Sui paradossi della critica esterna. Marcuse, i bisogni indotti e i desideri di massa

Marco Solinas

 

images Abstract: The paper presents a critique of Marcuse’s theory of “false needs”. It aims to clear the theoretical ground necessary to sketch out an immanent critique of the socio-economical dynamics that dictate the exhausting, and oft endless postponement of the satisfaction of a multiplicity of mass needs and desires. The paper focuses its attention on some paradoxes produced by Marcuse’s theory, correlated in particular with the critique of the wellbeing of the masses, and with the manipulative superpower ascribed to ideology. These paradoxes are interpreted as expressions of a radical distance between critic and the social reality and of a paternalistic drift, which can both be overcome by the introduction of a immanent critique.

 

Abstract: Il contributo presenta una critica della teoria dei “falsi bisogni” di Marcuse. Tale critica è volta a liberare lo spazio teorico necessario per impostare una critica immanente delle dinamiche socio-economiche che impongono un estenuante e spesso infinito differimento della soddisfazione di una molteplicità di desideri e bisogni di massa. Ci si sofferma su alcuni paradossi generati dalla teoria di Marcuse, correlati in particolare alla critica rivolta al benessere raggiunto dalle masse, ed allo strapotere manipolatorio attribuito all’ideologia. Tali paradossi vengono interpretati come espressione di un radicale distacco tra il critico e la realtà sociale, e di una sua deriva paternalistica, che possono essere superati attraverso l’adozione di una critica di tipo immanente.

 

 

 

Per una critica della critica esterna

 

Insistere con determinazione sulla critica immanente del capitalismo contemporaneo al fine di mettere in luce le dinamiche per le quali il continuo differimento o la reiterata negazione del soddisfacimento di desideri, aspettative e bisogni divenuti ormai di massa, riconducibile negli ultimi anni ad una serie di peculiari meccanismi socioeconomici imposti su larga scala dall’ordine neoliberista, contribuisce in modo sempre più significativo, insieme ad una molteplicità di altri fattori, ad acuire la sofferenza psicosociale che impregna le società occidentali avanzate. Nel momento stesso in cui il nuovo ordine promette godimento e felicità futuri, procede difatti nel contempo alla sistematica e capillare demolizione delle precondizioni perché li si possa effettivamente raggiungere, addossando sincronicamente ai singoli individui la responsabilità di tale processo di infinito ed estenuante differimento ricattatorio dell’appagamento. Pressione costante alla responsabilizzazione e personalizzazione esasperata dall’ormai affermatasi configurazione culturale e normativa volta a legittimare e giustificare i dispositivi del nuovo ordine. E pressione che contribuisce ad alimentare una serie di reazioni di taglio depressivo e regressivo che cooperano, sul piano psicosociale, all’inibizione e all’annichilimento dei potenziali normativi emancipatori immanenti alla suddetta sofferenza. Una sofferenza che pertanto risulta direttamente, seppur certo soltanto parzialmente, riconducibile a quegli stessi materiali pulsionali desideranti incessantemente stimolati e alimentati dal sistema di produzione e di distribuzione capitalistico, e dalla correlata costellazione culturale. Questa l’immagine dialettica, in positivo, della quale vorrei qui schizzare il profilo in controluce.

In controluce perché qui procedo, in negativo, rimettendo radicalmente in discussione la critica esterna o trascendente ai cosiddetti “falsi bisogni”, ovvero a quell’amplissima sfera di desideri considerati a vario titolo più o meno inutili e superflui, la cui soddisfazione è stata ritenuta essere corresponsabile dell’annichilimento dei potenziali sociali rivoluzionari della società occidentale. Forme della critica che – tralasciando qui l’analisi di indirizzi ancorati a più o meno vetusti modelli antropologici di matrice schiettamente biologistica – sono state spesso in grado di reinterpretare ed integrare i risultati dell’antropologia filosofica, della psicoanalisi e delle scienze cognitive contemporanee nei loro sistemi concettuali, andando così ad innervare una parte significativa della più incisiva ed elaborata critica sociale novecentesca. Orientamento che si è ben sedimentato nella cultura politica della sinistra, e che continua ancora oggi a fare spesso da sottofondo, implicitamente o esplicitamente, a correnti di pensiero alternative e a movimenti sociali antagonisti.

In tutti questi casi, a sedere sul banco degli imputati sono ancora e sempre desideri, bisogni e aspettative, interpretati unilateralmente come se fossero il mero risultato di perverse manipolazioni finalizzate al doppio obiettivo di integrare le masse nell’ordine esistente e di rinsaldare il legame strutturale tra produzione e consumo. Il ruolo delle vittime ignare continua pertanto ad essere attribuito a tutti coloro che di tali aspettative, bisogni e desideri sono i portatori sani, oppure, ancor meglio, alla figura tradizionale della falsa coscienza, seppur talvolta sotto mentite spoglie. Il mandante è il capitale, e l’esecutore un apparato ideologico strapotente e onnipervasivo. Adottando tale approccio, il critico risulta quindi muoversi su un piano nettamente separato da quello degli oggetti sociali criticati e, in tal modo, viene rilanciata la tradizionalissima asimmetria tra il teorico e le masse, la verità e l’apparenza, il filosofo e gli stolti.

Più da vicino, questo contributo è dedicato a presentare una serie di critiche alla classica critica esterna ai “falsi bisogni” con l’obiettivo di fondo di liberare lo spazio teorico sufficiente per impostare e sviluppare una critica immanente ad essa speculare. Critica che si configura come una alternativa a quella trascendente anzitutto perché non è rivolta ai desideri o ai bisogni di massa in quanto vettori di una presunta “integrazione” e “riconciliazione” delle masse tale da annichilirne i potenziali emancipatori. Al contrario, la critica immanente a cui penso insiste sulla criticità delle precondizioni necessarie per la soddisfazione di quel materiale desiderante continuamente rinnovato, generato e stimolato dall’incessante sviluppo del sistema tardocapitalistico. Procedendo in questa direzione, miro pertanto a mettere in luce le dinamiche per le quali tale materiale pulsionale viene a configurarsi come una delle fonti di quei potenziali emancipatori che gran parte della critica sociale novecentesca non soltanto aveva creduto di aver perduto, ma che era appunto giunta a considerare come un elemento perverso di riconciliazione e pacificazione. In breve, cercherò di rovesciare la prospettiva tradizionale adottata riguardo alla critica dei “falsi bisogni”, al fine di reinterpretare e rivedere la valutazione del potenziale emancipatorio immanente a bisogni e desideri di massa.

 

Intorno a Marcuse

 

In termini di storia della critica sociale, il compito qui preposto equivale al tentativo di problematizzare alla radice quell’orientamento teorico che insistendo sulla manipolazione ed induzione dei “falsi bisogni” quali fattori di pacificazione ha segnato una parte consistente della riflessione filosofico-sociale novecentesca, ivi inclusa la teoria critica di matrice francofortese. La critica ai “falsi bisogni”, intesa sostanzialmente quale esito di un più o meno deliberato e pianificato “condizionamento” pulsionale, indissolubilmente interrelata alla ri-tematizzazione della “falsa coscienza” ed alla tesi della crescente acquiescenza delle masse, ha difatti determinato il destino della teoria critica quale è stata portata avanti dalla prima generazione dei francofortesi soprattutto a partire dalla fine degli anni Quaranta. Focalizzerò in particolare l’attenzione su Marcuse, muovendo da L’uomo a una dimensione (1964) per spingermi rapidissimamente fino agli ultimi scritti.

Tale scelta muove anzitutto dai tre seguenti elementi. Primo, in Marcuse vi è una esplicita e approfondita tematizzazione delle forme e delle funzioni dei “falsi bisogni”. Secondo, più in generale, egli attribuisce un ruolo determinante ai bisogni e ai desideri in quanto tali nel quadro generale della sua filosofia sociale e politica. Terzo, tale questione è sviluppata nei termini di una critica volta a “trascendere” la monodimensionalità che caratterizzerebbe la realtà tardocapitalistica; essa è pertanto incentrata esplicitamente sull’utilizzo di criteri “trascendenti”, e non “immanenti”. Poste queste ragioni di fondo, vi sono perlomeno altri due ordini di questioni che credo rendano l’analisi della posizione di Marcuse particolarmente feconda dalla nostra prospettiva.

