Voix de l’écho. Erik Porge e lo stadio dell’eco

Camilla Croce

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Come mai Lacan, nonostante l’importanza fondamentale attribuita all’ascolto del linguaggio e legando il processo di soggettivazione alla mediazione dello sguardo dell’Altro, non ha altrettanto sistematicamente sviluppato il ruolo decisivo giocato dalla voce nella formazione dell’Io?

In Voix de l’écho (Edition érès, Toulose, 2012, pp. 93, €10,00) Erik Porge raccoglie gli indizi lasciati da Lacan assumendosi il compito di individuarne il loro discorso specifico e le loro implicazioni nel processo di soggettivazione. Come il nostro autore ricorda nell’introduzione, lo stupore di fronte a questa mancanza nella teoria psicoanalitica lacaniana è già stato notato alla fine degli anni novanta da Alain Didier-Weill, che segnalava come Lacan avesse lasciato solo affiorare le questioni attinenti alla pulsione invocante. L’osservazione è integrata nella prefazione da Claude Jaeglé, il quale segnala lo stupore davanti alla scarsità di letteratura psicoanalitica sull’argomento nonostante la voce sia un fenomeno più che centrale per l’esperienza analitica. Nel lavoro che qui presentiamo, Erik Porge non si limita a trattare la voce e la pulsione invocante nella teoria psicoanalitica lacaniana, ma fa un passo teorico considerevole, proponendo di aggiungere allo stadio dello specchio uno stadio dell’eco.

 L’intenzione dichiarata dall’autore di ridare voce a Eco andando aldilà dell’omaggio letterario, è ampiamente rispettata dal percorso svolto, durante il quale Porge s’impegna con rigore e determinazione a fare dell’identificazione vocale un momento non completamente riducibile all’identificazione immaginaria dello stadio dello specchio, operazione questa che recentemente è stata compiuta anche da M. Dolars, come rileva Jaeglé nella prefazione.

 Porge cerca di sottrarre lo stadio dell’eco alla questione concernente l’originarietà di uno stadio rispetto all’altro. Invece di discutere della riduzione(riconduzione) di un’identificazione all’altra, con un gesto tanto deciso quanto gravido d’importanti conseguenze, radicalizza la posta in gioco e inscrive lo stadio dell’eco nei fenomeni originari, fenomeni di un’origine ormai lontana da ogni arché. Per legittimare questo spostamento cruciale, l’autore riporta l’attenzione sul significato originario del concetto di stadio.

 Il concetto di stadio, dal greco stadion (in latino stadium), è, secondo l’autore, non tanto da comprendere nel suo senso temporale, che implica inevitabilmente la decisione su un prima o un dopo dei fenomeni osservati, quanto, invece, nel suo più originario significato di spazio di gioco. In questo modo esso non implicherebbe il succedersi di fasi, ma ben più radicalmente rivendicherebbe una maniera altra di rivolgersi ai fenomeni originari, capace di non cristallizzare lo scaturire stesso dell’origine. Porge si serve della metafora benjaminiana dell’origine come vortice, che compare nell’Origine del dramma barocco tedesco, e delle parole con cui Merleau-Ponty ne Il Visibile e l’invisibile nomina il carattere spazio-temporalizzante dell’origine, per affermare la necessità di riconoscere l’esistenza di uno stadio dell’eco che nella sua eccedenza rispetto a quello dello specchio, avrebbe il vantaggio di pensare l’origine come priva di un’unico arché. È la stessa parola a suggerire una molteplicità, come mostra Porge, poiché nell’origine si trova tanto l’orecchio che ascolta auris-, quanto la bocca che parla oris, ma anche la gyne, la donna, la madre.

 Se il soggetto, non dimentichiamolo, è da localizzare nel reale (p. 93) dato che, secondo Lacan, il soggetto, come effetto di significazione, è risposta del reale, allora lo stadio dell’eco apporta  un’integrazione delle coordinate a partire dalle quali reperire la posizione del soggetto rispetto all’ intersecazione dei tre registri. Così come l’identificazione che ha luogo nello stadio dello specchio permette di recuperare la posizione del soggetto rispetto al registro immaginario, allo stesso modo l’identificazione vocale (a lei co-originaria nel vortice benjaminiano del pre-e-post-storia, come un contrappunto al registro immaginario), offrirebbe le coordinate di reperimento del soggetto nel reale, del soggetto del nodo che serra il suo posto vuoto (Ibidem).

