Parole che contano: vulnerabilità, narratività e obbligazione in Judith Butler

Cristian Lo Iacono

ABSTRACT. Alex Honneth and Charles Taylor have sustained that recognition provides the foreground for an integral and authentic self, while misrecognition impedes it. Judith Butler contends that preexisting frames of intelligibility determine who is worth receiving recognition a who is not. Having this frame in mind we can better understand the project of a non-violent ethics of vulnerability and narrativity Butler has developed in her latest works. I analyze both arguments and explain some of their relation with philosophy and feminism. I argue, in particular, that the concept of moral obligation which can be constructed on the basis vulnerability and narrativity in not fully satisfactory in order to move from the ethical to the political sphere.

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Il percorso intellettuale di Judith Butler è a prima vista eclettico, ricco di riferimenti ad ambiti disciplinari e ad autori che la cultura europea percepisce sovente come distanti. I suoi studi iniziano negli anni Settanta e spaziano dalla filosofia tedesca, in particolare la scuola ermeneutica, alla filosofia francese contemporanea. Il primo lavoro accademico di Butler, una rielaborazione della sua tesi di dottorato pubblicata come libro col titolo Soggetti di desiderio (1987), è dedicato alla ricezione francese della Fenomenologia dello spirito e prende come filo conduttore il desiderio. Judith Butler ha raggiunto la notorietà internazionale con due fondamentali opere d’ispirazione foucaultiana nelle quali decostruisce la naturalità dei concetti di sesso e di genere. Scambi di genere (1990) prima e Corpi che contano (1993) poi, la accreditano giustamente tra le principali pensatrici della teoria queer, quella corrente degli studi gay e lesbici che alla fine degli anni Ottanta incontra il poststrutturalismo francese. Lavorando su questa scia lungo tutti gli anni Novanta e oltre, Butler ha cercato di chiarire e per certi versi di correggere gli esiti antisoggettivistici del suo pensiero (1997a, 1997b, 2004b). L’enfasi costruttivista e culturalista di certi testi conduceva infatti il lettore a soffermarsi principalmente sulla pars destruens – peraltro particolarmente brillante – del suo ragionamento: quella in cui ad essere esaltati erano i modi della performance e del travestitismo intesi come manifestazioni della dimensione costruita di qualunque sesso e di qualunque genere. Secondo Butler, la lotta per riconoscimento diventa un problema vitale per tutti quelli che sono ai margini dei discorsi dominanti e non è semplicemente lo spazio per un incontro comunicativo tra individui che si «riconoscono» simmetricamente pari dignità. Per quanto sia un approdo importante e indispensabile, tuttavia, il riconoscimento ha un limite costringente. A quale prezzo diventiamo quello che siamo? Nella prima fase della sua riflessione Butler sembrava più attenta a sottolineare i costi psichici e sociali della «forclusione», cioè dell’esclusione che il soggetto mette in opera sotto la spinta delle aspettative sociali, per guadagnare un’identità accettabile, intelligibile, degna di riconoscimento. La forclusione – secondo la nota definizione datane da Lacan – non è una semplice repressione di qualcosa che rimarrebbe “dentro”, o la rimozione di qualcosa che è destinato a ritornare, bensì un processo di esclusione strutturale/strutturante, vitale per il soggetto, ma allo stesso tempo patogeno. Butler riprende questo concetto per sostenere che in esso risiede una verità più generale, che è quella secondo cui gli individui sono disposti a pagare qualsiasi prezzo, pur di essere, pur di vedersi riconosciuti. Da ciò nasce la costituzione ambigua del desiderio, dell’affettività, dell’amore. Gli individui si sottomettono al potere, il quale – per usare l’espressione di Freud – possiede una «vita psichica », in primo luogo in quelle figure di riferimento del mondo famigliare. Pur di essere, ciascuno/a di noi è disposto/a ad assoggettarsi a quelle istanze. Divenire soggetto significherà allora e innanzitutto essere assoggettati. L’assoggettamento non coincide ovviamente con qualcosa di simile a un calcolo razionale del tipo «max/min», proprio perché coinvolge i nostri investimenti affettivi e addirittura quello che un giorno dichiareremo amore. Tuttavia questo «meglio che niente», genera una struttura melanconica che è secondo Butler costitutiva della soggettività stessa, la quale oscilla tra una radicale negazione della parte «sacrificata» e l’infelicità per quello che si è diventati/e (coscienza infelice).

Questa forte enfasi decostruttiva in tema di riconoscimento a più riprese lasciava trasparire un’altra esigenza, squisitamente “affermativa”: quella di sostenere che i corpi misconosciuti, abbietti, condannati alla vergogna e all’oblio, i corpi di quegli omosessuali che venivano falcidiati dall’AIDS, sono “corpi che contano” come recita in maniera del tutto appropriata la traduzione italiana di Bodies that matter: vite che meritano di essere ricordate, morti che meritano il nostro cordoglio. L’11 settembre 2001 rappresenta per la teorica queer e femminista americana un secondo punto di cesura traumatica, secondo a quello sovramenzionato dell’AIDS. Tale evento e la successiva risposta militare degli Stati Uniti nota come “guerra al terrore” hanno di fatto provocato una ricollocazione della ricerca di Butler che, con Vite precarie (2004a), dà inizio a quella riflessione etica che la condurrà a pubblicare qualche anno più tardi Critica della violenza etica (2006) e più recentemente opere come Frames of war (2009) e, da ultimo Parting ways (2012), testi nei quali si fa sempre più stringente il confronto con l’eredità filosofico-religiosa dell’ebraismo. A ben guardare, fino alla data simbolica dell’11 settembre 2001 l’accento era posto sulle soggettività che chiedono di essere riconosciute e che affermano di contare mentre, a partire da Vite precarie, il noi del riconoscimento non è più il soggetto che chiede di essere riconosciuto ma il soggetto che ha il dovere di riconoscere l’altro. Tuttavia il nucleo “positivo” della ricerca etica che caratterizza la fase più recente del pensiero di Butler – di cui mi occuperò in questo scritto – rimane sostanzialmente lo stesso degli esordi queer: “Chi” è degno di essere enumerato/a, incluso nella conta delle perdite? Il volto di “Chi” merita di essere ricordato? La vita di “Chi” merita di essere riconosciuta? Gli affetti di “Chi” meritano di essere salvaguardati e protetti?[1]