Primo, la concezione dei “falsi bisogni” presentata da Marcuse è emblematica dell’approccio adottato dalla prima teoria critica nei confronti della tesi marxiana della centralità e sostanziale insostituibilità del proletariato quale istanza rivoluzionaria e, quindi, dell’importanza capitale attribuita alla manipolazione ideologica dei suoi bisogni. Inoltre, poiché a partire dai movimenti del Sessantotto Marcuse si allontana sempre più dal suddetto approccio, questo stesso sviluppo fa luce da una prospettiva interna sulle secche su cui è rimasta incagliata la prima teoria critica. Secondo, le linee di riflessione che Marcuse percorre o a volte soltanto abbozza in relazione alla questione dei “falsi bisogni” hanno influenzato su molti punti la discussione della critica sociale, confluendo in quel patrimonio teorico comune ancor oggi ben presente nella cultura di sinistra. Si pensi tra gli altri al tema dello spreco e della obsolescenza programmata e più in generale all’ecologismo, o alla questione della capacità mostrata dalla cultura del capitalismo di inglobare le critiche ad esso rivoltegli trasformandole in strumenti ideologici di sfruttamento e asservimento.

Più da vicino, attraverso una brevissima disamina critica di alcuni snodi della posizione di Marcuse vorrei qui concentrarmi su due assi principali. Un primo filone concerne il rapporto tra il capitalismo contemporaneo e la sua costellazione culturale, i bisogni e i desideri di massa, ed il cosiddetto benessere; questioni derubricabili alla voce “consumo e ideologia”. Accennando soltanto alla fine al tema oggi fondamentale dell’ecologia, vorrei mostrare come l’ostinata fedeltà mostrata dalla teoria critica nei confronti della postura marxista che affidava ogni speranza rivoluzionaria al processo di progressivo depauperamento del proletariato, combinata alla tematizzazione di una ideologia strapotente, abbia innescato un atteggiamento intimamente ostile nei confronti del benessere delle masse. Atteggiamento che ha cooperato in modo determinante alla costruzione di una concezione dei “falsi bisogni” a mio avviso cieca, fuorviante e paradossale che, lungi dal rappresentare un vetusto reperto concettuale appartenuto all’armamentario ideologico della prima teoria critica, mi pare al contrario essere (malauguratamente) uno degli strumenti ancor oggi più utilizzati nel quadro della critica sociale e della analisi del capitalismo avanzato.

Il secondo asse, correlato al primo, concerne il piano inerente alla forma della critica adottata da un punto di vista metodologico. Questione che negli ultimi decenni è divenuta centrale nel dibattito filosofico-sociale, sia nella forma dell’alternativa tra critica esterna e critica interna, sia nel reiterato rilancio e nella rielaborazione della critica dell’ideologia di matrice marxiana, sia nella forma della sociologia della critica (una traiettoria che da Michael Walzer giunge fino a Luc Boltanski). L’analisi della posizione di Marcuse credo permetta di mettere in luce alcuni cruciali paradossi della critica trascendente, ivi inclusa una forma particolare di critica dell’ideologia, correlati ad un certo paternalismo e ad una chiara asimmetria tra critico e realtà sociale. Si staglia così netta, per contrasto, l’alternativa di una critica immanente che viene a configurarsi, in negativo, quale modalità in grado di evitare tali paradossi e, in positivo, quale forma che permette di individuare (e quindi lavorare criticamente) sui potenziali emancipatori di cui parlavo sopra, mostrando come essi siano generati dallo sviluppo interno del capitalismo stesso. In tal modo, la critica immanente permette di elaborare i fondamenti metodologici sui quali sviluppare anche una critica di taglio ecologista (che qui potrò soltanto accennare), nonché una critica dell’ideologia del capitalismo neoliberista contemporaneo che non incorra nelle derive paternalistiche della prima teoria critica.

 

 

La critica ai “falsi bisogni”

 

“È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi (We may distinguish both true and false needs). I bisogni “falsi” sono quelli che vengono sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. Può essere che l’individuo trovi estremo piacere nel soddisfarli, ma questa felicità non è una condizione che debba essere conservata e protetta se serve ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla. Il risultato è pertanto un’euforia nel mezzo dell’infelicità. La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni.
Tali bisogni hanno un contenuto e una funzione sociali che sono determinati da potenze esterne, sulle quali l’individuo non ha alcun controllo; lo sviluppo e la soddisfazione di essi hanno carattere eteronomo. Non importa in quale misura tali bisogni possano essere divenuti quelli propri dell’individuo, riprodotti e rafforzati dalle sue condizioni di esistenza; non importa fino a qual punto egli si identifica con loro, e si ritrova nell’atto di soddisfarli: essi continuano ad essere ciò che erano sin dall’inizio, i prodotti di una società i cui interessi dominanti chiedono forme di repressione”. [1]

 

Questa posizione, i cui lineamenti di fondo rappresentano in modo quasi caricaturale il profilo della concezione adottata al riguardo anche dagli altri esponenti della prima teoria critica, muove in primo luogo dalla funzione sociopolitica che Marcuse attribuisce ad una serie particolari di bisogni. “Falsi” debbono essere considerati quei bisogni ritenuti funzionali al sistema economico tardocapitalistico nel senso che la loro soddisfazione risulta atta a perpetuare, direttamente o indirettamente, l’illibertà delle masse e l’ingiustizia della totalità sociale. Condanna senza appello che concerne anche e soprattutto quei bisogni la cui soddisfazione genera effettivamente piacere, e viene pertanto interpretata dai soggetti in causa come un elemento che contribuisce positivamente al raggiungimento della loro felicità. Ciò significa che Marcuse – ad eccezione dei cosiddetti “veri” bisogni – sta rivolgendo una critica serrata contro ogni tipo di miglioramento di vita, ogni tipo di beneficio e vantaggio, ogni grado di innalzamento del tenore di vita delle masse correlato all’acquisto e all’uso di un qualche bene materiale riconducibile più o meno direttamente al funzionamento complessivo del sistema; diciamo al “consumo”. Si tratta, dunque, di una sfera straordinariamente ampia di desideri e bisogni, talmente ampia che i suoi confini risultano di fatto indeterminati se non forse indeterminabili. Allorché poi si consideri che Marcuse si scaglia non soltanto contro l’intera galassia del consumo, ma anche contro quelle condizioni socioeconomiche che cooperano alla sicurezza e al benessere delle masse riconducibili alla sfera welfare state, mi pare emerga fin da subito il carattere totalizzante di una tale lotta.

Ora, di fronte a una tale radicalità, sorgono immediate una serie di domande invero piuttosto elementari: quali sono le ragioni che hanno condotto Marcuse ad adottare una posizione talmente intransigente? Qual è in altri termini la logica che sottende un atteggiamento connotata da una tale unilateralità? E ancora, scagliandosi contro una così ampia sfera di bisogni e di desideri, di piaceri e di soddisfazioni di massa, Marcuse – come gli altri esponenti della prima teoria critica – non corre  il rischio di determinare un’insanabile e paradossale frattura tra il critico sociale e quelle masse di cui egli vorrebbe tutelare e rappresentare gli interessi “reali”? Per provare a rispondere rapidamente a queste domande, ed ad altre correlate, muovo qui dall’analisi di alcuni fondamentali presupposti di filosofia della storia che mi paiono aver determinato, dall’interno, la logica di fondo adottata da Marcuse.

