Misura e mostruosità in Albert Camus. Il tempo dell’antropogenesi

Laurent Bove

 

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Abstract  In Camus si ritrovano due figure filosofiche della storia: vi è la storia che gli uomini costruiscono attraverso la cooperazione e la solidarietà, che nasce indefinitamente dalla «rivolta» contro la servitù, ma anche la Storia-Destino che Camus individua e analizza nelle figure storiche principali del XX secolo. Questa seconda Storia è quella del delirio dello «spirito moderno» che sfrutta e soffoca il tempo vivente della vita degli uomini, quello dell’antropogenesi,
di cui la Storia-Destino si nutre, dissanguandolo e orientandolo. A questa Storia e alla sua Ragione, la cui misura e dismisura sono mostruose – è la mostruosità del «nichilismo» – Camus oppone un’altra dismisura e la misura di una mostruosità artistica, libertaria e creatrice. Questa dismisura positiva si definisce come «sovrabbondanza» all’origine della «trasfigurazione» della vita. Dal personaggio di Meursault al «principio di attività sovrabbondante e di energia» de L’Homme révolté delineeremo queste forme differenti della mostruosità. Il percorso svolto dall’articolo intende mettere in luce come, leggendo Camus oggi, abbiamo la chiara impressione che egli stia parlando proprio del nostro presente.  

 

 