1.   La vulnerabilità

A partire da Vite precarie Butler si fa promotrice di un’etica post-hegeliana del riconoscimento che si concentra sulla vulnerabilità dell’umano:

«La vulnerabilità – scrive – deve essere percepita e riconosciuta al fine di entrare nella dinamica dell’incontro etico, e non c’è garanzia che questo avvenga. Non solo c’è la possibilità che la vulnerabilità non venga affatto riconosciuta e che arrivi a costituirsi come ciò che è “irriconoscibile”, ma nel momento in cui la vulnerabilità è riconosciuta, questo riconoscimento può trasformare il significato e la struttura stessa della vulnerabilità. In questo senso dobbiamo dedurre che la vulnerabilità, se deve essere attribuita a ogni soggetto umano, dipende profondamente da norme di riconoscimento preesistenti».[2]

Butler descrive gli schemi (frames) sociali di interpretazione entro i quali ciascuno di noi può essere o meno riconosciuto come un meta-livello, una condizione di possibilità decisiva perché si dia incontro e riconoscimento reciproco. Su questo punto il pensiero di Butler è coerente nel l  Butler è coerente e non cambia rottatempo,  sebbene il suo progetto paia assumere sempre più i tratti di un nuovo umanesimo:

«Questo schema interpretativo funziona differenziando in modo tacito quelle popolazioni dalle quali dipendono la mia vita e la mia esistenza a quelle che rappresentano una minaccia diretta alla mia vita e alla mia esistenza. Quando una popolazione appare come una minaccia diretta alla mia vita, i suoi membri non appaiono più come “vite”, ma come minacce alla vita (la figura vivente della minaccia della vita)».[3]

Questa fondamentale attenzione alla cornice epistemica, culturale in senso forte, come totalità strutturante entro la quale sono possibili a un tempo le dinamiche del misconoscimento e del riconoscimento testimonia al tempo stesso di un’eredità strutturalistica ed ermeneutica, che nella filosofa americana trovano una sintesi insolita quanto felice. Allo stesso tempo, questa posizione la conduce a differenziarsi, pur dialogando con loro, dall’impostazione di altri importanti teorici del riconoscimento (si pensi a Taylor e a Honneth), i quali sembrano richiamarsi a un’idea antropologica, feuerbachiana più che hegeliana, di essenza umana quale fondamento originario del riconoscimento, un’idea la cui sfera semantica sembra apparentarsi piuttosto con i concetti di autenticità e/o integrità individuale. Nella loro prospettiva infatti, la lotta per il riconoscimento si risolve in uno scontro per l’affermazione di diritti violati e arriva, per così dire, “a cose fatte”, dando cioè per scontato il rapporto che la formazione della soggettività intrattiene con le strutture dell’interazione sociale. L’obiezione che Butler muove alle teorie del riconoscimento di ascendenza comunitarista (Taylor, Walzer, Kymlicka) e implicitamente anche a quelle psicologizzanti (Honneth) è che la possibilità di riconoscere l’altro, che è la fonte della mia obbligazione nei suoi confronti, dipende da precedenti strutture o matrici che decidono della sua intelligibilità o non intelligibilità.

La possibilità del riconoscimento dell’altro dipenderà dunque da quelle strutture, le quali sono in gran parte formazioni retoriche, fittamente popolate di messaggi mediatici che decidono i termini dell’inclusione e dell’esclusione nell’umano. In Butler, al contrario, la ripresa del modello hegeliano si giustifica in quanto tentativo di articolare il riconoscimento e il divenire umano, intesi come termini di una “formazione” (Bildung) del soggetto entro preesistenti quadri di intelligibilità, i quali decidono del visibile e dell’invisibile, del dicibile e del non dicibile, del rappresentabile e del non rappresentabile, di ciò che è degno e di ciò che non è degno di riconoscimento. A Hegel Butler si rivolge proprio per superare l’aporia che consiste nel porre il diritto come preesistente alla lotta per il riconoscimento, in questo modo svincolandosi da una concezione della natura umana per cui, da questa, deriverebbero i diritti.

Questa consapevolezza “metafisica” s’intreccia in Butler con l’esperienza delle diversità sessuali tematizzata nei suoi scritti di teoria queer. A partire da questo posizionamento soggettivo, la sua indagine si estende e si generalizza assumendo la forma di un’interrogazione morale sui limiti che permettono di riconoscere alcune vittime della violenza come umane, mentre altri gruppi di persone vengono destituiti dello stato stesso di vittima, fino a scomparire dall’orizzonte visivo del loro carnefice, come nel caso del contrasto tra la visibilità delle vittime degli attentati alle Torri gemelle e l’invisibilità delle vittime dei bombardamenti americani in Afghanistan. La stessa dinamica del lutto, secondo Butler, risente di preesistenti quadri normativi di riconoscimento, politicamente determinati e quindi non assegnati – come si potrebbe pensare sulla base di un riferimento teorico ingenuo allo strutturalismo – deterministicamente o esenti dalla possibilità di una contestazione trasformatrice.