 Si tratta quindi di un’integrazione della struttura, e non di uno stadio genetico (come del resto neppure quello dello specchio vuole essere), nonostante sia possibile situarlo nei primi dieci mesi della vita. Lo stadio dell’eco partecipa e si distingue da quello dello specchio. Ciò che li accumuna è di essere stadi, ossia di localizzare un momento strutturale che si ripete (p. 92). Evitando di cadere nella prospettiva poststrutturalista, il concetto proposto da Porge vuole porre la domanda sulla struttura stessa di un’origine della struttura, che includa nei suoi parametri la domanda della sua origine (E. PORGE, Entre voix et silence: tourbillons de l’écho, relazione tenuta al Congresso della Freud-Lacan-Gesellschaft di Berlino Wo stehen wir heute mit der Sprache, dicembre 2013).

 Nel primo capitolo L’inclusion de la voix dans la liste des objets a, Porge ricostruisce le tappe che hanno portato Lacan ad inventare la voce come oggetto a. La sua prima apparizione avviene durante la lezione del 20 maggio 1959 del seminario Le désir et son intérpretation. Lacan tratta delle allucinazioni verbali nella psicosi, di cui si era già occupato nella sua tesi di dottorato nel 1932, e, confrontandosi con le tesi di Daniel Lagache e di Henri Hey, si concentra sull’inquietante estraneità che caratterizza le voci udite nella psicosi e sulla loro intima connessione con il linguaggio, per avvicinarsi poi al concetto di automatismo mentale usato dal suo maestro Gaëtan Gatian de Clérambault.

Alla domanda che Lagache poneva nel 1934, come può la parola propria apparire al suo autore una parola estranea?, e alle considerazioni svolte da Hey sulla natura di queste voci, che sono prive di sensorialità e mute, simili piuttosto al pensiero, Lacan risponde affermando che le allucinazioni verbali sono da comprendere come l’intrusione dell’Altro nell’Io (pp. 19-22). È grazie a questo passaggio che egli arriva a fissare la relazione strutturale che intercorre tra le voci e il soggetto. Scrive Porge: le voci manifestano le forme verbali del pensiero e dunque la struttura di un soggetto determinato dal linguaggio (p. 24). Da qui Lacan può poi compiere il passo che fa della psicosi il caso esemplare, per cogliere la relazione che intercorre tra il soggetto e il suo discorso come un’eco che, seppur inascoltata, accompagna sempre il venire al linguaggio del soggetto anche non patologico.

Ciò che di esemplare accade nella psicosi è che, nella relazione d’eco, una significazione rimanda alla significazione stessa, essendo il significante forcluso. In questo rinvio alla significazione stessa, il linguaggio, arrivando al suo limite, sfocia su un significante preso nel reale, un significante che non si lascia simbolizzare e che riguarda intimamente il soggetto. Il confine tra il registro simbolico e quello del reale, separandoli segna però anche il loro intimo annodarsi, per cui la localizzazione del soggetto non potrà che essere topologica per cui la voce stessa è la topologia della voce (p. 29).

Nel 1957 Lacan aveva già introdotto la voce nel grafo con cui inaugurava la topologia. Nel grafo la voce è assimilata al super-Io che, come un imperativo dissociato, segna la separazione del linguaggio dalla legge simbolica, ossia si costituisce come una legge senza dialettica.

Non solo però la voce s’inscrive nella linea del super-Io della topica freudiana ma, secondo Lacan, la prolunga, seguendo il soggetto nel suo desiderio di cogliersi aldilà della parola. Per fermare il rinvio infinito della significazione, il soggetto è costretto, non essendoci Altro dell’Altro, a scrivere il fantasma ($<>a), appoggiandosi sull’oggetto a estratto dal registro dell’immaginario, che quindi lo riguarda. Il prolungamento lacaniano della linea sulla quale sono localizzati tanto il super-Io quanto la voce, arriva quindi fino a raggiungere il registro dell’immaginario (pp. 32-34).