L’argomento che intendo trattare in questa sede è lo statuto del concetto di mostruosità nel pensiero storico e politico di Albert Camus. La mostruosità camusiana, in stretta correlazione con i concetti di dismisura e barbarie, ha un carattere ambivalente. Da un lato, infatti, troviamo la dismisura barbarica della mostruosità politica della Storia europea che Camus analizza e che condanna severamente ne LHomme révolté. Dall’altro, all’interno dell’opera, è possibile rintracciare una dimensione del tutto positiva della dismisura, che Camus rivendica fermamente: il barbarico e il mostruoso che caratterizzano il reale stesso. Si tratta in questo caso della mostruosità della sovrabbondanza della vita che si situa al principio della creazione, della rivolta e della possibilità di trasfigurare il mondo e la sua storia; temi che si ritrovano ne LHomme révolté ma che erano già presenti nei primi scritti. Non si potrebbe infatti capire Camus se si dimenticasse la «promessa» che egli intravede nei «giovani della spiaggia Padovani ad Algeri che passano tutto l’anno al sole» (Le Désert, Noces)[1]: «il contrario di un popolo civile – scrive Camus in L’été à Alger[2] – è un popolo creatore. Ho la speranza insensata che, forse a loro insaputa, questi barbari che si crogiolano sulle spiagge stiano per modellare l’immagine di una cultura in cui la grandezza dell’uomo troverà finalmente il suo vero volto». Indubbiamente vi è qui un riaffiorare alla memoria della lettura (forse) di Michelet[3] o, più certamente, di Nietzsche[4]; entrambi infatti esaltano la potenza creatrice dei barbari. Analogamente, i barbari camusiani che festeggiano per un tempo indefinito il loro fraterno godimento con la terra, l’acqua e la luce sono dei barbari pacifici e senza uno scopo preciso. Questo popolo che vive sulle rive del mediterraneo significa unicamente, a proprio modo, quel potente tipo di desiderio e d’amore che, al cuore stesso della vita degli uomini, reca con sé la potente promessa della creazione: un desiderio e/o un «amore di vivere» (LEnvers et lEndroit)[5], «innocente» (Carnets)[6], «senza misura» (Noces)[7] e «senza oggetto» (LEnvers et lEndroit)[8]. È la promessa di questo «strano amore» (LHomme révolté)[9], che era già stata evocata attraverso la figura del barbaro quando Camus nel 1938 scrive la presentazione della nuova rivista Rivages. Camus afferma che Rivages «nasce da una sovrabbondanza di vita. […] Se è vero che la vera cultura non si separa da una certa barbarie, non vi è niente di questa barbarie che si possa considerare come a noi estraneo. Il fatto è che bisogna intendersi sul significato della parola barbaro. E già questo sarebbe di per sé un programma»[10]. È dunque Camus stesso che ci invita a riflette sulla barbarie e sulla mostruosità in quanto si manifestano nella sua opera ma anche, e soprattutto, nella storia. Secondo Camus, infatti, la barbarie è una griglia di intelligibilità della politica e della storia: del suo collasso nichilista, ma anche dei progressi della natura umana. Esaminiamo, innanzitutto, la dimensione negativa e mortale/mortifera/letale della mostruosità. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la riflessione di Albert Camus si concentra più che sulla condizione del mondo, sullo statuto della natura umana e sulle possibilità che ancora vi sono di agire sul suo divenire. La natura umana è per Camus profondamente «mutilata»[11] in base a due criteri: la sua temporalità e l’affetto specifico che la costituisce. Da un lato, infatti, la natura dell’uomo occidentale è d’ora in avanti fissata in un «eterno presente» (questa è la sua nuova temporalità). Dall’altro, essa è soggiogata da un affetto che la domina e la occupa (quasi) interamente: il «terrore». Questi due criteri – la negazione del tempo in e a causa di un eterno presente e l’affetto del terrore –, definiranno per Camus la natura dell’«uomo moderno» e la «mostruosità» che lo caratterizza. Soffermiamoci anzitutto sull’affetto. Secondo Camus il nazismo, nonostante il profondo orrore della sua tirannia, non è la causa primaria del «terrore» che attraversa la natura dell’uomo occidentale; esso non rappresenta altro che la figura paradigmatica di questo affetto. Il terrore di cui parla Camus è invece un affetto specifico, generato dalla violenza estrema dei rapporti di dominazione. Questa violenza non è solo fisica, ma è necessariamente accompagnata da una violenza simbolica che, dunque, prima del nazismo come dopo esso, convoglia un terrore ordinario di natura strutturale, che deve quindi essere assunto come norma razionale del nuovo rapporto degli uomini in seno a un mondo che Camus definisce altrettanto «moderno». Si tratta di una violenza alla quale più nessuno spirito (o quasi) è capace di resistere, nemmeno all’interno degli stati democratici. Durante una conferenza tenuta nel 1946 negli Stati Uniti, il cui tema era La crise de lhomme, Camus afferma: «l’ufficiale tedesco che tortura e quello che uccide, le SS trasformate in becchini, ecco a voi gli uomini ragionevoli di questo nuovo mondo. Guardatevi attorno, dunque, e vedete se al giorno d’oggi non è ancora vero»[12]. Siamo nel marzo del 1946 e Camus insiste: «ancora oggi» dice. In quest’insistenza sul presente si scorge una constatazione terribile: quella dello scacco etico di una Resistenza e di una guerra di liberazione che pure sono state militarmente vittoriose. Questa constatazione è seguita poi da un’idea scandalosa. Camus suggerisce infatti una certa continuità tra periodi di guerra e di pace, tra l’odiato nazismo e la democrazia ritrovata, dal momento che, nella verità effettiva delle cose, non si esce mai veramente dallo stato di guerra, da una logica mortale che è avallata, anche in periodo di pace, da «quasi tutti» (Sommes-nous des pessimistes, maggio 1946)[13]. La crisi qui diagnosticata è quindi quella della «libertà umana»: gli uomini sono fondamentalmente incapaci, qui e ora, di esercitare la «libertà di pensiero» (La Crise de lhomme)[14], vale a dire di resistere alla dominazione: che è divenuta segreta, strutturale e infine costitutiva del nuovo essere dell’uomo. Nella verità effettiva delle cose il regime di terrore del fascismo che «il mondo» ha rapidamente «cominciato a dimenticare» per sua serenità, viene così sostituito dal regime segreto del pensiero moderno. Quest’ultimo è un regime di razionalità che bisogna definire come «mostruoso» in quanto è, al tempo stesso, «misura» della modernità – cioè della sua «ragione» – e «dismisura» – cioè della barbarie – che prende così i panni di una violenza implicita ma esacerbata. Camus definisce la logica che attraversa questa violenza con due concetti che rappresentano concretamente le parole d’ordine o gli imperativi categorici della modernità: il «successo» e l’«efficacia». Camus precisa: «la generazione di cui parlo sa bene che questa crisi […] è solamente l’aumento del terrore conseguente a una tale perversione dei valori, che un uomo o una forza storica non sono più stati giudicati in funzione della loro dignità, ma in funzione del loro successo»[15]. Secondo questo punto di vista, prosegue, «la crisi moderna deriva dal fatto che nessun Occidentale» – sotto la pressione dei principi di efficacia e successo – è sicuro del suo futuro immediato e che ciascuno vive nell’angoscia più o meno precisa di essere, in un modo o in un altro, stritolato dalla storia»[16].