La tematizzazione della vulnerabilità rimanda a quel punto nodale della riflessione filosofica contemporanea che è l’Altro, e alla sua presenza come fonte normativa per un’etica del riconoscimento. E’ da notare come, in Butler, l’attenzione per l’Altro emerga da e si sposi con quella nei confronti del corpo, della sua finitezza e fragilità, intese, queste ultime, come dimensioni proprie del soggetto. È proprio da queste premesse che scaturisce una trasformazione delle nozioni di persona, di soggettività, individualità, capace di rimettere in discussione, come è tradizione nel pensiero femminista, le griglie di demarcazione tra etica e politica, tra dimensione individuale e sociale, sfera privata e pubblica. La vulnerabilità dell’individuo, il fatto cioè che sia suscettibile di essere leso fisicamente, fino alla morte, oppure offeso, rivela immediatamente il suo essere esposto all’Altro e, tale esposizione, incomincia come presenza corporea.

«Il corpo implica mortalità, vulnerabilità, azione: la pelle e la carne ci espongono allo sguardo degli altri, ma anche al contatto e alla violenza, e i corpi ci espongono al rischio di diventare agency e strumenti di tutto ciò. Possiamo combattere per i diritti dei nostri corpi, ma gli stessi corpi per i quali combattiamo non sono quasi mai solo nostri. Il corpo ha una sua imprescindibile dimensione pubblica»[4].

In Hegel, la vulnerabilità del corpo rimanda al che, in quanto corpo proprio (Leib), è indisponibile anche alle pretese dell’Io, rimandando immediatamente anche all’altro, al corpo minaccioso dell’altro: il rovescio della vulnerabilità è dunque costituito dalla possibilità della violenza. Pertanto, se un contenuto normativo dovrà erompere dalla tematizzazione della vulnerabilità dell’umano, esso dovrà essere innanzitutto quello indicato dall’imperativo negativo: «non ledere». Ma, si potrebbe obiettare, violento può essere anche il dato naturale: la sofferenza fisica, la malattia, la vecchiaia, il morire. Inoltre, rimane aperto il problema della violenza impersonale o strutturale dei rapporti di sfruttamento. È possibile, e se sì attraverso quali mediazioni, ricondurre interamente nell’ambito di una teoria della giustizia il compito della diminuzione dell’esposizione del singolo alla violenza? La risposta di Butler non è molto chiara al riguardo, ma certo il suo riferirsi ad Adorno lascia intendere quale possa essere la direzione. In Dialettica negativa, Adorno non aveva infatti dubbi circa l’addensarsi, proprio nel sociale, dei nuclei dell’offesa e della violenza e , per conseguenza, circa il fatto chesolo al suo interno fosse possibile, e dunque doverosa, la loro massima riduzione:

«Il momento corporale annuncia alla coscienza che non ci deve essere sofferenza, che deve diventare diverso… L’eliminazione del dolore, o la sua attenuazione fino a un grado che non è anticipabile teoricamente e al quale non si può porre alcun limite, dipende non dal singolo, che sente il dolore, ma soltanto dal genere, cui appartiene anche quando soggettivamente se ne separa e oggettivamente viene respinto nella solitudine assoluta dell’oggetto impotente»[5].

Tuttavia questa radicale consegna al genere (Gattung) dei destini dell’individuo vulnerabile depotenzia la dimensione della responsabilità morale che intende esaltare, rischiando di sottrarre al singolo la propria responsabilità nei confronti dell’altro. Per questa ragione Butler affianca a questa genealogia hegeliana un ingrediente di ascendenza levinassiana. Prima però di analizzare il rapporto con Lévinas, dobbiamo addentrarci nella teoria della narratività.

2. Narratività

Il motto «partire da sé» è stato il vessillo del femminismo della differenza sessuale. Ad esempio, in Italia, Luisa Muraro, riprendendo l’esperienza politica femminista, ha costruito su queste basi una rappresentazione filosofica della soggettività femminile. Butler insiste – hegelianamente – su una «temporalità sociale» che eccede la capacità narrativa del soggetto, e persino la sua responsabilità morale, eccedenza che tuttavia non implica che il soggetto sia incapace di responsabilità e di iniziativa:

«Se anche la morale fornisce una serie di norme che producono il soggetto nella sua intelligibilità, si tratta pur sempre di norme e di regole con cui il soggetto deve venire a patti in modo “vivente” e riflessivo»[6].

Nella rappresentazione offerta da Butler, le norme producono il soggetto e non viceversa. E poiché rendiamo conto di noi in quanto veniamo interpellati come soggetti responsabili, e al limite colpevoli[7], la capacità di dar conto di sé (accountability) dipende da una struttura della soggettivazione come assoggettamento che letteralmente produce il soggetto capace di responsabilità giuridica e morale. Nondimeno esiste però un margine per l’agentività (agency), margine predisposto dall’interpretazione performativa della norma. Secondo la filosofa americana, infatti, posto che ogni norma genera una contraddizione performativa, l’interpretazione non rimane allo stadio puramente cognitivo o passivo, ma assume, al contrario, una dimensione pratica e attiva, in termini di stile o forma di vita di cui il soggetto si fa attore.

«Raccontare una storia su di sé non equivale a rendere conto di sé. […] Ma una narrazione che risponde a questa specifica domanda, a questa convocazione, deve accettare fin dal principio la possibilità che il sé sia dotato di un agire in forma causale […]»[8].

