La scoperta del plusvalore relativo


Maria Turchetto

Università Ca’ Foscari
turco@unive.it

 
 
 
Abstract: We analyze the Chapter 10 of Capital’s Volume I «The Concept of Relative Surplus-value» highlighting come important concepts: 1) the industrial and mass character of production as consequences of the relative surplus-value; 2) extra-profits and dissemination of innovations; 3) the combined operation of absolute and relative surplus-value.
 
Keywords: Marx; Capital chapter 10; relative surplus-value; industry; mass production
 
 
 

«il capitalismo non produce calze per regine».
(Schumpeter 1971)

 
 
 
1. Tra la terza e la quarta sezione
 
Il cap. 10 del Libro I del Capitale definisce il concetto di «plusvalore relativo», ponendosi tra la terza sezione, dedicata a La produzione del plusvalore assoluto (capp. 5-9) e la quarta sezione, dedicata appunto a La produzione del plusvalore relativo (capp. 10-13). Queste sezioni rappresentano il cuore del Libro I, il nucleo essenziale della rivoluzione scientifica prodotta da Marx.

La terza sezione ci ha condotti «nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto No admittance except on business» (Marx 1975, 212), dove finalmente si svela l’arcano della produzione di plusvalore, rimasto inaccessibile all’analisi degli economisti classici. Com’è noto, la distinzione cruciale introdotta da Marx è quella tra forza-lavoro, oggetto di acquisto nella sfera della circolazione al suo valore di scambio, e lavoro, ossia uso della forza-lavoro nel «processo di produzione immediato». Il processo di produzione immediato, indagato cioè «allo stato puro […] facendo astrazione da tutti i fenomeni che nascondono il giuoco interno del suo meccanismo» e in particolare dal «movimento mediatore della circolazione» (Marx 1975, 694), oggetto dell’intero Libro I (cfr. Marx 1975, 7), rappresenta, come scrive Louis Althusser (2006, 21), l’«enorme svista» degli economisti classici, la zona d’ombra che impedisce loro di riconoscere lo sfruttamento capitalistico. Non si tratta, ovviamente, come Althusser (2006, 21) sottolinea con grande efficacia, di non cogliere un dato, qualcosa che «tuttavia era sotto gli occhi, […] a portata di mano». Si tratta di un più delicato problema di costruzione dell’oggetto scientifico o del campo di indagine. Per gli economisti classici il processo di produzione è meramente tecnico, storicamente e socialmente indifferente[1], mentre per Marx ciò che conta sono le peculiarità che esso mostra «nel suo svolgersi come processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista» (Marx 1975, 224), analizzando le quali è possibile individuare l’appropriazione di plusvalore come lavoro altrui non pagato, in prima istanza come plusvalore assoluto, ossia come semplice prolungamento della giornata lavorativa oltre al tempo di lavoro necessario a riprodurre il valore della forza-lavoro (assumendo come date l’intensità e la forza produttiva del lavoro) .

Se la terza sezione e il concetto di «plusvalore assoluto» rappresentano una solida acquisizione per tutto il marxismo successivo a Marx – si tratta del resto dell’esplicitazione dello sfruttamento e dell’insanabile conflitto che oppone classe capitalistica e classe operaia – non si può dire altrettanto per la quarta sezione introdotta dal cap. 10, che pure ha un ruolo essenziale nell’inquadrare la specificità del capitalismo come produzione di massa di tipo industriale. La riscoperta di questi capitoli del Libro I è tarda, databile agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso[2]. La voce più autorevole è forse quella di Harry Braverman, che analizza taylorismo e fordismo con gli strumenti tratti dai capitoli marxiani su cooperazione, divisione del lavoro e grande industria, aprendo una nuova stagione di studi dell’organizzazione capitalistica del lavoro[3]. Il marxismo precedente – specie quello ortodosso delle accademie sovietiche – sembra invece riproporre l’«enorme svista» degli economisti classici, trattando la produzione in termini meramente tecnici: socialismo «in costruzione» e capitalismo «maturo» venivano infatti contrapposti sul piano della circolazione (la pianificazione contro l’anarchia del mercato) e della distribuzione (la «proprietà di tutto il popolo» e l’equità dei redditi contro la proprietà privata e l’ingiusta ricchezza di pochi), mentre sul piano della tecnica e dell’organizzazione del lavoro il capitalismo veniva emulato («taylorismo ed elettrificazione» fu lo slogan della NEP)[4].

