b, 880; 1979, 190).
[13]Sul concetto di critica di Foucault vedi le interpretazioni alternative di Honneth (1989) e Butler (2002) oltreché il lavoro esemplare per la scoperta di nuove prospettive di Bernardy (2014).
[14] Cfr. qui il più dettagliato Saar (2009).
[15] Cfr. per lo stato di questo dibattito Celikates (2009) e Stahl (2013).
[16] Nulla in questa descrizione mi sembra supportare la critica presentata in precedenza con verve a questa critica che «le sue norme in nessun modo sono soggette a trasformazioni» o che la critici immanenti sapevano «già la risposta» (Avanessian 2014, 31). Potrebbe però essere giustamente che ci sia in questa concezione una interna relazione tra critica e legittimazione che abbia un prezzo metodico per una teoria critica così costruita (cfr. Avanessian 2014, 33).
[17] Un immagine del genere di una critica che non denuncia si rispecchia nella lettura di Nietzsche di Gilles Deleuze (1991). Cfr. qui Thiele (2008).
[18] Contro questa opinione vedi Rehmann (2004).
 
 
 

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