Butler tocca uno dei problemi classici attorno a cui si è concentrato il dibattito sullo strutturalismo filosofico negli anni Sessanta: il problema della libertà morale. Molte critiche allo strutturalismo filosofico vertevano proprio sul fatto che, interpretando il comportamento umano come determinato dalle strutture (le istituzioni, la società, il linguaggio, l’inconscio), esso sembrava giustificare una sorta di lassismo morale. Rispetto a questo scenario, la filosofa americana si colloca in una posizione che, se da un lato, esprime con forza la necessità di garantire e salvaguardare lo spazio per la responsabilità dell’individuo, dall’altro non rinuncia mai al principio dell’opacità del soggetto a se stesso. Anzi, a ben vedere, è proprio la nozione di opacità a costituire il perno intorno a cui ruota quella di responsabilità.

«Se anche il soggetto è entità opaca a se stessa, mai pienamente autotrasparente e conoscibile, non ne consegue che sia comunque autorizzato a fare tutto ciò che vuole o a ignorare gli obblighi che ha verso gli altri»[9].

A mio avviso, questo è un punto delicato e dirimente dell’intero percorso teorico che sto cercando di ricostruire. Delicato e dirimente perché a tratti paradossale. Il paradosso risiede nell’affermazione per cui è l’opacità stessa, la non trasparenza, a fondare la responsabilità del soggetto. Occorre chiedersi: quali sono gli «obblighi» che questo soggetto contrae verso gli altri? Si tratta di obbligazioni morali, cioè di qualcosa che rimanda alla struttura della promessa? In tal caso è ovvio che il soggetto non è autotrasparente, poiché il suo obbligo rimanda alla dimensione del futuro, a uno stato in cui egli/ella non si trova ancora. Ma se la struttura classica dell’obbligazione morale poggiava su una rappresentazione statica e coerente della soggettività e della relazione soggetto-oggetto, soggetto-soggetto, le cose cambiano in un contesto come quello postmoderno, in cui il soggetto è per definizione eccentrico. Pare di capire che il tentativo di Butler sia quello di (ri)fondare la stessa obbligazione morale, ma ora il fondamento non è più la coerenza del soggetto, la sua integrità di soggetto teoretico-pratico sua quanto, piuttosto, la sua incoerenza e disintegrazione costitutive. È infatti rispetto a queste che il soggetto ha il dovere di essere responsabile e vigile. L’obbligazione obbliga il soggetto a una sorta di retrocessione alle condizioni che gli permettono di conservare uno stato di sé capace di onorare la promessa fatta, quindi di conservare una sufficiente memoria della stessa e una sufficiente capacità di agire in funzione della promessa. In sostanza il soggetto è costretto a ritagliarsi uno stile, o una figura, mantenendola finché non avrà esaudito l’obbligo verso gli altri (o verso se stesso). La temporalità di questa figura non è assoluta, ma molteplice, ed è ritagliata sui diversi obblighi che il soggetto contrae, a loro volta non necessariamente coerenti e stilisticamente affini tra loro. Ciò non toglie che di volta in volta lo stesso soggetto sia diversamente responsabile nei confronti degli altri. Allo stesso modo, anche la capacità di narrazione varia e riprova di questo è la circostanza per cui, a seconda dei diversi contesti relazionali, i soggetti sono in grado di rielaborare continuamente la propria esperienza passata.

Per quanto possa dare l’impressione di un certo istrionismo, resta pur vero che tale multidimensionalità è caratteristica dei contesti non solo etici, ma anche culturali, contemporanei, i quali sono fonte di una continua produzione di contraddizioni performative etico-morali che possono giovare alla ricerca di nuove forme per la vita associata. Pensiamo alla situazione di quei soggetti che si trovano a fronteggiare diversi contesti culturali simultaneamente, e che hanno perso quella (presunta) capacità – tutta borghese – di dominare e orchestrare, come da una posizione superiore, le proprie azioni: ciò che ci farebbe ritornare nell’orizzonte di una filosofia della trasparenza che abbiamo invece radicalmente negato. Si tratta di problemi scottanti e attuali nel dibattito sulle società complesse e le sorti della responsabilità morale al loro interno.

La stessa Butler autorizza una raffigurazione mobile del soggetto morale inteso come soggetto del riconoscimento: «Se è vero che un regime di verità decide a priori la forma che può assumere il riconoscimento, è altrettanto vero che non potrà mai costringere del tutto questa forma»[10]. E aggiunge:

«Se si dovesse seguire alla lettera la Fenomenologia dello spirito se ne dedurrebbe che l’«io» è costantemente trasformato dagli incontri a cui è sottoposto: il riconoscimento diviene allora il processo irreversibile attraverso cui divento continuamente altro da quello che ero, smettendo così di essere in grado di tornare ciò che ero»[11].

In Critica della violenza etica l’autrice si riferisce al lavoro della filosofa italiana Adriana Cavarero[12] la quale, secondo Butler, ci suggerisce che la domanda fondamentale non sarebbe la domanda teoretica sulla costituzione del soggetto, propria della tradizione della filosofia della riflessione, ma quella etica, che interroga l’altro nello spazio della comunicazione e della comunanza umana. È la domanda che l’altro ci pone: «Chi sei?». A questa domanda noi rispondiamo con la nostra capacità narrativa. Il dar conto di sé presuppone sempre un altro/a a cui si dà conto, persino quando si dà conto di sé a se stessi, come se fossimo un altro.