C’è stata dunque, al volgere del secolo scorso, una certa messe di studi sull’organizzazione capitalistica del lavoro ispirati alla quarta sezione del Libro I del Capitale e soprattutto ai capp. 11-13: studi molto interessanti, pur con alcuni limiti (come a suo tempo ho sostenuto, un certo “automobilocentrismo”, ossia un’attenzione forse eccessiva alle novità introdotte nel vecchio settore trainante della meccanica leggera e, per contro, una scarsa capacità critica nel valutare le promesse millantate dalle nuove tecnologie basate sull’informatica e sull’elettronica)[5]. Dati questi limiti, non sarà forse inutile focalizzare l’attenzione proprio sul cap. 10, che dei capitoli successivi – davvero splendidi – costituisce la premessa teorica.
 
 
2. Processo senza soggetto
 
Ci troviamo sempre nel «segreto laboratorio della produzione», ossia nell’ambito dell’analisi del processo di produzione immediato, come Marx ci avverte all’inizio del capitolo, in un passaggio che occorrerà subito commentare:
 

Ora non abbiamo da considerare come e perché le leggi immanenti della produzione capitalistica si presentino nel movimento esterno dei capitali, come e perché si facciano valere come leggi coercitive della concorrenza e quindi giungano alla coscienza del capitalista individuale come motivi direttivi del suo operare: ma fin da principio è evidente che una analisi scientifica della concorrenza è possibile soltanto quando si sia capita la natura intima del capitale, proprio come il moto apparente dei corpi celesti è intelligibile solo a chi ne conosca il movimento reale, ma non percepibile coi sensi. (Marx 1975, 386)

Il passo citato merita una breve parentesi. Esso contiene, in primo luogo, una chiara similitudine – la comparazione della conoscenza della «natura intima del capitale», ossia del processo di produzione immediato, alla conoscenza del moto reale dei corpi celesti – che allude al carattere non empiristico dell’analisi condotta: i rapporti di scambio rappresentano ciò che del capitalismo è evidente, il suo “moto apparente” appunto, mentre i rapporti di produzione risultano da quella peculiare costruzione dell’oggetto di indagine di cui abbiamo fatto cenno nel precedente paragrafo[6].

Notiamo, in secondo luogo, che i rapporti di scambio, oltre a costituire l’oggetto privilegiato dell’analisi degli economisti classici, sono anche indicati da Marx come il «motivo direttivo» del capitalista individuale, il parametro che ne orienta l’azione. Più precisamente, lo è il saggio di profitto (p/c+v) e non il saggio di sfruttamento (p/v) che regge l’indagine condotta da Marx nei capitoli dedicati al plusvalore (assoluto e relativo). Potremmo anche dire che il parametro dell’agire del capitalista è D-D’, ossia il confronto costi-ricavi: è su questo valore, che indica la «bontà dell’investimento», che si gioca la concorrenza tra capitalisti, non già su una stima dell’«efficacia dello sfruttamento». Il perseguimento del saggio di profitto ha tuttavia l’effetto di aumentare lo sfruttamento, rendendo il conflitto di classe sempre più profondo. In questo senso, il processo di produzione immediato funziona come un «processo senza soggetto», per usare la terminologia di Althusser (cfr. Althusser et al. 2006, 236 ss.), o come una smithiana «mano invisibile», ossia come un processo che ottiene un risultato da comportamenti individuali non direttamente finalizzati ad esso: nel caso di Marx, il risultato non è ovviamente il virtuoso “ordine” dell’equilibrio dei prezzi uguali ai costi di produzione – quell’equilibrio “stazionario” o “flusso circolare” che, come dirà Schumpeter, non può dar conto di un sistema dinamico come il capitalismo (cfr. Schumpeter (1971, 7)[7] –, bensì l’iniquo “disordine” di un conflitto di classe insanabile e sempre più profondamente radicato.
 