È la funzione di separazione della voce, quella di scandire l’emissione della parola, che motiva Lacan ad aggiungerla nella lista degli oggetti a. Nella ricerca da parte del soggetto di una garanzia ultima nell’Altro, si consuma il dramma del soggetto nel linguaggio, ossia l’esperienza della sua costitutiva manque à être. Non essendoci Altro dell’Altro, il soggetto è costretto ad appoggiarsi al buco interno del linguaggio, ossia sull’aldilà strutturale della significazione che segna i limiti di ciò che può essere simbolizzato, sfociando sul reale che, marchiato da un significante, sfugge al soggetto, e, pur rappresentandolo, gli resta interdetto. Porge insiste sul luogo di emissione della voce per rilevare come la voce abbia la funzione di rendere conto della formula del fantasma ($), (p. 35). La sonorizzazione trascina, infatti, alla superficie del corpo un affetto, che, provenendo dall’intrigo originario del significante con il godimento (M. RECALCATI, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, p. 544), rimanda alla dimensione della Grundsprache, che Lacan, nel seminario Encore, definirà con il neologismo la langue, e che mostra come nel godimento l’attività della pulsione sia intrecciata indissolubilmente all’attività della parola (Ibidem). Identificando le voci della psicosi alla voce, Lacan può, così, inscriverle con pieno diritto nel circuito della pulsione (PORGE, p. 38). Ed è proprio in quest’inscrizione che Porge trova del terreno da dissodare domandandosi se non sia proprio grazie alla scoperta della voce in quanto piccolo oggetto a che Lacan possa considerare la nevrosi dal punto di vista della psicosi e non l’inverso come d’abitudine (p. 42). Il rovesciamento della rilevanza e della prospettiva che va dalla psicosi alla nevrosi, costituirebbe un argomento a favore dell’esistenza di uno stadio dell’eco, del suo carattere eccedente, precedente, oppositivo rispetto a quello dello specchio, poiché nell’esperienza dell’eco il soggetto invece che approdare all’unità del suo Io (moi), aprendosi all’alienazione e al transitivismo che ne segue, approderebbe al momento insopprimibile della separazione, dell’estraneità, dell’angoscia che originariamente lo allontana dall’appartenenza a sé.

 Nel secondo capitolo, La connession des objets a , Porge riprende il seminario tenuto da Lacan nel 1966 dedicato a L’objet de la psychoanalyse, per chiarire la connessione strutturale, e non quindi diacronica, dei quattro oggetti a. Che nel processo di soggettivazione si passi da un oggetto all’altro, significa che essi sono parte della struttura che si definisce dalle inversioni della domanda e del desiderio nella relazione del soggetto all’Altro (p. 46). La connessione strutturale degli oggetti a permette a Lacan di localizzare le pulsioni corrispondenti in quattro punti disposti sui due versanti della linea di congiunzione-disgiunzione tra il soggetto e l’Altro. I due versanti sono quelli della domanda e del desiderio, l’oggetto orale e l’oggetto anale si trovano sul versante della domanda dell’Altro, nelle due direzioni del genitivo, oggettivo e soggettivo, e lo sguardo e la voce sono localizzati su quello del desiderio secondo la stessa logica, il primo desiderio dell’Altro à l’Autre e il secondo de l’Autre (p. 48).

 Nel corso della pratica analitica la pulsione si presenta una volta che il soggetto è stato rintracciato in rapporto all’oggetto a. L’affiorare della pulsione invocante, segnala che è arrivato il momento per il soggetto di accettare il rapporto “opaco” che intrattiene con l’origine, ossia di recarsi (o mancare) al rendez-vous con se stesso. Insomma, di riconoscersi. È in questa fase che l’analista fa dono del suo silenzio all’analizzante (p. 51). Questo è il motivo per cui Lacan parla della pulsione invocante come di un vero e proprio aldilà dell’esperienza analitica dell’analizzante, un aldilà che sta all’analista avvicinare, essendo quest’ultimo il luogo a partire dal quale egli può introdurre la dimensione temporale propria del momento di concludere, ossia l’imminenza dell’avanzamento possibile dell’altro, poiché se non ci si precipita a concludere non si saprà più che concludere (p. 54).