«La tesi di Cavarero – dice Butler – […] ci indica la strada per un’altra teoria del riconoscimento. […] La prima riguarda la nostra sostanziale dipendenza dall’altro […]. La seconda, invece, circostanzia e delimita la prima. Per quanto possiamo desiderare il riconoscimento, per quanto possiamo pretenderlo, noi non siamo la stessa cosa dell’altro, né ogni riconoscimento ha lo stesso valore»[13].

Se l’identità si dà nella narrazione autobiografica, ma questa dipende dalla domanda dell’altro, allora la domanda di riconoscimento contenuta nel nostro racconto non potrà che mutare in funzione della pluralità degli altri. Da un lato vediamo così prender forma la classica struttura della dipendenza ma, dall’altro, questa struttura – che non mette in relazione il sé con un solo altro, con un altro in generale, ma con una pluralità di altri singolari: io desidero essere riconosciuto da A in modo diverso da come desidero essere riconosciuto da B – si apre a una molteplicità di “altri significativi” (per usare un’espressione di Mead). Il riconoscimento non è cioè assimilabilea una forma di rispecchiamento narcisistico o di immedesimazione totale. Questa non sovrapponibilità del sé e dell’altro, che garantisce un’eccedenza dell’altro nei miei confronti, apre al tempo stesso lo spazio di una possibile autonomia nei rapporti con l’altro. Lo stesso statuto ontologico attribuito da Butler al soggetto, a dispetto delle apparenze più immediate, configura lo spazio per l’autodeterminazione nel riconoscimento. Se la filosofia speculativa hegeliana culminava in una metafisica dell’autotrasparenza del soggetto a se stesso, un’etica post-hegeliana del riconoscimento non potrà che poggiare su una sorta di metafisica dell’opacità:

«Si potrebbe quindi prendere in considerazione una possibile rilettura post-hegeliana della scena del riconoscimento, in cui proprio la mia opacità a me stessa genera la capacità di attribuire un certo tipo di riconoscimento agli altri. E, in questo caso, avremmo forse a che fare con un’etica fondata sulla nostra condivisa, generalizzata e parziale cecità a noi stessi»[14].

Questa posizione non è soltanto uno sviluppo post-metafisico di una tematica hegeliana alla luce degli assunti fondamentali della psicoanalisi. A mio modo di vedere essa va interpretata anche come l’esito di una critica immanente alla tradizione post-strutturalistica: invero, l’accesso alla dimensione etica è, da Butler, svolto attraverso una radicalizzazione degli assunti di fondo dello strutturalismo psicoanalitico e filosofico. L’esito di questa duplice critica immanente sarà un’etica non violenta di «condiscendenza verso gli altri»[15] (ma anche verso se stessi), in quanto rinuncia a fondarsi sulla piena coerenza e sulla padronanza del soggetto rispetto ai suoi atti:

«Sospendere la pretesa di un’identità propria o, più specificatamente, di una assoluta coerenza con se stessi mi sembra un buon antidoto a un certo tipo di violenza etica che esige che manifestiamo e conserviamo sempre una nostra identità costante nel tempo, e pretende che gli altri facciano la stessa cosa»[16].

Questa posizione può risultare irritante per tutti quei filosofi morali che fanno della coerenza uno dei cardini del loro discorso. Essa presuppone uno «stile» (direbbe Derrida) privo di pieghe e di contraddizioni, un soggetto distante dal soggetto pratico contemporaneo (o forse da qualsiasi individuo reale). La proposta di Butler si situa quindi in opposizione alle impostazioni trascendentalistiche della morale, e rispetto a queste offre il vantaggio di una maggiore compatibilità con i contesti etici contemporanei. Forse, però, non si tratta di semplice adeguatezza. La «condiscendenza» che qui viene invocata non è affatto, agli occhi della stessa filosofa, qualcosa di diffuso e acquisito. È la stessa Butler, in Vite precarie, a denunciare che la reazione all’offesa patita è spesso improntata su un surplus di violenza vendicatrice e negatrice.

3. Incontro etico e obbligazione morale

Sin dalla fine degli anni Sessanta l’autonarrazione è uno dei temi fondamentali del femminismo teorico, nelle sue molteplici declinazioni letterarie, filosofiche, storiografiche. Ad esempio, la teoria e la pratica femminista si sono dedicate allo studio dei linguaggi letterari e alla teoria della cultura, facendo della presenza femminile nella letteratura uno dei luoghi in cui la parola delle donne va ricercata, ricostruita e rivendicata. Judith Butler, per parte sua, convoglia il motivo della narrazione nella generale tematica etica della responsabilità (accountability). Come la narrazione, il «dar conto di sé» richiede di mettere in moto non solo il linguaggio, ma anche la memoria; è un atto che fornisce (auto)rappresentazioni; costituisce – pur con tutta l’irrimediabile opacità di qualinque “testo” – l’unico oggetto di una possibile comunicazione. In Butler però – a differenza che in altre espressioni del femminismo (come della filosofia morale) la “presa di parola”, il “partire da sé” ha meno i tratti di un atto autofondativo, di matrice cartesiana, e più la caratteristica della risposta ad un’interpellazione (Althusser), a una convocazione (Lévinas). Il dar conto di sé, infatti, viene sollecitato dall’altro/a.