 
3. Produzione industriale
 
La “capacità di vedere” – di contro all’“enorme svista” degli economisti classici, per continuare con questa efficace metafora – che Marx ottiene sostituendo all’opaca “produzione in generale” il nuovo oggetto concettualmente costruito – è notevolissima: nuovi potentissimi occhiali. Per i classici la produzione di tipo artigianale e quella di tipo industriale sono, più o meno, la stessa cosa (certo, per Smith si tratta di diversi gradi di sviluppo del principio della divisione del lavoro, ma collocati sulla medesima linea senza cesure di un progresso continuo, dal primitivo cacciatore di castori alla moderna fabbrica di spilli), al punto che la stessa teoria del valore-lavoro viene formulata in base al modello della “società mercantile semplice” e proprio perciò… non funziona. Marx, al contrario, può mostrare in modo chiaro perché la produzione di tipo capitalistico è produzione di massa e produzione industriale: caratteristiche inedite[8], che derivano appunto dallo sviluppo dei metodi del plusvalore relativo e che distruggono la produzione artigianale.
Ma procediamo con ordine, partendo dalla definizione di plusvalore relativo enunciata nel cap. 10:
 

Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall’ accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa. (Marx 1975, 385)

Come si vede, il ragionamento pone al centro il saggio di sfruttamento p/v – ossia il «rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa» – che aumenta al crescere del numeratore (plusvalore assoluto) e al diminuire del denominatore (plusvalore relativo). Quest’ultimo effetto deriva dall’ «aumento della forza produttiva […] in quei rami dell’industria i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro, cioè appartengono alla sfera dei mezzi di sussistenza abituali, oppure li possono sostituire» (Marx 1975, 385). Deriva inoltre dall’aumento della produttività nei settori che producono mezzi di produzione per la realizzazione di mezzi di sussistenza (cfr. Marx 1975, 385). Il plusvalore relativo gioca dunque su due fronti: l’aumento della produttività del lavoro e lo sviluppo di determinati settori, poiché «nelle branche della produzione che non forniscono né mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di produzione per la preparazione di questi, l’aumento della forza produttiva lascia intatto il valore della forza-lavoro» (Marx 1975, 385).

All’aumento della produttività del lavoro sono dedicati i successivi capitoli della quarta sezione, che analizzano rispettivamente la cooperazione (cap. 11), la divisione del lavoro manifatturiera (cap. 12) e la grande industria meccanizzata o macchinofattura (cap. 13), intese sia come principi – conseguenti ma diversi e distinguibili – dell’organizzazione del lavoro finalizzata alla produzione di plusvalore, sia come momenti storici e successivi di un processo che conduce alla progressiva e irreversibile scomparsa delle modalità di produzione artigianali, per le economie di scala realizzate (fin dalla cooperazione) e per quella «espropriazione soggettiva dei produttori» (Marx 1975, 441)[9] provocata dalla «contrapposizione delle potenze intellettuali del processo di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina», contrapposizione che
 

Comincia nella cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella manifattura, che mutila l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale. (Marx 1975, 442)

Come ho già detto, i capitoli dedicati a cooperazione, divisione del lavoro e grande industria sono stati oggetto di una significativa “riscoperta” negli anni ’70 del secolo scorso, a partire dall’importante lavoro di Braverman che ritrova gli stessi principi o momenti enunciati da Marx nella nuova “rivoluzione industriale” rappresentata dall’organizzazione taylorista e fordista delle produzioni della meccanica leggera. In particolare, la vicenda della cosiddetta “seconda rivoluzione industriale” ripropone quanto Marx aveva osservato a proposito della prima: «Nella manifattura la rivoluzione del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro; nella grande industria, il mezzo di lavoro» (Marx 1975, 454).

