La reinvenzione dell’alienazione nell’epoca della rivoluzione digitale

Distopia

Stéphane Haber

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.La recente evoluzione delle discussioni circa Internet e la rivoluzione digitale – che queste discussioni siano giornalistiche, di saggisti o di accademici – costituisce il fenomeno culturale maggiore della nostra epoca.

All’inizio, negli anni 2000, queste discussioni avevano maggiormente seguito le intuizioni che derivano dal cyber-libertarismo degli hacker e dall’anarchismo dei teorici del software libero1. Diversi nel tono così come nel contenuto, essi avevano senza dubbio la loro espressione più compiuta dal punto di vista teorico nei lavori di Lawrence Lessig et di Yochai Benkler.

Promotore della licenza “Creative commons”, Lessig2 vedeva nell’esplosione di Internet il principio di una estensione straordinaria del tema liberale del free speech che incita la comunicazione peer to peer. Essa farebbe scoppiare, egli spiegava, l’alleanza oggettiva, fino a quel momento dominante, dello Stato autoritario e dell’impresa capitalistica; alleanza sigillata da un’organizzazione della proprietà che sacralizza abusivamente il possesso privato ed esclusivo, grazie soprattutto al diritto della proprietà intellettuale. Benkler3, da parte sua, partiva più direttamente dall’economia. L’abbassamento drastico del costo dell’informazione, egli affermava, è portatore di un modo di produzione caratterizzato dalla partecipazione in rete. Implicherebbe una decentralizzazione che potrebbe liberare radicalmente la diffusione e l’innovazione, reinventando l’impresa nel senso di una radicale apertura. Così, in sintesi, all’inizio del primo decennio del nostro secolo, si era diffuso un discorso influente sull’universo digitale che, più o meno esplicitamente, vedeva nello sviluppo di Internet il principio di un promettente superamento di quella modernità bloccata che noi abbiamo conosciuto finora a causa dell’influenza di due istituzioni – lo Stato e la grande impresa privata – le quali riposavano su (o almeno convalidavano in un secondo tempo) una concentrazione considerevole e insaziabile del potere sociale, due istituzioni che hanno del resto da lunga data l’abitudine di lavorare mano nella mano e di imitarsi.

È facile identificare a cose fatte i limiti e le fragilità di queste posizioni. Sopravvalutando l’autonomia del mondo digitale sulla base di un certo determinismo tecnico, Benkler e Lessig si sono certamente mostrati imprudenti annunciando il prosciugamento tendenziale delle risorse che permettono alle grandi potenze costituite, essenzialmente lo Stato e le mega aziende capitaliste massimizzatrici, di mantenere la loro forza ed influenza. Quali lezioni bisogna trarre da questa imprudenza?

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1. L’assorbimento capitalista della rivoluzione digitale

Constatiamo innanzitutto che esiste oggi una forte corrente scettica che intende liberarsi dalle suggestioni tipiche delle utopie liberali e libertarie.

Ad esempio, in L’ingenuità della Rete, un’opera che ha beneficiato di una larga audience internazionale in questi ultimi anni, E. Morovoz insiste sul fatto che il secondo decennio del secolo presente sia segnato da una disillusione sulla portata effettiva della rivoluzione digitale4. Per Morozov, la visione intellettualista di Internet, condivisa da Lessig e Benkler, partiva da cattive basi. Essa non resiste alla constatazione evidente secondo cui gli usi ricreativi, ludici e commerciali di Internet (con, al centro di questa costellazione, l’alleanza di business e consumismo), erano e restano ancora predominanti, come è stato del resto il caso dei grandi media del XX secolo, a cominciare dalla televisione. Anche quando l’utilizzo di Internet si conforma più o meno all’immagine seducente di uno strumento democratico, la sua importanza oggettiva resta limitata. Morozov insiste, ad esempio, sul fatto che Facebook e Twitter, contrariamente alla legenda, non hanno giocato che un ruolo marginale nel corso delle rivoluzioni che hanno scosso il mondo arabo nel 2012. A suo parere, conviene ammettere serenamente il fatto che il mondo di Internet resti nel migliore dei casi neutro rispetto ad alcuni mali classici della vita delle società, come l’autoritarismo e l’estremismo, o, più semplicemente, la stupidità, la menzogna e la manipolazione di massa. Morozov lo esprime dicendo che noi abbiamo appreso in questi ultimi anni che, in fin dei conti, Internet e il mondo digitale in generale non si trovino in una situazione totalmente estranea in rapporto alla natura umana e alla vita sociale come esse esistono realmente, e cioè in modo molto imperfetto5. L’emergenza di un nuovo medium di comunicazione non è mai in se stesso la garanzia di trasformazioni sociali univoche.