 Se, come afferma Lacan, la pulsione invocante è la più vicina all’inconscio, affiorando come l’aldilà del discorso che si articola tra il pieno e il vuoto della parola, sarà la scansione attuata dalla voce che, separando il detto dal taciuto, permette al vuoto che si sottrae nella parola piena e al pieno che satura la parola vuota di entrare in risonanza (cfr. M. BONAZZI, Scrivere la contingenza. Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques Lacan, Edizioni ETS, Pisa, 2009, pp. 136-144). L’aldilà dal quale l’analista interviene con la voce è il punto prospettico che determina il modo in cui egli s’inserisce con l’analizzante nella dialettica degli oggetti a (p. 49), e non riguarda solo la modulazione della voce che si fa portatrice di un valore pulsionale, ma anche il modo in cui il silenzio interviene al posto della voce, introducendo un vuoto che permette alla parola di risuonare (p. 51). Il silenzio della voce, marca della determinazione temporale dell’oggetto a, è l’elemento neutro che rende possibile la loro dialettica, e quindi anche la discontinuità temporale necessaria alla precipitazione dell’atto di concludere, ossia la scansione è un tempo d’arresto silenzioso (pp. 52-55). Secondo Lacan la pulsione invocante è quella in rapporto alla quale il silenzio assume il ruolo di sembiante dello scarto, il passo in più proposto da Porge consiste perciò nel riconoscere che, se si tratta di vivere la pulsione invocante nel suo rapporto al silenzio, si dovrà innanzitutto ammettere l’esistenza di uno stadio che le corrisponde.

 Nel terzo capitolo, De l’existence d’un stade de l’echo, Porge procede alla dimostrazione della sua tesi. Come prima cosa egli si sofferma sulla modificazione apportata da Lacan al circuito della pulsione sviluppato da Freud in Pulsioni e loro destini.

Freud aveva articolato il percorso della pulsione, concetto frontiera tra la psiche e il corpo, passando attraverso la grammatica della lingua, dalla passività (attraverso il rovesciamento riflessivo) all’attività (vedo, mi vedo, sono visto). Pur mantenendo quanto è essenziale nell’approccio freudiano, Lacan lo modifica in un punto decisivo: il circuito di andata e ritorno dal passivo all’attivo non si chiuderebbe in un circolo ma, tenendo conto del buco della fonte, trova il suo punto di uscita dislocato rispetto a quello di entrata. In altre parole, il circuito della pulsione invocante ha un posto privilegiato rispetto alle altre pulsioni, poiché il modo in cui essa contorna il buco della sorgente rende evidente il movimento eccentrico che fa uscire la pulsione dal transitivismo dello specchio (p. 62). Lacan aggiunge, quindi, un tempo al tragitto della pulsione, il momento del farsi vedere del soggetto, ossia il momento in cui il soggetto dell’inconscio va a determinarsi non solo nel rapporto tra i due significanti, S1 e S2, ma in rapporto all’Altro.

Secondo questo schema la pulsione invocante è in una posizione particolare rispetto alle altre pulsioni, poiché essendo la sua meta, che è il suo stesso tragitto, il farsi intendere, essa allora non troverà soddisfazione ritornando alle orecchie del soggetto che desidera, ma dovrà rivolgersi all’Altro per portare a termine il suo giro. Ma se ciò che caratterizza ogni pulsione è proprio il momento dell’apparire del soggetto nel campo dell’Altro, il tragitto della pulsione invocante non mette allora forse in questione il quid stesso della soddisfazione della spinta pulsionale? Non è forse necessario rovesciare il proposito e dire che, in effetti, ogni pulsione è invocante?, si domanda Porge, riprendendo, con un altro approccio, la tesi avanzata da André Green ne Au commencement était la voix(p. 64).