Di qui nasce – per passare ora al secondo criterio – la «temporalità» propria dell’uomo moderno, sottomesso a una Storia che è quella di un «tempo» che si manifesta come procedere oggettivo, naturale, indipendente dagli uomini. Un tempo soverchiante che si svolge accanto a noi o davanti a noi, ma in ultima analisi, senza di noi[17]. Questo tempo indipendente, imposto dalla Storia, è la forma mostruosa di un’inversione. In una conferenza del 1955 dal titolo Sur lavenir de la tragédie Camus dichiara: «il mondo che l’individuo del XVIII secolo credeva di poter sottomettere e modellare con la ragione e la scienza ha assunto una forma mostruosa. Razionale e smisurato al tempo stesso, è il mondo della storia. Ma a questo grado di dismisura, la storia ha assunto l’aspetto del destino […]. Paradosso curioso: l’umanità, con le stesse armi con le quali aveva rigettato la fatalità, si è ritagliata un destino ostile»[18].

Questa inversione mostruosa dell’emancipazione è proprio quella del destino dell’uomo moderno: dal XVIII al XX secolo (e senza dubbio ancora nel XXI).

Per capire meglio il significato di questa «mostruosità» torniamo alla conferenza del 1946.

La Crise de l’homme toccava infatti una problematica decisiva che attraversa l’intera opera di Camus: la questione dell’antropogenesi e dei giochi di inversione tra misuradismisura che attraversano e costituiscono la storia umana. Si tratta perciò di una problematica che riguarda le condizioni effettive della costituzione dell’essere umano in quanto tale e, inversamente, le condizioni altrettanto effettive della sua animalizzazione – una «animalizzazione» che Camus nel 1946 riteneva fosse già, in un certo senso, attuale.

Il concetto di «animalizzazione» designa effettivamente il processo di cancellazione dell’umanità dell’uomo all’interno di una Storia-destino, indipendente e «mostruosa», che modifica profondamente la sua natura. La parola «animalizzazione» non è direttamente pronunciata da Camus, ma l’idea è esplicitamente presente quando, attraverso un’immagine, riprende in Combat del novembre 1948 l’idea dell’«eterno presente» della modernità: «vivere contro un muro, scrive, è la vita dei cani. E infatti! Gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà hanno vissuto e vivono sempre di più come cani»[19].

L’idea di «animalizzazione» – in questo caso la nozione è esplicitamente utilizzata – era presente nel filosofo Alexandre Kojève dal 1946 nella riedizione delle sue Lezioni sulla Fenomenologia dello Spirito risalenti agli anni ’30, e pubblicate in seguito da Raymond Queneau. Kojève si interrogava apertamente sulla «fine della storia» e sul nuovo statuto da accordare – date le mutate condizioni – agli esseri umani[20].

Negli anni del dopoguerra, la filosofia di Camus non è assolutamente quella hegeliana di Alexandre Kojève. Il punto di fondamentale contrasto rispetto alla forma dell’antropogenesi è il modo stesso in cui il problema viene posto. In Camus la questione è posta al di fuori del pensiero dialettico e anche contro il pensiero dialettico che ritiene, anchesso, parte in causa dell’animalizzazione dell’uomo o di quello che lui chiama, seguendo Nietzsche, il nichilismo nella sua fase finale: quella di un «ultimo uomo» identificato con lo «spirito» stesso della «modernità». L’immaginario politico della filosofia di Kojève, e con essa della filosofia hegelo-marxiana della storia, è considerato anch’esso da Camus come una delle maggiori cause del terrore che ora invade le menti, e questo in virtù del fatalismo storico implicato da tale pensiero. Aderire alla credenza di un destino storico ineluttabile significa tradire la libertà di agire e di pensare, abbandonarla a un pensiero che non riconosce il valore delle azioni se non all’interno e a partire dal loro «successo» e dalla loro «efficacia» in funzione di una supposta fine della storia. E questa secondo Camus – cioè l’efficacia dei mezzi che non hanno valore se non in funzione dei fini che essi permettono di raggiungere – è la struttura teleologica più importante del regime di terrore proprio della ragione storica moderna.

