Le note del Capitale su Lucrezio e Darwin.

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Vittorio Morfino

Università degli Studi di Milano Bicocca
vittorio.morfino@unimib.it

 
Abstract: The article takes into consideration the notes of the Capital in which Lucretius and Darwin are quoted. The author, carefully reconstructing the theoretical context in which the Latin poet and the English naturalist are mentioned, proposes an interpretation, which goes from the certain to the conjectural, of the Marxian strategy that commands these notes.
 
Keywords: Lucretius; Darwin; Spinoza; mechanicism; organicism
 
 
 
Proporrò nel breve spazio di questo articolo un’analisi del riferimento marxiano a Lucrezio e Darwin nel primo volume del Capitale. Si tratta di riferimenti molto brevi, unico nel caso di Lucrezio, duplice nel caso di Darwin. Non solo: si tratta di riferimenti marginali se è vero che sia il primo che i secondi si trovano relegati in nota. Certo, se si volesse estendere il campo ad una ricerca delle occorrenze dei due nomi propri o dei concetti dei due autori all’intera produzione teorica di Marx, si troverebbe un materiale più ampio da analizzare: a Lucrezio Marx ha dedicato un quaderno in gioventù (cfr. Marx 1976, 9-141; trad. it. 425-572)[1] e una manciata di riferimenti disseminati tra opere pubblicate, articoli di giornale e manoscritti inediti[2]; a Darwin un importante scambio di lettere con Engels oltre che numerosi altri riferimenti[3]. Non percorrerò tuttavia questa strada. Mi limiterò invece a tentare di rispondere ad una domanda la cui forma retorica dobbiamo ad Alain Badiou: di che cosa questi autori, nel Capitale, sono il nome? In altre parole, a quale strategia teorica, se ve n’è una, le note di Marx corrispondono?
 
 
1. La nota su Lucrezio del capitolo 7
 
Lucrezio viene citato da Marx in una nota aggiunta nella seconda edizione del Capitale nel 1872 nel capitolo 7 sul Saggio del Plusvalore. Vediamo brevemente il contesto in cui è evocato il grande poeta latino. Siamo nel primo paragrafo, Il grado di sfruttamento della forza-lavoro, che culmina con la formulazione del saggio di plusvalore nei termini seguenti:
 
p [plusvalore]/v [capitale variabile] = pluslavoro/lavoro necessario
 
Marx precisa che i due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento.

Naturalmente, per non cadere nell’errore di cui Senior costituirà il paradigma nel terzo paragrafo, è necessario porre il capitale costante uguale a zero: il plusvalore infatti è la conseguenza del cambiamento di valore che avviene nel capitale variabile, ma questo cambiamento viene oscurato dalla formula (c [capitale costante] + v [capitale variabile]) + p [plusvalore], ragione per la quale è necessario, per formulare il saggio di plusvalore, astrarre la parte del valore del prodotto in cui riappare il valore del capitale costante. Scrive Marx:
 

A prima vista, l’equazione capitale costante = zero riesce sconcertante. Eppure la si compie costantemente nella vita quotidiana. Se p. es. qualcuno vuol calcolare il guadagno dell’Inghilterra nell’industria cotoniera, per prima cosa sottrae il prezzo del cotone pagato agli Stati Uniti, all’India, all’Egitto, ecc. cioè pone eguale a zero il valore capitale che non fa che ripresentarsi nel valore del prodotto. Certamente il rapporto del plusvalore non solo con la parte del capitale dalla quale sgorga direttamente e della quale rappresenta il cambiamento di valore (Wertverändrung), ma anche con il capitale complessivo anticipato, ha la sua grande importanza economica. […] per valorizzare una parte del capitale mediante la sua conversione (Umsatz) in forza-lavoro, un’altra parte del capitale deve essere trasformata (verwandelt werden) in mezzi di lavoro. Affinché il capitale variabile funzioni, deve essere anticipato capitale costante, in proporzioni corrispondenti, a seconda del carattere tecnico determinato del processo lavorativo. Tuttavia la circostanza che per un processo chimico s’adoperino alambicchi ed altri recipienti non impedisce che, nell’analisi, si faccia astrazione dall’alambicco stesso. In quanto la creazione di valore e il cambiamento di valore (Wertschöpfung und Wertverändrung) vengono considerati per se stessi, cioè, allo stato puro, i mezzi di produzione, queste figure materiali del capitale costante, forniscono solo il materiale per fissare la forza fluida che forma (flüssige, wertbildende Kraft) il valore. E quindi anche la natura di questo materiale è indifferente, cotone o ferro che sia. Anche il valore di questo materiale è indifferente. L’unica cosa che deve fare è d’essere a disposizione in una massa sufficiente per poter assorbire la quantità di lavoro da spendersi durante il processo di produzione. Data questa massa, il suo valore può salire o diminuire, oppure può essere senza valore, come il mare o la terra: il processo della creazione di valore e del cambiamento di valore (Der Prozeß der Werthschöpfung und Werthverändrung) non ne viene intaccato. (Marx 1962, 229; trad. it. 248; cfr. anche Marx 1983, 161)