 Dopo aver lasciato affiorare lo statuto particolare della pulsione invocante, l’autore ritorna alla voce e, appoggiandosi sulla tesi di Winnocott, che fa della voce un oggetto transizionale, pone l’accento sul fatto che nella voce non si crea un passaggio solo tra me e l’altro, ma anche tra un soggetto e se stesso, per la ragione che se l’altro non sente la mia voce come la sento io, nemmeno io la sento come la emetto (in particolare poiché il cranio fa cassa di risonanza, d’eco) (Ibidem). È l’elemento inquietante, estraneo ma inerente all’esperienza della voce propria, che ora emerge con forza, e che Porge propone di inscrivere nella voce, nella formula: mia voce = l’eco della mia voce. O: la voce, come oggetto a, è l’a-fonia, la perdita del sonoro (p. 66).

 Per dimostrare l’esistenza di uno stadio dell’eco l’autore si spinge fino a modificare il tragitto della pulsione in corrispondenza alla dualità delle fonti (bocca e orecchio). Porge fa fare un giro in più al grafico lacaniano del circuito della pulsione, e dimostra come il risultato sia compatibile con il modello topologico della bottiglia di Klein che, raddoppiando il nastro di Möbius, contorna il buco della voce come oggetto a in due punti (una volta intorno all’orecchio e una volta alla bocca). La bottiglia di Klein è uno dei quattro oggetti topologici, gli altri sono la mitra, la sfera e il toro, e se anche Lacan non specifica quale figura topologica corrisponda a ognuno di questi oggetti a, Porge reperisce un passo nel seminario inedito D’un à l’autre, che confermerebbe la sua tesi, ovvero che la bottiglia di Klein è la rappresentazione topologica della struttura del fantasma relativa alla voce come oggetto a.

 La dualità della voce e della pulsione che le corrisponde, che fa del parlare un’esperienza diversa dall’ascoltare, permetterebbe perciò di attribuirle uno statuto originario rispetto alle altre pulsioni, poiché essa opera la divisione del soggetto nel suo rapporto alla parola. È dall’apertura di questa divisione che si costituisce il super-Io, la voce della coscienza. Lo stadio dell’eco è lo spazio di gioco nel quale si dispiega il discorso che precede l’Io, quello che proviene da un doppio Io (moi), un Io che parla a un altro Io nello stesso soggetto (p. 72).

 L’eccedenza dello spazio di gioco dispiegato dalla voce dell’eco, pur nella sua concomitanza con la formazione dell’Io (moi), mostra così, secondo Porge, come la pulsione invocante non si esaurisca nell’appello o nella rivendicazione che proviene dal super Io, ma preceda e si opponga al momento in cui il grido è divenuto appello (p. 76). L’intervento della dimensione simbolica nella parola introdotta dall’altro è ciò che nello stadio dello specchio determina l’apparizione del soggetto nello spazio dell’Altro. L’apparizione del soggetto si mostra però nel momento in cui questo, prendendo parola nello spazio in cui si vede ed è visto, comincia a costituire questa menzogna veridica da cui inizia ciò che partecipa del desiderio a livello dell’inconscio (p. 74). C’è perciò una dimensione di finzione inerente alla parola, una dimensione che possiamo pensare presente ed operativa in ciò che precede l’interpretazione che trasforma il grido in appello, e che divide la voce, la sua eco sonora, dall’eco silenziosa che accompagna sempre l’esperienza della propria voce rappresentando l’alterità pura di ciò che si dice (p. 72). È, infatti, la perdita dell’oggetto ciò che permette alla pulsione, compiuto il suo tragitto, di uscire dal transitivismo speculare. Come accade nella pulsione scopica che, contornando lo sguardo come oggetto a, produce la schisi tra l’occhio e lo sguardo, così la voce come oggetto a separa la voce dalla sua sonorizzazione, che ne è una immaginarizzazione, che Lacan chiama plus-de-jouir (p. 80).

