Il corpo, il ghetto e lo Stato penale

Loïc Wacquant1

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220px-AbughraibAbstract: This article dissects the author’s approach to ethnography, social theory, and the politics of knowledge through a dialogue retracing his intellectual trajectory and the analytic linkages between his inquiries into embodiment, comparative urban marginality and the penal state. It draws out the practical connections and epistemological rationale behind his main research projects, explicates the distinctive ways in which he deploys observational fieldwork in each of them, and examines the roles of intellectuals in advanced society in the era of hegemonic neoliberalism. Rejecting both Humean empiricism and neo-Kantian cognitivism, the author argues for the use of ethnography as an instrument of rupture and construction, the potency of carnal knowledge, the imperative of epistemic reflexivity, and the need to expand textual genres and styles so as to better capture the taste and ache of social action. In the public sphere, he proposes that social science can act as a solvent of ‘doxa’ and a beacon casting light on latent properties and unnoticed trends in social transformations so as to disrupt and broaden civic debate.

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Questo articolo è il frutto di un’intervista condotta a Lisbona, Portogallo, in occasione del terzo Ethnografeast tenutosi presso il Centro de Estudios de Antropologia Social (CEAS) con il patrocinio della rivista Ethnography, nei giorni 20–23 giungo 2007 (e con il supporto di Wenner-Gren Foundation, Luso-American Foundation e Calouste Gulbenkian Foundation; per approfondimenti circa la conferenza v. indirizzo web http://ceas.iscte.pt/ethnografeast). Durante questi incontri ho avuto modo di discutere con Loïc Wacquant il suo approccio all’etnografia, alla teoria sociale e al dibattito civico. La maggior parte delle sue pubblicazioni (che comprendono oltre un centinaio di articoli e una mezza dozzina di volumi) è dapprima apparsa negli Stati Uniti o in Francia, poi è stata rapidamente tradotta, letta e discussa nell’ambito delle scienze sociali nei quattro continenti. Il presente dialogo ritraccia il percorso intellettuale di Wacquant e propone una mappatura dell’ampio ventaglio delle sue ricerche, focalizzando l’attenzione sulla triade embodiment, analisi comparata della marginalità urbana [comparative urban marginality] e Stato penale, sfociando in una riflessione sulle politiche della conoscenza. Esamina, inoltre, la logica epistemologica e pratica situata alla base dei numerosi progetti di ricerca dell’autore, mostra per ognuno di essi le specifiche modalità d’impiego del lavoro di campo ed esplora il ruolo degli intellettuali nelle società avanzate nell’epoca dell’egemonia neoliberale. (Per ciascun punto affrontato i riferimenti bibliografici orienteranno il lettore su alcuni testi chiave di Wacquant. Il testo originale in portoghese del presente articolo è apparso in Ehtnografica simultaneamente alla versione inglese in Qualitative Sociology 2).
Susana Durão (ISCTE, Lisbona)


Susana Durão:Vorremmo approfittare della sua presenza a Lisbona in occasione degli incontri dell’Ethnografeast III su “Etnografia e sfera pubblica” (che lei ha organizzato con Manuela Ivone Cunha e Antónia Pedroso de Lima) per ritracciare brevemente la storia di questo “feast” e al contempo per richiamare i momenti salienti del suo percorso accademico così inusuale.

Loïc Wacquant: Sono lieto che il Portogallo, con il patrocinio della rivistaEthnography, stia ospitando il terzo appuntamento di Ethnografeast, che segue gli incontri già tenutisi a Berkeley nel 2002 e a Parigi nel 2004. Così come il nome suggerisce, e in linea con l’orientamento intellettuale della rivista, Ethnografeast è una sorta di celebrazione collettiva dell’etnografia per “gli addetti ai lavori”, il cui scopo è allo tempo stesso ludico, pratico e scientifico3. Innanzitutto desideriamo creare “un’effervescenza collettiva”, come avrebbe detto Émile Durkheim, per rinnovare le nostre energie e il nostro impegno nella ricerca sul campo, e soprattutto per incoraggiare i giovani ricercatori ad investire in esso – per tale ragione gli incontri di Lisbona dedicheranno un’intera giornata al lavoro degli studenti di dottorato e alla nuova generazione di etnografi.
In secondo luogo questi incontri rappresentano l’occasione per avviare un dialogo tra quelle discipline che praticano l’etnologia (in primis sociologia e antropologia, ma non solo), ma anche tra i differenti tipi di etnografia, tra le differenti tradizioni teoriche su cui si basano, tra le generazioni, tra paesi e continenti. A Lisbona abbiamo riunito ricercatori di campo provenienti da Stati Uniti, Francia, Italia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Brasile e Sud Africa, e naturalmente Spagna e Portogallo. Alcuni credono che l’etnografia sia in crisi, altri che sia in pieno boom; alcuni la vedono come una pratica essenzialmente ermeneutica e letteraria, altri come uno strumento di sperimentazione scientifica o di costruzione teorica; altri ancora la considerano una forma di coscienza collettiva delle società contemporanee – l’Ethnografeast, insomma, ha messo a confronto una grande varietà di stili e posizioni. L’idea è quella di ampliare al massimo le dimensioni del dibattito e, a tal proposito, Manuela e Antónia, alle quali vanno riconosciuti tutti i meriti per questo incontro, hanno fatto un lavoro eccellente. L’obiettivo di Ethnografeast, infine, è quello di aiutarci ad elaborare collettivamente e a chiarire i parametri e le missioni dell’etnografia sia in ambito accademico che sul piano del dibattito civico e politico. Questo è proprio il tema, infatti, da cui prendono le mosse i nostri incontri a Lisbona: “Etnografia e sfera pubblica”.

Dal sud della Francia al sud del Pacifico
SD: Passiamo ora al suo itinerario intellettuale. Lei ha iniziato la sua carriera come allievo di Pierre Bourdieu, con cui ha lavorato a stretto contatto per quasi vent’anni. Ci può raccontare il percorso personale ed intellettuale che l’ha portata ad incontrarlo?

LW: Sono nato nel sud della Francia in una famiglia di intellettuali della classe media. Ho frequentato la scuola pubblica nel paese in cui sono nato, poi la scuola secondaria nella città vicina, Montpellier. Una volta arrivato a Parigi, non sapendo che corsi frequentare, ho iniziato a studiare economia industriale. Ho cominciato l’École des Hautes Études Commerciales (HEC), una grande école di management, più per mancanza di alternative che per vocazione: non ero abbastanza “matematico” per essere attratto dall’École Polytechnique né sufficientemente “letterario” per immaginarmi all’École Normale Supérieure, così ho scelto un corso di studi il cui profilo si situasse a metà strada tra questi due poli. Avevo in mente di studiare economia politica ma mi sono presto scoraggiato: l’HEC è una scuola professionale che prepara ad essere manager nelle grandi aziende e la sola idea mi terrorizzava. Mentre cercavo una svolta e consideravo la possibilità di studiare storia sociale (uno dei miei libri preferiti all’epoca era Louis XIV et vingt millions de français di Pierre Goubert, un classico della Scuola degli Annales)4, una sera sono stato portato da un amico ad assistere ad una conferenza pubblica di Pierre Bourdieu sul tema “Questioni di politica”. Era novembre del 1980, poco dopo la pubblicazione di Le Sens pratique e prima della nomina di Bordieu alCollège de France5. Per me quella conferenza è stata una vera rivelazione: non avevo compreso i tre quarti di quanto Bourdieu aveva detto, ma senza dubbio avevo capito che si trattava di qualcosa di molto importante e che sarei dovuto andare in profondità.

SD: Quanti anni aveva?

LW: Avevo appena compiuto vent’anni. Dopo la conferenza, io e Bourdieu abbiamo avuto una discussione appassionata nella caffetteria degli studenti fino alle quattro del mattino. Mentre lo ascoltavo rispondere alle nostre numerose domande ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a un chirurgo che stava sezionando il corpo della società francese per mostrarcene le viscere e il funzionamento interno in una maniera che non avrei mai creduto possibile. Rientrando a casa dopo la conferenza nelle prime ore del mattino, mi sono detto: “se questa è la sociologia, questo è quello che voglio fare!”.
Ma se quella conferenza si è rivelata fondamentale è senza dubbio perché da parte mia c’era già una certa propensione, per via del mio ambiente familiare e del mio percorso personale. Avevo acquisito un occhio proto-sociologico grazie alla mobilità sociale dei miei genitori, che ha fortemente segnato la mia prima infanzia, alle liti in classe tra i bambini nel paese in cui sono cresciuto e, in seguito, anche grazie alla mia mobilità geografica. Per chi veniva dal sud della Francia, vivere vicino Parigi era quasi come andare in un paese straniero! Tutto sommato posso dire di dovere molto alla mia esperienza all’HEC, nonostante il fatto che i tre anni trascorsi lì siano stati terribilmente noiosi, nella misura in cui mi sono trovato a contatto con un mondo, il mondo degli affari, in cui ho scoperto di non voler entrare e che ho abbandonato per dedicarmi al mondo della ricerca. La frequentazione di quell’istituto ha fatto sorgere in me talmente tante domande da spingermi indirettamente verso la sociologia, in particolare per via dello shock culturale subìto nel trovarmi immerso nel milieu dei ragazzi dell’alta borghesia e nobiltà parigine – che ingenuamente credevo fossero scomparse nel 1789! Solo per rendere l’idea, il mio vicino di stanza si chiamava Christian de Rivelrieux de Varax e suonava il corno da caccia sul balcone che avevamo in comune…
Incoraggiato dall’incontro con Bourdieu, parallelamente agli studi in economia industriale, ho iniziato a seguire un corso universitario in sociologia. Ho preso la licence e lamaîtrise all’università di Nanterre (Paris X) – a quel tempo ancora chiamata “Nanterre la rouge” per esser stata la scintilla che ha dato il via agli eventi del Maggio ‘68. Appartenere contemporaneamente a questi due universi, una grande scuola dedicata alla perpetuazione del mondo degli affari parigini e un’università pubblica, culla storica della sovversione studentesca e della critica sociale, si è rivelato un’eccellente introduzione pratica alla sociologia. Nel campus dell’HEC apparivo sotto diversi aspetti, politici e pedagogici, come un allievo indisciplinato, recalcitrante all’indottrinamento grossolano a cui eravamo sottoposti (ricordo che citavo La Reproduction di Bourdieu e Passeron e Le Système des Objets di Baudrillard in un corso di marketing per provocare il professore)6. Eravamo un piccolo gruppo composto da alcuni studenti appartenenti alle classi medie e operaie, e quasi tutti provenienti dalle province, generalmente di sinistra, intellettuali e politicamente impegnati. Gli altri ci chiamavano “les bolchos” e noi chiamavamo i sostenitori dell’ordine costituito accademico e sociale “les fachos”. Era un clima piuttosto scherzoso, fatta eccezione per le elezioni della primavera 1981 durante le quali i rapporti si erano particolarmente inaspriti.

SD: Come è arrivato in Nuova Caledonia e come ha poi trovato la strada per gli Stati Uniti?

LW: Una volta laureato all’HEC, ho ottenuto una borsa di studio per gli Stati Uniti e ho trascorso l’anno 1982-1983 a Chapel Hill, studiando presso l’University of North Carolina. È stato lì che la mia conversione dall’economia alla sociologia ha trovato la sua conferma definitiva. Leggevo voracemente (tra i miei libri preferiti vi erano quelli di Elliot Liebow, John Dollard, C. Vann Woodward ed Erving Goffman) e seguivo corsi di teoria sociologica e sociologia storico-comparata in un dipartimento eccellente dove ho stretto legami intellettuali con Gerhard Lenski e Craig Calhoun che incoraggiavano il mio passaggio dall’economia alla sociologia. Ogni giovedì per un intero semestre, pranzavo nell’ufficio di Calhoun insieme a Lenski (l’autore del classico Power and Privilege) chiacchierando di storia e teoria sociale7. Poi sono partito per la Nuova Caledonia dove ho trascorso due anni, dal 1983 al 1985, per via del servizio militare, che però ho svolto come assistente tecnico. Per uno straordinario colpo di fortuna sono stato assegnato, come sociologo, al servizio civile in un centro di ricerca dell’ORSTOM8.
Ho trascorso due anni in Nuova Caledonia in un piccolo gruppo di ricerca – eravamo solo in tre – al tempo delle insurrezioni dei Kanak nel novembre 1984. Perciò ho vissuto e lavorato in una società coloniale molto brutale ed arcaica poiché, negli anni ’80, la Nuova Caledonia era una tipica colonia del XIX secolo sopravvissuta quasi intatta fino al termine del XX secolo. Condurre una ricerca sul sistema scolastico, l’urbanizzazione e i cambiamenti sociali nel contesto di un’insurrezione, in uno stato di emergenza, osservare in tempo reale le lotte tra coloni e indipendentisti, e poter riflettere in modo concreto sul ruolo civico della scienza sociale rappresenta, per un apprendista-sociologo, un’esperienza sociale straordinaria. Ho partecipato ad un congresso del Fronte Socialista di Liberazione Nazionale Kanak a Canala, ho attraversato tutta la Grande Terre (l’isola principale) e soggiornato spesso nell’isola di Lifou, presso alcuni amici che da lungo tempo erano militanti Kanak, in un momento in cui quasi nessuno circolava nel territorio.