Al termine di questo passaggio, nella seconda edizione pubblicata nel 1872, Marx aggiunge la nota seguente:
 

è evidente che ‘nihil creari posse de nihilo’, come dice Lucrezio. Dal nulla non viene nulla. ‘Creazione di valore’ è conversione (Umsatz) di forza-lavoro in lavoro. Da parte sua la forza-lavoro è soprattutto materiale naturale (Naturstoff) convertito (umgesetzer) in organismo umano (menschlichen Organismus). (Marx 1962, 229; cfr. anche Marx 1987, 224, Apparat, 1184-1185).

In primo luogo, va detto che, pur figurando a fine paragrafo, la nota serve ad elucidare una sola espressione: «creazione di valore». Marx vuole sciogliere ogni ambiguità nell’uso dell’espressione, a questo serve la citazione da Lucrezio. Si tratta della citazione di un verso il cui modello si trova nell’Epistola a Erodoto di Epicuro (cfr. Epicuro, ep. Herod. 38), ma allo stesso tempo di un riferimento più ampio ad un gruppo di versi che segue immediatamente l’elogio di Epicuro che per primo osò sfidare con la sua filosofia la religione che opprimeva «la vita umana [… con] grave peso» (De rer. nat. I, v. 63). Alla base della filosofia epicurea vi sono «gli elementi primordiali delle cose, / da cui la natura crea tutti i corpi [omnis natura crees], / li accresce e li nutre, / e nei quali torna a dissolverli una volta distrutti» (De rer. nat. I, vv. 55-57). Con essa si possono scacciare le tenebre della religione (che Lucrezio esemplifica attraverso il sacrificio di Ifigenia):
 

Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell’animo,
occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti del giorno
disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza.
Il suo fondamento per noi di qui assumerà il proprio inizio:
che mai nulla nasce dal nulla per cenno divino (nullam rem e nihilo gigni divinitus umquam).
Così lo sgomento possiede tutti i mortali,
perché scorgono in terra e in cielo accadere fenomeni
dei cui effetti non possono in alcun modo vedere le cause,
e assegnano il loro prodursi al volere divino.
E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla (nihil posse creari de nihilo),
allora già più agevolmente di qui noi potremo scoprire
l’oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza,
e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi.
Se infatti nascesse dal nulla [si de nihilo fierent), da tutte le cose potrebbe prodursi
ogni specie e più nulla avrebbe bisogno di un seme. (De rer. nat. I, vv. 146-158)

Il principio in Lucrezio, a differenza che nel modello epicureo, è giocato con forza in funzione antireligiosa: è il principio fondamentale della ragione, la cui forza è in grado di disperdere le tenebre dell’ignoranza da cui nasce la religione. Questo principio si fonda sul fatto che tutto nella natura ha una sua origine determinata, un suo ritmo, delle regolarità: la specificità dei semi da cui nascono esseri determinati, i tempi determinati in cui la nascita e la crescita di questi esseri è possibile:
 

Ché se [le cose] fossero nate dal nulla (si de nihilo fierent), d’un tratto uscirebbero
in spazi promiscui e in estranee stagioni dell’anno;
e a ragione, se non fossero i germi, che hanno potere
di astenersi da unioni feconde quando il clima è nemico.
Allo sviluppo dei corpi non sarebbe necessario del tempo
Perché i semi si uniscano, se potessero crescere dal nulla (si e nihilo crescere possent).
[…] agli esseri destinati a prodursi è assegnata
una certa materia, da cui è fissato che cosa possa nascere […]
Bisogna dunque ammettere che nulla può prodursi dal nulla (nihil igitur fieri de nihilo),
poiché le cose necessitano di un seme dal quale ognuna,
una volta generata, possa espandersi nei dolci aliti dell’aria. (De rer. nat. I, vv. 180-207)

L’argomento di Lucrezio è funzionale alla dimostrazione dell’esistenza di elementi primordiali dalla cui combinazione si generano tutti gli esseri naturali, combinazione determinata, certa, in cui risiede il confine tra il possibile e l’impossibile.