Certo, a pensarci bene, l’enorme questione di sapere se lo sviluppo dello spazio pubblico digitale abbia avuto, o avrà degli effetti tangibili in termini di addomesticamento del dominio sociale, di limitazione delle ineguaglianze, o, più semplicemente, di miglioramento delle condizioni di vita, non invoca nessuna risposta semplice. Eppure, esistono degli elementi chiari che vanno nel senso di un disincanto alla Morozov. Così, è possibile chiedersi se, a lato del ruolo persistente degli Stati come dimostrato dallo sviluppo costante della censura digitale, la velocità stupefacente con la quale i colossi di Internet (ciò che si raggruppa alla buona sotto l’acronimo GAFA – Google, Apple, Facebook, Amazon) sono arrivati a costituire dei quasi-monopoli di scala mondiale non costituisca il segno, nella sfera economica, di un’incapacità, forse ontologicamente costitutiva, propria all’universo digitale: l’incapacità di emanciparsi da una logica di concentrazione/intensificazione gerarchica della potenza che è stata al cuore della modernità e di cui i promotori di Internet sentivano tuttavia bene l’assurdità. Naturalmente, l’avvenire non è scritto da nessuna parte, e il destino futuro di questi grandi monopoli attuali resta difficile da prevedere. Sembra però che la maledizione moderna non sia stata del tutto scongiurata, e, rispetto a tali rapporti di forza, è possibile pensare che essa non possa esserlo indubbiamente.

Ma per quale ragione?

Il caso di Google ci fornisce qualche indicazione6. L’impresa Google non fabbrica niente e non «accumula» neppure, almeno nel senso dell’economia politica classica. Google mette semplicemente in atto i mezzi per appropriarsi e diffondere alcune espressioni dell’intelligenza umana presente (i contenuti e i comportamenti degli internauti in quanto essi possono migliorare le prestazioni del motore di ricerca), ma anche, in modo complementare, alcune espressioni dell’intelligenza umana passata (via Google Books) per metterle al servizio di una serie indeterminata di fini redditizi possibili (la pubblicità rimane la principale). Queste risorse sono poi, in sostanza, impiegate da altre imprese. Stando al gioco in questa maniera, queste inoltre accrescono a volte l’influenza della forma imprenditoriale sulla società, così come l’influenza dell’éthos che vi si collega: esse naturalizzano e dunque stabiliscono la situazione nella quale l’innovazione e lo scambio sono condizionati dal profitto. Globalmente, il modello è pertanto quello, per niente inedito e anche molto prosaico, della vendita dei servizi alle imprese, ma si diffonde e si ramifica a partire da questa funzione fondamentale, benché in direzioni diverse e nuove – fra le quali, il motore di ricerca non ne rappresenta che la più conosciuta. È l’insieme delle prestazioni che si compiono seguendo queste differenti direzioni (e di cui alcune implicano dei servizi gratuiti offerti ai consumatori) che il mercato dei valori stimava, all’inizio del 2014, della somma astronomica di 400 miliardi di dollari. In fondo, dal punto di vista filosofico, è a questo prezzo che il mondo finanziario globale valuta ciò che ha realizzato storicamente e ciò che realizza attualmente Google: riuscire fondamentalmente a mettere al servizio delle imprese massimizzatrici, cioè della logica del profitto, i risultati di una rivoluzione digitale che alcuni intellettuali avevano creduto, del resto per buone ragioni, di orientamento piuttosto anarchico, distributivo, quasi anti-capitalistico. Questo prezzo è quello di un recupero tanto inatteso e rapido quanto perfettamente riuscito. In qualche modo, è l’ammontare di una ricompensa.