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Anziani del clan Unë, tribù dei Luecilla, isola di Lifou, Nuova Caledonia (Dicembre 1983)



È stato allora che ho letto i classici dell’etnologia (Mauss, Mead, Malinowski, Radcliffe-Brown, Bateson ecc. – in particolare i lavori condotti nel Sud del Pacifico, dato che le isole Trobriand erano nelle immediate vicinanze), che ho scritto il mio primo quaderno di campo (avevo abbozzato il primissimo in mezzo alla tribù dei Luecilla, nella baia di Wé, nel Natale del 1983) e ho pubblicato i miei primi lavori – non ancora lavori di gioventù, ma potremmo dire d’infanzia 9. Al termine del mio soggiorno in Caledonia, ho ricevuto una borsa di studio di quattro anni per fare un dottorato alla University of Chicago, la culla della sociologia statunitense. Quando sono arrivato nella città di Upton Sinclair, la mia idea era quella di lavorare ad una antropologia storica della dominazione coloniale in Nuova Caledonia, ma poi mi sono distratto e ho deviato verso l’America.


Il ghetto, la palestra, la banlieue
SD: È così dunque che un giovane ricercatore francese viene a contatto con il ghetto nero americano…

LW: In effetti, la combinazione di due eventi inaspettati ha deviato quelli che erano i miei piani iniziali. Da un lato la porta della Nuova Caledonia veniva brutalmente chiusa: a Nouméa il mediocre burocrate che era stato il mio supervisore, aveva abusato della sua autorità per mettere contro la mia volontà il suo nome come co-autore in una monografia sul sistema scolastico che avevo, invece, portato a termine da solo – questa era, tristemente, una pratica molto comune presso l’ORSTOM10. Avevo esposto denuncia contro questa indebita appropriazione intellettuale alla direzione dell’Istituto a Parigi che si era affrettata a coprire l’imbroglione. A quel punto fui sospeso dall’agenzia e di conseguenza allontanato dall’isola. Contemporaneamente mi trovavo a confronto ogni giorno con la terribile realtà del ghetto di Chicago. Vivevo ai margini del quartiere povero nero di Woodlawn ed era per me fonte di costante preoccupazione il fatto di avere sotto la mia finestra questo paesaggio urbano quasi lunare, con il suo incredibile degrado, la miseria, la violenza, aggravato dalla separazione assolutamente ermetica tra il mondo bianco, prosperoso e privilegiato dell’università e l’abbandono dei quartieri afro-americani circostanti (il campus di Hyde Park è delimitato per tre lati dal ghetto del South Side e il quarto dal lago Michigan). Questo spettacolo che avevo sotto gli occhi tutti i giorni mi rimetteva profondamente in discussione. È a questo punto che ha avuto luogo il secondo incontro decisivo per la mia vita intellettuale: quello con William Julius Wilson.

 

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Sulla 63ª strada, Chicago, South Side (Luglio 1989)



Wilson è uno tra i sociologi americani di maggior spicco della seconda metà del ventesimo secolo ed il maggiore studioso del rapporto tra razza e classe negli Stati Uniti. Sono stato invitato a lavorare con lui ad un grande progetto sulla povertà urbana che aveva appena intrapreso (grosso modo il programma di ricerca abbozzato nel suo libro The Truly Disadvantaged) e ben presto sono diventato suo stretto collaboratore e co-autore11. Ho avuto così l’opportunità di andare dritto al cuore del problema e di osservare direttamente come tale dibattito politico e scientifico si sviluppi ad un più alto livello, in particolare nelle istituzioni filantropiche e nei think tank, promotori di una rinnovata attenzione a riguardo. Così è come ho iniziato le mie ricerche, prima con Wilson e poi da solo, sulla trasformazione del ghetto nero dopo le rivolte del 1960, tentando di rompere con la visione patologizzante che pervadeva e distorceva le ricerche in merito12. Ho un debito enorme con Bill Wilson, che è stato un mentore al tempo stesso esigente e generoso: mi stimolava e mi supportava, ma mi lasciava anche la libertà di divergere dalle sue analisi e talvolta di andare in direzioni diametralmente opposte alle sue.

In quel momento l’etnografia ha giocato per me un ruolo centrale per due ragioni. Da un lato seguivo molti più corsi di antropologia che di sociologia perché il dipartimento di sociologia della University of Chicago non era particolarmente stimolante intellettualmente e perché mi sentivo visceralmente legato ad una concezione unitaria delle scienze sociali che avevo ereditato dalla mia formazione francese. Le attività e gli incoraggiamenti di John e Jean Comaroff, Marshall Sahlins, Bernard Cohn e Raymond Smith mi spingevano verso la ricerca di campo. Ma al contempo volevo trovare rapidamente un punto d’osservazione diretta all’interno del ghetto poiché la letteratura esistente a riguardo era il prodotto di uno “sguardo da lontano” che mi sembrava fondamentalmente prevenuto se non addirittura cieco. Era una letteratura dominata dall’approccio statistico, calata dall’alto da studiosi che molto spesso non avevano conoscenza diretta, e neppure di seconda mano, di ciò che era la vita quotidiana dei quartieri poveri della Black Belt, e che tentavano di colmare questa lacuna facendo ricorso a stereotipi presi dal senso comune, foss’anche giornalistico o accademico. Volevo ricostruire da zero la questione del ghetto basandomi su precise osservazioni delle attività e delle relazioni quotidiane di quella terra non grata e, per questa stessa ragione, incognita13.

SD: Dunque è questa sociologia “rasoterra” che l’ha portata a frequentare il ring della boxe?

LW: Ritenevo epistemologicamente e moralmente impossibile fare ricerca sul ghetto senza acquisirne una seria conoscenza diretta, perché era lì, letteralmente sulla soglia di casa mia (in estate si poteva sentire chiaramente il rumore degli spari dall’altro lato della strada) e perché gli studi convenzionali mi sembravano essere pieni di nozioni accademiche poco plausibili o addirittura perniciose, come il mito scientifico dell’underclass, all’epoca molto in voga14. Dopo alcuni tentativi falliti ho trovato per caso una palestra di pugilato a Woodlawn, a tre isolati dal mio appartamento, mi sono iscritto dicendo che volevo imparare la boxe, ma semplicemente perché in quel contesto non vi era altro da fare. Effettivamente non avevo alcuna curiosità o interesse verso il mondo del pugilato in sé (ma in ogni caso volevo fare del buon esercizio fisico). La palestra doveva essere solo un punto d’osservazione nel ghetto, un luogo d’incontro con dei potenziali informatori.

Ma rapidamente la palestra si è rivelata non solo una fantastica finestra sulla vita quotidiana dei giovani del quartiere, ma anche un complesso microcosmo con una storia, una cultura, ed una sua vita propria, sociale, estetica, emozionale e morale molto intensa e ricca. Ho stretto un legame d’amicizia molto forte, quasi carnale, con i frequentatori del club e con il vecchio allenatore, DeeDee Armour, diventato per me una sorta di padre adottivo15. Mi sono ritrovato progressivamente attratto dal magnetismo della Sweet Science a un punto tale che trascorrevo in palestra la maggior parte del mio tempo. Dopo circa un anno, ho iniziato a pensare di approfondire un secondo soggetto di ricerca, ossia la logica sociale di quest’arte del corpo. Che cos’è che appassiona così tanto i pugili? Perché si cimentano con una tra le professioni più difficili e distruttive? Come acquisiscono il desiderio e le competenze necessarie per resistere? Quale ruolo giocano in tutto ciò la palestra, la strada, la violenza che li circonda ed il disprezzo razziale, l’interesse personale e il piacere, la credenza collettiva nella trascendenza personale? Come viene a crearsi una competenza sociale, ossia una competenza incorporata [embolie], trasmessa attraverso una pedagogia silenziosa di organismi in azione? In breve, come si costruisce e si sviluppa l’habitus pugilistico?16

Così è come mi sono trovato a lavorare contemporaneamente a due progetti tra loro connessi, all’apparenza molto differenti l’uno dall’altro ma in realtà strettamente legati: da un lato una microsociologia carnale dell’apprendistato pugilistico quale mestiere sub-proletario del corpo nel ghetto, che restituisce questo universo secondo un “taglio” particolare: dal basso e dall’interno; dall’altro lato, una macrosociologia storica e teorica del ghetto inteso come strumento di chiusura razziale e dominazione sociale, che offre una prospettiva generale dall’alto e dall’esterno.

SD: E proprio mentre proseguiva la sua ricerca sul campo nella South Side di Chicago, in Francia esplodeva l’allarme sulla “ghettizzazione” delle banlieues popolari.

LW: Esattamente. Nel 1990 dopo gli scontri di Vaux-en-Velin (una periferia industriale povera di Lione) una sorta di “panico morale” ha iniziato a cristallizzarsi in Francia – ed in seguito in altri paesi europei – riguardo la destabilizzazione di alcune periferie urbane a causa dei processi di deindustrializzazione e della disoccupazione di massa. Si diceva che queste zone si erano immediatamente trasformate in ghetti all’americana, in cui gli immigrati avevano assunto, per così dire, il ruolo dei neri. Ora, io mi trovavo a Chicago, immerso nella mia ricerca nel cuore del South Side e questa leggenda mediatica, rapidamente diffusa tra i politici e persino tra alcuni studiosi (non sempre più informati di loro), mi sembrava sconfinasse nel surreale. Ancora una volta il dibattito era pervaso di stereotipi e cliché basati su di una doppia ignoranza: ignoranza della realtà prosaica delle classi operaie delle banlieues francesi nell’epoca post-fordista ed ignoranza del ghetto nero americano. Il risultato dell’unione di queste due ignoranze era un discorso completamente scollato dalla realtà, ma la cui potenza ha di fatto dato luogo ad una “profezia autorealizzantesi” nella misura in cui tale discorso è stato ripreso e rielaborato ovunque e da chiunque divenendo rapidamente una guida per le politiche pubbliche e, in particolare, per le “politiche cittadine” adottate dallo Stato francese dopo il 1990, seguite dal varo periodico di “leggi anti ghetto” tanto ipocrite quanto inefficaci.

Ritenevo di avere un dovere, tanto scientifico quanto civico, di intervenire in questo (falso) dibattito per rifiutare i termini in cui veniva posto attraverso lo studio metodico delle trasformazioni dei “quartieri di segregazione” [neighborhoods of relegation], quegli spazi stigmatizzati in cui, in entrambi i lati dell’Atlantico, le popolazioni marginalizzate, sia materialmente che in termini di dignità, venivano ad essere respinte. Ho intrapreso così un confronto, punto per punto, tra l’evoluzione del ghetto nero americano dopo le agitazioni degli anni ’60 e quella delle banlieues in Francia dopo la metà degli anni ’70 durante il processo di de-industrializzazione, un confronto dal quale è emersa una prima serie di articoli orientati in particolare verso il dibattito europeo17. Per confrontare il South Side di Chicago con la banlieue parigina [“the outer city”], tra il 1989 e il 1991 ho condotto un’indagine di campo all’interno del progetto di edilizia popolare della Cité des Quatre Mille, nel comune industriale di La Courneuve, situato a nord-est della capitale e al tempo stesso nei corridoi degli uffici amministrativi incaricati di implementare le politiche urbane. Una volta completato, questo lavoro ha dato origine ad una triplice chiarificazione: empirica, teorica e politica. Ho mostrato come, nel versante statunitense, il “ghetto comunitario” si sia trasformato, nella metà del ventesimo secolo, in un “iperghetto”; come i territori della classe operaia nella periferia urbana europea abbiano subìto un processo di graduale decomposizione ma, contrariamente a quanto il discorso dominante sosteneva, allontanandosi dalla forma-ghetto a un punto tale da poter essere considerati come forme di anti-ghetto. Ho dimostrato, inoltre, che in entrambi i continenti è lo Stato la principale causa determinante dell’intensità e delle forme assunte dalla marginalità urbana18. Ho mostrato, infatti, che ciò che i sociologi urbani presentano come “effetti di quartiere” sono in realtà effetti dello Stato iscritti nello spazio attraverso la mediazione storica delle lotte per la definizione, distribuzione ed appropriazione dei beni pubblici. E questo non vale solo per gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, ma anche per le zone espropriate delle città del “Secondo Mondo”, sia che si tratti delle favelas di Rio de Janeiro, delle townships di Città del Capo o dei varoş di Istanbul.

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Nella favela di Santa Marta, Rio de Janeiro (Aprile 2001)


Mentre portavo avanti le mie ricerche sul pugilato e il ghetto, continuavo ad essere in contatto con Pierre Bourdieu dal quale ero sempre incoraggiato. È venuto a Chicago varie volte, ha visitato la palestra, conosciuto DeeDee e i miei amici pugili. È stato durante une delle sue visite che abbiamo elaborato l’idea di un libro che illustrasse il nucleo teorico del suo lavoro, e che fosse rivolto ad un pubblico anglo-americano, poiché era proprio su questo fronte che si riscontravano le maggiori distorsioni e quindi i maggiori ostacoli ad una fruttuosa comprensione dei modelli da lui proposti. Abbiamo dedicato tre anni alla scrittura di questo libro, intitolato An Invitation to Reflexive Sociology19, elaborato direttamente in inglese e poi rapidamente tradotto in francese ed in seguito in numerose altre lingue. La sociologia del ghetto, l’etnografia dei corpi specializzati, le comparazioni da una parte all’altra dell’Oceano, il lavoro teorico con Bourdieu: tutti questo filoni sono stati elaborati insieme e contemporaneamente, e tutti sono, tra loro, intrecciati.


La roccia dello Stato penale

SD: Come è entrata, allora, la questione della prigione in questo programma di ricerca?