Così, l’«organizzazione scientifica del lavoro» di Taylor non introduce nuove macchine operatrici, ma una più spinta divisione del lavoro e un’ossessiva prescrizione dello svolgimento di mansioni ridotte a movimenti elementari a tecnologia data[10]. Ma è proprio questo studio analitico che consente di concepire «macchine» in senso proprio[11] che sostituiscono lo «strumento». Proprio come il telaio meccanico di Wyatt sostituisce il telaio manuale con «una macchina per filare senza dita» (Marx 1975, 454), allo stesso modo la tornitrice introdotta da Ford sostituisce il vecchio tornio, la cui operatività era stata ridotta da Taylor a 42 parametri semplici da imporre tassativamente agli operai addetti come one best way (Braverman 1978, 88 ss.). Ed è l’introduzione di simili «macchine utensili o macchine operatrici vere e proprie» (Marx 1975, 455) che consente di realizzare poi un «sistema di macchine», cioè un «agglomerato di macchine operatrici operanti insieme contemporaneamente in un solo luogo» (Marx 1975, 463), come la catena di montaggio fordista. Macchine operatrici e sistema di macchine realizzano inoltre quella che Braverman (1978, 136 ss.) definisce l’«assuefazione del lavoratore al modo capitalistico di produzione», inutilmente perseguita dalla psicologia industriale e ottenuta invece dalla catena di montaggio, dai modi e dai ritmi oggettivamente imposti dalle macchine, ormai percepiti come necessità tecniche e non come comandi soggettivi. Proprio come avvenne nell’industria tessile teatro della prima rivoluzione industriale, come esplicitamente afferma Andrew Ure, citato da Marx:
 

La difficoltà principale nella fabbrica automatica […] consisteva nella disciplina necessaria a far rinunciare gli uomini alle loro abitudini irregolari di lavoro e a identificarli con la regolarità immutabile del grande automa. Ma inventare e applicare con successo un codice disciplinare rispondente alle esigenze e alla velocità del sistema automatico costituiva un’impresa degna di Ercole; e questa è stata la nobile opera di Arkwright! (Ure 1835; cit. in Marx 1975, 519)[12]

Non mi dilungo oltre sui capp. 11, 12 e 13 della quarta sezione, perché su di essi si è ormai formata una vasta letteratura di commento. Ciò che mi premeva sottolineare è l’enorme portata euristica del concetto di «plusvalore relativo», che permette a Marx di interpretare e spiegare il fenomeno dell’industrialismo in modo affatto originale e tutt’ora insuperato.
 
 
4. Produzione di massa
 
Vorrei soffermarmi invece su un aspetto, forse più trascurato, dell’analisi che Marx conduce a partire dal concetto di «plusvalore relativo» e che dà conto di un carattere altrettanto peculiare del modo di produzione capitalistico: il suo essere produzione di massa, in senso quantitativo (cioè produzione di grandi quantità di beni) e qualitativo (cioè produzione per il consumo di massa). Il significato quantitativo dell’espressione rinvia principalmente alle economie di scala che, come abbiamo detto, vengono realizzate già con la semplice cooperazione per assumere proporzioni enormi con la grande industria. Il significato qualitativo rinvia invece a quanto Marx precisa all’inizio del cap. 10, e cioè che l’aumento della forza produttiva del lavoro è efficace se investe «quei rami d’industria i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro, cioè appartengono alla sfera dei mezzi di sussistenza» e in quelli che forniscono mezzi di produzione per tali settori, mentre «nelle branche della produzione che non forniscono né mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di produzione per la preparazione di questi, l’aumento della forza produttiva lascia intatto il valore della forza-lavoro» (Marx 1975, 385). Per fare un esempio, la produzione a cantiere di automobili di lusso per l’élite dei ricchi sportivi di fine Ottocento non rientrava in questi settori chiave, ma vi rientrerà a pieno titolo la produzione a catena di utilitarie vendute a rate nel Novecento.

Ciò significa, evidentemente, che i beni-salario non rappresentano un pacchetto – un «paniere», direbbe l’ISTAT – dato, né tantomeno rappresentano i beni necessari a una mera sopravvivenza fisiologica come li intendeva Malthus. Marx ha del resto chiarito questo punto fin dal cap. 4, trattando del valore della forza-lavoro:
 

[…] il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch’esso un prodotto della storia, dipende quindi in gran parte dal grado di incivilimento di un paese e, fra l’altro, anche […] dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori. Dunque la determinazione del valore della forza-lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e morale. (Marx 1975, 206-207)

Occorre aggiungere che tale «elemento storico» va inteso nel senso forte in cui Marx ridefinisce la storia come storia di modi di produzione in cui la produzione svolge il ruolo di «determinazione in ultima istanza»[13]. Come Marx scrive nell’Introduzione del 1857:
 