Seguendo ciò che suggerisce questo esempio, vediamo quel che non andava in Benkler o in Lessig. Essi hanno largamente sottovalutato la capacità delle forme moderne di captazione della potenza (che si trovano al cuore del capitalismo cieco, per esempio di tipo neoliberista, come sanno molto bene sia l’uno che l’altro) di rinnovarsi e di rigenerarsi a contatto con le innovazioni della rivoluzione digitale; forme che, così facendo, si sono emancipate dai modelli caratteristici (ad esempio, i modelli legati all’impresa industriale moderna) che implicano il predominio di alcune modalità determinate di appropriazione e di creazione di ricchezza e potenza. Inoltre ciò che potremmo dire seguendo Morozov, è che è probabile che le promesse di Internet non siano state agevolmente sciupate dall’infelice intervento di forze esteriori, ben conosciute e costituite già da prima, che avrebbero cominciato per interesse a limitarne la portata rivoluzionaria7. Non esiste un’epoca d’oro di Internet da rimpiangere. Ciò che è in gioco, è forse piuttosto una mutazione dell’esercizio del potere e della potenza in generale, di cui l’arrivo di Internet è, sin dall’inizio, allo stesso tempo l’elemento rivelatore e acceleratore. Questa mutazione si manifesta per il fatto che, invece di comprimere le forme emergenti, a volte promettenti, di produzione e di scambio, come avevano fatto prima lo Stato e le grandi aziende, i nuovi attori economici le liberano e ne incrementano alcune modalità per gestirle al meglio; essi non sono in ogni caso perfettamente solidali. Una tale constatazione conferma un’ipotesi euristica oggi largamente accettata dagli autori che cercano di sviluppare le idee di Foucault: le forme post-disciplinari del potere hanno via via la tendenza a specializzarsi nella definizione dei quadri, delle regole che permettono il controllo dei flussi8. Esse definiscono i limiti di uno spazio di gioco, anziché impegnarsi nel modellamento diretto (costoso in energia e aleatorio nei suoi risultati) delle azioni e delle soggettività. In breve, ciò che non hanno compreso Benkler et Lessig, è che l’intuizione dualista e vitalista che guidava i loro sviluppi (da un lato, la stupidità conservatrice dello Stato e dell’Impresa capitalista come noi li abbiamo conosciuti, dall’altro, l’autonomia dinamica, anarchica, di una società civile sveglia, connessa e critica) si trovava progressivamente invalidata dai fatti – principalmente a profitto, possiamo dire, dell’impresa neoliberista di cui Google fornisce una illustrazione parossistica.

La nostra tesi sarà che una tale situazione può essere colta in gran parte richiamando insieme due grandi categorie classiche della teoria sociale critica: lo sfruttamento (il fenomeno dell’appropriazione del lavoro) e lalienazione (la situazione nella quale la vita sociale si trova oppressa da forze separate e autonome, che esprimono qualcosa dell’intelligenza e dell’energia umane).

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2. Rivoluzione digitale e metamorfosi del lavoro

La rivoluzione digitale ha accompagnato la reinvenzione dello sfruttamento.

L’idea secondo cui la fase “neoliberista” del capitalismo si caratterizzi per la rottura delle frontiere tra il lavoro e il non-lavoro è comunemente ammessa. Può essere mostrata da numerosi fenomeni, tra i quali l’allungamento del tempo di lavoro non costituisce che una modalità fra le altre. Ad esempio, per l’imprenditore o per il manager, possedere un telefono cellulare o un personal computer connesso significa già che le occasioni di essere richiesto e sollecitato si moltiplicano indefinitamente, oltre la durata del lavoro regolata dal diritto o dal costume. Viceversa, al di là di questo dato socio-tecnico ben noto, la ridefinizione dell’impiegabilità in termini di capitale umano implica che le competenze e le qualità trasversali delle persone, quelle che si sono sviluppate fuori dal lavoro, divengano delle carte vincenti indispensabili in un mondo del lavoro via via sottomesso alla pressione concorrenziale. Tutto ciò ci invita a parlare a tal proposito delle nuove forme di sfruttamento, in una maniera che si conforma assai chiaramente alle ipotesi marxiane.

Ma non è solo questo.

Alcuni autori statunitensi parlano così di «lavoro clinico», designando con ciò un continuum di fenomeni in cui si raggruppano la gestazione altrui, il dono di organi, il dono di cellule riproduttrici, la partecipazione ai protocolli dei test per l’industria farmaceutica9. A loro avviso, è esemplare la messa in servizio per contratto di se stessi a profitto delle imprese al di fuori della classica relazione salariale; espressione, questa, di un approfondimento dello sfruttamento che ormai sussume i cicli biologici e la stessa corporeità vivente. Dello stesso parere, altri autori, come Trebor Scholz, accennano oggi al «lavoro digitale»10. Questo sarebbe caratteristico del Web interattivo (il Web 2.0), dominato da reti sociali e dal commercio partecipativo. Acquistando su Amazon, cliccando “Mi piace” su Facebook, navigando sotto la sorveglianza dei pedinatori automatici di Google e di altri dispositivi panottici analoghi, l’internauta partecipa all’attività redditizia di queste differenti imprese. Ad esempio, rende più efficace la pubblicità mirata che costituisce il loro centro di gravità. Contribuisce senza saperlo – indubbiamente meglio che il consumatore ingenuo, dipinto in modo sarcastico dall’anticonsumismo degli intellettuali del XX secolo – a rafforzare la loro posizione commerciale sul mercato dell’offerta dei servizi digitali. L’estensione dello statuto di prosumer cambia la situazione11.