LW: Ancora una volta, così come per l’antropologia del pugilato, tutto è accaduto in una maniera assolutamente inaspettata: sono state la logica stessa della ricerca e le imprevedibilità del lavoro di campo che mi hanno portato, per ragioni analitiche, ad entrare in prigione. Annotando le storie di vita dei miei amici pugili nella palestra di Woodlawn, mi sono reso conto che la maggior parte di loro aveva trascorso del tempo dietro le sbarre. Ho realizzato che la prigione era una realtà tanto scontata quanto centrale nell’orizzonte delle istituzioni con cui i giovani del ghetto avevano a che fare e in cui spesso inciampavano – come una grande roccia nel loro giardino personale che non poteva essere rimossa né tantomeno aggirata, ma in grado di modificare tutto il paesaggio sociale.

Ad esempio il mio amico e sparring partner sul ring O-Jay aveva trascorso sei anni in prigione al termine dell’adolescenza, imparando così l’arte del pugilato dietro le sbarre. Una volta uscito di prigione ha trovato rifugio nella palestra che lo ha protetto dalla strada, e ha proseguito la sua carriera come pugile. Ma naufragata la sua carriera sul ring e chiusa la palestra, è ritornato nei traffici illegali finendo per essere arrestato numerose volte. Periodicamente lo facevo uscire di prigione pagando cauzione e legali… Vedere al termine di un processo il tuo miglior amico finire in prigione rischiando dai sei ai trent’anni è qualcosa che ti scuote esistenzialmente ed intellettualmente! Volevo capire che ne fosse stato di lui ed è stata questa esperienza che mi ha spinto a portare avanti, nel 1998-99, una ricerca di campo sperimentale sulle prigioni statunitensi a Los Angeles, ed in seguito a Chicago e New York (con alcune incursioni in Brasile)20. Il mio proposito, ancora una volta, era quello di acquisire gli strumenti per far breccia nel muro del discorso dominante sulle prigioni e delle analisi criminologiche distanti e meccaniche che trascuravano la rete delle relazioni quotidiane in carcere: la detenzione ha a che vedere prima di tutto con la costrizione dei corpi e con tutto ciò che su di essi viene così impresso in termini di categorie, desideri, senso del sé e legami con gli altri.

Non si può comprendere il percorso del sottoproletariato nero americano dopo le rivolte che hanno scosso le metropoli nel 1960 senza prendere in considerazione, nella propria analisi, l’incredibile espansione dello Stato penale nell’ultimo trentennio dello scorso secolo. Tra il 1975 e il 2000 gli Stati Uniti hanno accresciuto di cinque volte la popolazione carceraria tanto da guadagnare il primo posto a livello mondiale per numero di incarcerazioni con più di due milioni di detenuti – un dato di cui in quel periodo non avevo tenuto conto e che avevo analiticamente trascurato come tutti i sociologi che lavoravano su razza e classe in America (il primo studioso ad aver affrontato la questione è stato il giurista Michael Tonry in Malign Neglect, un libro chiave apparso nel 1995 che aveva attirato la mia attenzione perché avevo pensato allo stesso titolo per uno dei miei libri)21. Come spiegare questa iper-inflazione carceraria? La prima risposta, offerta dall’ideologia dominante e dalle ricerche ufficiali, è che essa sia legata alla criminalità. Ma l’andamento tendenziale del tasso di criminalità tra il 1973 e il 1993 era rimasto stabile, per poi scendere bruscamente proprio quando il numero di detenuti saliva alle stelle. Vi era inoltre un secondo mistero: mentre la percentuale di afro-americani nelle “coorti” criminali diminuiva costantemente nel corso di queste due decadi, quella all’interno della popolazione carceraria aumentava rapidamente e senza posa. Per risolvere questi due enigmi, è necessario uscire dallo schema del “delitto e castigo” e ripensare la prigione come un’istituzione politica, come una componente centrale dello Stato. È così che si scopre che la crescita dello Stato penale è il risultato di una politica di penalizzazione della povertà che risponde a sua volta alla crescita dell’insicurezza sociale e al collasso del ghetto come meccanismo di controllo della popolazione doppiamente marginalizzata sia sul piano materiale che su quello simbolico22.

SD: E come ha mostrato in Les Prisons de la misère (1999), l’espansione stessa dello Stato penale negli Stati Uniti è legata all’atrofia dello Stato sociale23.

LW: Proprio mentre approfondivo le mie ricerche tra le statistiche carcerarie per decifrare le ragioni della stupefacente crescita dello Stato penale in America, Clinton approvava la welfare reform del 1996 ideata dalla fazione più reazionaria del Partito Repubblicano. L’abolizione del diritto all’assistenza pubblica per le donne povere con bambini e la sua sostituzione con l’obbligo di impiego al minimo salariale (ribattezzato “workfare”) è uno scandalo storico, la misura più regressiva, presa da un presidente che si presumeva fosse progressista, durante tutto il ventesimo secolo. Indignato politicamente, ho scritto a riguardo un articolo per Le Monde Diplomatique e in seguito un saggio più approfondito per una rivista di geografia politica, l’Hérodote24. Analizzando le implicazioni di questa riforma mi sono reso conto che l’atrofia organizzata del versante sociale dello Stato americano e l’improvvisa ipertrofia di quello penale non erano semplicemente concomitanti e complementari, e che soprattutto prendevano di mira la stessa popolazione stigmatizzata ai margini del lavoro salariato. Stava divenendo chiaro che la “mano invisibile” del mercato deregolamentato chiamava in causa e necessitava il “pugno di ferro” della giustizia criminale alla base della struttura di classe.

Questo è quanto ho tentato di mostrare in Les Prisons de la misère tracciando la diffusione internazionale delle politiche di gestione poliziesca a “tolleranza zero”, che sono l’avanguardia del trattamento penale della povertà. Il libro è stato rapidamente tradotto in tre, sei, sedici lingue poiché queste politiche di contenimento punitivo degli strati precari del nuovo proletariato urbano si stavano diffondendo su tutto il globo sulla scia del neoliberalismo economico. Così per un po’ mi sono allontanato dal ghetto, spinto dall’urgenza politica, e quasi contro la mia volontà, di analizzare più approfonditamente la trasformazione delle politiche penali in relazione alle politiche sociali.

SD: Tuttavia l’analisi del ruolo delle prigioni l’ha riportata direttamente ai “quartieri di segregazione” [neighborhoods of relegation] nella misura in cui queste aree sono il primo bersaglio dello sviluppo dello Stato penale.

LW: Effettivamente, senza che fosse pianificato, ho scritto una sorta di trilogia sul rapporto tra povertà ed etnicità, Stato sociale e Stato penale nell’epoca del neoliberalismo trionfante, pubblicata però senza rispettare un ordine particolare. Il primo volume è Urban Outcasts in cui, rifiutando la tesi della convergenza tra le due sponde dell’Atlantico delle forme di marginalità urbana, ho diagnosticato l’emergenza di un nuovo regime di povertà urbana distinto dal regime “fordista-keynesiano” che è prevalso fino agli anni ’7025. L’ho chiamata marginalità avanzata perché non è né residuale né ciclica, ma è davanti a noi, inscritta nel divenire delle società avanzate sottoposte alle tensioni della deregolamentazione capitalistica26. Per riassumere brevemente, la “marginalità avanzata” sta prendendo il posto del ghetto sul versante americano e dei territori della classe operaia tradizionale in quello europeo. È il prodotto della frammentazione del lavoro salariato, della disconnessione funzionale tra i quartieri degradati e l’economia nazionale e globale, della stigmatizzazione territoriale e della revoca delle protezioni tradizionalmente offerte dallo Stato sociale.

Come risponderà lo Stato all’aumento della marginalità e come affronterà la serie di “problemi sociali” che questa si porta sulla sua scia, quali la disoccupazione, i senzatetto, la criminalità, la droga, la gioventù senza occupazione e furibonda, lo sfacelo familiare e sociale, ecc.? Come contenere queste ripercussioni e allo stesso tempo portare gli strati precari del nuovo proletariato urbano – ciò che possiamo semplicemente chiamare il “precariato” – ad accettare le opportunità di lavoro instabili e sottopagate dell’economia liberalizzata dei servizi? La risposta è nel mio secondo volume: Punishing the Poor analizza l’invenzione di un “nuovo governo dell’insicurezza sociale” che sposa la disciplina del workfare e la coercizione esercitata da un apparato poliziesco e penale ipertrofico ed iperattivo 27. Nel 1971 Frances Fox Piven e Richard Cloward hanno pubblicato un libro audace, divenuto immediatamente un classico della scienza sociale, intitolato Regulating the Poor 28. Con questo testo i due autori mostravano che le politiche sociali, e in particolare l’assistenza ai poveri, evolvono in maniera ciclica, attraverso contrazione ed espansione, in modo da spingere gli strati di popolazione più disagiata sul mercato del lavoro, durante le fasi di espansione economica, e prevenire la rivolta durante i periodi di scarsità economica. La mia tesi è che, trent’anni dopo, la “regolamentazione dei poveri” non avviene più solo attraverso il welfare system ma implica anche un legame istituzionale che connette i settori assistenziali e penali dello Stato. Ciò significa che se vogliamo comprendere le politiche volte alla gestione dei problemi della popolazione alla base della struttura delle classi e dei territori, dobbiamo allo stesso tempo studiare ciò che Bourdieu chiamava la “mano destra” e la “mano sinistra” dello Stato. Le politiche sociali e quelle penali hanno finito per convergere e fondersi: la stessa filosofia comportamentista, la stessa idea di contratto e responsabilità personale, gli stessi meccanismi di sorveglianza e di schedatura, le stesse tecniche di controllo e le stesse “cerimonie di degradazione” (nei termini di Garfinkel29), le stesse sanzioni per le condotte devianti permeano la burocrazia dell’assistenza sociale, trasformata in un trampolino di lancio nel mondo del lavoro precario, e le attività della polizia, del giudice penale e delle prigioni a cui è richiesto di tenere a freno le popolazioni marginalizzate.

Il terzo volume intitolato Les Prisons de la misère, e pubblicato per primo per ragioni di urgenza politica, mostra le cause e analizza i meccanismi dell’internazionalizzazione della penalizzazione della marginalità urbana, avvenuta attraverso la diffusione planetaria della strategia poliziesca della “tolleranza zero”, di pari passo con la diffusione delle politiche economiche neoliberali30. Segue un quarto volume, Deadly Symbiosis, che mostra come la divisione etno-razziale contribuisca ad ampliare l’espansione dello Stato penale ed acceleri la transizione dal welfare sociale alla gestione punitiva della povertà; e come da qui l’istituzione carceraria ridefinisca e ridistribuisca lo stigma etno-razziale o etno-nazionale attraverso le sue proprie operazioni simboliche e materiali31. Questo libro intreccia etnografia, storia sociale, teoria sociologica e filosofia del diritto, ed esamina il modello della fusione strutturale e funzionale dei quartieri di segregazione con il sistema carcerario, ideato per analizzare il caso degli Stati Uniti, è stato portato aldilà dell’Atlantico per spiegare il fenomeno della sovra-incarcerazione dei migranti postcoloniali nell’Unione Europea e in Brasile per quel che riguarda la “militarizzazione” delle frontiere urbane nella struttura binaria delle metropoli 32.

SD: C’è quindi, anche qui, non solo un filo conduttore esistenziale ma anche una giuntura teorica che lega insieme queste tematiche all’apparenza molto differenti tra loro.

LW: Si tratta di oggetti di studio empirici apparentemente disparati e tradizionalmente presi in esame da differenti settori di ricerca che non comunicano tra loro: l’antropologia del corpo, la sociologia della povertà e della dominazione razziale, la criminologia. Chi lavora sul corpo, sulla cultura della vita quotidiana, sulla produzione del desiderio, generalmente non è molto interessato alla questione dello Stato; chi analizza le politiche della giustizia non è solitamente interessato alla marginalità urbana o alle politiche sociali; e i penalisti non dedicano molta attenzione al corpo o alle politiche statali che non abbiano ufficialmente a che vedere con la lotta contro il crimine. La mia posizione è che non si possa separare il corpo, lo Stato sociale e penale e la marginalità urbana: devono essere considerati e spiegati insieme, nella loro mutua imbricazione. La rampa di lancio per questo “missile analitico” a tre teste è l’Invitation to Reflexive Sociology che contiene tutti i concetti chiave e i principi metodologici adoperati negli altri libri.


L’etnografia come strumento di rottura e costruzione

SD: La posizione centrale che l’etnografia occupa nel suo percorso intellettuale è ora chiara, ma vorrei chiederle di approfondire i differenti ruoli che essa riveste nei vari progetti di ricerca che lei ha condotto, poiché non è poi così comune associare il nome di Pierre Bourdieu all’etnografia.

LW: Questo è senza dubbio un errore dettato dall’ignoranza poiché, come ho mostrato nell’articolo che apre il numero speciale di Ethnography su “Pierre Bourdieu nel campo”, Bourdieu è stato uno tra i più originali fautori di questo approccio e anzi l’etnografia ha avuto un ruolo decisivo nella gestazione complessiva del suo progetto scientifico33. Non solo Bourdieu ha scritto dei testi che sono pietre miliari per il lavoro etnografico – come Le sense de l’honneur (1965) e La maison kabyle, ou le monde reversé (1971), ma l’osservazione di campo ha anche ricoperto un ruolo centrale in tutti i suoi libri più importanti, da Héritiers a Règles de l’art passando per La distinction34.