[…] non è soltanto l’oggetto che la produzione crea al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish […]. Innanzitutto, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. La fame è la fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda aiutandosi con mani, unghie, denti. La produzione non produce perciò solo l’oggetto del consumo, ma anche il modo di consumo, essa produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore […]. La produzione produce quindi il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. (Marx 1984, 180)

Questa citazione dovrebbe far riflettere gli economisti che ancora invocano la «sovranità del consumatore» o i castigatori del «consumismo» inteso come vorace attitudine dei singoli: «la produzione crea il consumatore», il modo di produzione capitalistico crea – ancora una volta, perseguendo il plusvalore relativo – il consumo di massa, fenomeno inedito quanto l’industrialismo.
 
 
5. Il ciclo economico
 
C’è un ultimo punto del cap. 10 che vale la pena di trattare, perché apre problematiche su cui si è lungamente discusso in ambito marxista: le questioni della caduta del saggio di profitto e del ciclo economico.

L’introduzione di tecniche che aumentano la forza produttiva del lavoro produce inizialmente un extraprofitto – più precisamente, per usare le parole che Marx impiega in questo capitolo (e ricordando che il suo ragionamento si svolge in termini di saggio di sfruttamento e non in termini di saggio di profitto), un «plusvalore straordinario»:
 

[…] il capitalista che applica il modo di produzione perfezionato, si appropria per il pluslavoro una parte della giornata lavorativa maggiore di quella appropriatasi dagli altri capitalisti nella stessa industria […]. Ma d’altra parte quel plusvalore straordinario scompare appena il nuovo modo di produzione si generalizza e con ciò scompare la differenza fra il valore individuale delle merci prodotte più a buon mercato e il loro valore sociale. Quella stessa legge della determinazione del valore mediante il tempo di lavoro, che si fa sensibile al capitalista possessore del nuovo metodo nella forma del poter vendere la propria merce al di sotto del suo valore sociale, costringe i suoi concorrenti, nella forma di legge coercitiva della concorrenza, a introdurre il nuovo metodo di produzione. Dunque, il saggio generale del plusvalore è intaccato da tutto questo processo soltanto quando l’aumento della forza produttiva del lavoro si è impadronito di tutto il ramo della produzione. (Marx 1975, 389-390)

C’è una fortissima analogia tra questo passo e l’analisi condotta da Schumpeter (del resto grande lettore di Marx, anche se a volte restìo nel citarlo) sul ciclo economico determinato dall’innovazione. Secondo Schumpeter, l’imprenditore-innovatore realizza un extraprofitto[14] con un risparmio sui costi rispetto ai ricavi realizzati sulla base dei «prezzi che si erano stabiliti come prezzi di equilibrio», ma poi segue «il secondo atto del dramma. L’incantesimo è stato rotto e sotto l’impulso dell’allettante guadagno sempre nuove aziende introducono l’innovazione». Ciò porterà alla produzione di quantità sempre maggiori di prodotti basati sull’innovazione introdotta e i prezzi cadranno per l’aumento dell’offerta. Il sistema si assesta quindi su nuovi prezzi di equilibrio e «in conseguenza di ciò il surplus del nostro innovatore e dei suoi primi imitatori scompare» (Schumpeter 1971, 173)[15].

Com’è noto, l’intento principale di Schumpeter nella Teoria dello sviluppo economico è quello di dar conto dello sviluppo industriale attraverso cicli economici, ossia «mutamenti spontanei e discontinui nell’orbita del flusso circolare [che] si verificano nella sfera della vita industriale e commerciale, ma non nella sfera dei bisogni dei consumatori» (Schumpeter 1971, 74) e che rappresentano un carattere saliente del capitalismo[16]. Il ciclo è una rottura dell’equilibrio (o «flusso circolare»), cioè di una situazione in cui i prezzi corrispondono ai costi di produzione e dunque non si realizza profitto, innescata dall’ innovazione («nuova combinazione» dei fattori produttivi) (Schumpeter 1971, 75-76) che determina una crescita della produzione trainata dagli extraprofitti; questa si arresta con la diffusione della innovazione stessa, determinando un nuovo equilibrio che sarà successivamente forzato da una nuova innovazione.