Seguendo l’insegnamento filosofico-religioso di Lévinas, in Critica della violenza etica Butler sostiene che l’obbligazione viene dall’altro, e che la proiezione dell’azione nel futuro è effetto dell’altro, che mi chiede – anzi mi ingiunge, talvolta anche senza domandare – di fare qualcosa. Si potrebbe dire che l’iniziativa del singolo consiste nello svolgere il ruolo di un soggetto “comandato” da un altro che lo interpella, e che nel momento stesso di questa costringente interpellazione lo costituisce come soggetto morale. Prima che da Lévinas, Butler conia questo modello servendosi della teoria dell’interpellazione ideologica formulata da Louis Althusser in alcuni scritti dei primi anni Settanta e condensati poi nel saggio su Ideologia e apparati ideologici di stato. Secondo il filosofo marxista francese «l’ideologia interpella gli individui in quanto soggetti». Il soggetto althusseriano è dunque da intendere come «funzione» dell’ideologia: non esiste soggetto che non sia ideologico, non esiste ideologia senza un soggetto che ne funga da «supporto», o forse sarebbe meglio dire da «attore» (Althusser parla di «attori di questa messa in scena dell’interpellare») entro le pratiche rituali proprie di ogni sistema material-discorsivo.

«Siamo sempre già dei soggetti e, in quanto tali, pratichiamo senza interruzioni i rituali del riconoscimento ideologico, che ci garantiscono che siamo proprio dei soggetti concreti, individuali, inconfondibili e naturalmente insostituibili»[17].

E in una nota a questo brano aggiunge: «Hegel è un ammirevole ma parziale teorico dell’ideologia in quanto teorico del Riconoscimento universale»[18]. Per Althusser, dunque, il riconoscimento è sempre riconoscimento ideologico. Su questo punto Althusser non cambierà mai idea.[19] La sua tesi può essere pertanto riassunta in due punti fondamentali: in primo luogo, il riconoscimento è funzione dell’ideologia; in secondo luogo, non esiste riconoscimento che non sia anche e nello stesso tempo misconoscimento. Althusser parla di un «gioco di doppia costituzione», poiché la categoria del soggetto è costitutiva di ogni ideologia ma allo stesso tempo ne è costituita attraverso la chiamata, l’interpellazione ideologica:

«Suggeriamo allora che l’ideologia “agisce” o “funziona” in maniera tale che “recluta” soggetti tra gli individui (li recluta tutti), o “trasforma” gli individui in soggetti (li trasforma tutti) con questa operazione molto precisa che noi chiamiamo l’interpellare, che possiamo rappresentarci nel modo stesso del più banale interpellare poliziesco (o no) di ogni giorno: “Ehi, lei laggiù!”»[20].

Anche se inizialmente Althusser fa l’esempio del poliziotto che dice “Ehi, tu laggiù” e dell’uomo di strada che si volta sentendosi chiamato, e in un certo senso accusato, il vero modello, come sostiene anche Judith Butler nella sua esegesi del testo althusseriano, è quello della chiamata religiosa: Dio come il Soggetto che interpella i diversi individui costituendoli come soggetti e facendosi garante della loro comunicazione intersoggettiva. Seguendo Althusser, l’intera costituzione della soggettività moderna in termini di autonomia dovrebbe essere riconsiderata alla luce di un originario essere radicati in una «struttura della convocazione». E proprio da questa riconsiderazione prende il via il progetto di un’etica della vulnerabilità secondo la Butler.

«La struttura della convocazione (address) è importante per capire il ruolo e l’effetto, in essa, dell’autorità morale: non si tratta tanto di capire che ci rivolgiamo ad altri quando parliamo, quanto che noi stessi veniamo a esistere, in un certo senso, nel momento in cui siamo convocati, e che parte della nostra esistenza si rivela precaria se questa convocazione fallisce. In maniera più enfatica, comunque, l’obbligo morale ha a che fare con il modo in cui siamo convocati dagli altri, secondo modalità che non possiamo controllare o evitare. Questa spinta che proviene dall’appello dell’altro ci costituisce prima di tutto contro la nostra volontà o, forse più appropriatamente, ci costituisce prima della formazione della nostra volontà».[21]

Come si vede, la struttura dell’interpellazione modifica la concezione moderna della soggettività morale, imperniata sull’autonomia della libera volontà. A uno sguardo attento, la rielaborazione della teoria althusseriana vuole in effetti andare a sollecitare i fondamenti stessi della filosofia morale. Il nodo problematico è quello della soggettività e della sua dimensione vocativa, che presuppone l’atro come più originario dell’“io”. Come insegna Althusser, il divenire soggetto dipende dalla voce dell’altro: “Ehi! tu, lì!”. L’essere interpellati è quindi la dinamica costitutiva del processo di soggettivazione. A partire da questo momento il soggetto che si riconosce come l’interpellato elabora questo vocativo, e lo trasforma in nominativo: “sono io”. Detto altrimenti, il soggetto è prodotto da un’interpellazione. La funzione di suscitare questo (auto)riconoscimento del soggetto è attribuita – almeno dalla scuola dello strutturalismo francese, dal primo Foucault, da Althusser e da Lacan, che pure non si «riconoscevano» strutturalisti – decisamente al potere: «L’interpellare gli individui in quanto soggetti presuppone – dice Althusser – l’“esistenza” di un Altro Soggetto, Unico e centrale, in Nome del quale l’ideologia religiosa interpella tutti gli individui in quanto soggetti»[22]. In termini lacaniani, il Soggetto in nome del quale i soggetti sono interpellati è «il nome del Padre». A pensarci bene il modello del rapporto Soggetto-soggetti proposto da Althusser ricalca il modello marxiano della merce-denaro come «equivalente generale» in cui le singole merci si devono rispecchiare per vedere il proprio «valore». Althusser identifica la funzione del riconoscimento con la funzione del rispecchiamento: «il rispecchiamento dei soggetti nel Soggetto e viceversa, ma anche il rispecchiamento dei soggetti negli altri soggetti, quello che con Hegel abbiamo imparato a chiamare “riconoscimento reciproco” ».[23]