 

Marx reloaded

 

La logica sottostante alla critica spietata dei “falsi bisogni” e più in generale all’innalzamento del livello di vita della masse proposta da Marcuse, i cui pilastri risultano in definitiva collocati entro una polarità dialettica invero piuttosto scarna, credo sia riconducibile in primo luogo all’atteggiamento adottato nei confronti della tesi marxiana che affidava ogni speranza rivoluzionaria al processo di progressivo depauperamento del proletariato. Marcuse infatti, come gli altri esponenti della prima teoria critica, si rende conto che nei decenni del secondo dopoguerra la tesi marxiana del depauperamento veniva sostanzialmente “falsificata”, e in certo modo persino rovesciata dalla straordinaria capacità mostrata dal tardo capitalismo di incrementare esponenzialmente il nesso produzione-consumo, e dunque la quantità e la fruibilità dei beni anche da parte delle masse.[2] Anche in ragione delle gravissime difficoltà incontrate nell’individuazione di altre istanze, forze e processi sociali in grado di incarnare le speranze rivoluzionarie apparentemente disattese dal proletariato “all’interno” delle società avanzate, Marcuse fu indotto a considerare il miglioramento delle condizioni economiche e sociali di questo stesso proletariato nei termini di un fenomeno negativo, quasi come una maledizione: quanto più si innalzava il tenore di vita dei proletari, tanto più si allontanavano le speranze di una rivoluzione. È questa la postura teorica di fondo (peraltro adottata nel corso del XX secolo da una moltitudine di correnti politiche e filosofiche di matrice marxista) che spiega l’insistenza ossessiva nel rimarcare come il (relativo) benessere raggiunto dalle masse dovesse essere interpretato nei termini unilateralmente negativi di una “conciliazione”, “riunificazione”, “armonizzazione”, “adattamento”, “integrazione” dei “servi” con i “padroni”.

La questione dei bisogni, veri e falsi, autentici e inautentici, alienati e non, rivela così la sua natura essenzialmente politica. Le argomentazioni volte più o meno confusamente a giustificare la critica dei “falsi bisogni” sul versante di una relativamente oscura reinterpretazione del principio di piacere, come del resto quelle sulla “liberalizzazione” e non “liberazione” della sessualità, mostrano fin dal primo sguardo il loro carattere ausiliario e strumentale.[3] Si tratta prevalentemente di meri corollari alla vera questione che predomina nell’intero discorso sui bisogni di Marcuse, ed invero della prima teoria critica: l’angosciante preoccupazione determinata dalla convinzione che il relativo arricchimento del proletariato, interpretato unilateralmente nei termini di una sua progressiva integrazione e riconciliazione, equivalga al sostanziale annichilimento dei potenziali rivoluzionari e, quindi, alla perpetuazione del dominio dell’uomo sull’uomo (e sulla natura).

Convinto del naufragio delle istanze interne, Marcuse rivolge così lo sguardo all’esterno: “le forze politiche trascendenti che esistono entro la società sono bloccate, ed un mutamento qualitativo appare possibile soltanto come mutamento proveniente dall’esterno”.[4] Possibilità individuata in quello che definirà, sempre sulla falsariga dell’impostazione originaria marxiana, come il “proletariato esterno” (“external proletariat”)[5] e che, come leggiamo ad esempio nella Prefazione politica del 1966 a Eros e civiltà, risiede appunto al di fuori dei confini delle società occidentali:

 

“Quando, nelle società più o meno opulente, la produttività ha raggiunto un livello al quale le masse partecipano ai suoi vantaggi, per cui l’opposizione è tenuta, efficacemente e democraticamente, sotto controllo, allora anche il conflitto tra padrone e schiavo è efficacemente tenuto sotto controllo. O piuttosto si è socialmente spostato. Esso ora esiste ed esplode nella rivolta dei paesi sottosviluppati contro l’intollerabile eredità del colonialismo e il suo prolungarsi nel neocolonialismo. Secondo la concezione marxiana, solamente coloro che sono liberi dalle benedizioni del capitalismo possono trasformarlo in una società di liberi: solamente coloro la cui esistenza è la negazione stessa della proprietà capitalistica possono diventare i protagonisti storici della liberazione. Questa concezione riacquista oggi tutta la sua validità a livello internazionale. Nella misura in cui le società che si reggono sullo sfruttamento sono diventate società integrate, nella misura in cui le nuove nazioni indipendenti costituiscono oggi il campo di battaglia dei loro interessi, le forze “esterne” della ribellione hanno cessato di essere forze estranee al sistema per diventare il nemico all’interno del sistema”.[6]

 

Certo, soprattutto sulla spinta del movimento del Sessantotto, Marcuse metterà sempre più radicalmente in discussione la convinzione del blocco totale delle forze interne: prima rimarcando (con andamento leninista) il fatto che l’“imborghesimento” del proletariato era però accompagnato dalla sincronica formazione di una nuova e promettente intellighenzia,[7] e poi accordando sempre maggior spazio, oltre ai disoccupati, ai diseredati e al sottoproletariato in genere, alle minoranze di colore, agli studenti, nonché al movimento femminista e ai vari movimenti per i diritti civili.[8] In breve, già nel 1969, data ancora una volta per buona la tesi per cui i processi di “integrazione della classe operaia” dovessero essere in definitiva interpretati come una conferma per cui “le masse stesse sono forze di conservazione e di stabilità”, Marcuse rinverdiva la tesi per cui “è la potenza stessa di questa società che contiene in sé nuovi modi e dimensioni di una cambiamento radicale”[9].

L’abbandono della postura tradizionale volta a centrare unilateralmente lo sguardo sul proletariato, giustificata essa stessa attraverso un richiamo al Marx anti-economicista,[10] rappresenta certo una cesura significativa nella tradizione della prima teoria critica – posto che Marcuse ha poi continuato a rimarcare che l’apertura ai movimenti non ebbe mai il significato di un disconoscimento del ruolo del proletariato in quanto insostituibile istanza rivoluzionaria.[11] Del resto tale parziale apertura non comportò neanche la radicale messa in discussione della concezione dei “falsi bisogni”, che continuò a rappresentare uno dei fondamenti della critica della integrazione e conciliazione delle masse, sebbene Marcuse tese a interpretarli in termini di soddisfazioni “compensatorie”, contrapposte a quelli che avrebbero condotto alla liberazione e quindi a un “nuovo tipo d’uomo”;[12] ritroveremo così la differenziazione tra “interessi emancipatori” e “interessi compensatori” ancora negli ultimissimi scritti di Marcuse.[13] Ed è all’anatomia di tale cuore teoretico che vorrei ritornare.

 

Cortocircuiti

 

Nel momento stesso in cui la critica ai “falsi bisogni” si traduce in una lotta dichiarata al (relativo) benessere raggiunto dalle fasce più povere delle società occidentali, essa viene a generare un cortocircuito sia rispetto alla tradizione marxista di cui questa stessa critica vorrebbe essere espressione (paradosso familiare ai leninisti), sia rispetto alla posizione del critico in relazione alle preferenze e ai desideri degli individui in gioco.

Allorché Marcuse, come gli altri esponenti della prima teoria critica, si scaglia contro il miglioramento delle condizioni di vita delle masse, interpretandolo prima come il tramonto di ogni speranza rivoluzionaria, e poi come uno dei principali ostacoli alla sua possibile realizzazione, si determina una doppia contrapposizione: non soltanto rispetto al capitale ma, inevitabilmente, anche agli interessi cosiddetti “immediati” di quelle stesse masse che di fatto traggono dei vantaggi dall’incremento esponenziale della dinamica produzione-consumo. Dalla prospettiva degli strati storicamente più disagiati, se non miserevoli, del “proletariato” insomma, la possibilità di soddisfare una sfera crescente di bisogni attraverso il consumo di una molteplicità di beni a cui in passato non avevano alcun accesso, o che erano semplicemente inesistenti, non può difatti che configurarsi come un effettivo “vantaggio”. Dunque, come qualcosa di inequivocabilmente positivo e invero assai significativo, e certo non come una maledizione. Ciò considerato, la posizione di Marcuse e degli altri esponenti della prima teoria critica incorre nel destino paradossale di contrapporsi frontalmente a quello stesso proletariato che, anziché sprofondare nella miseria e nella sofferenza, innalza il proprio livello di vita. Atteggiamento che peraltro sembra quasi voler rimuovere la terribile lezione della storia novecentesca: il depauperamento del proletariato, nonché la proletarizzazione della classe media, deve sempre essere considerato come un processo che di fatto può sempre innescare reazioni sociali, politiche e psicologiche eminentemente regressive.