All’attività dell’uomo moderno, concepita tecnologicamente e teleologicamente come quella di un «soggetto» indipendente dal mondo che sviluppa la sua ambizione di «conquista»[21] (LHomme révolté), di manipolazione e di dominazione su questo mondo e il cui valore principale è effettivamente la «legge dell’efficacia»[22] – Camus opporrà un nuovo pensiero del ritorno alle origini: un’origine che è considerata come fonte potente e viva dei ogni attività reale degli uomini nella storia. Questo nuovo pensiero suppone una certa concezione dell’agire dei singoli in inter-dipendenza, iscritti sul piano dell’immanenza di una «virtù» comune o di una potenza comune prima della trasformazione ideologica degli individui in «soggetti». Si pensi a Vauvenargues, la cui filosofia dell’attività descrive già questa inter-dipendenza degli esseri-del-mondo, affermando che «l’aria appartiene all’uomo e l’uomo all’aria; e niente è suo né a parte»[23].

In linea con i pensatori dell’immanenza e della potenza di agire (penso in modo particolare a Spinoza e Vauvenargues, ma anche a Nietzsche che riveste una notevole importanza nell’opera camusiana), Camus concepisce quindi l’agire come quella potente «virtù vivente» che è costitutiva di ogni essere-nel-mondo e «che fonda la comune dignità dell’uomo e del mondo […] rispetto a un mondo [storico] che lo offende» [che questo mondo sia rivoluzionario o borghese]»[24]. Perciò, la «rivoluzione inversa» proposta da Camus – radicalmente opposta a quella che trionfato in Russia e che viene descritta da Camus nei termini di una rivoluzione militarizzata o «cesarista» – prepara «quel giorno di rinascita» in cui la società porrà come principio del vivere comune e del pensiero questa attività immanente della «virtù vivente»: «lontano dai principi formali» della società borghese (dai principi giuridici astratti che sono imposti al reale) e al tempo stesso lontano dai «valori degradati della storia» (dalla fede nella visione dialettica e lontano dalla sua teleologia omicida). La «virtù vivente» è dunque concepita come una potenza attiva e comune, affermativa e creatrice: quella potenza immanente di tutte le cose che è anche, nell’uomo, la «parte calda» al di qua di ogni rapporto mezzo-fine; una parte che, scrive Camus, «non può servire a null’altro che ad essere»[25]. Contro le logiche di guerra, dell’efficacia e del successo, questa parte virtuosa del nostro essere-nel-mondo non aspira ad altro che alla «pienezza dell’essere»[26].

Il modello camusiano dell’attività comune immanente è così diametralmente opposto al paradigma soggettivista e individualista della «conquista» (nella forma dell’efficacia e del successo di un «soggetto» che pretende di trascendere il reale in modo illusorio, sia questo soggetto quello del borghese individualista o quello collettivo del Partito, soggetto della Storia e della rivoluzione). In questo senso Camus difende una tesi anarchica o libertaria.

Il ritorno al punto d’origine della «virtù vivente» è a ben vedere un ritorno al piano rigorosamente immanente della politica e della storia: un ritorno alla diversità degli uomini, unificati unicamente dalla costrizione del lavoro. Pertanto si tratta di un ritorno al reale del popolo che è all’origine della storia; le «folle del lavoro»[27] le chiama Camus. Al di qua della teleologia della dialettica storica e della sua ragione trascendente, questo ritorno all’origine vivente di tutte le cose e della storia deve consentire una vera «rinascita» dell’idea di rivoluzione rispetto a «un’altra tradizione rivoluzionaria»: quella della Comune di Parigi del 1871, quella della rivoluzione russa del 1905 (ed è nota l’importanza paradigmatica del personaggio di Kaliayev in Les Justes), quella della repubblica spagnola o ancora quella delle battaglie del sindacalismo rivoluzionario. Un’idea di rivoluzione che è stata di fatto pervertita dalla concezione gerarchica, militare, imperiale o «cesarista» che ne ha dato di fatto il partito Bolscevico nel 1917. A proposito della «virtù vivente» che costituisce il piano immanente e la storia, Camus scrive «lontano da questa fonte di vita […] l’Europa e la rivoluzione si consumano in una convulsione spettacolare»[28], vale a dire in un «delirio» che è quello della storia dell’«orgoglio europeo» o dello «spirito moderno» (espressione che troviamo ne LHomme révolté).