Solo considerando i lavori più giovanili, possiamo vedere come Bourdieu ci abbia lasciato una straordinaria etnografia comparata, condotta su entrambe le sponde del Mediterraneo, delle trasformazioni cataclismiche che hanno coinvolto strutture mentali e sociali nelle società contadine della regione algerina della Cabilia, sotto la pressione della penetrazione coloniale francese e della guerra di liberazione, e nella provincia francese di Béarn, dove Bourdieu aveva trascorso la sua infanzia, a conseguenza della scolarizzazione generalizzata, dell’apertura dello spazio rurale agli scambi di mercato e dell’influenza della cultura urbana ad opera dei mass media35 2002.]. Consiglierei a chi persiste nel considerarlo un “teorico della riproduzione” di rileggere questi studi… Bourdieu stava lavorando ad un’etnografia comparata, condotta simultaneamente in diversi luoghi, e combinata con l’analisi statistica, trent’anni prima che si affermasse la moda dell’etnografia “multi-sited” – la quale è spesso e volentieri una fragile copertura per una pratica molto più affine al turismo culturale che ad un lavoro sul campo che sia degno di questo nome. L’etnografia di Bourdieu, lungi dall’abbandonarsi ad esotismi ed empirismi, era profondamente guidata da un progetto teorico che l’etnografia stessa a sua volta alimentava: la maggior parte dei suoi concetti chiave, come quello di habitus, trovano la loro origine in una sorta di puzzle empirico riscontrato sul campo. Inoltre, sulle orme di Bourdieu, al Centre de sociologie européenne ma non solo, ci sono sempre stati numerosi studiosi che erano prima di tutto etnografi: penso in particolare ad Abdelmalek Sayad, Stéphane Beaud e Michel Pialoux, Yvette Delsaut, Monique e Michel Pinçon 36.

Questo per dire che non mi sarebbero mancati modelli da seguire se avessi voluto deliberatamente prendere la decisione di diventare un etnografo. Ma la questione di scegliere se dedicarmi o meno ad un lavoro di campo non mi si è mai presentata nei termini di una vocazione metodologica. È piuttosto il metodo stesso ad essersi presentato come il più adatto a risolvere concretamente i problemi di ricerca con cui mi stavo confrontando, che a Chicago non avevano semplicemente a che fare con la necessità di “avvicinarmi” al ghetto per acquisirne dall’interno una conoscenza pratica e vissuta, ma anche con la necessità di acquisire uno strumento per la decostruzione delle categorie con cui la Black Belt americana veniva allora percepita e ritratta nel dibattito universitario e politico. Il mio intento iniziale era quello di basarmi su di un’etnografia della scena urbana del South Side per far breccia in quella duplice barriera formata, in primo luogo, dal discorso precostituito sul ghetto come luogo della disorganizzazione sociale – uno spazio di violenza, devianza e vuoto caratterizzato dall’assenza e dalla mancanza – che derivava da un punto di vista esterno ed esotizzante adottato dalla sociologia convenzionale; in secondo luogo dai racconti accademici sull’underclass, quella temibile e ripugnante categoria che negli anni ’80 si era cristallizzata nell’immaginario sociale e scientifico americano per spiegare in maniera perfettamente tautologica il crollo del ghetto nero a causa dei “comportamenti anti-sociali” dei suoi residenti 37.

L’osservazione etnografica mi ha consentito di effettuare una doppia rottura, sia con la rappresentazione mediatico-politica dominante quanto con quello che era, all’epoca, il senso comune accademico, esso stesso fortemente contaminato dalla doxa nazionale. Lo stesso è accaduto sul versante francese, dove il confronto tra quello che vedevo e sentivo negli uffici del Ministère de la ville e tra gli edifici popolari della Cité des Quatre Mille a La Courneuve mi ha permesso di demolire i preconcetti burocratici e pseudo-intellettuali che ostacolavano la costruzione sociologica dell’oggetto “banlieues”.

SD: Questo intento è esplicitato nel prologo metodologico di Urban Outcasts, dove lei fa riferimento, tra i cinque principi che guidano la sociologia comparata della marginalità urbana, al particolare contributo offerto dall’etnologia.

LW: Urban Outcasts non è una monografia etnografica nel senso classico poiché l’analisi articola il micro-livello del quartiere, il meso-livello della città e delle istituzioni politiche locali, e il macro-livello dell’economia nazionale e dello Stato, combinando osservazione diretta, dati statistici e prospettive storiche38. Ciononostante l’etnografia gioca un ruolo importante su due registri analitici: come strumento di rottura con la doxa politica ed intellettuale, così come ho appena mostrato, e come strumento di costruzione teorica.

Le osservazioni che registravo quotidianamente nel ghetto nero di Chicago con i miei compagni della palestra di pugilato circa le loro relazioni con i datori di lavoro, i servizi sociali, la polizia, le bande di strada, la scuola e così via, mi hanno consentito di elaborare quelle nozioni ideal-tipiche che ho adottato per decifrare le pratiche sociali e le esperienze vissute della povertà nel cuore segregante della metropoli americana. Così il concetto di iperghetto coglie il restringimento del regno delle possibilità ed il clima di clausura sociale e razziale che permeava il South Side negli anni ‘90, di cui non se ne può avere un’idea senza avervi mai messo piede. Lo schema della marginalità avanzata, sviluppato nella terza parte del libro, che caratterizza il nuovo regime di povertà emerso nell’epoca post-keynesiana e post-fordista, si fonda sulla diretta conoscenza delle strategie di vita dei residenti del ghetto nero americano e delle banlieues francesi sempre più degradate, delle forme di coscienza collettiva che orientano le loro azioni e aspirazioni, così come degli ostacoli concreti con i quali si scontrano – tra cui ad esempio l’assenza di una lingua comune che raddoppia sul piano simbolico la dispersione oggettiva del “precariato”.

Il concetto di stigmatizzazione territoriale, che fa riferimento a quella modalità distintiva di discredito collettivo che grava sui residenti dei quartieri di segregazione nell’epoca del lavoro salariato desocializzato, nasce all’interno di uno studio di campo condotto faccia a faccia con i responsabili amministrativi delle politiche urbane in Francia39. I funzionari pubblici che ho intervistato parlavano tutti di una degenerazione dei quartieri popolari della periferia urbana con un tremito d’angoscia e disgusto nelle loro voci. Tutto nei loro toni, nel loro vocabolario, nelle loro posture e gestualità esprimeva insofferenza verso la missione e la popolazione degradate, e pertanto degradanti, di cui dovevano farsi carico. Ho potuto notare, in seguito, che lo stesso senso di disgusto e degradazione nasceva negli ultimi gradini della scala sociale, tra i residenti della Cité des Quatre Mille nella periferia industriale parigina, e tra i neri americani confinati nell’iperghetto di Chicago. Senza un lavoro di campo condotto in parallelo su entrambe le sponde dell’Atlantico non avrei mai potuto sviluppare questa nozione che, con il senno di poi, rappresenta per me uno tra i risultati più decisivi di questa ricerca.

SD: In che cosa la stigmatizzazione territoriale differisce dalla stigmatizzazione etnica, e in che misura è rilevante secondo il suo punto di vista?

LW: I quartieri della classe operaia, le aree espropriate o gli enclave degli immigrati non hanno mai goduto di una buona reputazione, e la città ha sempre avuto le sue zone più malfamate, le sue aree più equivoche e degradate, zone d’ombra avvolte da un’aura sulfurea. Ma un nuovo fenomeno è sorto negli ultimi due decenni: in tutti i paesi avanzati, un piccolo numero di quartieri o località sono diventate pubblicamente note, se non addirittura celebri, come pozzi di perdizione sociale e morale. Gli enormi complessi di edilizia popolare della Robert Taylor Homes a Chicago, Bobigny nella periferia orientale di Parigi, l’area del Moss Side a Manchester, Tensta all’estrema periferia di Stoccolma, São Joao de Deus nella parte nord della città di Oporto, questi nomi non sono altro che eponimi nazionali per indicare l’“orrore urbano”. Essi incutono timore e suscitano disprezzo in tutta la società. La macchia di questi luoghi si è cristallizzata, sovrapposta al disonore etnico e di classe che già colpiva i loro abitanti, i cui effetti, distinti dagli “stigmi” tribali, morali e corporali precedentemente analizzati da Erving Goffman 40, contribuiscono ad alimentare vigorosamente la spirale di disintegrazione sociale e diffamazione simbolica.

Quando domandavo ai residenti del ghetto di Chicago e de La Courneuve, due zone di segregazione distanti l’una dall’altra circa sei mila chilometri, “Che cosa fa la gente di questo quartiere per sopravvivere giorno per giorno?”, loro mi rispondevano immediatamente quasi negli stessi termini: “Ehi, io la gente del quartiere non la conosco. Io vivo qui, ma non appartengo a questo posto”. In altre parole “Io non sono come loro”. Prendevano le distanze dai loro vicini a cui restituivano l’immagine degradata che il discorso pubblico attribuiva a loro. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, i residenti dei quartieri percepiti e vissuti come purgatori urbani nascondevano i loro indirizzi ai datori di lavoro e agli enti pubblici, evitavano di chiedere agli amici di andarli a trovare nelle loro case e negavano di essere parte della micro-società locale. Solo il lavoro di campo poteva rivelare la pervasività di questo stesso senso di ignominia in entrambi i luoghi ed il ricorso alle stesse strategie per gestire lo stigma territoriale, incluse le mutue prese di distanza e la denigrazione trasversale, il ritiro nella sfera privata e la fuga nel mondo esterno una volta acquisiti i mezzi per farlo. Queste strategie ledono sempre di più la già fragile collettività delle zone urbane degradate e contribuiscono a produrre quella stessa “disorganizzazione” che secondo il discorso dominante è caratteristica di queste zone. Lo stigma territoriale, inoltre, incoraggia lo Stato ad adottare misure speciali, violando procedure convenzionali e norme nazionali, che il più delle volte rinforzano le dinamiche di marginalizzazione che intenderebbero combattere, a danno dei residenti.


La carne e il testo

SD: In termini di metodo, scala e oggetto di studio, la sua etnografia del mestiere del pugilato a Woodlawn è molto differente dagli altri suoi studi d’ordine più macroanalitico. Come è stata realizzata?

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“Busy Louie” in allenamento, affiancato dai compagni Curtis e Tony (Maggio 1990)

LW: Il progetto sul pugilato ha una struttura molto classica per quel che riguarda i suoi parametri, è molto simile agli studi sui villaggi condotti dagli antropologi britannici negli anni ’40, se non fosse che il mio villaggio è la palestra di pugilato e tutto ciò che la concerne, e la mia tribù sono i pugili ed il loro entourage41. Ho mantenuto questa unità strutturale e funzionale perché circoscrive la figura del pugile e ritaglia uno specifico orizzonte temporale, relazionale, mentale, emozionale ed estetico che lo caratterizza innalzandolo dal suo ambiente ordinario. In primo luogo volevo analizzare la relazione bifida di “opposizione simbiotica” tra il ghetto e la palestra, la strada e il ring. Volevo, poi, mostrare come la struttura sociale e simbolica della palestra governi la trasmissione delle tecniche della “nobile arte” e la produzione delle credenze collettive nell’illusio pugilistica. Infine desideravo penetrare la logica pratica di una pratica corporea, che opera al limite della pratica stessa, per mezzo di un lungo apprendistato in “prima persona”. Per tre anni mi sono immerso nel paesaggio locale e sono stato preso nel gioco. Ho imparato l’arte del pugilato e partecipato a tutte le fasi di preparazione dei pugili, fino agli incontri della prestigiosa competizione dilettantistica del Golden Gloves. Seguivo i miei compagni di palestra nelle loro peregrinazioni personali e professionali. Avevo a che fare quotidianamente con allenatori, manager e promoter che fanno girare il mondo della boxe. In tal maniera sono stato risucchiato dalla spirale sensuale e morale del pugilato a un punto tale che ho preso seriamente in considerazione l’idea di interrompere il mio percorso accademico per dedicarmi a questa professione.

Questo per dire che sia l’oggetto che il metodo di questa indagine differivano dal modello classico. Body and Soul rappresenta una radicalizzazione empirica e metodologica della teoria dell’habitus di Bourdieu42. Da un lato ho aperto la “scatola nera” dell’habitus pugilistico per scoprire la produzione e la costruzione delle categorie cognitive, le abilità corporee e i desideri che insieme definiscono le competenze e le ambizioni specifiche del pugile. Dall’altro lato ho usato l’habitus come dispositivo metodologico, vale a dire, mi sono situato all’interno del turbine d’azione per acquisire attraverso la pratica, in tempo reale, le attitudini del pugile con l’obiettivo di comprendere il magnetismo proprio all’universo pugilistico. Il metodo è volto dunque a verificare la teoria dell’azione che sostiene l’analisi secondo un progetto di ricerca “ricorsivo e riflessivo”.

L’idea che mi guidava qui era quella di spingere la logica dell’osservazione partecipativa al punto del suo rovesciamento, dove si trasforma in una partecipazione osservante. Nella tradizione anglo-americana, quando gli studenti di antropologia vanno per la prima volta sul campo vengono messi in guardia: “Don’t go native”. Nella tradizione francese, l’immersione radicale è invece ammessa – si pensi a Les Mots, la mort, les sorts di Jeanne Favret-Saada43 – ma a condizione che sia accompagnata da una epistemologia soggettivista che ci faccia perdere nell’intima profondità del soggetto-antropologo. Al contrario la mia posizione è “go native” ma “go native armed”, vale a dire vai equipaggiato dei tuoi strumenti teorici e metodologici, di tutto il bagaglio di problematiche ereditate dalla tua disciplina, della tua capacità riflessiva e d’analisi e guidato dallo sforzo costante, una volta superata la prova di iniziazione, di oggettivare questa esperienza e di costruire l’oggetto – anziché lasciarti ingenuamente includere e costruire da esso. Vai avanti, go native, ma torna sociologo!

SD: Quella iniziazione guidata dalla teoria è ciò che rende Body and Soul così originale, a giudicare dalle numerose reazioni suscitate dal libro (tradotto in nove lingue e ampiamente recensito oltre i confini strettamente sociologici).