Ciò che mi chiedo, è se l’analoga[17] dinamica che Marx sembra prospettare nel passo del cap. 10 sopra citato – formazione di un «plusvalore straordinario» in seguito all’applicazione di un «modo di produzione perfezionato» e suo venir meno con la generalizzazione di tale nuovo metodo – possa essere utilmente interpretata come spiegazione dei cicli economici.

Per dare una risposta, rimanendo nell’ambito del Libro I del Capitale, occorre a mio avviso interrogare il cap. 23 dedicato a La legge generale dell’accumulazione capitalistica, importante peraltro come vedremo anche per approfondire ulteriormente la questione del rapporto tra plusvalore assoluto e plusvalore relativo. Il cuore di questo capitolo è rappresentato dalla critica alla cosiddetta «legge bronzea dei salari» degli economisti classici, in particolare alla sua formulazione malthusiana. Marx sostiene che il salario tende in effetti a mantenersi al livello della sussistenza (da intendersi tuttavia in senso storico, come abbiamo visto), ma non per un andamento demografico naturale[18] (il malthusiano aumento “geometrico” della popolazione a fronte dell’aumento “aritmetico” delle risorse), bensì per il «ciclo vitale caratteristico dell’industria moderna [che ha] la forma di un ciclo di periodi di vivacità media, produzione con pressione massima, crisi e stagnazione» (Marx 1975, 799), dunque non a causa di una sovrappopolazione assoluta ma a causa di una sovrappopolazione relativa all’andamento dell’accumulazione.
 

L’espansione improvvisa […] della scala di produzione è il presupposto di una sua improvvisa contrazione; quest’ultima provoca di nuovo la prima, ma la prima non è possibile senza un materiale umano disponibile, senza un aumento degli operai indipendente dall’aumento assoluto della popolazione. L’aumento degli operai viene creato mediante un processo semplice che ne ‘libera’ costantemente una parte, in virtù dei metodi che diminuiscono il numero degli operai occupati in rapporto alla produzione aumentata. La forma di tutto il movimento dell’industria moderna nasce dunque dalla costante trasformazione di una parte della popolazione operaia in braccia disoccupate. (Marx 1975, 779-780)

La «costante produzione di una sovrappopolazione operaia relativa è una necessità dell’accumulazione capitalistica» e anzi «una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico» (Marx 1975, 778) che consente un gioco di rilancio tra plusvalore relativo e plusvalore assoluto. La sovrappopolazione operaia si forma in parte per la cosiddetta “disoccupazione tecnologica” determinata dai metodi del plusvalore relativo, in parte nei periodi di rallentamento e stagnazione conseguenti all’abbassamento del saggio di profitto. L’«esercito industriale di riserva» viene riassorbito nei periodi di espansione ed ha inoltre la funzione di ricattare la popolazione occupata, costringendola ad accettare peggiori condizioni di lavoro, salari più bassi e orari più lunghi, ottenendo dunque un aumento del plusvalore assoluto.

L’aumento della produttività del lavoro ottenuta con i metodi del plusvalore relativo non si traduce dunque in una diminuzione del lavoro, ma in una «diminuzione della domanda di operai» che «ingrassa le file della riserva operaia che esercita la sua concorrenza sulla parte occupata della classe operaia, costringendola al lavoro fuori orario e alla sottomissione ai dettami del capitale» (Marx 1975, 783). Non ci illudiamo dunque che il capitalismo ci riservi il destino di «lavorare tutti, lavorare meno» grazie alle magnifiche sorti e progressive della tecnica e dell’automazione. La conclusione del cap. 10, che abbiamo qui commentato, non lascia in effetti molte speranze:
 

Dunque, nella produzione capitalistica, la economia di lavoro mediante lo sviluppo della forza produttiva del lavoro non ha affatto lo scopo di abbreviare la giornata lavorativa. Ha solo lo scopo di abbreviare il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci. Che per l’aumento della forza produttiva del suo lavoro, l’operaio produca in un’ora per es. il decuplo di merci di prima e consumi quindi per ogni pezzo il decimo di tempo di lavoro, non impedisce affatto di farlo lavorare dodici ore come prima […]. Anzi, la sua giornata lavorativa può essere contemporaneamente prolungata […]. Entro i limiti della produzione capitalistica, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ha lo scopo di abbreviare la parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio deve lavorare per se stesso, per prolungare con questo mezzo l’altra parte della giornata lavorativa nella quale l’operaio può lavorare gratuitamente per il capitalista. (Marx 1975, 391-392)