Attraverso l’idea di «rinascita» o di «trasfigurazione» (anche queste espressioni de LHomme révolté) si deve quindi secondo Camus ripensare la «misura» necessaria al vivere-insieme in e attraverso la positività affermativa di un altro genere di dismisura che è esattamente quello di questa attività «vivente» sulla quale e attraverso la quale il pensiero politico deve «far ritorno».

Questo ragionamento ci restituisce allora un’altra figura, questa volta positiva, della mostruosità. È proprio questa figura che Camus situa, ne LHomme révolté, all’«origine della rivolta». Si tratta di «un principio d’attività sovrabbondante e di energia»[29]. Proprio in quanto sovrabbondante ed eccessiva, la «virtù vivente», come vera essenza attiva del reale, può essere concepita come una potenza che racchiude la «dismisura» analogamente a quanto accade, in un certo senso, con il Dio della Gnosi o il Dio di Plotino, che Camus aveva studiato nella sua tesi di laurea intitolata Metafisica cristiana e neoplatonismo. Infatti, egli scriveva che «il Dio di Valentino […] sovrabbonda di fatto della sua perfezione […]. Solo lui è perfetto. Solo lui è sovrabbondante»[30]. E scriveva la stessa cosa per il Dio di Plotino «Dio stesso in quanto sostanza perfetta e atemporale sovrabbonda»[31], «sovrabbonda senza consumarsi»[32].

Questa sovrabbondanza si manifesta ora in Camus a partire dall’atto di rivolta in e attraverso un eccesso di presenza che si trova, paradossalmente, all’origine di una nuova «misura» immanente – quella dell’«uguaglianza» – per la costruzione di un nuovo essere, di un essere-etico nella storia e attraverso la storia. Una storia di uomini che non sarebbe più quella del «soggetto» trascendente e identico a se stesso della modernità, ma quella di un essere «tranquillamente mostruoso» e creativo, del quale Le Premier homme enumera le principali caratteristiche: una «vita scattante»[33] marcata dalla «molteplicità […] di esperienze» e dal «potere di rinnovamento»[34].

Vorrei ora soffermarmi un momento su questa coppia positiva di misura e dismisura.

L’attività sovrabbondante è per Camus l’attività civilizzatrice, in questo momento, dell’industria degli uomini e di ciò che egli chiama, ne LHomme révolté, «l’aspra etica dei costruttori»[35]. È l’attività vivente che precede ogni astrazione, ogni rapporto soggetto-oggetto, ogni «totalizzazione» all’interno della filosofia teleologica della storia. Quest’attività richiede una nuova teoria dell’agire e una nuova concezione del tempo, delle quali Camus aveva, dieci anni prima, abbozzato le premesse in L’Envers et l’Endroit, in Noces e, successivamente, nel romanzo L’Étranger.

Di fatto è a partire dai personaggi di Meursalut a Caligola – passando per Don Juan – che il «mostro» infesta positivamente la prima fase dell’opera di Albert Camus. Soffermiamoci ora in particolare sul personaggio di Meursault.