LW: Delle reazioni non sono poi così convinto! Credo, con mio grande rammarico, che poiché l’obiettivo principale dell’indagine era quello di de-esotizzare la Sweet science dei pugni, il libro debba gran parte del suo impatto al lato “sensazionalistico” della ricerca di campo: farsi rompere il naso per capire cosa significa diventare un pugile non è molto comune, e ancor meno se a farlo è un “francesino” bianco nel ghetto nero americano… Alcuni dei miei critici, scambiando il mio lavoro con un’estensione degli “studi sulle professioni” nello stile della seconda scuola di Chicago di sociologia urbana, non si sono neppure resi conto del doppio ruolo che il concetto di habitus gioca nella mia indagine lamentando persino un’assenza di teoria nel libro!44

In realtà teoria e metodo sono uniti a un punto tale da fondersi nello stesso oggetto, estremamente empirico, di cui ne rendono possibile l’elaborazione. Body and Soul è un’etnografia sperimentale nel significato più stretto del termine, nel senso che il ricercatore è uno tra i corpi socializzati gettati nell’alambicco socio-morale e sensuale della palestra di pugilato, uno dei “corpi-in-azione” di cui si andrà a tracciare la trasmutazione per poter penetrare l’alchimia con cui i pugili stessi sono fabbricati. L’apprendistato è qui il mezzo per acquisire una competenza pratica, una conoscenza viscerale dell’universo che si sta esaminando, una maniera per delucidare la prasseologia dei soggetti presi in considerazione e non per entrare nella soggettività del ricercatore. Non è in alcun modo una caduta nel pozzo senza fondo del soggettivismo in cui entusiasticamente si lancia l’“auto etnografia”, è piuttosto tutto il contrario: è un affidarsi all’esperienza più intima, quella del corpo desiderante e sofferente, per cogliere in vivo la produzione collettiva degli schemi di percezione, valutazione e azione del mondo pugilistico condivisi in varia misura da ogni pugile, qualsivoglia sia la sua origine, il suo percorso e la sua posizione nella gerarchia sportiva45. La figura centrale di questa storia non è “Busy Louie”, non sono questo o quel pugile, e neppure Dee Dee il vecchio allenatore, a dispetto del suo ruolo-guida: è la palestra come fucina sociale e morale. Il modello intellettuale qui non è Carlos Castañeda e i suoi stregoni Yaquí, ma il Gaston Bachelard di Le Rationalisme applique e della poetica materialista dello spazio, del tempo e del fuoco46.

In realtà con questo progetto credo di aver fatto in maniera esplicita, metodica e soprattutto estrema, ciò che ogni buon etnografo fa, vale a dire assicurarsi una presa pratica, tattile e sensoriale sulla realtà prosaica che si studia per far luce sulle categorie e sulle relazioni che organizzano la condotta quotidiana e i sentimenti dei propri soggetti. Salvo che solitamente questo accade senza che se ne parli o senza che, insieme al fenomeno che viene studiato, venga tematizzato anche il ruolo della “co-presenza”, oppure facendo credere (lo stesso etnografo o altri) che si tratti di un processo mentale, e non un apprendistato che ha invece a che vedere con il corpo e con i sensi e che procede al di sotto del livello di coscienza, prima della mediazione linguistica. Body and Soul offre una dimostrazione in atto delle differenti possibilità e virtù di una sociologia carnale47che tenga pienamente conto del fatto che l’attore sociale è un animale sofferente, un essere di carne e sangue, nervi e viscere, abitato da passioni e dotato di saperi e competenze incorporate [embolie] – in opposizione all’animal symbolicum della tradizione neo-kantiana, ripreso da un lato da Clifford Geertz e dai fautori dell’antropologia interpretativa e dall’altro da Herbert Blumer e dagli interazionisti simbolici48 – e che tutto ciò vale anche per il sociologo. Questo implica il fatto che sia necessario rimettere in gioco il corpo del sociologo e trattare il suo organismo intelligente non come un ostacolo alla comprensione, come vorrebbe l’intellettualismo inculcato nella nostra concezione popolare della pratica intellettuale, ma come un vettore di conoscenza del mondo sociale.

SD: Ma allora se Body and Soul non ruota attorno alla figura di “Busy Louie”, il sociologo apprendista-pugile, questo significa che non si tratta di un libro di sociologia riflessiva?

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Testando la tensione prima del combattimento. Curtis Strong, campione dell’Illinois dei pesi ultraleggeri, e il suo “cornerman” (Novembre 1990)



LW: Non nel senso inteso dalla cosiddetta antropologia “post-strutturalista” o “postmoderna”, secondo la quale il ritorno dello sguardo analitico è diretto sia sulla conoscenza del soggetto nella sua intimità personale che sul testo che egli fa circolare tra colleghi e nel circuito del sapere-potere in cui viaggia. Queste forme di riflessività, narcisistiche e discorsive, sono estremamente superficiali; senza dubbio costituiscono un momento utile quando si intraprende una ricerca, contribuendo a frenare il gioco dei pregiudizi più grossolani (radicati nella propria identità, nel proprio percorso e nei propri affetti, negli effetti retorici, etc.). E tuttavia inibiscono il movimento di autocritica proprio nel punto in cui esso dovrebbe prendere avvio, ovvero nella costante messa in discussione delle categorie e delle tecniche dell’analisi sociologica e della relazione con il mondo che esse presuppongono. È questo ritorno agli strumenti di costruzione dell’oggetto, in opposizione al soggetto dell’oggettivazione, che rappresenta il tratto caratteristico di ciò che possiamo chiamare riflessività epistemica49. Abbiamo qui un’ulteriore differenza rispetto alla riflessività “egologica” o testuale degli antropologi soggettivisti: la riflessività epistemica interviene non alla fine del progetto, ex post, quando si tratta di redigere il rapporto finale di ricerca, ma durante, vale a dire in ogni fase dell’indagine. Riguarda la totalità delle operazioni di ricerca più ordinarie, dalla selezione del luogo, al reclutamento degli informatori, dalla selezione delle domande da porre o quelle da evitare, alla scelta degli schemi teorici, degli strumenti metodologici e delle tecniche di visualizzazione al momento della loro messa in atto.

Body and Soul è dunque un libro riflessivo nel senso che è lo stesso dispositivo d’indagine ad avermi costretto a riflettere costantemente sull’idoneità dei mezzi di ricerca rispetto ai suoi fini, sulla differenza tra la padronanza pratica e la padronanza teorica di una pratica, sullo scarto tra infatuazione sensoriale e comprensione analitica, sullo iato tra il viscerale e il mentale, sull’ethos e il logos tanto del pugilato quanto della sociologia. Alla stessa maniera Urban Outcasts è un lavoro di sociologia urbana riflessiva perché si interroga incessantemente sulle categorie che mette in gioco – “underclass”, “inner city”, banlieues, iperghetto, segregazione, precariato – per pensare le nuove configurazioni della marginalità nella città. Non solo, ma anche perché è un lavoro che si basa su una netta demarcazione tra le categorie popolari e quelle analitiche, che rappresenta, per me, il fondamento della riflessività.

La riflessività epistemica è tanto più urgente per gli etnografi quanto più grande è il rischio di ricadere nei preconcetti del senso comune. Per dovere metodologico, gli etnografi devono dimostrarsi attenti ai soggetti che studiano e considerare seriamente il loro “punto di vista”. Se fanno bene il proprio lavoro, si ritrovano legati ad essi da rapporti di tipo affettivo che favoriscono identificazione e transfert. L’etnografia, infine, si trova paragonata, nella sua immagine pubblica (e sfortunatamente anche agli occhi di altri scienziati sociali), al racconto, alla scrittura di diari e persino all’epica. Ciò significa che l’antropologo o il sociologo che basa la propria ricerca sul lavoro di campo deve raddoppiare la dose di riflessività. Questo è quanto ho tentato di dimostrare in Scrutinizing the Street in riferimento alle tendenze recenti e alle mode dell’etnografia urbana statunitense50. Qui l’oggetto della mia critica non sono i tre libri che analizzo meticolosamente (e tantomeno i loro autori, che rappresentano semplici punti nello spazio accademico, o le loro posizioni politiche, rispetto alle quali sono completamente indifferente), bensì un certo atteggiamento epistemologico di abbandono irriflesso alle appercezioni popolari, al moralismo ordinario, alle seduzioni del pensiero ufficiale e alle regole del decoro accademico. Questo atteggiamento è causa di errori scientifici gravi nella misura in cui tendono a cristallizzarsi in sistema, trovando sostegno nel senso comune sia ordinario che accademico.

SD: Body and Soul è un libro innovativo anche per la sua forma, per la sua scrittura narrativa di stampo quasi teatrale che invita il lettore a sperimentare il brivido dell’apprendista-pugile, rendendo palpabile sia la logica del lavoro di campo che il suo prodotto finale.

LW: Come passare dallo stomaco all’intelletto, dalla comprensione della carne al sapere del testo? Qui c’è un problema reale di epistemologia concreta riguardo al quale non si è sufficientemente riflettuto e che per lungo tempo mi è parso irrisolvibile. Restituire la dimensione carnale dell’esistenza ordinaria e l’ancoraggio al corpo del sapere pratico costitutivo del pugilato – ma anche di ogni pratica, persino di quelle all’apparenza meno “corporee” – richiede infatti una profonda revisione della nostra maniera di redigere la scienza sociale. In questo caso bisognava trovare uno stile che rompesse con la scrittura monologica, monocromatica, lineare del classico racconto di ricerca dal quale l’etnografo si è allontanato, per elaborare una scrittura multiforme, mescolando stili e generi, per poter cogliere e trasmettere al lettore “il sapore e il dolore dell’azione” 51, pp. 7-11; cfr. anche Whores, Slaves, and Stallions: Languages of Exploitation and Accomodation Among Professional Fighters, Body & Society 7, n. 2–3, giugno-settembre 2001, pp. 181–194, tr. it. Puttane, schiavi e stalloni: linguaggi dello sfruttamento e dell’adattamento tra i pugili, in Nancy Scheper-Hughes e Loïc Wacquant (ed.), Corpi in vendita. Interi e a pezzi, Ombre Corte, Verona, 2004, pp. 143-158.].

Body and Soul è scritto contro il soggettivismo, contro il narcisismo e l’irrazionalismo che sottendono la cosiddetta teoria letteraria “postmoderna”, ma ciò non significa che per questa ragione ci si debba privare delle tecniche letterarie e degli strumenti di esposizione drammatica che questa tradizione ci offre. Ecco perché il libro combina tre modalità di scrittura, tra loro intrecciate nonostante ciascuna di esse prevalga in una delle tre parti, di modo che il lettore possa scivolare impercettibilmente dal concetto al percetto, dall’analisi all’esperienza. La prima parte è ancorata ad uno stile sociologico classico di tipo analitico che individua sin dall’inizio strutture e meccanismi, offrendo in tal modo al lettore gli strumenti necessari per spiegare e comprendere la posta in gioco di ciò di cui si sta trattando. Il tono della seconda parte è determinato da una scrittura etnografica in senso stretto, si tratta, cioè, di una densa rappresentazione dei modi di essere, di pensare, di sentire e di agire propri del milieu in considerazione, dove si osservano gli stessi meccanismi precedentemente introdotti, ma questa volta in azione, attraverso gli effetti che essi producono. Il momento esperienziale arriva nella terza parte, sottoforma di “novella sociologica” che restituisce l’esperienza vissuta di un soggetto che è allo stesso tempo colui che conduce l’analisi.

La combinazione ragionata di queste tre modalità di scrittura – la sociologica, l’etnografica e la letteraria – secondo delle proporzioni che vengono gradualmente ad invertirsi nell’evoluzione del libro, ha come obiettivo quello di far sì che il lettore giunga a sentire emotivamente e cogliere razionalmente le dinamiche dell’azione pugilistica. Per questa ragione il testo intreccia insieme un tessuto analitico, note di campo accuratamente redatte, contrappunti costituiti da ritratti di personaggi chiave ed estratti di interviste, e infine fotografie, il cui ruolo è quello di promuovere una comprensione sintetica dell’interazione dinamica dei fattori e delle forme inventariate nell’analisi, il tutto affinché il lettore abbia l’opportunità di “toccare con i propri occhi” il cuore pulsante del pugilato. Ancora una volta tutto si tiene: la teoria dell’habitus, l’utilizzo dell’apprendistato come tecnica di indagine, la posizione accordata al corpo senziente come vettore di conoscenza e l’innovazione formale nella scrittura. Non ha senso condurre una sociologia carnale poggiata sull’iniziazione pratica se ciò che rivela del magnetismo senso-motorio dell’universo in questione finisce poi per scomparire nella scrittura, con il pretesto che debbano essere rispettati i canoni dettati dal positivismo humeano o dal cognitivismo neo-kantiano.


Slittando attraverso l’Atlantico

SD: Veniamo ora alla sua posizione come sociologo europeo che lavora negli Stati Uniti, la quale ci offre l’occasione di riflettere sull’attuale maniera di concepire il ruolo dell’intellettuale tra le due sponde dell’Atlantico.