L’idea generale che emerge da queste ricerche sociologiche è dunque che il lavoro, nel senso marxiano dell’utilizzo della forza lavoro nel quadro di rapporti di classe che sono anche rapporti di forza, ha recentemente imboccato molte vie al fine di liberarsi dal peso del salario regolato, forma tipica del XX secolo, almeno nei paesi del vecchio capitalismo. Innanzitutto, l’informalizzazione e il precariato, certamente. Ma anche uno spazio di larga diffusione della subordinazione soft che ha finito per invadere le pratiche quotidiane relative tradizionalmente al tempo libero così come, alla base del mondo della vita, la stessa auto-riproduzione biologica12. Nell’epoca di Internet, ci siamo messi a lavorare gratuitamente (e docilmente) per alcune imprese, e questo genere di lavoro si è esteso alla gran parte dei momenti della nostra vita. Con una tale liquefazione generalizzata, ci si allontana del resto ancora di più dalla violenza aperta, faccia a faccia, che Marx già sottolineava come si celasse nel salario: qui le tracce della modernità disciplinare e carceraria, ancora illustrata in maniera limpida dalla fabbrica fordista, sembrano cancellarsi completamente. E ciò allorquando, peraltro, la mutilazione del corpo, motivo ricorrente di famose analisi de Il Capitale, può ormai esprimersi a volte molto apertamente, come quando, nel Sud del mondo, la miseria obbliga la gente a vendere uno dei loro reni o a diventare delle cavie da laboratorio per Big Pharma, senza alcuna rete di protezione. Lo sfruttamento in Rete, più discreto che mai nelle sue manifestazioni immediate, si connette in maniera indiretta al dominio di una brutalità senza limiti.

Il nostro argomento può essere riassunto brevemente. Nel recente universo digitale, proliferano delle pratiche che si intersecano o sono molto vicine (almeno attraverso un legame di analogia) con ciò che promette, nella sfera sempre determinante del lavoro, un neocapitalismo fluido, insidioso e invasivo, ostile alle separazioni tracciate e alle delimitazioni protettrici. Diremo che questi fenomeni segnano una metamorfosi parziale (poiché possono sussistere le forme classiche) di ciò che Marx chiamava lo sfruttamento. Così, sul piano epistemologico, la critica del lavoro sfruttato (diciamo innanzitutto: del lavoro reso indebitamente appropriato di forza da una classe dominante, e quindi incapace di farsi riconoscere socialmente nella sua dignità e nella sua centralità) resta pertinente, anche indipendentemente da quell’eccessiva esaltazione ontologica del lavoro in generale che il marxismo ha a volte incoraggiato e che, di fatto, ha ostacolato numerosi filosofi nel corso del XX secolo.

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3. Alienazione oggettiva

La critica dello sfruttamento può però, da un punto di vista epistemologico, funzionare da sé? È poco probabile. Perché in realtà, nel capitalismo, l’ingiustizia dello sfruttamento si associa spesso con l’irrazionalità sociale dell’alienazione oggettiva. Non beneficiare del riconoscimento (compresa la remunerazione) al quale il lavoro dovrebbe condurre, da una parte, ed essere sottomessi a delle potenze estranee che, esprimendo qualcosa di noi, fanno male le cose13 prosperando a nostre spese, dall’altra, costituiscono due aspetti di una stessa organizzazione sociale. Insistendo sul fatto che il capitalismo non privi soltanto il lavoratore di un reddito legittimo, ma privi tutti (a cominciare dalla classe operaia) della capacità di agire, di sviluppare le abilità, il sapere e la sociabilità cooperativa, il marxismo “critico” del XX secolo, basato sul tema dell’autonomia, vedeva perfettamente giusto14. Non è che l’impressionante reinvenzione dello sfruttamento (come modalità dell’ingiustizia di ripartizione), di cui il mondo digitale è stato il teatro di questi ultimi anni, occulti una simile feconda articolazione. Però è questo il timore che si prova nel leggere alcuni interpreti del digital labor, i quali, pur soffocando la ricchezza delle antiche discussioni interne al marxismo, sembrano comunque aver bisogno, in materia di teoria sociale, della categoria dello sfruttamento15.

La nozione di alienazione oggettiva, quanto ad essa, riassume una maniera particolare di concepire il mondo sociale che si è affermata per la prima volta nelle opere del giovane Marx (i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e L’Ideologia tedesca). Quando qualcosa del sociale si trova interrogata in funzione dell’idea o dell’immagine di una obiettività che prende corpo, che prende consistenza, quindi si emancipa a partire da un’attività primaria o anche da una vitalità iniziale, il modello dell’alienazione oggettiva è all’opera: grazie ad esso, vediamo come le potenze che si separano dalla vita e da un certo livello primordiale della pratica sociale si formino e prosperino.