La citazione lucreziana gioca in Marx il ruolo di una potente parola d’ordine razionalista e materialista, parola d’ordine richiamata poco meno di un secolo prima nel luogo inaugurale del Pantheismusstreit, all’interno del celebre dialogo Lessing-Jacobi, che quest’ultimo riportò nelle Lettere sulla dottrina di Spinoza a Moses Mendlssohn. Vediamone il passaggio decisivo:
 

[Lessing:] Son venuto a parlare con Lei del mio ‘hen kai pan’. Ieri Lei si spaventò. – Io [Jacobi]: – Lei mi sorprese e io probabilmente diventai rosso e pallido poiché sentii la mia confusione. Veramente nulla mi sarei aspettato di meno del trovare in Lei un panteista o uno spinozista; e me lo disse così bruscamente. Io ero venuto in gran parte per avere aiuto da Lei contro lo Spinoza. – Lessing: Dunque Lei lo conosce – Io: – Credo così bene come estremamente pochi lo hanno conosciuto – Lessing: – Allora non c’è da aiutarLa. Piuttosto diventi suo amico del tutto. Non c’è nessun’altra filosofia che la filosofia dello Spinoza. – Io: – Può esser vero. Poiché il determinista, se vuol essere conseguente, deve diventare fatalista: il resto poi vien da sé. Lessing: – Vedo che c’intendiamo. Quindi son tanto più curioso di udire da Lei quale ritenda essere lo spirito dello spinozismo; intendo quello che era entrato nello stesso Spinoza. – Io: – Esso non è stato altro che l’antichissimo a nihilo nihil fit. (Jacobi 2000; trad. it. 82-83)

Il principio a nihilo nihil fit è identificato da Lessing con il Geist des Spinozismus, un principio che viene da lontano, antichissimo, che fonda, contro ogni pregiudizio religioso, il principio materialistico di causalità[4].

L’espressione «creazione di valore» non significa dunque creazione dal nulla, ma Umsatz, conversione, trasformazione, passaggio, di forza-lavoro in lavoro. Ma aggiunge Marx, la stessa forza-lavoro «è soprattutto materiale naturale (Naturstoff) convertito (umgesetzer) in organismo umano». Qui Marx sembra alludere ad un orizzonte ontologico lucreziano in cui tutto ciò che esiste, esiste in una permanente conversione, in una permanente composizione/decomposizione, orizzonte ontologico a cui rinvia anche la celebre espressione «Stoffwechsel», che non tradurrei seguendo la lectio tradita di Cantimori come «ricambio organico», ma piuttosto, in senso assai più lucreziano, come «interscambio materiale»:
 

Il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendentemente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare (vermitteln) il ricambio organico (Stoffwechsel) fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini. (Marx 1962, 57; trad. it.. 75)

Ora, questo interscambio materiale tra uomo e natura, questa materia che si converte in organismo da una parte e di forza lavoro che si converte in lavoro oggettivato dall’altra, esclude ogni creazione ex nihilo. E con questo quadro sullo sfondo va pensato tanto la produzione di valore che di plusvalore:
 

Per conoscere il plusvalore, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo (Gerinnung) di tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo (Gerinnung) di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. (Marx 1962, 231; trad. it. 250)

In altre parole, ciò che deve essere fissato attraverso il principio ex nihilo nihil fit è precisamente il legame tra il tempo di pluslavoro e la creazione di plusvalore:
 

All’operaio – scrive Marx – il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza-lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino di una creazione dal nulla (Schöpfung aus Nichts). (Marx 1962, 231; trad. it. 250)

 
2. Le note su Darwin
 
Charles Darwin è citato da Marx in due note tra il capitolo 12 ed il capitolo 13. La prima nota si trova nel secondo paragrafo (L’operaio parziale e i suoi strumenti) del capitolo 12 dedicato a Divisione del lavoro e manifattura. Marx vi mette in luce la duplice origine della manifattura: da una parte combinazione di mestieri differenti ridotti a unilateralità «fino al punto da costituire soltanto operazioni parziali reciprocamente integrantesi del processo di produzione di una sola e medesima merce», dall’altra disgregazione di uno stesso mestiere nelle sue operazioni particolari, rese indipendenti, «fino al punto che ciascuna di esse diviene funzione esclusiva di un operaio particolare» (Marx 1962, 358; trad. it. 381):
 