LW: Posso dire di trovarmi nel punto di raccordo, o in quello di frattura, tra due tradizioni, due concezioni del lavoro di ricerca. Vi è da un lato una tradizione europea, che la Francia rappresenta in maniera esemplare, la quale ha inventato una categoria socio-storica dell’intellettuale attorno all’affare Dreyfus, come Christophe Charle ha mostrato nel suo magnifico libro Naissance des “intellectuels”. Secondo questo lignaggio che va approssimativamente da Zola a Sartre, poi da Foucault a Bourdieu e altri, l’intellettuale è un produttore culturale che, per definizione, impegna la sua specifica competenza nel dibattito pubblico52. L’intellettuale è necessariamente, per la sua costituzione, implicato nella City; è suo dovere far penetrare il frutto delle sue riflessioni e delle sue osservazioni nella sfera civica e politica. Io sono un prodotto di questa tradizione. Ma il caso vuole che io svolga il mio lavoro per lo più al di là dell’Atlantico dove regna una differente tradizione, che ha a che vedere molto più con il rigore metodologico, secondo la quale l’ideale regolativo del ricercatore è incarnato non nell’intellettuale (termine che negli Stati Uniti ha un senso dispregiativo), ma nel professionista, inteso in riferimento a figure quali l’avvocato o il medico, ossia a coloro che possiedono una competenza tecnica e conoscenze specialistiche, un sapere neutro valutabile solo da professionisti di pari livello e che pertanto deve essere tenuto fuori dal dibattito pubblico. L’intellettuale è bidimensionale, al contempo studioso e cittadino attivo; l’accademico è monodimensionale, rivolto esclusivamente al microcosmo dell’università – a rischio di essere irrilevante e vedersi screditato. Per me questo dualismo è una tensione esistenziale e professionale non sempre facile da gestire.

Naturalmente ciascuna di queste tradizioni ha i suoi propri pregi e difetti. Piuttosto che confinarci nella rituale celebrazione di una concezione della vocazione del ricercatore e nella denigrazione sistematica dell’altra, dovremmo sforzarci di accomunare le loro specifiche qualità. La forza del modello americano risiede nel rigore tecnico che esso prescrive e nei freni che mette al dilettantismo. La perversione del modello francese è l’inverso: la grande tolleranza che accorda al dilettantismo intellettuale e alla saggistica animata da pretese filosofiche, incarnando fino alla caricatura ciò che Louis Pinto, secondo una formula perfettamente calzante, chiama “l’intellettuale mediatico”, il quale esiste solo per e attraverso i media53. Molti dei nostri grandi “filosofi” parigini, onnipresenti nelle riviste culturali e negli show televisivi, non hanno mai pubblicato il benché minimo lavoro in una rispettabile rivista filosofica o di scienze sociali. Ma finché i loro amici giornalisti parigini non cesseranno di meravigliarsi dei loro pensieri profondi, essi continueranno ad esistere come tali… Su entrambe le sponde dell’Atlantico i ricercatori autonomi sono sempre più soppiantati da esperti burocrati, quegli studiosi nell’ombra che consegnano ai governi le risposte che i funzionari desiderano e che, soprattutto, accettano le richieste dei politici. Di fatto, in entrambi i paesi vi è un deficit enorme nella riflessione sull’organizzazione collettiva del lavoro scientifico e sul mutamento del nesso tra ricerca, media, denaro e politica. Questo deficit favorisce l’eteronomia scientifica, e grazie a questa, la diffusione del monopolio del “pensiero unico” neoliberale che ha interrotto e paralizzato il dibattito pubblico nell’ultimo decennio54 febbraio 1999), pp. 41–57, in italiano in versione ampliata in Wacquant (a cura di), Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica, Ombre Corte, Verona, 2005.].

SD: Il suo tempo è diviso tra gli Stati Uniti e l’Europa, ma com’è concretamente la vita quotidiana di Loïc Wacquant?

LW: Sarebbe meglio evitare di descriverla! È abbastanza frenetica, un po’ come andare sullo slittino, sei schiacciato, rasoterra, su di un bolide che sfreccia giù tra le montagne a velocità vertiginosa. Questa è la vita quotidiana di Loïc Wacquant: è come un andare sullo slittino intellettuale, ma senza ghiaccio [ride]…. Le faccio una confidenza: vado raramente a letto presto e non vado spesso al cinema.

La mia vita quotidiana è molto simile a quella di ogni ricercatore. Quando sono negli Stati Uniti, per via dell’insegnamento e del lavoro di campo, vivo una vita da eremita, nella quale sono piuttosto sigillato, isolato nel mondo accademico, a sua volta totalmente isolato dalla società circostante e strutturalmente disconnesso dal piano politico. Così mi concentro sulla mia ricerca, i miei corsi, la supervisione degli studenti di dottorato, la cura della rivista Ethnography, etc., tutto questo copre il 95% del mio tempo e della mia energia, e costituisce il fondamento di tutto quello che faccio: senza un serio lavoro scientifico, senza conoscenza misurata e verificata, non avrei niente da dire. È quando sono in Europa o in Sud America che emerge l’altro lato di me – l’“intellettuale impegnato”, come direbbero i miei colleghi americani. Una volta attraversato l’Atlantico, partecipo a conferenze e colloqui scientifici, ma prendo anche parte ad eventi extra-accademici, dibattiti pubblici, tutte occasioni per intervenire su temi di cui ho qualche competenza. È una fortuna che in Europa ed in America Latina esista una simile opportunità di uscire dalla bolla accademica, altrimenti credo che a quest’ora mi ritroverei completamente prosciugato, umanamente e intellettualmente. Quando si rimane chiusi nei propri circoli universitari ci si lascia prendere nel gioco di quel microcosmo, finendo per perdere la propria energia civica, la propria capacità di stupirsi del mondo e la perspicacia di cui si ha bisogno per decifrarlo.

Wacquant 6

Dibattito pubblico con il giornalista politico Daniel Mermet alla Fête de l’Humanité
(Settembre 2003)

A volte ho la sensazione di vivere un’esistenza raddoppiata o moltiplicata con momenti di tensione tra i vari temi di ricerca che approfondisco, tra il registro scientifico e quello politico, tra un pubblico accademico ed uno attivista, tra gli Stati Uniti e l’Europa dove, come ho mostrato precedentemente, prevalgono differenti concezioni dell’attività intellettuale e di conseguenza immagini ed aspettative del mio lavoro piuttosto differenti. A volte queste due dimensioni confliggono, e questo rende le cose più complicate, spesso faticose; ma quando entrano in sinergia, sento di stare perseguendo fino in fondo la mia missione. Ad esempio, nel febbraio 2007, mentre era in corso la campagna presidenziale in Francia, ho preso parte ad un dibattito pubblico su Urban Outcasts organizzato da Utopia, un gruppo antagonista di militanti di sinistra, in cui il discussant del libro era l’ex-Ministro degli Interni del governo Jospin, Jean-Pierre Chevênement, che aveva aspramente criticato il mio libro precedente, Les Prisons de la misère. Abbiamo avuto una discussione altrettanto seria quanto quella avuta pochi giorni prima con dei colleghi britannici, sociologi e urbanisti, a Cambridge, ma questa volta molto più aperta e rischiosa. È stato molto stimolante confrontare le nostre opinioni sulla marginalizzazione delle banlieues popolari e sui rimedi che lo Stato potrebbe apportarvi, e riflettere ad alta voce su come la mia analisi sociologica potrebbe proseguire verso misure concrete, senza perdere alcun rigore teorico ed empirico55.

In Francia e Portogallo, in Argentina, Messico, Italia o Belgio, il pubblico delle mie conferenze è spesso un insieme eterogeneo di accademici, militanti politici, sindacalisti, attivisti per i diritti umani, persone provenienti da diversi settori professionali come insegnanti o lavoratori del settore sociale, o semplicemente cittadini interessati al tema in discussione. È grazie a questa eterogeneità che viene a crearsi la possibilità di un dialogo più ampio ed aperto, in cui lo sguardo e il linguaggio scientifico sono essi stessi messi in discussione ponendo concretamente il problema di tradurre i risultati della ricerca da un piano scientifico a quello civile e pratico.

SD: E questo non è possibile negli Stati Uniti?

LW: Questo spazio di “traduzione” collettiva è estremamente compresso a causa della chiusura del campo politico e dell’autoreferenzialità delle professioni accademiche. Ad esempio in Europa e in America Latina sono stato intervistato centinaia di volte sulla questione della detenzione, nelle radio nazionali, in televisione e nei maggiori quotidiani e sono stato consultato da politici di alto livello dall’Olanda al Brasile. Al contrario, negli Stati Uniti non ho tenuto un solo discorso sulle prigioni al di fuori del perimetro accademico, dove il pubblico è composto quasi esclusivamente da studenti e professori, sociologi, criminologi o giuristi. E questo non è un fallimento personale: questo vale per praticamente tutti i maggiori ricercatori, come il mio eminente collega a Berkeley, il giurista Franklin Zimring, che ha condotto uno studio innovativo della legge californiana soprannominata “Three Strikes and You’re Out”, mostrando l’assurdità giuridica e criminologica di questa legge che alla terza trasgressione condanna all’ergastolo56. Non un solo leader politico o funzionario amministrativo si è preoccupato di consultarlo su questo argomento. Nel frattempo la California ogni anno spende otto miliardi di dollari per trattenere 170.000 detenuti, tre volte le cifre della Francia che possiede la metà della popolazione…

Non c’è praticamente alcun luogo di discussione civica e alcun mezzo per convogliare il lavoro scientifico nella sfera pubblica, dandogli così peso concreto. Esiste certamente un gran numero di “community organizations” ma queste occupano una posizione marginale nel campo burocratico e sono anche, a mio avviso, uno strumento di addomesticamento della protesta politica dal momento che esse dipendono in larga misura dal loro essere tollerate dalla macchina politica locale. Un ulteriore ostacolo sulla via della valorizzazione civica della ricerca scientifica è costituito dalle politiche pubbliche dell’istruzione e dal think tank privato che fungono da spalti intellettuali o “scudi” che proteggono i politici dal pensiero critico producendo pseudo-saperi precostituiti perfettamente conformi agli interessi di chi domina57.

Il campo politico e quello giornalistico negli Stati Uniti sono ampiamente controllati da interessi monetari, grandi imprese, associazioni professionali e dalle grandi fortune che tengono in scacco i due partiti siamesi, partiti che sono essi stessi poco più che etichette atte a facilitare la raccolta fondi per pagare le campagne elettorali, le quali a loro volta devono pagare l’accesso ai media. Detta così brutalmente può sembrare caricaturale, ma la caricatura è nella realtà: basti pensare che due terzi dei senatori statunitensi sono milionari e che la campagna presidenziale del 2008 sarà costata all’incirca cinque miliardi di dollari. In realtà è l’organizzazione complessiva della sfera pubblica negli Stati Uniti che riduce drasticamente il coinvolgimento degli studiosi nella vita della City insieme all’etica professionale dei ricercatori che vedono sé stessi come accademici piuttosto che come intellettuali (che odorano di polvere da sparo e terrorizzano presidi e rettori).

Ecco perché mi piace lavorare e stringere legami personali su entrambe le sponde dell’Atlantico, in questa maniera posso tornare regolarmente in Europa dove trascorro circa quattro mesi all’anno. Questo aumenta le mie energie e mi riempie di voglia di tornare al lavoro durante i periodi di dubbio o stanchezza. C’è davvero tanto da imparare uscendo dall’“accademia” e stando a contatto con la gente direttamente coinvolta, a livello quotidiano, professionale, militante o politico, nel cuore dei fenomeni che studiamo. In cambio, i ricercatori possono aiutare questa gente a vedere le proprie pratiche da una nuova angolazione e a volte a meglio indirizzare le loro azioni.


Le scienze sociali come faro e come solvente

SD: Può la sua ricerca aiutare a guidare l’azione degli attivisti?

LW: Sta a loro dirlo, o scoprirlo. Ma l’attivismo è irto di insidie e trappole che portano ad un enorme spreco di energie collettive. Quando questo accade si deve avere l’onestà di dire “basta, non state cogliendo il punto della questione, state sprecando il vostro tempo”. Questo potrebbe essere il ruolo del ricercatore.
Prendiamo un esempio specifico: negli Stati Uniti i militanti per la giustizia criminale si sono mobilitati contro la privatizzazione delle prigioni, è quanto la tesi del “complesso carcerario-industriale” [“prison-industrial complex”] ritrae nei termini di sfruttamento della forza-lavoro in cattività dei detenuti. In realtà l’impiego carcerario da parte di imprese private coinvolge appena lo 0.3% dei detenuti: è un fenomeno assolutamente minoritario. Combattere per abolire il “lavoro schiavistico” in prigione è come lottare contro una chimera. E se anche le prigioni a scopo di lucro negli Stati Uniti venissero chiuse domani, la situazione della popolazione detenuta rimarrebbe invariata: le autorità avrebbero semplicemente il 6% in meno di celle da riempire. Focalizzando l’attenzione esclusivamente sulla privatizzazione si perde di vista il cuore del problema: non è la ricerca del profitto capitalistico che regge l’incredibile espansione della popolazione dietro le sbarre negli Stati Uniti, bensì la costruzione di uno Stato liberal-paternalista, ossia un progetto politico che richiede di tenere insieme deregolamentazione economica, riduzione dell’assistenza sociale ed espansione del settore penale in un unico quadro d’analisi e d’azione58. Lo stesso ragionamento vale per ciò che alcuni militanti di sinistra in Francia e in alcuni paesi vicini ingenuamente chiamano “le programme sécuritaire” [il “pacchetto sicurezza” N.d.T.]. L’insicurezza che proviene dalla criminalità è solo un’esca atta a distogliere lo sguardo collettivo da ciò che è in gioco realmente, ossia la ridefinizione del perimetro e delle missioni dello Stato nel suo affrontare il Moloch del mercato.
Qualcosa di simile si verifica in tutta l’Europa occidentale a proposito del panico morale circa la “ghettizzazione” dei quartieri popolari in degrado: anche qui gli attivisti che lottano per “abbattere i ghetti” hanno scelto il bersaglio sbagliato. I quartieri marginalizzati della periferia urbana europea sono agli antipodi dal ghetto e si stanno evolvendo in una direzione sempre più distante da esso. La loro popolazione è etnicamente mista e sempre più eterogenea; la loro capacità d’organizzazione collettiva va diminuendo; i loro confini sono porosi e sistematicamente valicati dai residenti in grado di elevarsi nella struttura di classe; infine, si sono dimostrati incapaci di produrre un’identità collettiva diversa da quella territoriale e fondamentalmente negativa. Queste aree sono anti-ghetti che soffrono in primo luogo la pauperizzazione, la stigmatizzazione ed il generale ridimensionamento dello Stato sociale. Piuttosto che preoccuparci della “seconda generazione d’immigrazione”, dovremmo confrontarci direttamente con la terza generazione della disoccupazione di massa e con il dilagante precariato salariale i quali, a causa del restringimento e della frammentazione del mercato del lavoro, acuiscono i fenomeni di discriminazione59.