Beninteso, questo modello comporta un certo numero di difficoltà e di limiti. Ad esempio, non è concepito per tracciare un percorso verso i settori in cui la vita sociale è più segnata dal dominio e/o dalla violenza. Semplicemente, si impongono in questo caso altri strumenti teorici. Ugualmente, è certo che, nella sua stessa costituzione, esso oscilli tra un diabolico divenire altro delle «potenze indipendenti» dell’essenza alienante (esse sono ormai fuori portata, pure fonti dell’oppressione e della costrizione, lasciate al proprio dinamismo autistico) e una forma di indulgenza persistente nei loro confronti (dopo tutto, esse non sono completamente irrazionali; sono continuamente lo stesso tese ad esprimere il meglio dell’essere umano). Questa eredità dell’hegelismo non è indubbiamente debole. In ogni caso, è lontana dal poter chiarire tutto. Eppure, dal punto di vista filosofico, uno dei suoi vantaggi proviene ancora dal fatto che faciliti ampiamente il compito consistente nel rispondere alla difficile questione dei «fondamenti della critica». Parlando di una «potenza indipendente», alienata, detto altrimenti di una distanza presa in rapporto all’azione e alla vita primarie, indichiamo di colpo che la critica è possibile e in che modo lo è: essa si radica nell’intuizione secondo la quale l’emancipazione di alcune oggettività sociali, benché necessaria per certi aspetti, ha anche delle possibilità di degenerare, dando allora luogo a dei processi e a dei fenomeni problematici (nel senso in cui sbagliamo a riconoscerli). Ad esempio perché nefasti o semplicemente incontrollati. Perché portatori, comunque, di costrizioni evitabili e di spossessamenti imprevisti. La nostra tesi sarà che, nel mondo di Internet, a lato di altre esperienze, siamo confrontati in maniera particolarmente netta con l’esistenza di potenze autonome di questo genere che assorbono e sconvolgono l’intelligenza e l’energia umana, fissando le loro espressioni a nostra distanza, in più sensi (metaforici e non) di questo termine. Se un simile fenomeno può connettersi con lo sfruttamento del lavoro, questo legame non appare tuttavia né costante né necessario. Anche se resta centrale, il sentimento di spossessamento può nascere in occasione di altre esperienze rispetto a quella del lavoro monopolizzato da un gruppo sociale o da un’istituzione dominante.

Queste esperienze sono innanzitutto legate all’enorme crescita del ruolo delle grandi imprese massimizzatrici dentro la vita sociale.

Sappiamo che la rivoluzione digitale ha conferito una certa verosimiglianza al motivo, ricorrente da tempo nella letteratura e nel cinema di fantascienza, di una rete universale che ingloba tutto, che sviluppa tutto, condizionando i movimenti più intimi. Ma, con il Web così come si è evoluto dall’epoca dei pionieri californiani e dei teorici libertari, questo scenario si è realizzato sotto una forma molto singolare, che non implica del resto il totalitarismo, nello stile dei regimi iper-dittatoriali del secolo scorso né l’emancipazione assoluta della Tecnica. In sostanza, alcune imprese private si sono prese l’onere di accumulare il sapere e la potenza (compresa la ricchezza) che è loro legata. Queste hanno così preso in conto il compito di gestire a loro profitto l’infittirsi degli scambi e la moltiplicazione delle possibilità d’azione e di pensiero inerenti alla mondializzazione e agli avanzamenti tecnici che vi si connettono. Ancora una volta, l’irruzione dei «giganti di Internet», che si tratti di siti commerciali come Amazon, di siti di scambio e di condivisione (eBay, Airbnb, …), di reti sociali come Twitter o Facebook, fornisce degli indicatori molto chiari. Il loro successo riposa sempre su delle varianti di un medesimo meccanismo che la categoria di «capitalismo cognitivo», troppo larga, non permette di cogliere. Ci si trova direttamente al centro dell’iniziativa, della creazione, dello scambio e della comunicazione. Più precisamente, ci si trova in un angolo strategico, laddove il traffico è già o può diventare più denso, quindi, da questa posizione favorevole, vengono sollecitate, canalizzate e organizzate le emergenze e i flussi nella prospettiva della concentrazione imprenditoriale massimale di ricchezza e di potere. Recentemente, sono certamente le startups dell’economia della condivisione (ad esempio nell’ambito del carpooling) che hanno perseguito l’esplorazione di questo terreno (i beni comuni emergenti, il centro della comunicazione e dello scambio). Ma esse lo hanno fatto seguendo il movimento iniziato dalle grandi aziende. In breve, non è la rivoluzione digitale in quanto tale – la quale comporta molteplici dimensioni che nessun giudizio di valore è capace di apprendere – che costituisce un fattore di alienazione sociale, privandoci delle espressioni dell’intelligenza e dell’attività collettiva, ma la grande azienda capitalista nella sua configurazione neoliberista, la quale investe attivamente, ed efficacemente, gli strumenti e i risultati di questa rivoluzione. Qui non è più la dimensione gerarchica e autoritaria dell’organizzazione che pone il problema, ma la sua dimensione di cattura.