La figura marginale dello Straniero è già, a ben vedere, una «promessa» di profonda trasformazione della vita, sorta da una certa «dismisura» che reca con sé la «misura» di una vita trasfigurata dall’amore; un amore interno alla rivolta, che attraversa e costituisce il personaggio stesso. Ma si tratta di uno «strano amore», scrive Camus, un «amore di vivere» radicalmente libero dalle categorie di soggetto e oggetto; un amore che, paradossalmente, contesta ogni forma di affetto (o di sentimento) sottoposto a una relazione oggettuale o inter-soggettiva. Si tratta dunque di un amore di niente e di nessuno che rappresenta la verità stessa dell’amore, l’amore della verità o ancora «la gioia» tragica «del mondo». Camus sottolinea ancor più decisamente la rottura che avviene in Meursalut con il mondo dei desideri, delle credenze e dei sentimenti degli «altri» uomini. Il suo personaggio comprende già una potenza amorosa «di gioia e ira», di «sì» e di «no», che si affermano come le forze attive della trasformazione (a venire) di «questo» mondo e della sua Storia; e, a partire da ciò come forze viventi di una rifondazione radicale della socialità. In una lettera del 8 settembre 1954, a proposito di un adattamento de L’Étranger per il teatro tedesco, Camus svolge direttamente, a partire dal personaggio di Meursault, la critica di un «mondo» e di una Storia sotto il dominio nichilista della problematica del «giudizio». In questo senso, Camus oppone la «misura» etica affermativa, salda e resistente della sincerità di Meursault alla menzogna di un mondo «tanto borghese quanto nazista e comunista». Ne LHomme révolté Camus scriveva che «l’universo del processo» è quello dove «la storia e l’efficacia» si sono «erette a giudici supremi»[36]. Nella lettera del 1954 a proposito de L’Étranger sostiene la stessa idea: «ciò che è direttamente sotto attacco», ne L’Étranger, «non è la morale, ma il mondo del processo che è tanto borghese quanto nazista o comunista, che è in una parola il cancro contemporaneo […]. Meursault non è dalla parte dei giudici, della legge sociale, dei sentimenti comuni», e non è nemmeno dalla parte della verità ufficiale della Storia-destino. Meursault, continua Camus, «esiste, come una pietra o il vento sotto il sole che non mentono mai. Se considerate il libro sotto questo aspetto, ci vedrete una morale della sincerità e un’esaltazione sia ironica che tragica della gioia del mondo»[37]. La «gioia del mondo» o «l’amore di vivere», o la vita stessa come potenza attiva di un «amore senza oggetto». Ma anche la vita in e attraverso la verità. Una verità del mondo che, inizialmente, separa dagli altri uomini colui che ha il coraggio di riconoscere questa verità e identificarvisi. Ciò nonostante, scrive Camus ne Le Premier homme «non si può vivere con la verità – “sapendo”. Colui che lo fa – come nel caso di Meursault – si separa dagli altri uomini, non può più condividere niente delle loro illusioni. È un mostro», e aggiunge «ed è ciò che io sono»[38]. Tuttavia, con la rivolta che prende avvio da questo tipo di mostruosità, sorge anche un’altra misura comune dell’umanità: la «misura» comune per una comunità nuova, la misura dell’uguaglianza: la misura di un essere-etico.

Questa potenza gioiosa del mondo, allo stesso tempo sovversiva e costruttiva, impastata di gioia e di ira, che incarna inizialmente il personaggio di Meursault ne L’Étranger (e di cui si nutrirà in seguito la teoria etico-politica della «rivolta» ne LHomme révolté). Si tratta di una potenza al tempo stesso virtuosa e mostruosa, da cui nasce una nuova «misura» del vivere insieme e che ci fa, paradossalmente, pensare al Principe di Machiavelli e alla dismisura costitutiva di un Cesare Borgia, ossia a una mostruosità già incarnata in un personaggio – in quanto «virtù vivente» e/o in quanto virtù – che è mostruoso per la sua virtù straripante e sovrabbondante. Da questa è necessario – per il pensiero politico libertario e democratico – desumere tutte le conseguenze positive rispetto alle potenzialità barbare di misura comune e di «rinascita» effettiva che il personaggio virtuoso implica per i domini della politica e della storia o, come scrive Camus, rispetto alla sua forza civilizzatrice di costituzione e di «trasfigurazione». Come Machiavelli che è profondamente repubblicano (e che non bisogna dunque confondere con ciò che la tradizione ha chiamato machiavellismo) e un difensore delle libertà popolari, scrive i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio tenendo a mente la potenza costitutiva e mostruosa di un Cesare Borgia, così Camus scrive LHomme révolté mettendo sempre in scena, contro la concezione dialettica e nichilista della storia, la potenza attiva di resistenza, mostruosa ma creatrice, di un Meursault diventato storico e collettivo. Un Meursalut che racchiude la potenza immanente di un divenire-artefice, di un mondo realmente libero e vivente, frammisto di natura e storia.