Butler traduce il concetto althusseriano di interpellazione ideologica nel linguaggio della filosofia morale ricorrendo a Lévinas. Anche per il filosofo di Altrimenti che essere, il rapporto etico resta sempre essenzialmente strutturato dalla forma della domanda da parte di un altro soggetto o della sua immagine mediata. Detto altrimenti, l’obbligazione non è mai la libera promessa che sta alla base del pactum. Le obbligazioni di cui si occupa la filosofa americana sono eminentemente pre- ed extra-contrattuali, sono quelle che non scegliamo, quelle che in un certo senso ci si impongono allo sguardo – quasi a conferma della nostra passività estatica. In effetti, per Lévinas, la relazione etica è per definizione asimmetrica e l’altro ha costitutivamente una priorità nei confronti del soggetto. Per l’esattezza qualunque rapporto contrattuale presuntamente simmetrico non è etico: «il volto del prossimo mi significa una responsabilità irrecusabile, precedente ogni libero assenso, ogni patto, ogni contratto»[24]. La tesi di Butler è che questa struttura etica essenziale sia divenuta sempre più cruciale man mano che i confini di presunte comunità politiche, magari fondate su un’uniformità culturale duramente (e spesso violentemente) costruita, sono stati erosi dalla globalizzazione: migrazioni, pluralismo culturale non più reprimibile o eludibile tramite segregazioni – come testimonia l’annoso dissidio tra israeliani e palestinesi – fanno sì che ci troviamo sempre più spesso di fronte all’esigenza di instaurare e mantenere relazioni con soggetti che non avremmo scelto di incontrare. Da quanto detto segue per Butler che le caratteristiche della domanda etica di fronte alle quali si trovano i membri di un mondo globalizzato sono essenzialmente tre: essa non è desiderata, né attesa; non è riducibile a un accordo tra due soggetti simmetrici; avviene al di fuori dei confini stabiliti di una comunità. Il conflitto israelo-palestinese offre secondo Butler un esempio paradigmatico di quanto drammatiche possano essere queste domande e quanto difficile sia eluderle. Cosa succede quando siamo chiamati a una relazione etica con chi non appare condividere il nostro orizzonte culturale e comunicativo? Come pensare al di là di un riconoscimento della reciprocità e della mutualità tra simili (mêmes)? Come relazionarsi con chi (l’autre) non è considerato possedere i requisiti che noi attribuiamo al termine “persona” nel suo senso più pieno? Di fronte a tali questioni, far prevalere i nostri interessi egoistici farebbe crollare l’intero costrutto della relazione etica, poiché il fondamento di tale relazione non è l’io, ma l’altro, l’altro in senso forte.[25]

4. Note conclusive: la difficile traduzione dall’etica alla politica

 

Ricapitolando, l’etica della vulnerabilità di Judith Butler può essere letta come una risposta alla crisi del poststrutturalismo, risolta non mediante il recupero di una nozione ingenua di soggetto, ma facendo tesoro della sua eredità decostruttiva. In questo senso, ho tenuto a sottolineare che non vi è vera discontinuità nel pensiero di Butler, poiché anche nel momento in cui – sulla scorta di Foucault – la filosofa discuteva i presupposti essenzialistici del pensiero femminista o elaborava una teoria della performatività del genere i temi del desiderio e del riconoscimento erano ben visibili, e viceversa, anche quando è tornata a una riflessione più generale ha conservato il portato delle filosofie che più hanno interrogato la naturalità della nozione di soggetto.

In questo senso abbiamo visto come il concetto di vulnerabilità “traduce” contenuti prelevati dall’esperienza di forme di misconoscimento e di “disinquadramento” rintracciabili nel tessuto sociale (prima quelle basate sulla sessualità, poi quelle basate sul nemico terrorista, senza volto) nel contesto di un’interrogazione fondamentale sulla condizione umana. In secondo luogo, abbiamo visto come il concetto narratività rappresenta un ulteriore raccordo, questa volta tra teoria femminista e filosofia morale, che “traduce” contenuti prelevati dall’esperienza delle forme di soggettivazione femminile nel contesto di un’interrogazione fondamentale sulla responsabilità etica del soggetto. In terzo luogo, abbiamo visto come la stessa narrazione sia in realtà una risposta in qualche modo “comandata” dalla domanda etica rivoltaci dall’altro vulnerabile.

Se volessimo riassumere il progetto di Judith Butler in poche parole potremmo dire che vulnerabilità, narratività, obbligazione disegnano un triangolo concettuale che vuole perimetrare la costruzione di una base etica per la politica. Secondo la filosofa ebrea americana dunque l’etica precede la politica e la fonda. Il punto che rimane da risolvere è come si produca la necessaria traduzione dall’etica alla politica, e se i tre concetti che abbiamo isolato siano sufficienti a fornire le basi per una politica all’altezza delle sfide del presente. Un primo ostacolo a questa ultima traduzione potrebbe forse essere la caratterizzazione unilaterale, in ogni caso solo parziale del concetto di obbligazione quando questo dipenda esclusivamente dalla chiamata alla responsabilità da parte dell’altro. Specularmente, potremmo chiederci se può bastare la narrazione a fondare un’etica, o se, piuttosto non ci sia bisogno di un elemento prospettico, che guardi al futuro e che sia garantito dall’obbligazione morale. In altri termini, uno dei problemi delle etiche della narrazione è che esse non risolvono la questione della libera obbligazione morale, ovvero della possibilità di orientarsi al futuro attraverso l’espressione di una promessa, di un impegno che l’altro si aspetta sia mantenuto, realizzato, anche parzialmente e con effetti imprevisti, ma quantomeno abbozzato. Se è vero che per Lévinas l’ingiunzione etica precede il pactum, e se il pactum è il momento in cui si verifica il passaggio alla dimensione politica, come fondiamo eticamente il momento del pactum?