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4. Per un rinnovamento della nozione di alienazione oggettiva

Al contrario, la rivoluzione digitale fornisce l’occasione di rinnovare il tema filosofico-sociologico dell’alienazione. Non si tratta di limitarsi a riaffermare perentoriamente la sua validità. Perché a partire da Marx, esso era rimasto dipendente da una semantica troppo semplice, se non addirittura un può piatta. Vi è dapprima l’azione, l’intelligenza, l’abilità e successivamente il sequestro delle espressioni di tutte queste facoltà nei prodotti oggettivati. E questi prodotti, queste “opere” rapprese (dai dispositivi inglobanti, dalle istituzioni, dalle norme, dalle abitudini, dalle collettività, …), a volte, limitano e opprimono le facoltà in questione. È così che, per i marxisti, l’azienda tipica del corporate capitalism costituisce una maniera deformata di organizzare il lavoro e la cooperazione. Al peggio, queste “opere” si inscrivono nella dinamica irrazionalmente espansiva delle entità (di cui lo Stato e la grande impresa massimizzatrice hanno dato un’immagine paradigmatica in seno alla teoria sociale critica) che muove il desiderio di perseverare nel proprio essere e di ampliarsi a spese del loro comportamento per meglio affermare la propria autonomia. Lo spettacolo che offre il capitalismo digitale così come è messo in opera dalle grandi firme che dominano oggi Internet conferma l’esattezza del motivo dell’Entfremdung. Ma invita anche a rivederne in parte il contenuto. Filosoficamente non è in effetti indifferente che si abbia a che fare con una caricatura e con una captazione stimolante della vitalità, piuttosto che con una negazione repressiva. E non è neppure indifferente che ad essere alienato sia un potere di agire che comporta delle potenzialità tendenti verso delle modalità non-capitaliste dell’organizzazione sociale ed economica. Apparentemente, la ricerca della traiettoria capitalistica non implica dunque soltanto il parassitare delle forme sociali tradizionali e precapitalistiche (la diagnosi di Rosa Luxemburg), ma anche quello delle forme emergenti, atipiche, forme che sono parzialmente legate, in alcuni attori, all’obiettivo riflessivo di una correzione, se non addirittura di un superamento del capitalismo realmente esistente. C’è, in qualche modo, cattura del possibile futuro, e non più soltanto di un passato sedimentato nelle abitudini e nelle istituzioni.

Più concretamente, la forma di alienazione oggettiva inerente al capitalismo digitale si caratterizza per un certo numero di aspetti storicamente originali che possiamo raggruppare sotto quattro rubriche: velocità, complicità, complessità, ambiguità.

Velocità. Ciò che colpisce innanzitutto, è la grandezza e la velocità stupefacenti del processo attraverso cui si pone, all’interno dello spazio digitale, il terreno favorevole all’espansione delle «potenze indipendenti» e attraverso cui queste ultime si installano e si sviluppano. Tutte le cifre che riguardano Internet da vent’anni (l’aumento del numero di internauti, l’aumento del volume del traffico, del numero dei siti, ecc.) danno la vertigine: si tratta di fenomeni a livello storico assolutamente incredibili. Tuttavia, non è solo questo. Così, possiamo sorridere davanti all’arroganza ingenua del tale dirigente di Google (Larry Page, in questo caso) che sentiamo strombazzare che ciò a cui mira la sua impresa sia rendere universalmente accessibile tutto il sapere umano nel suo più intimo dettaglio. Possiamo vederci la manifestazione di un fatto ben noto ai lettori e alle lettrici di Marx: dietro l’apparenza di una “crescita” tranquilla, il capitalismo ha per natura il bisogno di rilanci permanenti, di cambiamenti di scala spettacolari, di fughe in avanti auto-rinforzanti. È comprensibile che questa costrizione incontri presso alcuni lo spirito dell’eccessività, anche quando questo non si è specializzato nell’avidità egoistica. Semplicemente, diventa più chiaro ormai che una tale tendenza esercita anche un effetto di attrazione irrefrenabile su dei settori via via numerosi della vita sociale: essa coopta, mette sotto la sua orbita, dei fenomeni che, al primo approccio, sembrano situarsi lontano dal mondo del profitto. Nella sociologia e nella filosofia sociale contemporanea, questa constatazione dà luogo a delle orchestrazioni teoriche ben note circa il tema dell’«accelerazione» e dell’«urgenza». Ma il lato folgorante della dinamica espansiva inerente alla rivoluzione digitale in corso cambia soprattutto la situazione per il pensiero dell’alienazione oggettiva. Perché al cuore del mondo economico, quella dinamica, alla quale partecipano i giganti della Rete, naturalizza il regime di accrescimento esponenziale, che per Malthus, ad esempio, non apparteneva ancora che all’ordine di una natura sregolata. Normalizza la collusione tra la potenza in generale e l’espansione immediata, assoluta e irresistibile, un tempo probabilmente limitata all’universo molto particolare della conquista militare. Rimodella l’idea stessa di una forza indipendente che travolge dall’esterno, attraverso la sola forza del suo successo, la società e le persone. Si produce pertanto una saldatura tra l’alienazione oggettiva e la tendenza espansionista sfrenata.