Ora, è certamente vero che Marcuse è perlomeno parzialmente consapevole dell’effetto paradossale generato della sua posizione, se non altro in relazione al fatto che essa lo conduce inevitabilmente prima a distanziarsi e poi a disconoscere platealmente le preferenze espresse dagli individui in merito ai loro stessi bisogni, desideri e aspirazioni. Si tratta qui di una particolare forma di consapevolezza tale da indurlo a tradurre la questione in una sorta di dilemma etico-morale:

 

“La “verità” e la “falsità” dei bisogni designano condizioni obbiettive nella misura in cui la soddisfazione universale dei bisogni vitali e, al di là di questa, la progressiva riduzione della fatica e della povertà sono criteri universalmente validi. Come criteri storici, tuttavia, non soltanto essi variano a seconda del luogo e dello stadio di sviluppo, ma possono venir definiti solamente in contraddizione (più o meno grande) rispetto ai criteri che ora prevalgono. Quale tribunale può mai pretendere di avere l’autorità di decidere?
In ultima analisi sono gli individui che debbono dire quali sono i bisogni veri e falsi, ma soltanto in ultima analisi; ossia solo se e quando essi sono liberi di dare una risposta. Fintanto che sono ritenuti incapaci di essere autonomi, fintanto che sono indottrinati e manipolati (sino al livello degli istinti), la risposta che essi danno a tale domanda non può essere accettata come fosse la loro. Per lo stesso motivo, tuttavia, nessun tribunale può legittimamente arrogarsi il diritto di decidere quali bisogni dovrebbero essere sviluppati e soddisfatti. Qualsiasi tribunale del genere è da biasimare, benché la nostra ripulsa non elimini certo la domanda: in che modo delle persone che sono state l’oggetto di un dominio efficace e produttivo possono creare da sé le condizioni della libertà?”

 

Se dunque si rende conto della problematicità della sua posizione, Marcuse non rinuncia però alle prerogative che lui stesso attribuisce alla critica: la risposta data in merito dai singoli, fintanto che il critico li ritiene manipolati, non può essere accettata come fosse la loro (their answer to this question cannot be taken as their own). Certo non si può facilmente istituire un tribunale sui bisogni: esso verrebbe in fondo a rappresentare una sorta di dittatura sui desideri. E tuttavia, si tratta di un impasse soltanto apparente, poiché Marcuse continua a riconoscere alla critica il diritto a disconoscere le preferenze individuali, e a procedere nella distinzione tra bisogni veri e falsi. Nonostante ciò di fatto equivalga, come scriverà in un’altra occasione, a “negare al singolo di esser giudice della sua propria felicità”,[14] il critico deve proseguire nella sua opera. Del resto, non è stato il critico ma la società ad aver espropriato i singoli della potestà sulla loro coscienza, sostituendo la falsa all’autentica.

Affrontando direttamente uno dei paradossi in cui incorre la critica ai “falsi bisogni”, Marcuse mostra pertanto in modo cristallino non soltanto il radicale distacco posto tra il critico e le masse, ma anche la posizione paternalistica da cui la prima teoria critica risulta muovere ad esse molteplici rimproveri. E ancora, quando più tardi, nel Saggio sulla liberazione (1969), Marcuse con toni adorniani lamenterà amareggiato una non ben comprovata “avversione emotiva contro l’intellighenzia non conformista” espressa dalla “maggioranza dei lavoratori organizzati”,[15] si potrebbe pensare che a mostrare una reiterata e ben più profonda diffidenza nei confronti della maggioranza dei lavoratori organizzati fossero stati precisamente gli esponenti della prima teoria critica. Sempre in questo testo, Marcuse insiste nella denuncia del processo di “imborghesimento” del proletariato, sottolineando la dinamica in certo qual modo autodistruttiva che esso rappresenta:

 

“Al presente la posta in gioco sono appunto i bisogni. A questo punto, la questione non è più come possa l’individuo soddisfare i propri bisogni senza danneggiare gli altri, ma piuttosto come possa soddisfare i suoi bisogni senza danneggiare se stesso, ossia senza riprodurre tramite le sue aspirazioni e soddisfazioni la sua dipendenza da un apparato sfruttatore che, soddisfacendo i suoi bisogni, perpetua la sua servitù”.[16]

 

Se dunque il critico continua ad assumere una prospettiva che mira in primo luogo a far emergere l’illibertà e l’ingiustizia della totalità sociale, tuttavia non rinuncia a prendere in considerazione anche la prospettiva delle masse stesse. Facendolo, Marcuse intende mettere in luce una contraddizione che pare ritenere immanente all’ordine socioeconomico dato: le masse sono strette nella morsa di un sistema che, nel momento sesso in cui provvede a soddisfarne i bisogni, ne perpetua le condizioni di servitù e di sfruttamento. È questa la via della tematizzazione della “servitù volontaria”, nozione che Marcuse risulta peraltro usare in modo piuttosto ambiguo. Egli difatti insiste nello stesso tempo sia sulla manipolazione e preformazione dei bisogni da parte dell’ordine capitalistico, sia sull’accettazione volontaria, e quindi in qualche modo necessariamente consapevole, da parte delle masse dello sfruttamento cui sono sottoposte. Una accettazione della servitù che sarebbe appunto compiuta in nome di un soddisfacimento pulsionale tale da innalzare e migliorare le proprie condizioni di vita, “anche per strati della popolazione rimasti a lungo svantaggiati”.[17] Posto il tema in questi termini, resta quindi poco chiaro se le masse, sottoposte a processi ideologici di manipolazione dei bisogni più o meno “scientifici”,[18] siano o meno consapevoli, ed eventualmente in quali forme e gradi, della propria “servitù”.

E così, è vero che rimarcando il “danno” che le masse farebbero a se stesse accettando una sorta di compromesso al ribasso, Marcuse pare stemperare il carattere stridente del paradosso in cui incorre il critico allorché giunge a condannare il (relativo) benessere raggiunto da un proletariato che (per sua fortuna) non è più tale. È altrettanto vero però che il critico continua ad essere collocato in una posizione che lo contrappone frontalmente ai bisogni e ai desideri espressi ed esperiti delle masse. Bisogni che, nonostante l’ambigua adozione della nozione di “servitù volontaria”, Marcuse continua a ritenere frutto di una scientifica manipolazione, di un attento indottrinamento, in una parola dell’efficacia dello strapotente apparato ideologico che l’ordine tardocapitalistico avrebbe messo in atto.