Quindi – conclude Marx – la manifattura, da una parte introduce e sviluppa ulteriormente la divisione del lavoro in un processo di produzione; dall’altra parte combina mestieri prima separati. Ma qualunque ne sia il punto particolare di partenza, la sua figura conclusiva è sempre la stessa: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini (ein Produktionsmechanismus, dessen Organe Menschen sind). (Marx 1962, 358; trad. it. 381)

L’«operaio complessivo combinato» che è, nelle parole stesse di Marx, il «meccanismo vivente della manifattura (lebendige Mechanismus)», consiste di operai parziali unilaterali che trasformano tutto il proprio corpo nello «strumento» dell’unica operazione che devono compiere. In questo senso, dice Marx, da una parte «la manifattura produce il virtuosismo dell’operaio parziale» (Marx 1962, 359; trad. it. 382), dall’altra il perfezionamento dei suoi strumenti. Leggiamo ora il lungo passo di Marx che si conclude con il riferimento a Darwin:
 

Gli strumenti (Werkzeuge) della stessa specie, come quelli da taglio, da trapanazione, da urto, da percussione, ecc. vengono adoperati in diversi processi di lavoro, e nello stesso processo lavorativo lo stesso strumento serve a differenti operazioni. Però, appena le differenti operazioni d’un processo lavorativo sono slegate l’una dall’altra ed appena ogni operazione parziale raggiunge in mano all’operaio parziale una forma per quanto possibile adeguata, e quindi esclusiva, diventa necessario modificare gli strumenti che prima servivano a scopi differenti. La direzione del cambiamento di forma (die Richtung ihrer Formwechsel) dello strumento risulta dall’esperienza parziale delle particolari difficoltà arrecate dalla forma immutata (die unveränderte Form). La differenziazione degli strumenti di lavoro, per la quale strumenti della stessa specie ricevono forme fisse particolari per ogni uso particolare, e la loro specializzazione, per la quale ciascuno di tali strumenti particolari ha tutta la sua piena efficacia soltanto in mani ad operai parziali specifici, danno alla manifattura il suo carattere. Solo a Birmingham si producono circa cinquecento varietà di martelli, che non soltanto servono ognuna per un processo particolare di produzione, ma spesso un certo numero di varietà serve soltanto per differenti operazioni nello stesso processo. Il periodo della manifattura semplifica, perfeziona e moltiplica gli strumenti di lavoro adattandoli alle funzioni particolari esclusive dei lavoratori parziali. (Marx 1962, 361; trad. it. 382)

Alla fine di questo passaggio troviamo il rinvio in nota a Darwin:
 

Nella sua grande opera che ha fatto epoca, sulla Origine delle specie, Darwin osserva in riferimento agli organi naturali delle piante e degli animali: ‘Finché un medesimo organo deve compiere lavori differenti, possiamo forse trovare un motivo nella sua variabilità nel fatto che la selezione naturale conserva o sopprime ogni minima variazione di forma meno accuratamente di come farebbe se quell’organo fosse destinato ad un solo fine speciale. Allo stesso modo coltelli destinati a tagliare ogni sorta di cose, possono avere, nel complesso, una forma comune; ma strumenti destinati ad un solo uso devono avere una forma differente per ogni uso differente’. (Marx 1962, 361; trad. it. 384)[5]

Nella nota Marx reperisce in Darwin un parallelismo tra organo naturale e strumento tecnico, che ne allude ad un altro tra la selezione in ambito naturale ed in ambito socio-storico. La citazione di questo parallelismo chiude un lungo gioco di rinvii, di sostituzioni, di commistioni tra metafore organicistiche e meccanicistiche: la manifattura come meccanismo di produzione i cui organi sono uomini, come meccanismo vivente che trasforma il corpo dell’operaio in strumento, ed infine lo strumento dell’operaio come organo.