Complicità. Una delle difficoltà classiche che incontra ogni filosofia sociale critica è quel che suscita l’adesione delle masse alle situazioni che essa intende svelare: come si può sopportare e a volte approvare, ossia far esistere, ciò che è oggettivamente nocivo? Nel XX secolo, la risposta data a questa questione ha spesso riposato su una psicologia segnata dalla prospettiva coerentista e da quella determinista. Se possiamo amare, o almeno tollerare, ciò che e coloro che opprimono, se possiamo far funzionare il Sistema contro i suoi propri interessi, si diceva, è perché la personalità degli oppressi ne fa l’oggetto di una sorta di riprogrammazione tale da ridefinirla interamente: abbiamo «interiorizzato» il dominio. Però, da un lato, la rivoluzione digitale ha accompagnato un allargamento e un approfondimento senza precedenti degli effetti di coinvolgimento, di complicità e di connivenza: su Internet, accade molto spesso e molto esplicitamente che si domandi alla gente di partecipare al funzionamento di quei dispositivi oggettivamente alienanti che noi abbiamo menzionato ricordando l’azione dei giganti del capitalismo digitale, al fine di alimentarli coinvolgendosi coscientemente in questo compito e trovando quest’ultimo allo stesso tempo razionale ed eccitante, inevitabile ed appassionante. I due fenomeni che possiamo rilevare – al limite, i siti diventano le piattaforme destinate a gestire i contributi volontari degli internauti; le imprese e le loro merci riescono a farsi amare – risultano profondamente legati. Ma, dall’altro lato, la rivoluzione digitale ha considerevolmente abbassato i costi di adesione all’alienazione e ai dispositivi alienanti. Essa ha così permesso la moltiplicazione, sotto l’egida della gratuità, e per mezzo di un sistema di gratificazioni sofisticato, di incitazioni ad identificarsi con il medium che li rende possibili e con gli attori che lo popolano. Ed essa ha fatto in modo che il movimento di adesione divenga tanto semplice quanto immediato, senza profondità psicologica. Se, per Adorno, bisognava essere una «personalità autoritaria» molto pesante per stare al gioco dei regimi fascisti, far esistere e ingrandire i colossi più o meno inquietanti di Internet è divenuta la cosa più semplice del mondo, la più indolore. Qualche clic occasionale, qualche manipolazione divertente sul computer, sono già sufficienti. E gli algoritmi fanno il resto.

Complessità. Classicamente, la critica dell’alienazione oggettiva sosteneva un programma teorico preciso: si trattava di svelare la maniera in cui alcune oggettività sociali (se non addirittura un «Sistema» tutt’intero) funzionassero mobilitando e al contempo reprimendo l’energia e l’intelligenza umane. Se realizzare questo programma è diventato difficile nell’epoca della rivoluzione digitale, è, tra le altre cause, perché il modo di esistenza e di azione di queste obiettività è in corso di mutazione e di sofisticazione permanenti. Si tratta inoltre probabilmente del cuore della forma attuale della «razionalizzazione». Sempre più sapere e intelligenza si trovano utilizzati dagli universi economici da cui dipendono le grandi aziende di Internet – che si tratti di algoritmi, di management, di strategie di marketing. Lungi dall’essere abbandonati ad una dinamica naturale di crescita e di influenza, esse si sviluppano in maniera iper-riflessiva. L’alienazione non è più sinonimo di vittoria dell’inerzia e di accecamento sull’iniziativa intelligente e sul movimento.

Ambiguità. In Morozov o in altri autori, lo scetticismo davanti alla rivoluzione digitale si riferisce ad una serie di fenomeni impressionanti: essa ha aperto immensi campi alla criminalità (fra cui la corruzione), allo sfruttamento brutale, alla manipolazione di massa. Ma al di là di ciò che implica l’allargamento di uno spazio pubblico critico, è facile vedere come Internet formi anche un sostegno, così come uno spazio di sperimentazione e di diffusione, simbolicamente denso, per delle esperienze di sottrazione alle logiche capitalistiche centrali, favorendo un’innovazione sociale portatrice di uno spirito di riflessività e di responsabilità contraria all’accecamento neoliberista. Eppure, questo spazio critico è omogeneo, per molti aspetti, al mondo inventato dalle grandi aziende massimizzatrici che noi abbiamo identificato come le manifestazioni contemporanee più evidenti del principio di alienazione sociale. Google e Facebook (o altri siti simili, di rivolta e di ricerca di alternative etico-politiche) sono inoltre diventati indispensabili all’esercizio e alla diffusione della riflessione critica. Questo fatto aneddotico illustra bene l’idea che l’universo digitale veda la moltiplicazione sconcertante di ambiguità e zone grigie, in cui l’affermazione trionfante dell’alienazione e della sua contestazione si inseguono incessantemente, mutuandosi l’una l’altra, e a volte si assomigliano e si sviluppano su uno stesso terreno.