SD: Le sue analisi danno talvolta la cupa impressione che il mondo sociale sia decisamente chiuso e permeato da una causalità implacabile, quale sarebbe dunque il suo messaggio di ottimismo per il futuro delle scienze sociali?

LW: Il compito dei sociologi non è quello di essere ottimisti o pessimisti: bisogna piuttosto guardare negli occhi la realtà sociale, con lucidità e con l’aiuto di tutti gli strumenti che la propria scienza mette a disposizione. Nelle nostre analisi dobbiamo semplicemente essere intrepidi e rigorosi per poter costruire un modello che veramente ci consenta di identificare i luoghi di intervento e i punti su cui far leva per l’azione individuale e collettiva – ma è più semplice dirlo che farlo!60 Se le mie analisi spesso sembrano essere fredde e cupe, è perché viviamo in tempi freddi e cupi. Non è un tratto caratteristico dell’analista, ma una caratteristica della realtà storica. Ora, posso garantire che se si guarda al mondo con gli occhi del dominante, il paesaggio sociale apparirà più roseo e ispirerà maggiore entusiasmo!
Detto questo, oggi le scienze sciali posso offrire un contributo civico di prim’ordine giocando il doppio ruolo di solvente e faro. Possono agire come solvente del nuovo senso comune neoliberale che “naturalizza” lo stato attuale delle cose e le sue tendenze immanenti per mezzo di una critica sistematica delle categorie e delle tematiche che tessono il discorso dominante61. Su questo fronte si tratta di dare al più grande numero possibile di cittadini gli strumenti di riflessione necessari per riappropriarsi delle proprie opinioni sul mondo sociale, affinché essi non siano pensati dai media e invasi dalle idee preconcette che questi diffondono in un flusso costante; affinché i cittadini siano in grado di mettere in questione gli schemi stessi che strutturano il dibattito politico – e siano in grado di sfidare non solo le soluzioni proposte ma persino la diagnosi dei problemi che la società deve affrontare. La scienza sociale può anche funzionare alla maniera di un faro che getta luce sulle trasformazioni contemporanee, facendo emergere dall’ombra le proprietà latenti o le tendenze inosservate (un semplice esempio: la rapidità dell’affermazione dell’indice di Gini che misura la disuguaglianza di reddito), e soprattutto che rivela i possibili percorsi alternativi, punti di biforcazione nel cammino della storia.
Contro la mitologia della “globalizzazione” – il gentile nomignolo che la rivoluzione neoliberale si è autoattribuita – le scienze sociali possono e devono diffondere nel dibattito pubblico l’idea che vi sono variazioni sociologiche molto significative tra le società contemporanee, erroneamente descritte come uniformi e forzate ad allinearsi al modello della “società dell’insicurezza avanzata” incarnata dagli Stati Uniti o da quella succursale pratica ed ideologica quale è divenuta l’Inghilterra. Queste variazioni sono il risultato complessivo di scelte politiche che è necessario prendere, non brancolando nel buio, ma nella piena luce delle scienze della società, sulla base di una comprensione ragionata di cause e conseguenze.

Trascrizione e revisione di Elisabeth Coutant

Ricerca bibliografica di Susana Durão

Traduzione Italiana di Michela Russo


Loïc Wacquant è professore all’University of California, Berkeley, e ricercatore presso il Centre européen de sociologie et de science politique di Parigi. Membro della MacArthur Foundation e vincitore del Lewis Coser Award, le sue ricerche spaziano dalla questione dell’embodiment alla marginalità urbana, dalla dominazione etno-razziale allo Stato penale, dalla teoria sociale alle politiche della ragione [politics of reasons]. I suoi libri sono stati tradotti in venti lingue tra cui, in traduzione italiana, Parola d’ordine: tolleranza zero (Feltrinelli, 2000), Anima e corpo. La fabbrica dei pugili nel ghetto nero americano (Derive Approdi, 2002), Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica (Ombre Corte, 2005), Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale (Derive Approdi, 2006), e Iperincarcerazione in uscita per Ombre Corte (2012). Per maggiori informazioni rimandiamo al sito web www.loicwacquant.net.

L. Wacquant, Department of Sociology, University of California, Berkeley, CA 94720, USA
e-mail: loic@berkeley.edu

Susana Durão ha conseguito il dottorato in antropologia presso l’Instituto Superior de Ciências do Trabalho e da Empresa (ISCTE) a Lisbona nel 2006, con una tesi intitolata “Proximity Patrols: An Ethnography of Police in Lisbon”. I suoi interessi comprendono l’antropologia delle organizzazioni, del lavoro e delle professioni; violenza urbana e sorveglianza; teorie critiche della sicurezza. È autrice di Oficinas e Tipógrafos. Culturas e Quotidianos do Trabalho (2003) e di numerosi articoli di antropologia del lavoro e dell’impresa. Attualmente svolge la sua ricerca sulle politiche pubbliche di contenimento della violenza urbana presso il Museu Nacional dell’Università Federale di Rio de Janeiro e il Centre d’Études Africaines dell’École des hautes études en sciences sociales a Parigi.

  1. Tr. it. da L. Wacquant, The body, The Ghetto, The Penal State, Qualitative Sociology, Vol. 32, Issue 1, Springer, 2008, pp. 101-129 (N.d.T.).
  2. Testo originale in portoghese: O corpo, o gueto, e o Estado penal: no campo com Loïc Wacquant, in Etnografica, 12-3, novembre 2008: 453-484; tr. inglese The body, The Ghetto, The Penal State, Qualitative Sociology, Vol. 32, Issue 1, Springer, 2008, pp. 101-129 (N.d.T.).
  3. Loïc Wacquant, Ethnografeast: A Progress Report on the Practice and Promise of Ethnography, in Ethnography 4, n. 1, marzo 2003, pp. 1–10.
  4. Pierre Goubert, Louis XIV et vingt millions de français, Hachette, Paris, 1967, nuova ed. 1997; tr. it., Luigi XIV e venti milioni di francesi, Laterza, Bari, 1968.
  5. Pierre Bourdieu, Le Sens pratique, Minuit, Paris, 1980; tr. it. Il senso pratico, Armando, Roma, 2005. Per una resa della tipologia e dello stile delle conferenze pubbliche tenute in quel periodo da Bourdieu cfr. la raccolta Questions de sociologie, Minuit, Paris, 1980.
  6. Pierre Bourdieu, Jean-Claude Passeron, La Reproduction. Eléments pour une théorie du système d’enseignement, Minuit, Paris, 1970; tr. it. La riproduzione. Per una teoria dei sistemi di insegnamento, Guaraldi, Rimini, 1972 (nuova edizione 2006). Jean Baudrillard, Le Système des Objets, Gallimard, Paris, 1968; tr. it. Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1972.
  7. Gerhard Lenski, Power and Privilege: A Theory of Social Stratification, University of North Carolina, Chapel Hill, 1984, orig. 1968
  8. Office de la recherche scientifique et technique outre-mer, fondato nel 1943, poi divenuto, nel 1998, IRD (Institut de recherche pour le développement N.d.T.) il vecchio “ufficio di ricerca coloniale” francese. Ho avuto modo, grazie a quest’esperienza, di svolgere due anni di formazione nella pratica sociologica in un contesto spinoso e per questo particolarmente istruttivo.

    A Nanterre mi sono specializzato in “sociologia della cultura e dell’educazione”, avevo scritto una tesi che collegava storia ed etnografia sulla base della mia esperienza all’HEC intitolata “Produzione accademica e riproduzione sociale”, per la quale avevo naturalmente letto e adoperato i lavori di Pierre Bourdieu. Durante il mio ultimo anno a Parigi, ho lasciato le mie classi all’HEC per seguire i suoi corsi al Collège de France. Al termine di ogni incontro, io e Bourdieu discutevamo camminando verso casa sua – per me era come un corso accelerato individuale! Quando sono partito per la Nuova Caledonia, poi, abbiamo iniziato una corrispondenza regolare e al mio ritorno sono diventato “membro non residente” del Centre de sociologie européenne[9. Il Centre de sociologie européenne è stato fondato da Bourdieu nel 1968 (N.d.T.).