 

Cecità

 

Seguendo Adorno, Marcuse conferisce un potere straordinario all’ideologia: “assorbita” dalla realtà, essa sembra quasi sul punto di fagocitare la stessa falsa coscienza che ha generato.[19] Ciò significa che le masse sarebbero a tal punto plasmate, condizionate, indottrinate e scientificamente manipolate che la soddisfazione dei loro “falsi” bisogni, preformati e quindi perfettamente allineati alle necessità produttive, andrebbero a dar forma a un corpo sociale riunificato, armonizzato e riconciliato. Se quindi è vero che Marcuse, come Adorno, continua talvolta a richiamarsi ad una sorta di infelicità che si anniderebbe nelle pieghe della società unidimensionale, pagando così il tributo dovuto ad una fiducia di facciata nell’umanità, [20] la tesi che argomenta con rigore e che pone alla base del suo intero edificio analitico resta quella per cui le masse risultano accecate dall’ideologia fino al punto da non riconoscere le storture e le deformazioni a cui sono sottoposte da un sistema intrinsecamente ingiusto che le tiene in condizioni di servitù. È questo l’esito ultimo a cui conduce la “coscienza felice”: essa “riflette la credenza che il reale è razionale, e che il sistema stabilito, nonostante tutto, mantiene le promesse.”[21]

Ora, sostenere che dovremmo infine accettare la tesi secondo cui le masse sarebbero perfettamente e felicemente integrate e riconciliate nel quadro di una società monodimensionale in virtù dell’utilizzo da parte del sistema tardocapitalistico di un apparato ideologico in grado di manipolarne sapientemente e scientificamente sia la struttura pulsionale sia le convinzioni razionali, a mio avviso non equivale al sobrio e sincero riconoscimento del destino paradossalmente amaro di un proletariato imborghesitosi e appagato fino al punto da gioire delle proprie dorate catene. Tale conclusione mi pare piuttosto rappresentare il destino beffardo nel quale incorse la prima teoria critica nel momento in cui restò abbagliata dagli effetti devastanti di un apparato ideologico la cui esistenza risulta tuttavia decisamente più ideale che reale. Non furono le masse ad essere accecate dalla falsa coscienza e annichilite dalla soddisfazione di bisogni sapientemente indotti, ma fu piuttosto la teoria critica che, imprigionata nelle proprie griglie concettuali, impigliata nell’ordito della trama da lei stessa tessuta, non riuscì più a “vedere” la sofferenza e le tensioni che di fatto attraversavano la realtà sociale in una molteplicità di forme eterogenee.

Si tratta qui del paradosso che direi essere in assoluto il più grave e contro-intuitivo per la prima teoria critica della società. Precisamente quella teoria che mirava a dar forma e voce alle istanze di resistenza, opposizione e conflitto presenti all’interno della società capitalistiche, e così contribuire sul piano teorico e analitico al processo storico della emancipazione in particolare delle masse proletarie e, quindi, dell’umanità intera, era giunta non soltanto a disconoscere l’esistenza di tali potenziali, ma invero a contrapporsi frontalmente a quelle stesse masse che di tali istanze sarebbero dovuto essere le portatrici. La distanza tra il teorico e la realtà era divenuta tale per cui Marcuse non riuscì più a cogliere né la costitutiva relatività dei vantaggi che un certo benessere poteva rappresentare per le diverse fasce sociali, né la soltanto parziale e sempre deficitaria efficacia di una serie di meccanismi ideologici volti a legittimare l’ingiustizia sociale e lo sfruttamento, ma mai in grado di plasmare le masse come si trattasse di un morbido blocco d’argilla.

Fu del resto lo stesso Marcuse che ad un certo punto dovette iniziare a rendersi conto che la teoria critica doveva essersi scollata dalla realtà che ambiva ad interpretare (anche) in relazione alla tematizzazione dell’ideologia. Se a metà degli anni Sessanta continuava infatti a “non vedere” una serie di fattori e dinamiche sociali che di lì a pochissimo avrebbero condotto ai movimenti di protesta di massa internazionali,[22] una volta scoppiati cambiò però atteggiamento rapidamente. E lo cambiò non soltanto in relazione alla questione del proletariato quale unica istanza di rinnovamento radicale, come sopra accennato, ma anche in relazione alle masse stesse. In Controrivoluzione e rivolta (del 1972) ad esempio, seppur tenendo fede alla distinzione tra “bisogni fondamentali e vitali” e “bisogni e beni superflui”,[23] e sebbene in modo piuttosto confusionario e direi ambivalente e contraddittorio, Marcuse prese atto che un certo malessere sembrava serpeggiare anche in quella base che ancora nel 1969 aveva ritenuto rappresentare unilateralmente una “forza conservatrice e perfino controrivoluzionaria”[24]:

 

“Il consumo competitivo dev’essere costantemente accresciuto, il che significa che l’alto livello di vita perpetua un’esistenza in forme sempre più insensate e disumanizzate, mentre i poveri restano poveri, e le vittime della prosperitas Americana aumentano di numero. Pare che questa contraddizione, tra ciò che è e ciò che potrebbe e dovrebbe essere, penetri, in forme molto concrete, lo spirito delle masse sottoposte, e per contro la consapevolezza della irrazionalità del tutto influisce sulle prestazioni del sistema. Il feticismo del consumo va indebolendosi: dietro la tanto vantata tecnocrazia e le sue benedizioni la gente vede la struttura del potere. È una consapevolezza che, se si escludono le piccole minoranze di sinistra, resta non politica e spontanea; spesso repressa; “ideologica” – ma trova espressione nella base stessa della società. Nei sempre più diffusi scioperi a gatto selvaggio, nella strategia militante e nelle esigenze dei giovani lavoratori, la protesta rivela una ribellione contro l’insieme delle condizioni di lavoro imposte, contro l’insieme delle prestazioni cui si è condannati”.[25]

 

Critica immanente

 

Se Marcuse, e per molti versi la prima teoria critica in generale, ha compiuto il fatale errore di farsi accecare dal potere abbagliante conferito ad un apparato ideologico da lei stessa ipotizzato, immaginando masse appagate e felicemente conciliate e perdendo di vista le tensioni e le contraddizioni che continuavano ad attraversare le società occidentali, si tratta per noi di rovesciare l’approccio e impostare una critica che muova invece dalla sofferenza che gli attori sociali esperiscono sulla propria pelle e denunciano con la loro voce. Tale rovesciamento concerne, tra le altre cose, la tematizzazione dei “falsi bisogni” o, meglio, l’individuazione dei potenziali emancipatori immanenti ai desideri di massa. Certo è vero che nel corso degli anni Settanta Marcuse talvolta rimarcò come le dinamiche del tardo capitalismo generassero nuovi bisogni tali da spingere al suo stesso superamento e, dunque, “vide” in tale processo di ampliamento una sorgente di potenziali emancipatori e non più l’annichilimento di ogni fonte di resistenza. Tuttavia, tale rivalutazione restò da diverse prospettive inevitabilmente imbrigliata nelle griglie concettuali precedenti, inducendolo ad esempio a considerare il processo in gioco come intrinsecamente “paradossale” – mentre il paradosso risultava tale solo in relazione alle specifiche premesse teoretiche adottate.[26] E così, riconosciuto a Marcuse il merito di aver da ultimo intravisto la direzione forse più feconda da intraprendere, ora però ci si può, e credo ci si debba incamminare in tale direzione senza quell’ingombrante bagaglio di esitazioni determinate dal tentativo di salvare una differenziazione vetusta tra bisogni falsi e autentici, una supposta sacralità della dialettica marxiana, e diverse altre precondizioni teoretiche e analitiche. In breve, di contro alla prima teoria critica, paralizzata da una serie di paradossi generati dal suo stesso ventre teorico, “svuotata” insomma da un “vuoto” auto-generato e proiettato sulle superficie della realtà analizzata,[27] si tratta di far emergere i potenziali emancipatori immanenti ad una sempre più ampia sfera di bisogni e desideri ormai divenuti di massa. Potenziali generati perlomeno da due ordini di macro-processi.

Primo, una serie di tensioni sono innescate dal fatto che la soddisfazione di una molteplicità di desideri implica l’assoggettamento a meccanismi di sfruttamento e subordinazione sempre più feroci di cui i protagonisti sono perlopiù perfettamente consapevoli. La medesima logica che “impone” la soddisfazione di standard esistenziali sempre più alti – e che sul piano metodologico non equivale ad altro che al riconoscimento della relatività ed eminente storicità dei bisogni umani – rivela insomma nel contempo ai soggetti che il “prezzo” in termini esistenziali della soddisfazione dei propri desideri può risultare estremamente alto in relazione ai dispostivi cui sono assoggettati. In sintesi, siamo qui di fronte all’impatto di un differimento ricattatorio dell’appagamento.