Proprio questo ultimo punto viene ripreso nel paragrafo d’apertura (Sviluppo del macchinario) del capitolo 13, Macchine e grande industria. Anche qui il riferimento a Darwin è in nota. Il contesto è la distinzione tra manifattura e grande industria: nella prima la rivoluzione nel modo di produzione ha come punto di partenza la forza-lavoro, nella seconda il mezzo di lavoro, che viene trasformato da strumento in macchina. «Si tratta – precisa Marx – di grandi tratti caratteristici generali, poiché né le epoche della geologia (Erdgeschichte), né quelle della storia della società possono essere divise da linee divisorie astrattamente rigorose (abstrakt strenge Grenzlinien)» (Marx 1962, 391; trad. it. 413). Darwin entra in gioco a proposito della macchina per filare di John Wyatt:
 

Già prima di lui venivano adoprate, probabilmente in Italia per la prima volta, macchine, sia pure imperfettissime, per la filatura. Una storia critica della tecnologia (eine kritische Geschichte der Technologie) dimostrerebbe, in genere, quanto piccola sia la parte d’un singolo individuo in un’invenzione qualsiasi del secolo XVIII. Finora tale opera non esiste. Il Darwin ha diretto l’interesse sulla storia della tecnologia naturale (Geschichte der natürlichen Technologie), cioè sulla formazione degli organi vegetali e animali come strumenti di produzione per la vita delle piante e degli animali (auf die Bildung der Pflanzen- und Tierorgane als Produktionsinstrumente für das Leben der Pflanzen und Tiere). Non merita eguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell’uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale particolare (die Bildungsgeschichte der produktiven Organe des Gesellschaftsmenschen, der materiellen Basis jeder besondren Gesellschaftorganisation)? E non sarebbe più facile da fare, poiché come dice Vico, la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra? La tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo verso la natura (die Technologie enthüllt das aktive Verhalten des Menschen zur Natur), l’immediato processo di produzione della sua vita, e con esso anche l’immediato processo dei suoi rapporti sociali vitali e delle idee dell’intelletto, che ne scaturiscono (seiner gesellschaftlichen Lebensverhältnisse und in der ihnen entquellenden geistigen Vorstellungen). Neppure una storia delle religioni, in qualsiasi modo eseguita, che faccia astrazione da questa base materiale, è critica. Di fatto è molto più facile trovare mediante l’analisi il nocciolo terreno (irdischen Kern) delle nebulose religiose (religiösen Nebelbildungen) che, viceversa, dedurre dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate (ihre verhimmelten Formen). Quest’ultimo è l’unico metodo materialistico e quindi scientifico. I difetti dell’astratto materialismo delle scienze naturali (des abstrakt naturwissenschftlichen Materialismus), che esclude il processo storico, si vedono già nelle concezioni astratte e ideologiche (abstrakten und ideologischen Vorstellungen) dei loro portavoce non appena si avventurano al di fuori della loro disciplina. (Marx 1962, 392-393; trad. it. 414)

Di nuovo il gioco di rinvii e di sostituzioni tra meccanicismo e organicismo, l’opera di Darwin come modello di una storia critica della tecnologia in quanto autore di una “storia della tecnologia naturale”, gli organi come strumenti e gli strumenti e le macchine come organi.
 
 
3. Conclusioni
 
Qual è il significato di queste brevi note a piè di pagina, di queste gocce di intelligenza, nell’oceano del Capitale? Di che cosa Lucrezio e Darwin sono il nome?

Potremmo rispondere qui seguendo una scala dal certo al congetturale.

È certo che Lucrezio e Darwin rappresentino in Marx una forma radicale di antifinalismo, di affermazione di un principio di causalità libero infine dall’ipoteca millenaria del principio di ragione e dalla retorica vuota della sua domanda fondamentale. Una netta presa di posizione filosofica per la ragione e per la scienza. Entrambi rappresentano una totale immersione dell’umano nel naturale, un radicale rifiuto di ogni forma di antropocentrismo, di ogni causalità per libertà, di ogni radicale separazione di scienze della natura e scienze della storia[6]. Che Lucrezio fosse poi abitato dallo spettro di Spinoza nella citazione di Marx, non è che una congettura; l’importanza dello Spinoza-Debatte per la filosofia tedesca di fine Settecento e la grande cultura filosofica di Marx non la rende tuttavia così improbabile. Ma se così fosse, vedremmo entrare in gioco un terzo paladino dell’antifinalismo così come del rifiuto di ogni antropocentrismo. L’uomo nella natura non è un imperium in imperio. Naturalmente, l’indicazione non è da prendere in un senso riduzionistico dello storico al naturale, ma piuttosto nel senso di un materialismo in cui i livelli di complessità e di storicità sono allo stesso tempo interconnessi e irriducibili – come Marx dice espressamente nella nota, individuando «i difetti dell’astratto materialismo delle scienze naturali, che esclude il processo storico» proprio «nelle concezioni astratte e ideologiche dei loro portavoce non appena si avventurano al di fuori della loro disciplina» (Marx 1962, 393; trad. it. 414).