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Conclusione

Da quando Feuerbach ha interpretato la credenza teologica come il risultato di una proiezione fittizia delle migliori possibilità umane, da quando il giovane Marx ha definito la «proprietà privata», e poi le «forze produttive», come delle condensazioni illegittimamente rese autonome, e automatizzate, dei risultati dell’attività umana creativa e intersoggettiva, il modello dell’«alienazione», a lato di altri modelli, ha brillantemente accompagnato la coscienza critica della modernità. Ha giocato, in particolare, un ruolo cruciale nella messa in questione delle forme di organizzazione razionale-gerarchica che si sono schiuse nel quadro dello Stato-nazione e dell’Impresa massimizzatrice. La nostra conclusione è che tale concetto possa continuare a farlo. In un certo modo, non è mai stato tanto fecondo quanto oggi: senza rimpiazzare i più antichi, i fenomeni nuovi che vengono formandosi gli danno assolutamente ragione. È ciò che noi comprendiamo, paradossalmente, provando a trarre le conseguenze dalle novità tecno-sociali sbalorditive di cui noi siamo contemporanei. Per certi loro aspetti, esse esprimono in effetti niente di meno che una reinvenzione completa dell’alienazione oggettiva, contribuendo a tracciare i contorni di un capitalismo di nuovo genere, che fa anche emergere delle tensioni nuove.

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Traduzione: Giovanni Campailla.

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1Sulla storia di queste discussioni, vedi Fred Turner, From Counterculture to Cyberculture, University of Chicago Press, 2008.

2L. Lessig, Il futuro delle idee (2001), trad. it. di L. Clausi, Feltrinelli, Milano 2006.

3Y. Benkler, La ricchezza della Rete (2006), trad. it. Università Bocconi editore, Milano 2007.

4E. Morozov, L’ingenuità della Rete. Il lato oscuro della libertà di Internet (2011), trad. it. di M. Renda e F. Ardizzoia, Codice edizioni, Torino 2011.

5F. Martel, Smart. Enquête sur les Internets, Stock, Parigi 2014.

6Sull’analisi del fenomeno Google, vedere soprattutto S. Vaidhyanathan, La grande G. Come Google domina il mondo e perché dovremmo preoccuparci (2011), trad. it. a cura di I. Katerinov, Rizzoli, Milano 2012.

7Questo grande racconto della decadenza – dapprima lo stato di natura di un Internet libero, seguito dall’intervento di potenze politiche ed economiche captatitrici – è stato elaborato dai teorici dell’Internet libero. Lo si ritrova presso gli autori che si allacciano al tema del capitalismo cognitivo. In realtà, vi erano ambivalenze sin dall’inizio.

8S. Legrand, Les Normes chez Foucault, PUF, Parigi 2007; F. Gros, Le Principe Sécurité, Gallimard, Parigi 2012.

9M. Cooper, C. Waldby, Clinical labor. Tissue Donors and Resarech Subjects in the Global Bioeconomy, Duke University Press, 2014.

10Vedi T. Scholz (a cura di), Digital Labor, Routledge, Londra 2012.

11Su queste questioni, vedere la sintesi molto ricca di Anne-Marie Dujarier, Il lavoro del consumatore. Come coproduciamo ciò che compriamo (2008), trad. it. di G. Tallarico e G. Gerevini, pref. di G. Fabris, Egea, Milano 2009.

12Evidentemente, nel contesto post-Snowden, sappiamo inoltre fino a che punto queste nuove forme di lavoro siano contigue in rapporto alla costituzione di gigantesche database tanto che il minore dei nostri gesti, ormai spesso legato ad un’apparecchiatura tecnica qualunque, può contribuire ad alimentarlo.

13Per esempio privilegiando sempre il gigantismo.

14Vedi ad esempio H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo (1974), trad. it., Einaudi, Torino 1978.

15Come, ad esempio, Christian Fuchs. Vedi Digital Labor and Karl Marx, Routledge, Londra 2014. Jaron Lanier, informatico e saggista molto conosciuto negli Stati Uniti, fa ormai convergere i differenti elementi della sua critica del web 2.0 e della sua mistica caratteristica (la libertà, la condivisione, la simmetria, l’apertura, …) nella rivendicazione di una giusta retribuzione del lavoro digitale. Vedi Who Owns the Future?, Simon and Schuster, San José 2013. 

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