Secondo, è sempre in virtù dell’ampliamento della suddetta sfera di desideri e bisogni, e di un “prezzo” sempre più spesso nettamente al di sopra delle possibilità dei soggetti in gioco, che la loro soltanto potenziale soddisfazione implica il riconoscimento del carattere meramente illusorio di una serie sempre più ampia di promesse di godimento e felicità. Il capitalismo, e in particolare questo neoliberista, mostra che l’imposizione di un differimento spesso infinito di tutta una serie di desideri ritenuti dai soggetti interessati come più o meno essenziali, e certo per loro non meramente inutili o superflui, risulta così smascherare il gioco delle false promesse. La coscienza infelice di masse sulla via di una incipiente e sempre relativa ri-proletarizzazione, riconosce lucidamente che la realtà rivela un tasso piuttosto alto di irrazionalità e di ingiustizia sociale, e riflette sincronicamente la credenza che, nonostante tutto, essa non mantiene le promesse.

Nel contempo questo approccio teorico, che possiamo definire nei termini di una critica immanente, non preclude affatto la possibilità di sviluppare una critica dell’ideologia dell’attuale ordine neoliberista, così come non induce in alcun modo ad accantonare il concetto di ideologia. Al contrario, sono persuaso che la nozione di ideologia sia preziosa, e che la sua critica sia necessaria oggi come lo era ai tempi di Marx. Si ratta però di intendersi sul suo significato e soprattutto sulle forme della critica. Messa da parte l’idea per cui la realtà abbia “assorbito” l’ideologia quasi fino al punto da rendere irriconoscibile a se stessa la falsa coscienza, una tesi che a mio avviso rasenta il non senso, credo si debba ripartire dalla classica critica ideologia. Intendo la critica di quell’insieme di dispositivi argomentativi adottati dall’ordine costituito, e incarnati in una molteplicità di istituzioni, il cui fine è legittimare e giustificare l’ingiustizia da esso perpetuata, appellandosi in modo strumentale a norme e criteri di giustizia universali, o a ideali etici e morali condivisi da una data comunità.

Più da vicino, si tratta di far emergere come l’ideologia contemporanea miri ad annichilire il carattere emancipatorio delle tensioni suddette tentando, tra le altre vie, di addossare unilateralmente ai singoli la responsabilità dei processi che comportano il reiterato differimento ricattatorio dei desideri, o la rinuncia definitiva al loro appagamento. Anche in questo caso, adottando un approccio immanente, si tratta di mostrare l’inconsistenza e la contraddittorietà dei dispostivi argomentativi adottati rispetto alla realtà data. Dispositivi che peraltro riprendono temi ripresi della critica sociale degli anni Sessanta e Settanta, come Marcuse aveva a suo tempo in certo modo intuito, ad esempio ove sottolineava che “Il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici”.[28] Processo che si è poi intensificato e perfezionato, penetrando nel cuore del sistema produttivo, fino al punto che, ironia del destino, una molteplicità di questioni e approcci della critica di taglio estetico e “d’artista” di cui lo stesso Marcuse fu uno dei massimi esponenti è stata anch’essa inglobata e fagocitata da quello che è stato definito (da Chiapello e Boltanski) come il “nuovo spirito del capitalismo”.

Infine, è sempre mantenendo una postura critica immanente, dunque alternativa al ricorso a criteri “trascendenti”, che credo si possa affrontare e sviluppare al meglio una critica di taglio ecologista al consumo, e più in generale ad uno sviluppo capitalistico che si rivela per natura illimitato. Non si tratta forse di contraddizioni immanenti a un sistema che si dichiara incapace di rallentare il proprio tasso di crescita fino al punto da indurre ad ogni tipo di spreco e a proseguire nella logica della cosiddetta obsolescenza programmata, come già Marcuse aveva del resto sottolineato? E non si tratta qui, più in generale, di una dialettica del dominio dell’uomo sulla natura tale da aver infine condotto alla “ribellione” di quest’ultima, e che possiamo per certi versi ricondurre al framework dialettico della prima teoria critica? Non si tratta insomma del fatto che l’uomo sta distruggendo le precondizioni per la continuazione della vita non solo delle altre specie animai e vegetali, ma per la sua stessa sopravvivenza?

Rispondere imputando una corresponsabilità al cosiddetto consumismo alimentato dai “falsi bisogni”, ovvero da desideri considerati a vario grado e titolo più o meno inutili e superflui, significherebbe a mio avviso ricommettere l’errore fatale che condusse al naufragio della prima teoria critica. Non solo e non tanto perché il capitalismo contemporaneo ha prontamente individuato nei nuovi prodotti a basso consumo energetico, biologici e simili un nuovo straordinario mercato. Ma piuttosto perché ciò significherebbe incorrere ancora una volta in una serie di paradossi analoghi a quelli che credo di aver qui schizzato, e così condannare il critico ad assumere posizioni regressive, anziché denunciare e rilanciare il carattere, questo sì regressivo nonché distruttivo e mortifero, di alcune tendenze immanenti all’ordine tardocapitalistico. Inficerebbe la legittima denuncia del “carattere irrazionale di quest’ordine”.

 



[1] Herbert Marcuse, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Society, Boston: Beacon Press 1964, traduzione italiana: L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino: Einaudi, 1999, p. 19.

[2] Vedi p. es. la limpida discussione al riguardo in Herbert Marcuse, The Obsolescence of Marxism, in Marx and the Western World, ed. by Nikolaus Lobkowicz, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 1967, trad. it., L’obsolescenza del marxismo, in Herbert Marcuse, Critica della società repressiva, Milano: Feltrinelli, 1968, relazione tenuta nell’aprile del 1966, p. 125 sg., ove Marcuse commenta la tedi di Marx che affida al proletariato il compito della rivoluzione: “L’ultima proposizione si riferisce ai paesi industriali avanzati in cui doveva aver luogo il passaggio al socialismo; precisamente in questi paesi le classi lavoratrici non sono in nessun senso un potenziale rivoluzionario. La falsificazione di uno dei fondamentali concetti marxiani richiede un’analisi della situazione internazionale in cui si sviluppano le società industriali avanzate. […]. Un altro fattore che promuove l’unificazione e l’integrazione della società è una manipolazione scientifica altamente efficace della necessità, dei desideri e dei soddisfacimenti. La manipolazione scientifica, che opera con molto vigore nella pubblicità e nell’industria del divertimento, ha cessato da molto tempo, di essere soltanto una parte della sovrastruttura; essa è divenuta parte del processo produttivo di base e dei costi necessari di produzione. […]. Questi fattori hanno reso possibile la crescita continua del capitalismo; il bisogno vitale della rivoluzione non prevale più fra quelle classi che, come i “produttori immediati”, sarebbero capaci di fermare la produzione capitalistica. Il concetto marxiano di rivoluzione era basato sull’esistenza di una classe che non solo è impoverita e disumanizzata ma che è anche libera da ogni interesse acquisito nel sistema capitalistico e perciò rappresenta una nuova forza storica con bisogni e aspirazioni qualitativamente differenti. In termini hegeliani, questa classe è la “negazione determinata” del sistema capitalistico e dei bisogni e soddisfacimenti costituiti. Ma l’emergere di una simile forza negativa interna, la cui esistenza ed azione dimostrerebbero la necessità storica della transizione dal capitalismo al socialismo è bloccata nei paesi industriali avanzati – non dalla repressione violenta o da modi terroristici di governo ma da un coordinamento e da un’amministrazione alquanto comodi e scientifici.”

[3] Sulla libido cfr. p. es. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 88.

[4] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 63.

[5] Cfr. p. es. Herbert Marcuse, An Essay on Liberation, Boston: Beacon Press, 1969, trad. it. Saggio sulla liberazione (Einaudi 1969), ora in Herbert Marcuse, Marcuse, Milano: Mondadori, 2008, pp. 769 sgg., ove viene tematizzato il “proletariato esterno” e la sua funzione problematizzata.

[6] Herbert Marcuse, Political preface (1966), in Eros and Civilization, Boston: Beacon Press, 1966, trad. it. Prefazione politica (1966), in Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Torino: Einaudi, 1967, p. 37.