  9. Loïc Wacquant, La question scolaire en Nouvelle-Calédonie: idéologies et sociologie, Les Temps modernes 464, marzo 1985, pp. 1654–85; Jeunesse, ordre coutumier et identité canaque en Nouvelle-Calédonie (con J.M. Kohler e P. Pillon), Cahiers ORSTOM-Série sciences humaines 21, n. 2/3, 1985, pp. 203–228; Communautés canaques et société coloniale: notes complémentaires sur la ‘question canaque’, Actes de la recherche en sciences sociales 61, marzo 1986, pp. 56–64; The Dark Side of the Classroom in New Caledonia: Ethnic and Class Segregation in Nouméa’s Primary School System, Comparative Education Review 33, n. 2, maggio 1989, pp. 194–212.
  10. Loïc Wacquant, L’École inégale. Éléments pour une sociologie de l’enseignement en Nouvelle-Calédonie, Editions de l’ORSTOM et Institut Culturel Mélanésien, Nouméa et Paris, 1985.
  11. William Julius Wilson, The Truly Disadvantaged: The Inner City, the Underclass, and Public Policy, University of Chicago Press, Chicago, 1987, un libro, questo, che approfondisce le analisi contenute in The Declining Significance of Race: Blacks and Changing American Institutions, University of Chicago Press, Chicago, 1978.
  12. Loïc Wacquant, Three Pernicious Premises in the Study of the American Ghetto, International Journal of Urban and Regional Research 21, n. 2, giugno 1997, Events and Debate, pp. 341–353; tr. it., Tre perniciose premesse nell’analisi del ghetto americano, in Alfredo Alietti e Sonia Paone (a cura di), Distopie urbane. Immagini e realtà della segregazione socio-spaziale nelle città contemporanee, Franco Angeli, Milano, 2010.
  13. Loïc Wacquant, ’The Zone’: Le métier de ‘hustler’ dans le ghetto noir américain, Actes de la recherche en sciences sociales 93, giugno 1992, pp. 38–58.
  14. Loïc Wacquant, L’‘underclass’ urbaine dans l’imaginaire social et scientifique américain, in Serge Paugam (ed.), L’Exclusion. L’état des savoirs, La Découverte, Paris, 1996, pp. 248–262; tr. it., Dallo Stato caritatevole allo Stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America<, in A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, Costa & Nolan, Genova-Milano, 1998, pp. 275-90.
  15. Loïc Wacquant, Chicago Fade: remettre le corps du chercheur en scène, Quasimodo 7, 2002, pp. 171–179; tr. it. in ‘Busy’ Louie sul ring: un sociologo tra i pugili professionisti, Lancilloto e Nausica, Roma, n. 3, 2007, pp. 40-53.
  16. Loïc Wacquant, Corps et âme: notes ethnographiques d’un apprenti-boxeur, Actes de la recherche en sciences sociales 80, novembre 1989, pp. 33–67; Protection, discipline et honneur: une salle de boxe dans le ghetto américain, Sociologie et sociétés 27, n. 1, 1995, pp. 75–89; The Pugilistic Point of View: How Boxers Think and Feel About Their Trade, Theory & Society 24, n. 4, agosto 1995, pp. 489–535; Pugs at Work: Bodily Capital and Bodily Labor Among Professional Boxers, Body & Society 1, n. 1, marzo 1995, pp. 65–94, in uscita per Consecutio Temporum; The Prizefighter’s Three Bodies, Ethnos: Journal of Anthropology 63, n. 3, novembre 1998, pp. 325–352; A Fleshpeddler at work: Power, Pain, and Profit in the Prizefighting Economy, Theory & Society 27, n. 1, febbraio 1998, pp. 1–42.
  17. Loïc Wacquant, Banlieues françaises et ghetto noir américain: de l’amalgame à la comparaison, French Politics and Society 10, n. 4, 1992, pp. 81–103; Pour en finir avec le mythe des ‘cités-ghettos’: les différences entre la France et les Etats-Unis, Annales de la recherche urbaine 52, settembre 1992, pp. 20–30; Décivilisation et démonisation: la mutation du ghetto noir américain, in Christine Fauré e Tom Bishop (ed.), L’Amérique des français, Editions François Bourin, Paris, 1992, pp. 103–125 (riveduto e ampliato con il titolo Decivilizing and Demonizing: The Remaking of the Black American Ghetto, in Steven Loyal e Stephen Quilley (ed.), The Sociology of Norbert Elias, Cambridge University Press, Cambridge, 2004, pp. 95–121, tr. it. in Annuario Antropologia, Roma, 2007); Urban Outcasts: Stigma and Division in the Black American Ghetto and the French Urban Periphery, International Journal of Urban and Regional Research 17, n. 3, settembre 1993, pp. 366–383.
  18. Loïc Wacquant, Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Polity Press, Cambridge, 2008; Ghetto, banlieues, État: réaffirmer la primauté du politique, Nouveaux regards 33, aprile-giugno 2006, pp. 62–66; Ghettos and Anti-Ghettos: An Anatomy of the New Urban Poverty, Thesis Eleven 94, agosto 2008, pp. 6–11.
  19. Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant, An Invitation to Reflexive Sociology, University of Chicago Press and Cambridge, UK, Polity Press, Chicago, 1992, tr. it., Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
  20. Loïc Wacquant, The Curious Eclipse of Prison Ethnography in the Age of Mass Incarceration, Ethnography 3, n. 4, 2002, numero speciale In and Out of the Belly of the Beast, pp. 371–397.
  21. Michael Tonry, Malign Neglect: Race and Punishment in America, Oxford University Press, New York, 1995.
  22. Loïc Wacquant, Crime et Châtiment en Amérique de Nixon à Clinton, Archives de politique criminelle 20, 1998, pp. 123–138 (riveduto ed ampliato con il titolo The Great Penal Leap Backward: Incarceration in America from Nixon to Clinton, in John Pratt et al. (ed.), The New Punitiveness: Trends, Theories, Perspectives, Willan, London, 2005, pp. 3–26), tr. it., Delitto e castigo da Nixon a Clinton, in L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, Ombre Corte, Verona, 2002, pp. 26-46; The New ‘Peculiar Institution’: On the Prison as Surrogate Ghetto, Theoretical Criminology 4, n. 3, 2000, numero speciale New Social Studies of the Prison, pp. 377–389; Deadly Symbiosis: When Ghetto and Prison Meet and Mesh, Punishment & Society 3, n. 1, 2001, (numero speciale Mass Incarceration in the United States: Social Causes and Consequences), pp. 95–133; tr. it. Simbiosi mortale. Quando ghetto e prigione si incontrato e si intrecciano, in L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, Ombre Corte, Verona, 2002, pp. 47-106.
  23. Loïc Wacquant, Les Prisons de la Misère, Raisons d’agir Editions, Paris, 1999; tr. it. Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli Interzone, Milano, 2000.
  24. Loïc Wacquant, Les pauvres en pâture: la nouvelle politique de la misère en Amérique, Hérodote 85, 1997, pp. 21–33l; De l’Etat charitable à l’Etat pénal: notes sur le traitement politique de la misère en Amérique, Regards sociologiques 11, 1996, pp. 30–38, tr. it., Dallo Stato caritatevole allo Stato penale. Note sul trattamento politico della miseria in America, in A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea, Costa & Nolan, Genova-Milano, 1998, pp. 275-90; cfr. anche il numero di Actes de la recherche en sciences sociales, n. 124, settembre 1998, dedicato al passaggio From the Social State to the Penal State, con contributi di David Garland, Katherine Beckett e Bruce Western, Dario Melossi e Loïc Wacquant.
  25. Loïc Wacquant, Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Polity Press, Cambridge, UK, 2008.
  26. Loïc Wacquant, Les banlieues populaires à l’heure de la marginalité avancée, Sciences humaines 4, 1996, 30–33.
  27. Loïc Wacquant, Punishing the Poor: The Neoliberal Government of Social Insecurity, Duke University Press, Durham and London, 2009, tr. it. Punire i poveri, DeriveApprodi, Roma, 2006.
  28. Frances Fox Piven and Richard Cloward, Regulating the Poor: The Functions of Public Welfare, Pantheon Books, New York, 1971 (1994, edizione ampliata).
  29. Harold Garfinkel, Conditions of Successful Degradation Ceremonies, American Journal of Sociology 61, n. 2, settembre 1956, pp. 240–244, tr. it. Condizioni di successo delle cerimonie di degradazione, in E. Santoro (a cura di) Carcere e società liberale, Giappichelli, Firenze, 1997.
  30. Loïc Wacquant, The Penalisation of Poverty and the Rise of Neoliberalism, European Journal on Criminal Policy and Research 9, n. 4, 2001, pp. 401–412, tr. it. La penalizzazione della povertà e l’ascesa del neo-liberalismo, in Ciro Tarantino (a cura di), Gino Covili gli esclusi, Quodlibet, Macerata 2007, pp. 269-272; Towards a Dictatorship over the Poor? Notes on the Penalization of Poverty in Brazil, Punishment & Society 5, n. 2, aprile 2003, pp. 197–205, tr. it. Una dittatura sui poveri. Note sulla penalizzazione della povertá in Brasile,< in L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, Ombre Corte, Verona, 2002, pp. 118-126.
  31. Loïc Wacquant, Race as Civic Felony, International Social Science Journal 181, 2005), pp. 127–142; Deadly Symbiosis: Race and the Rise of the Penal State, Polity Press, Cambridge, forthcoming in 2012.
  32. Loïc Wacquant, Penalization, Depoliticization, and Racialization: On the Overincarceration of Immigrants in the European Union, in Sarah Amstrong e Lesley McAra (ed.), Contexts of Control: New Perspectives on Punishment and Society, Clarendon Press, Oxford, 2006, pp. 83–100, tr. it., Penalizzazione, depoliticizzazione, razzializzazione. Sull’eccessiva incarcerazione degli immigrati nell’unione Europea, Antigone 2, 2008, Roma; The Militarization of Urban Marginality: Lessons from the Brazilian Metropolis, International Political Sociology 1, n. 2, 2008, pp. 56–74, tr. it. La militarizzazione della marginalità urbana: lezioni dalla metropoli brasiliana, Studi sulla questione criminale, 1-3, 2006, pp. 7-29.
  33. Loïc Wacquant, Following Pierre Bourdieu into the Field, Ethnography 5, n. 4, dicembre 2004, pp. 387–414, cfr. anche i sei articoli di Bourdieu nello stesso numero
  34. Pierre Bourdieu, Le sens de l’honneur (1965) e La maison kabyle, ou le monde renversé (1971), in Esquisse d’une théorie de la pratique. Précédée de trois études d’ethnologie kabyle, Editions Droz, Geneva, 1972 (riedito da Seuil/Points, Paris 2000), tr. it., Per una teoria della pratica, Cortina, Milano, 2003.
  35. Pierre Bourdieu, A. Darbel, J.-P. Rivet, C. Seibel, Travail et travailleurs en Algérie, The Hague, Mouton, Paris 1963; Pierre Bourdieu, Abdelmalek Sayad, Le Déracinement. La crise de l’agriculture traditionnelle en Algérie, Minuit, Paris, 1964; Pierre Bourdieu, Le Bal des célibataires. Crise de la société paysanne en Béarn, Seuil, Paris, [1963, 1972, 1989
  36. Abdelmalek Sayad, Un Nanterre algérien, terre de bidonvilles, Autrement, Paris, 1995; Stéphane Beaud, Michel Pialoux, Retour sur la condition ouvrière. Enquête aux usines Peugeot de Sochaux-Montbéliard, Fayard, Paris, 1999; Yvette Delsaut, La Place du maître. Une chronique des écoles normales d’instituteurs, L’Harmattan, Paris, 1992; Michel Pinçon, Monique Pinçon-Charlot, Voyage en grande bourgeoisie. Journal d’enquête, Presses Universitaires de France, Paris, 1997.
  37. Loïc Wacquant, Three Pernicious Premises in the Study of the American Ghetto, art. cit.; cfr. inoltre le risposte di Michael Katz, Janet Abu-Lughod, Herbert Gans, Javier Auyero, Kenneth L. Kusmer, Paul Jargowski, Ceri Peach, e Sharon Zukin nel numero successivo dell’International Journal of Urban and Regional Research (1997 e 1998); Wacquant, L’‘underclass’ urbaine dans l’imaginaire social et scientifique américain, art. cit.; Decivilizing and Demonizing: The Remaking of the Black American Ghetto, art. cit.
  38. Loïc Wacquant, Urban Outcasts, op. cit.; French ‘Banlieues’ and Black American Ghetto: From Conflation to Comparison, Qui Parle 16, n. 2, 2006, pp. 5–38.
  39. Loïc Wacquant, Territorial Stigmatization in the Age of Advanced Marginality, Thesis Eleven 91, novembre 2007, pp. 66–77, tr. it. in Cirro Pizzo (a cura di), Exodus, Quodlibet, Macerata, 2010.
  40. Erving Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, Simon & Schuster, New York, 1963, tr. it. Stigma. L’identità negata, collana “Psicologia sociale e clinica della devianza”, Giuffrè, Milano, 1983 (ripubblicato con lo stesso titolo per Ombre Corte, collana “Cartografie”, Verona, 2003).
  41. Loïc Wacquant, Body and Soul: Notebooks of an Apprentice Boxer, Oxford University Press, New York and Oxford, 2000 e 2004, tr. it. Anima e Corpo. La fabbrica dei pugili nel ghetto nero americano, DeriveApprodi, Roma, 2002 e 2009.
  42. Cfr. anche Loïc Wacquant, Taking Bourdieu into the Field, Berkeley Journal of Sociology 46, 2002, pp. 180–186; Habitus, in Jens Beckert, Milan Zafirovski (ed.), International Encyclopedia of Economic Sociology Routledge, London, 2004, pp. 315–319.
  43. Jeanne Favret-Saada, Les Mots, la mort, les sorts, Gallimard/Poche, Paris, 1978 e 1985.
  44. Loïc Wacquant, Shadowboxing with Ethnographic Ghosts: A Rejoinder, Symbolic Interaction 28, n. 3,2005, pp. 441–447 (in risposta al simposio su Body and Soul).
  45. Loïc Wacquant, Carnal Connections: On Embodiment, Membership and Apprenticeship, Qualitative Sociology 28, n. 4, 2005, pp. 445–471 (in risposta al numero speciale su Body and Soul, 28, n. 3, 2005), estratto ripubblicato con il titolo Apprenticeship, Viscerality, Writing, in La Furia umana, 2010, Roma.
  46. Gaston Bachelard, Le Rationalisme appliqué, Presses Universitaires de France, Paris, 1949, tr. it. Il razionalismo applicato, Dedalo, Bari, 1993; La Psychanalyse du feu, Gallimard, Paris, 1938; tr. it. in L’intuizione dell’istante e la psicanalisi del fuoco, Dedalo, Bari, 1984; La Poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, Paris, 1957, tr. it. La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975.
  47. Loïc Wacquant, Une expérience de sociologie charnelle, Solidarités 29, giugno 2003, pp. 18–20.
  48. Clifford Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Book, New York, 1974, tr. it. Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987; Herbert Blumer, Symbolic Interaction, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1966, tr. it. Interazionismo simbolico: prospettiva e metodo, Il Mulino, Bologna, 2008.
  49. Cfr. Pierre Bourdieu, Loïc Wacquant, An Invitation to Reflexive Sociology, University of Chicago Press, Chicago, 1992, pp. 36–46, tr. it.,Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992; e Pierre Bourdieu,
  50. Loïc Wacquant, Scrutinizing the Street: Poverty, Morality, and the Pitfalls of Urban Ethnography, American Journal of Sociology 107, n. 6, maggio 2002, pp. 1468–1532.
  51. Loïc Wacquant, The Taste and Ache of Action, in Id. Body and Soul, op. cit., pp. vii-xii, tr. it. Il sapore e il dolore dell’azione, in Id. Anima e Corpo, DeriveApprodi, Roma, 2009 [prima ediz. italiana 2002
  52. Christophe Charle, Naissance des “intellectuels” (1880–1900), Minuit, Paris, 1990.
  53. Louis Pinto, La Vocation et le métier de philosophe. Pour une sociologie de la philosophie dans la France contemporaine, Seuil, Paris, 2007.
  54. Pierre Bourdieu and Loïc Wacquant, The Cunning of Imperialist Reason, Theory, Culture, and Society 16, n. 1 ([1998
  55. Il video del dibattito è disponibile online all’indirizzo web

    http://www.mouvementutopia.org/blog/index.php?pages/conferences-enregistrees-video-et/ou-son .

  56. Franklin E. Zimring, Gordon Hawkins, Sam Kamin, Punishment and Democracy: Three Strikes and You’re Out in California, Oxford University Press, New York, 2001.
  57. Loïc Wacquant, Critical Thought as Solvent of Doxa, Constellations 11, n. 1, 2004, pp. 97–101.
  58. Loïc Wacquant, Punishing the Poor: The Neoliberal Government of Social Insecurity, Duke University Press, Durham and London, 2009; tr. it. Punire i poveri, DeriveApprodi, Roma, 2006; Ordering Insecurity: Social Polarization and the Punitive Upsurge, Radical Philosophy Review 11, n. 1, 2008, pp. 9–27; The Place of the Prison in the New Government of Poverty, in Marie-Louie Frampton, Ián Haney Lopez, Jonathan Simon (ed.), After the War on Crime, New York University Press, New York, 2008, pp. 23–36.
  59. Loïc Wacquant, Ghettos and Anti-Ghettos: An Anatomy of the New Urban Poverty, Thesis Eleven 94, agosto 2008, pp. 113–118.
  60. Per quel che riguarda il fronte penale cfr, Loïc Wacquant, The Advent of the Penal State is not a Destiny, Social Justice 28, n. 3, 2001, pp. 81–87; Socialiser, médicaliser, pénaliser: un choix politique, Combats face au sida. Santé, drogues, société 27, marzo 2002, pp. 4–9; Comment sortir du piège sécuritaire, Contradictions 22, Bruxelles, dicembre 2004, pp. 120–133 (versione ridotta dal titolo How to Escape the Law and Order Snare, Criminal Justice Matters, London, numero speciale di Politics, Economy and Crime, 2007. Rispetto al fronte urbano cfr. Loïc Wacquant, Ghetto, banlieues, État: réaffirmer la primauté du politique, Nouveaux regards 33, aprile-giugno 2006, pp. 62–66.
  61. Cfr. Critical Thought as Solvent of Doxa, art. cit.
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