 
 
 
Note
[1] Chiarissima, in questo senso, la critica contenuta nella Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica: Marx rimprovera agli economisti classici di costruire un processo apparentemente lineare dei momenti della produzione, distribuzione, scambio e consumo in cui «la produzione è determinata da leggi di natura universale; la distribuzione dalla contingenza sociale […]; lo scambio si situa tra le due come momento formalmente sociale; e l’atto finale del consumo, che è inteso non solo come termine ma anche come scopo finale, sta propriamente al di fuori dell’economia». In questo modo, la produzione viene «inquadrata in leggi di natura eterne e indipendenti dalla storia» (Marx 1984, 175-176).
[2] Più in generale, a partire dalla seconda metà degli anni ’60 in molti paesi si registra una svolta molto profonda negli studi marxisti, caratterizzata dalla riscoperta del Libro I del Capitale: «l’opera sulla quale Marx va giudicato», scrisse in quegli anni Louis Althusser (1977, 11), che fu uno dei protagonisti di tale riscoperta; ma ricordiamo anche Hans-Georg Backhaus (2016) che sottolineò l’importanza dei primi capitoli del Libro I e la profonda cesura che divide Marx dalle «teorie premonetarie del valore» e Harry Braverman (1978) che riprese la quarta sezione.
[3] «Non esiste nella tradizione marxista un insieme continuativo di studi che trattino del modo capitalistico di produzione così come Marx lo ha affrontato del Libro I del Capitale» (Braverman 1978, 9). Gli studi successivi sull’organizzazione capitalistica del lavoro cui mi riferisco si devono soprattutto alla scuola francese della regolazione e in particolare a Benjamin Coriat (1979 e 1993). Tra gli studi italiani, va ricordato il contributo di Raniero Panzieri (1978) e quello di Paola Manacorda (1976 e 1986).
[4] Su questo limite del marxismo sovietico rimane a mio avviso insuperata la critica di Charles Bettelheim (1974).
[5] Negli anni ’90 ho scritto parecchi articoli sull’argomento; mi limito a suggerire quello che mi sembra forse il più completo e argomentato: Turchetto (1995).
[6] Per un’esposizione da parte dello stesso Marx delle modalità secondo cui si svolge tale costruzione, rinvio nuovamente all’Introduzione del 1857, in particolare al paragrafo intitolato «Il metodo dell’economia politica» (Marx 1984, 188-197), in cui si parla del percorso concettuale dal «concreto reale», all’«astratto», al «concreto di pensiero»: dall’individuazione delle «categorie semplici» (gli elementi comuni ad ogni forma di produzione) alle peculiari relazioni tra di essi che danno conto della loro specificità storica e definiscono i rapporti tra le classi sociali (come pa proprietà dei mezzi di produzione). Fermarsi al primo movimento (dal “concreto reale” all’“astratto”) produce quella “produzione in generale” storicamente e socialmente inerte, quell’oggetto opaco che determina l’“enorme svista” degli economisti classici; compiere il secondo (dall’“astratto” al “concreto di pensiero”) produce quell’oggetto storico-specifico che Marx definisce «modo di produzione capitalistico». Da notare che questo doppio movimento concettuale, semplicemente indicato come compito teorico nell’Introduzione del 1857, è poi seguito da Marx nel cap. 5 del Libro I del Capitale che introduce la trattazione della produzione del plusvalore assoluto (cfr. Marx 1975, 216-225).
[7] Si veda anche la Prefazione all’edizione giapponese (Schumpeter 1971, XLVII-L), in cui Schumpeter confronta l’impostazione, teoricamente grandiosa ma «stazionaria» e «passiva» di Léon Walras con quella di Marx, portatrice di una «visione dell’evoluzione economica come di un processo […] generato dal sistema economico stesso».