Porge ci invita a ricordare come Ovidio racconti il mito di Narciso intrecciandolo alla vicenda della ninfa Eco che, punita da Giunone per averle mentito, è condannata a non poter mai parlare per prima e mai poter tacere quando l’altro parla. Nell’illusione di cui Narciso è vittima, Eco gioca un ruolo decisivo: Narciso, infatti, si avvicina sempre di più all’immagine riflessa nell’acqua perché crede che l’immagine gli parli, mentre la voce da lui udita è quella dalla ninfa. Eco è stata punita per aver mentito, qual è allora questa menzogna che si vuole sopprimere privando la ninfa della sovranità sulla propria voce? La riposta di Porge è che essa è la mancanza ad essere che il soggetto ha in comune con l’Altro, il soggetto per farsi comprendere attraverso la propria voce nel campo dell’Altro, serra nel silenzio di un nodo l’enigma del desiderio e del godimento dell’Altro con il suo grido primordiale. Per apparire nel campo dell’Altro il soggetto sacrifica una parte della jouissance che gli verrebbe dal soddisfare la pulsione a parlare per parlare. Per farsi intendere deve cedere un pezzetto del godimento de la langue, riconoscendo il suo corpo pulsionale come corpo del simbolico, accettando che l’unico spazio che può occupare nell’Altro è quello della rappresentanza di un significante per un altro significante, perché un significante ultimo dell’Altro, un Altro dell’Altro che garantisca il significato del suo significante primo, non c’è. Si tratta quindi di serrare un nodo prima di potersi fare intendere attraverso la propria voce, che stringa il reale della sua eco al silenzio dell’Altro, assestandosi nel vuoto che fa risuonare la parola.

 Non è forse un caso che per inventare un concetto in grado di accogliere le implicazioni della voce come oggetto a nella teoria analitica lacaniana, Erik Porge si sia lasciato guidare da un gesto proprio alla tradizione filosofica, o meglio, fenomenologica, andando alla radice di ciascuna delle questioni coinvolte per dissotterrarne la questione fondamentale, e finalmente poterla porre in quanto tale. L’invenzione della voce e dello sguardo come oggetti a, che Lacan considerava essere il suo vero contributo alla teoria analitica, sono frutto della sua traversata attraverso la linguistica e dell’intensa frequentazione del pensiero fenomenologico. Per questo motivo forse sono ancora questi i punti salienti attorno ai quali il rapporto tra psicoanalisi e filosofia non smette di iscriversi.

 L’invenzione dello stadio dell’eco permette di trattare la voce come oggetto a, a partire dalla struttura, introducendo, grazie alla rigorosa comprensione del concetto di stadio, uno spazio di gioco privilegiato per la comprensione della differenza fondamentale che Lacan (a partire dal 1962 nel Seminario IX L’identification) pone tra il soggetto e la soggettività. Lo stadio dell’eco si lascia cogliere come un modo di pensare la spazio-temporalizzazione della beanza, uno spazio tempo della pura enunciazione, del parler pour parler che non vuole avere un senso o trasmettere un messaggio (p. 88). Pensando l’origine come vortice dell’eco, Porge mira ad articolare la logica inedita della pulsione, della mancata coincidenza tra essere e pensare, del soggetto nella misura in cui pensa dove non è, ed é dove non pensa. Questo scarto lo si può pensare anche come l’eccedenza che permette tanto la presa del registro simbolico sul soggetto, quanto la possibilità di eludere la castrazione che ne permette il funzionamento. Se come, scrive Lacan, la voce risponde a quello che si dice, ma non può risponderne (J. LACAN, Il Seminario libro X. L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007, p. 300), la topologia della voce potrebbe allora costituire una tappa importante per riscrivere l’estetica trascendentale.

 Si augurava Lacan: noi pretendiamo che l’estetica trascendentale sia da rifare, in un’epoca in cui la linguistica ha introdotto nella scienza il suo incontestabile statuto: con la struttura definita dall’articolazione significante come tale (J. LACAN, Scritti, Einaudi, Torino, 2002, p. 645). Se, per far sì che la voce risponda a ciò che si dice dobbiamo incorporare la voce come l’alterità di quello che si dice (J. LACAN, Seminario X L’angoscia, cit. p. 300), l’ambito in cui la topologia della voce s’inscrive è, forse e in ultima istanza, quello dell’etica lacaniana del bien-dire, in cui il politico è strettamente annodato all’estetico.

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