[7] Vedi p. es. l’intervista del 1969 Herbert Marcuse, Revolution out of Disgust, in Der Spiegel, 1969, trad. it. Rivoluzione dal disgusto (1969), in Herbert Marcuse, Oltre l’uomo a una dimensione, a cura di Raffaele Laudani, Roma: manifestolibri, 2005, soprattutto p. 116 sg.: “Ammetto che il proletariato marxista non esiste più nei paesi industriali sviluppati e che il ruolo che Marx ascrisse al proletariato del tempo non può essere semplicemente trasferito alla classe lavoratrice di questi paesi. […] Questo è il punto cruciale: se si sta imborghesendo. Negli Stati Uniti, sì; in Germania – per quanto ne so – anche, almeno per la maggior parte; molto meno in Francia e ancora meno in Italia. Il mutamento strutturale della classe operaia ha comunque un orientamento duale, uno positivo e uno negativo. Dal punto di vista della rivoluzione, negativo a causa di ciò che lei ha appena definito ”imborghesimento”, ovvero una più forte integrazione nella società borghese. Positivo, se si guarda a una nuova fascia della popolazione, – l’intellighenzia tecnica – potenzialmente radicale, un radicalismo che potrebbe derivare dall’acquisita consapevolezza della contraddizione tra il ruolo decisivo dell’intellighenzia tecnica nei processi produttivi e la sua mancanza di potere in tutte le questioni sociali di vitale importanza.” Ma vedi anche le considerazioni espresse in Id., L’Obsolescenza del marxismo, cit., p. 132: “All’interno del sistema della prosperità repressiva, ha luogo una notevole radicalizzazione dei giovani e dell’intellighenzia. Questo è tutt’altro che un fenomeno ideologico; è un movimento che, malgrado tutte le sue limitazioni, tende verso una trasvalutazione di tutti i valori. Fa parte delle forze umane o sociali che, su scala globale, resistono al potere oppressivo della società del benessere.” Sul correlato approccio leninista vedi p. es. Marcuse, Rivoluzione dal disgusto (1969), cit., p. 122: “La classe operaia è una classe rivoluzionaria fino al momento in cui non è intrappolata nel sistema dei bisogni della società capitalista. Più la classe operaia è ingabbiata nel sistema, più è valida l’affermazione che la coscienza di classe può essere apportata alla classe lavoratrice solo dall’esterno (Lenin).”

[8] Vedi p. es. H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., pp. 739 sgg. Sui limiti di tali gruppi vedi p. es. Herbert Marcuse, A Revolution in Values, in James A. Gould and Willis H. Truitt (eds.), Political Ideologies, New York: Macmillan Company, 1973, trad. it., Una rivoluzione dei valori, in Herbert Marcuse, Oltre l’uomo a una dimensione, cit., conferenza del 1972, p 271: “Questi valori non esprimono gli interessi immediati di nessuna specifica classe. Sono, allo stadio attuale, ancora sostenuti da gruppi non integrati di giovani e di donne, di neri e di meticci, di giovani lavoratori e di intellettuali. Si tratta di minoranze, di gruppi che in sé non sono rivoluzionari, né possono in alcun modo sostituire la classe lavoratrice come base del mutamento sociale radicale. Tuttavia oggi sono indispensabili, gli unici catalizzatori di mutamento, ed esprimono bisogni che sono in realtà i bisogni dell’intera popolazione subordinata.”

[9] H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., pp. 739 sgg.

[10] Cfr. p. es. H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 703: “La teoria marxiana riconobbe ben presto che la povertà non fornisce necessariamente il terreno per la rivoluzione, che una coscienza e una immaginazione altamente sviluppate in presenza di condizioni materiali avanzate possono generare l’acuto bisogno d’un cambiamento radicale. Il potere del capitalismo azionario ha soffocato lo sviluppo di tale coscienza.”

[11] Vedi p. es. Herbert Marcuse, Lezioni parigine del 1974, in Id., Marxismo e nuova sinistra, a cura di Raffaele Laudani, Roma: manifestolibri, 2007, p. 204 sg.: “Non ho mai sostenuto che, nella transizione dal capitalismo al socialismo, la classe operaia potesse essere sostituita da un’altra classe. Non ho mai sostenuto che, per esempio, gli studenti possano offrire un simile sostituto. Ho affermato che sotto la pressione dell’integrazione, e in luogo di una classe operaia attualmente non ancora rivoluzionaria, il lavoro educativo, preparatorio, di gruppi come questi studenti assume un significato rilevante.”

[12] Vedi p. es. H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., pp. 700-707.

[13] Cfr. p. es. Herbert Marcuse, Protosozialismus und Spätkapitalismus. Versuch einer theoretischen Synthese von Bahros Ansatz, in „Kritik“, 19/6 (1978), trad. it. Protosocialismo e tardocapitalismo. Verso una sintesi storica a partire dal libro di Bahro, in Herbert Marcuse, Marxismo e nuova sinistra, cit., p. 267: “La coscienza eccedente è solo una parte della soggettività: il suo interesse emancipativo arriva alla comprensione di ciò che accade e di ciò che deve accadere, mentre la prevalenza degli interessi compensativi impedisce la traduzione della coscienza nella prassi.”

[14] H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 700: “Sfruttamento e dominazione cessano forse di essere ciò che sono, e di fare ciò che fanno all’uomo, solo per il fatto di non essere più subiti con pena, si essere “compensati” da comodi in precedenza sconosciuti? Il lavoro cessa forse di essere debilitante se l’energia fisica è sempre più sostituita dall’energia mentale nel produrre i beni e i servizi che mantengono un sistema che trasforma in un inferno vaste aree del globo? Una risposta affermativa giustificherebbe qualsiasi forma di oppressione che mantenga la plebaglia tranquilla e contenta, mentre una risposta negativa negherebbe al singolo la facoltà di esser giudice della sua propria felicità.”

[15] Cfr. H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 702.

[16] H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 690; vedi anche pp. 698sgg.

[17] Sulla “servitù volontaria” vedi p. es anche Herbert Marcuse, Il contenimento del mutamento sociale nella società industriale, conferenza tenuta all’Università di Stanford il 4 maggio 1965, in Id., La società tecnologica avanzata, a cura di Raffaele Laudani, Roma: manifestolibri, 2008, p. 170: “I bisogni dell’individuo (anche i bisogni e le gratificazioni pulsionali) sono manipolati in modo tale che essi al tempo stesso rafforzano la coesione della società repressiva in cui sono appagati. Nel conseguimento di tali risultati, la società ha integrato gli individui al punto tale che nessuna fuga sembra più possibile. Di più: ha realizzato una condizione nella quale gli individui riproducono la propria servitù; sono gli stessi esseri umani che respingono la propria liberazione. È una servitù volontaria, una servitù – come sembra – perfettamente razionale, poiché, nella misura in cui accettano bisogni e gratificazioni socialmente preformati e predeterminati, gli individui vivono realmente meglio che mai prima d’ora. La produttività crescente della società fornisce beni e servizi per una vita migliore – una vita migliore anche per strati della popolazione rimasti a lungo svantaggiati. Non c’è da stupirsi, e sembra del tutto razionale, che il popolo si sottometta a una società che gli garantisce una soddisfazione crescente, anche se la prosperità di questa cosiddetta “società opulenta” si afferma in un universo di guerra, miseria e distruzione. ”

[18] Sempre in H. Marcuse, Il contenimento del mutamento sociale nella società industriale, cit., vedi p. es. poco dopo, p. 173: la società crea e riproduce “in modo sistematico e metodico il bisogno del lavoro alienato, non con il terrore, ma mediante il condizionamento scientifico dei bisogni individuali e la riduzione dei bisogni spontanei a bisogni socialmente richiesti”.