E questo ci porta alla congettura conclusiva. Come è noto, la tesi epistemologica fondamentale enunciata da Althusser in Dal Capitale alla filosofia di Marx (Althusser 2006) vede Marx nel suo capolavoro alle prese con un problema teorico che tuttavia non aveva saputo porre in termini espliciti, il problema dell’efficacia di una struttura sui suoi elementi, di una causalità strutturale. Si tratta di un problema che, secondo Althusser, Marx si impegna a risolvere «praticamente senza disporre del suo concetto, con una straordinaria ingegnosità, ma senza poter evitare del tutto di ripiombare negli schemi anteriori, necessariamente inadeguati rispetto alla posizione e alla soluzione di questo problema» (Althusser 19962, 403; trad. it. 257). Questi schemi inadeguati sono i due sistemi di concetti che la filosofia moderna aveva prodotto per pensare la causalità: il modello meccanicistico di origine cartesiana ed il modello espressivo di origine leibniziana.

Si potrebbe ipotizzare allora che i nomi propri di Lucrezio (e di Spinoza alle sue spalle) e Darwin, ma anche i concetti attraverso di essi evocati – il concetto di «Umsatz», il parallelo tra organo animale e strumento, il rinvio reciproco di scienze naturali e storico-sociali – figurino come un sintomo allo stesso tempo di una difficoltà e di una ricerca teoriche, del tentativo di pensare un meccanicismo che non rinunci alla totalità e di un organicismo non impigliato nelle maglie di un nuovo potente modello teleologico, quello della finalità interna hegeliana. Che questo rischio fosse non solo effettivo, ma anche difficilmente evitabile, risulta con evidenza da questa lettera di Marx a Lassale del 16 gennaio 1861 sul capolavoro di Darwin:
 

L’opera di Darwin è molto significativa e mi va bene come base (Unterlage) delle scienze naturali alla lotta di classe nella storia. Naturalmente bisogna accettare quella maniera rozzamente inglese di sviluppare le cose. Ma nonostante tutti i difetti, qui non solo viene portato un colpo mortale alla ‘teleologia’ nella scienza della natura, ma viene esposto empiricamente il suo senso razionale. (Marx, Engels 1964, 578; trad. it. 551)

 
 