[8] Nel Livre sur l’impérialisme (in Althusser 2018, 238 ss.) Althusser sostiene che nelle città italiane del XVI secolo si erano già realizzate forme di «grande industria», con lavoro a catena e parcellizzato: «ebbene, questo capitalismo è morto». Althusser indica una delle cause del non «fare presa» di tali elementi proto-industriali nella «assenza della forma-nazione». L’indicazione è preziosa, e tuttavia è forse anche possibile che tali produzioni da «grande industria» non avessero il fine specifico della produzione di plusvalore, ma rispondessero piuttosto a esigenze di tipo militare (ad esempio, la produzione di navi da guerra a Venezia o di armi da fuoco in Inghilterra), a fronte di «profitti» privati realizzati soprattutto nel commercio sulla base di scambi non equivalenti.
[9] «Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al capitalista perché gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce; ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale vien meno al suo compito quando non venga venduta al capitale; essa funziona ormai soltanto in un nesso che esiste soltanto […] nell’officina del capitalista […]. Le cognizioni, l’intelligenza e la volontà che il contadino o il mastro artigiano indipendente sviluppano, anche se su piccola scala […] ormai sono richieste soltanto per il complesso dell’officina» (Marx 1975, 441-442).
[10] «A Taylor non premeva molto il progresso tecnologico […]. Egli diede un grosso contributo alla conoscenza tecnica dell’andamento di una fabbrica meccanica […], ma si trattò per lo più di sottoprodotti di uno studio inteso a sistematizzarne e classificarne la prassi. Il suo interesse si appuntava sul controllo del lavoro ad ogni determinato livello tecnologico» (Braverman 1978, 110).
[11] «È solo quando all’utensile e/o al pezzo lavorato viene imposto uno schema fisso di movimento […] che comincia a svilupparsi il macchinario nel senso moderno del termine» (Marx 1975, 186).
[12] Adrew Ure è l’autore di The Philosophy of Manufactures (1835) che, secondo Marx, benché «apparso in un’epoca in cui il sistema delle fabbriche era ancora poco sviluppato, rimane l’espressione classica dello spirito della fabbrica […] per il suo schietto cinismo» (Marx, Il capitale, vol. I, 534). Arkwright è l’inventore del filatoio meccanico, brevettato nel 1769.
[13] L’espressione è di Louis Althusser che ne parla ampiamente nel cap. VIII del saggio L’oggetto del capitale (cfr. Althusser et al. 2006, 239-252). Secondo Althusser, a Marx si deve non semplicemente una ridefinizione della storia, ma la fondazione di quest’ultima come «scienza»: il Capitale «apre alla conoscenza scientifica il Continente Storia» allo stesso modo in cui si può dire che Galilei ha aperto alla conoscenza scientifica il Continente Fisica (cfr. Althusser 1977, 11-12).
[14] A differenza di Marx, Schumpeter svolge il ragionamento in termini di profitto, definito come «eccedenza sui costi» (cfr. Schumpeter 1971, 169).
[15] Si veda anche tutto il cap. IV, 169-197.
[16] Schumpeter si dichiara infatti interessato all’analisi di «un sistema economico organizzato sulla base dello scambio, ossia un sistema in cui prevalgono la proprietà privata, la divisione del lavoro e la concorrenza» (Schumpeter 1971, 3).
[17] Con tutte le differenze del caso, in primo luogo il fatto che, come ho più volte sottolineato, l’analisi di Marx è retta dal concetto di «plusvalore» mentre quella di Schumpeter dal concetto di «profitto».
[18] «[…] ogni modo di produzione storico particolare ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente valide. Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia» (Marx 1975, 778).
 
 
 
Bibliografia
 
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Althusser, L. et al. (2006) [1965], Leggere il “Capitale”, Turchetto, M. (a cura di), Milano: Mimesis.
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Marx, K. (1984) [1857], «Introduzione» a Per la critica dell’economia politica, Roma: Editori Riuniti.
Panzieri, R. (1978), Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in «Quaderni rossi», 1: 53-72; disponibile e scaricabile all’indirizzo: https://storiainretesite.files.wordpress.com/2017/07/r-panzieri-sulluso-capitalistico-delle-macchine-nel-neocapitalismo.pdf.
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Turchetto, M. (1995), Flessibilità, organizzazione, divisione del lavoro, in «Alternative», 1: 65-73.
 
 
 

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