[19] Vedi p. es. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 25: “Ho osservato poc’anzi che il concetto di alienazione sembra diventare discutibile quando gli individui si identificano con l’esistenza che è loro imposta e trovano in essa compimento e soddisfazione. Questa identificazione non è illusione ma realtà. La realtà, d’altra parte, costituisce uno stadio più avanzato di alienazione. Quest’ultima è diventata completamente oggettiva; il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata. V’è soltanto una dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma. Le realizzazioni del progresso si sottraggano sia all’accusa che alla giustificazione ideologica; dinanzi al loro tribunale, la “falsa coscienza” della loro razionalità diventa la coscienza autentica. Questo assorbimento dell’ideologia nella realtà non significa d’altra parte che si approssimi la “fine dell’ideologia”. Al contrario, la cultura industriale avanzata è, in senso specifica, più ideologica della precedente, in quanto al presente l’ideologia è inserita nello stesso processo di produzione [Rimando in nota a Theodor W. Adorno, Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Frankfurt am Main 1955, pp. 24 sgg.]. In forma provocatoria, questa proposizione rivela gli aspetti politici della razionalità tecnologica che oggi predomina. L’apparato produttivo, i beni ed i servizi che esso produce, “vendono” o impongono il sistema sociale come un tutto. I mezzi di trasporto e di comunicazione di massa, le merci che si usano per abitare, nutrirsi e vestirsi, il flusso irresistibile dell’industria del divertimento e dell’informazione, recano con sé atteggiamenti ed abiti prescritti, determinate reazioni intellettuali ed emotive che legano i consumatori, più o meno piacevolmente, ai produttori, e, tramite questi, all’insieme. I prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza che è immune alla propria falsità. E a mano a mano che questi benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere. È un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale milita contro un mutamento qualitativo.”

[20] Vedi p. es. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 89: “Esiste certo una diffusa infelicità; e la coscienza felice è piuttosto precaria, crosta sottile che copre paura, frustrazione e disgusto”.

[21] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 92; vedi anche ivi p. 96: “La coscienza felice – la credenza che il reale è razionale e che il sistema mantiene le promesse – riflette il nuovo conformismo che è un lato della razionalità tecnologica tradotta in comportamento sociale.”

[22] Sebbene non la interpreti come un autoaccecamento anche Sandro Mezzadra sottolinea come Marcuse non fosse riuscito a “vedere” i movimenti, cfr. la sua Postfazione a H. Marcuse, Marxismo e nuova sinistra, cit., soprattutto p. 354, ove scrive in riferimento ali anni Cinquanta: “Ma domandiamoci più nello specifico: qual era lo sguardo di Marcuse sulla realtà che lo circondava negli USA? Viene da dire che si trattava di uno sguardo distratto. Colpisce, ad esempio, che la ripresa delle lotte degli afro-americani non abbia incontrato in lui un osservatore particolarmente attento. Anche qualche anno più tardi, quando il movimento dei freedom rides e l’auto-organizzazione dei neri, in un clima (va pur detto!) di guerra civile strisciante negli Stati del Sud, radicalizzarono la lotta contro la segregazione, Marcuse sembrò più interessato ai processi di trasformazione della “coscienza” studentesca e giovanile che alla specificità dello scontro che si era aperto attorno a uno dei pilastri della cittadinanza (e del capitalismo) statunitense. Le immagini del ghetto e dei “dannati della terra”, che pur circolano frequentemente nei suoi scritti dei primi anni Sessanta, sembrano essere più icone filosofiche, astratte metafore, che concrete figure dei luoghi e dei soggetti delle lotte. Davvero “indeterminato”, come in molto gli rimproverarono anche dall’interno dei movimenti, appariva il “gran rifiuto” a cui comunque il filosofo non cessava di fare appello!”.

[23] Vedi Herbert Marcuse, Counterrevolution and Revolt, Boston: Beacon Press, 1972, trad. it., Controrivoluzione e rivolta, Milano: Mondadori, 1973, pp. 25sgg., p. 59.

[24] H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, cit., p. 702: “Grazie alla sua posizione fondamentale nel processo produttivo, grazie al suo peso numerico e al grado di sfruttamento cui è sottoposta, la classe lavoratrice è ancora l’agente storico della rivoluzione; ma in quanto partecipe del bisogni di stabilità del sistema, è divenuta una forza conservatrice e perfino controrivoluzionaria.”

[25] Cfr. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., pp. 29-30; vedi in una direzione simile p. es. anche H. Marcuse, Lezioni parigine del 1974, cit., pp. 203 sgg.

[26] Cfr. p. es. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, cit., p. 40: “In precedenza ho accennato alle forze che tendono ad allargare e mutare la potenziale base di massa e le “motivazioni” della rivoluzione: risultano dal modo di produzione stesso che allarga (e modifica) la base dello sfruttamento e nel contempo crea bisogni che l’attuale modo di produzione non può soddisfare. Si tratta ancora del bisogno di una vita migliore (le cosiddette aspettative di crescita), ma di una vita non più definita da un lavoro disumanizzante a tempo pieno: di una vita che si autodetermina”, e Id., Lezioni parigine del 1974, cit., p. 229 sg.: “Ora, che cosa significa questo spostamento verso una crescente produzione di beni di lusso, spreco, obsolescenza pianificata, apparecchi comodità, che cosa significa tutto ciò per la dinamica interna del capitalismo? Significa che ora il sistema capitalistico è costretto, in forza della sua dinamica interna, a creare costantemente nuovi bisogni e nuove soddisfazioni; che il capitalismo è costretto, in virtù della sua dinamica interna, a fare del regno del piacere il regno della necessità; a fare del regno dei piaceri, del regno delle comodità, del regno al di là del lavoro alienato, a fare di questo regno della necessità, il regno delle merci da acquistare e vendere, il regno di cui si può godere solo perpetuando la fatica e perpetuando il lavoro alienato. Ma con questa tendenza a investire una quota crescente di produttività nella produzione di beni di lusso, il capitalismo sta ora minando la propria base. Sta contraddicendo il principio di realtà, un principio di repressione e sfruttamento, il suo principio di realtà fondato sulla necessità del lavoro alienato a tempo pieno, per tutta la durata della vita dell’adulto. Perciò, è col suo sviluppo che il capitalismo mette in discussione i propri rapporti di produzione, mette in discussione il proprio modo di vita, la propria esistenza. È in una fase di ricchezza sociale e di capacità di crescita senza precedenti che questa contraddizione minaccia di esplodere. In altri termini, non è la minaccia dell’impoverimento, non sono la tremenda privazione e il bisogno materiali, ma, al contrario, è la riproduzione di una nuova creazione di una ricchezza sociale crescente, il livello di vita su larga scala, che annuncia la fine del capitalismo. Questa è la forma assunta nel XX secolo dalla concezione marxiana secondo la quale la legge dello sviluppo capitalistico costituisce al tempo stesso la legge del declino e del crollo eventuale del capitalismo. Se questo è vero, significa che dobbiamo acquisire la consapevolezza della possibilità reale di una rivoluzione che ha luogo nei paesi industriali più avanzati, non su una base di povertà e miseria, ma piuttosto sulla base di un’abbondanza dissipata. Se questa concezione paradossale è corretta, significa che dobbiamo diventare coscienti di nuove motivazioni per la rivoluzione, nuove motivazioni e nuove mete della rivoluzione, non focalizzando più l’attenzione sulla possibilità o sulla necessità di una rivoluzione radicata nella miseria e nella privazione materiale, ma di una rivoluzione fondata sulla crescita della ricchezza sociale per settori crescenti della popolazione.”

[27] Cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 8: “Posta dinanzi al carattere totale delle realizzazioni della società industriale avanzata, la teoria critica si trova priva di argomenti razionali per trascendere la società stessa. Il vuoto giunge a svuotare la stessa struttura della teoria, posto che le categorie di una teoria sociale critica sono state sviluppate nel periodo in cui il bisogno di respingere e sovvertire era incorporato nell’azione di forze sociali efficaci.”

[28] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 74.

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