A mio avviso per rifondare la politica non è necessario tornare a un contrattualismo senza etica, ma è necessario “tradurre” diversamente i concetti di vulnerabilità e ci accountability nel quadro di una pattuizione che sia anche de/posizione. Agire in termini morali, ad esempio, può riassumersi in questo: che l’obbligazione morale nasce non già dal fatto di sapere che l’altro “me la farà pagare” se non rispetto la parola data, magari rivolgendosi a un’autorità superiore che difenda i suoi diritti, ma, piuttosto, proprio dal temere che non possa farlo, e che quindi rimanga inerme di fronte al mio venir meno all’impegno assunto. Quando mi espongo con una promessa, espongo anche l’altro allo scacco conseguente al suo non mantenimento. La promessa del pactum è un’istanza superiore all’”essere-stato” dell’azione e quindi è “inenarrabile”, se la narratività ha a che fare con la costruzione retrospettiva del dar conto di sé, ma è “scrivibile”, tracciabile, interpretabile, soggetta a discussione, argomentabile, ecc.

Forse la stessa Butler intuisce i limiti di un’impostazione di stampo levinassiano, e forse per questo sempre più nel corso delle sue ricerche fa riferimento a un’altra pensatrice, anch’ella di origine ebraica, Hannah Arendt, quasi a controbilanciare la presenza di Lévinas. In Vita activa Arendt esalta, com’è noto, l’impegno attivo, l’iniziativa nei confronti dell’altro, la proiezione della propria volontà nel futuro, quella straordinaria «memoria della volontà», quella forza anticipatrice che Nietzsche ammirava nell’uomo:

«Appunto questo animale necessariamente oblioso, nel quale il dimenticare rappresenta una forza, una forma di vigorosa salute, si è ora plasmato con l’educazione una facoltà antitetica, una memoria, mediante la quale in determinati casi l’oblio viene sospeso – in quei casi cioè in cui si tratta di fare una promessa»[26].

Secondo Arendt, dal carattere “non-sovrano” dell’umano non discende affatto un postulato che neghi la capacità di agire. La fragilità, l’inadeguatezza, la fallibilità, tutte le marche del carattere effimero delle azioni umane – poiché la loro sopravvivenza dipende dalla narrazione e dal ricordo pubblico –, nella misura in cui non si traducano in tragedia, rappresentano «il miracolo che preserva il mondo»[27]. Senza la rischiosa proiezione della promessa, tutto sembra limitarsi all’autorappresentazione, all’autobiografia, ad una giustificazione post festum. Persino il dar conto di sé, mentre sottolinea il primato dell’altro, risulta straordinariamente in-attivo, e dunque monco, rispetto alla necessità etica che Arendt riconosce nella promessa. Se è vero che «la coabitazione resta la condizione ineludibile di qualunque decisione politica, se tale decisione non voglia sfociare nel genocidio»[28], allora è necessario pensare le forme del patto, che introduca i soggetti dello scontro etico nello spazio vivibile della coabitazione.


[1] Mi riallaccio qui alla lettura fatta da Ambra Pirri nell’introduzione a J. Butler e G. Chakravorty Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione, Meltemi, Roma 2009, p. 14-16.

[2] J. Butler, Precarious life. The powers of mourning and violence, Verso, London-New York 2004; trad it. Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004, p. 64.

[3] J. Butler, Frames of war. When is life grievable? London-New York, Verso (Paperback 2010), p. 42.

[4] J. Butler, Precarious life, cit., trad. it. cit., p. 46.

[5] T. W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1966, trad. it. Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 182.

[6] J. Butler, 2005, Giving an account of oneself, Fordham University Press, New York 2005; trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 19.

[7] Ivi, p. 20.

[8] Ivi, p. 22.

[9] Ivi, p. 31.

[10] Ivi, p. 34.

[11] Ivi, p. 41.

[12] Cfr. A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997.

[13] J. Butler, 2005, Giving an account of oneself, cit., trad. it. cit., p. 48.

[14] Ivi, p. 60.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] L. Althusser, Sur la reproduction, Puf, Paris 1995, trad. it. Lo stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 192.

[18] Ivi, p. 223.

[19] L. Althusser, Sur la philosophie, Gallimard, Paris 1994, trad. it. Sulla filosofia, Unicopli, Milano 2001, pp. 69-77.

[20] L. Althusser, Sur la reproduction, cit., trad. it. cit., p. 111.

[21] J. Butler, Precarious life, cit., trad. it. cit., pp. 158-9.

[22] L. Althusser, Sur la reproduction, cit., trad. it. cit., p. 116.

[23] Ivi, p. 118.

[24] E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-déla de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 110.

[25] A differenza di Lévinas, Butler sottolinea che più che di alterità in senso trascendente preferirebbe si parlasse dell’alterità come la incontriamo nei contesti concreti della nostra vita sociale. Tuttavia, a mio avviso, è il modello stesso del “framing”, o della rappresentazione, a imporre una qualche forma di trascendentalizzazione dell’altro.

[26] F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2010, p. 46.

[27] H. Arendt, The human condition, University of Chicago Press, Chicago 1958, trad. it. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2006, p. 182.

[28] J. Butler, Parting ways. Jewishness and the critique of Zionism, Columbia University Press, New York 2012, p. 100.

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