Note
 
[1] I quaderni dedicati al De rer. nat. sono il 4 e il 5, cfr. Marx (1976, 74-117).
[2] Se la bibliografia dedicata al rapporto tra Marx ed Epicuro è relativamente ampia, non così si può dire del rapporto Marx-Lucrezio. Cfr. per i riferimenti marxiani a Lucrezio Morfino (2012).
[3] Cfr. su questo Morfino (2009) oltre che, imprescindibile, Lecourt (1983).
[4] Nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale Marx cita la polemica all’interno di un passaggio per altri versi celebre: «Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana trent’anni fa, quando era ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale, i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ormai dominano nella Germania colta, si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi di Lessing il bravo Moses Mendelssohn trattava lo Spinoza: come un ‘cane morto’. Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico» (Marx 1962, 27; trad. it. 44-45). Marx qui cita evidentemente a memoria. In realtà non fu Mendelssohn a definire Spinoza un «cane morto». L’espressione si trova nel resoconto che Jacobi fornisce nei Briefe über Spinoza dei suoi colloqui con Lessing, in cui quest’ultimo avrebbe dichiarato: «Io non le do tregua: Ella deve porre in chiaro questo parallelismo [tra Leibniz e Spinoza]. Ma la gente parla di Spinoza come di un cane morto» (Jacobi 2000, 33-34; trad. it. 90). In una lettera a Kugelmann del 27 giugno 1870 troviamo la stessa espressione e lo stesso errore di attribuzione: «Ciò che lo stesso Lange dice sul metodo di Hegel e sulla mia applicazione di esso è veramente puerile. In primo luogo non capisce rien del metodo hegeliano e perciò, in secondo luogo, tanto meno del mio modo critico di applicarlo. In un certo riguardo mi ricorda Moses Mendelssohn. Questo prototipo di vescica gonfiata scrisse cioè a Lessing come mai gli potesse venire in mente di prendere aux sérieux ‘quel cane morto di Spinoza’! Allo stesso modo il signor Lange si meraviglia che Engels, io, ecc. prendiamo aux sérieux quel cane morto di Hegel, quando Büchner, Lange, il dott. Dühring, Fechner, ecc. hanno pur da tempo convenuto di averlo – poor dear – da molto tempo sepolto. Lange è tanto ingenuo da dire che nella materia empirica io ‘mi muovo con la più rara libertà’. Egli non ha la minima idea che questo ‘libero movimento nella materia’ non è assolutamente null’altro che una parafrasi per il metodo di trattare la materia, cioè il metodo dialettico» (Marx ed Engels 1965, 686; trad. it. 739). Così anche, risalendo il tempo a ritroso, in Per la critica dell’economia politica del 1859: «È una caratteristica delle nazioni che abbiano uno sviluppo ‘storico’, nel senso della scuola storica del diritto, di dimenticare costantemente la propria storia. Benché quindi la polemica sul rapporto fra prezzi delle merci e quantità dei mezzi di circolazione abbia occupato continuamente, durante questo mezzo secolo, il parlamento e abbia originato in Inghilterra migliaia di opuscoli, grandi e piccoli, lo Steuart è rimasto un ‘cane morto’ più ancora di quanto lo Spinoza apparisse a Moses Mendelssohn ai tempi del Lessing» (Marx 1974, 142; trad. it. 146-147).
[5] Marx cita Darwin non dall’edizione inglese del 1859 ma dalla traduzione tedesca: Über die Entstehung der Arten, Stuttgart 1863 (cfr. Marx 1987, Apparat, 1391).
[6] In questo senso mi sembrano molto interessanti le riflessioni di Alfred Schmidt: «A partire da Dilthey e dal neo-kantismo tedesco sud-occidentale, è divenuto ormai usuale attribuire alle scienze della natura e a quelle della storia metodi di indagine differenti per principio. Mentre Dilthey distingue fra il metodo della “spiegazione” (Erklären) causale, proprio delle scienze della natura, e il metodo della “comprensione” (Verstehen) intuitiva, proprio delle scienze storiche, Windelband e Rickert dividono la realtà ancora più radicalmente in due campi del tutto separati. La natura viene intesa kantianamente come l’esistenza delle cose sottoposte a leggi. A ciò corrisponde il carattere “nomotetico” delle scienze della natura. La storia consiste in una quantità di fatti individuali, in fondo non collegabili tra loro, ma riferibili a valori, avvicinabili soltanto da un metodo descrittivo, “idiografico”, onde la storia diventa qualcosa che sta al di là di ogni analisi razionale. Per Marx non c’è alcuna differenza metodica fondamentale tra scienza della natura e scienza della storia. […] Il pensiero scientifico non può non riconoscere alcun campo sui generis, che sia assolutamente inaccessibile ad una spiegazione secondo leggi. Il pensiero di Dilthey e di Windelband-Rickert ha le sue radici in astrazioni che, nonostante tutto l’impegno di questi autori per la storia, restano estranee alla storia» (Schmidt 2018, 108-109).

Tavola delle abbreviazioni

De rer. nat. = Lucrezio, De rerum natura.
Herod. = Epicuro, Epistola a Erodoto.

Bibliografia

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Althusser, L. (2006); trad. it. a cura di Turchetto, M., «Dal “Capitale” alla filosofia di Marx», in Leggere il “Capitale”, Milano: Mimesis, 2006, 17-66.
Lecourt, D. (1983), « Marx au crible de Darwin », in Conry, Y. (éd.), De Darwin au darwinisme, Paris : Vrin, 227-249 ; trad. it. a cura di Turchetto, M., Marx al vaglio di Darwin, in «Quaderni materialisti», 6 (2007): 7-31.
Jacobi, F.H. (2000), Über die Lehre des Spinoza in Briefen an den Hernn Moses Mendelssohn, auf der Grundlage von Hammaker, K. und Piske, I.-M., bearbeitet von Lauschke, M., Hamburg: Felix Meiner; trad. it. «Lettera sulla dottrina di Spinoza al signor Moses Mendelssohn», in Morfino, V. (a cura di), La Spinoza-Renaissance nella Germania di fine Settecento, Milano: Unicopli, 1998, 82-83.
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