Abbiamo insistito nel nostro lavoro e nella nostra lettura de L’Étranger[39], sul modo fisico e integrale che ha Meursault di esporsi al mondo, nel quale e attraverso il quale si gioca, sulla superficie della sua pelle, la più grande beatitudine come la sua più grande miseria. Questa condizione assolutamente esposta-al-mondo ci allontana, in effetti, da qualunque problematica del «soggetto» e della sua identità[40]. Questa esposizione-al-mondo si realizza al di qua di qualunque relazione oggettuale. Attraverso la descrizione dell’esposizione-al-mondo di Mersault, Camus sviluppa la sua concezione immanentista e mostruosa dell’essere-nel-mondo[41] come dispersione e comunione al tempo stesso. Il tempo e la storia che Camus si sforza di concettualizzare (dei quali egli spera che gli uomini sappiamo riappropriarsi, in opposizione a ciò che egli chiama la «totalizzazione» delle filosofie della Storia) è questo movimento reale dal reale della perseveranza comune dell’essere-nel-mondo: un essere che non è un soggetto, ma un essere che esiste fuori di sé, senza un’identità fissa, in e attraverso un movimento misto e complesso di natura storica.

È dunque dal punto di vista dei barbari virtuosi, e di una barbarie che si deve sempre preservare e difendere, che Camus porta avanti la sua battaglia politica. Poiché, come scriveva a partire dal 1938, tutto sommato ciò che è necessario fare è «trovare una dismisura nella misura» (Carnets)[42] o, al contrario, una misura nella dismisura. Sappiamo che questa misura della libertà comune Camus la scoprirà in e attraverso la dismisura stessa della rivolta. Di qui sorge la misura dell’uguaglianza a fondamento della libertà comune: «la misura non è il contrario della rivolta. È la rivolta che è la misura, che la ordina, la difende e la ricrea attraverso la storia dei suoi disordini»[43]!

A fondamento dell’uguaglianza e della libertà vi è dunque la dismisura di una barbarie che è sempre da preservare e difendere. Si tratta, infatti, del crogiolo stesso dell’attitudine degli uomini a resistere indefinitamente a quest’altra dismisura della dominazione e a quest’altra barbarie di una Storia-destino che indefinitamente si richiude su di essi.

È questo paradosso della dismisura che desidero esporre nel mio lavoro[44].

 

 Traduzione di Marta Libertà De Bastiani

 
Note al testo 

 
[1] Camus 2006a: 133. La traduzione è nostra (N.d.T).
[2] Camus 2006a: 124.
[3] Michelet (1965: 70) scrive: «Spesso oggi si comparano l’ascesa del popolo, il suo progresso alle invasioni barbariche. Mi piace questa parola, l’accetto…Barbari! È come dire pieno di una nuova energia, vivente e rigenerante. Barbari ossia viaggiatori in marcia verso la Roma dell’avvenire […]» .
[4] Nietzsche 1971: 238.
[5] Camus 2006a: 64.
[6] Camus 2006b: 831.
[7] Camus 2006a: 107.
[8] Camus 2006a: 68.
[9] Camus 2006c: 322.
[10] Camus 2006a: 869-870.
[11] Camus 2006b: 746.
[12] Camus 2006b: 742. La conferenza La Crise de l’homme è stata pronunciata per la prima volta negli Stati Uniti il 28 marzo 1946.
[13] Camus 2006b: 751.
[14] Camus 2006b: 340.
[15] Camus 2006b: 740.
[16] Ibidem.
[17] La concezione di Camus pare qui di schietta ascendenza heideggeriana. Heidegger scriveva infatti, in La Logique comme question en quête de la pleine essence du langage (del 1934): «La storia – e allo stesso modo il tempo – è qui concepito come uno svolgersi che concepiamo distante da noi […], che si sviluppa davanti a noi […]; questa rappresentazione ci è restituita quasi facesse tutt’uno con la nostra natura; noi non vediamo [più] alcuna possibilità di pensare e di interrogarci» (Heidegger 2008: 129)
[18] Camus 2006c: 1124-1125.
[19] Camus 2006b: 436.
[20] Kojève 1968. Dopo aver affermato nel 1946, contro l’ottimismo della dialettica hegeliana che il processo storico poteva arrestarsi e che «in questo caso l’Uomo cesserebbe di essere umano» (p. 492 nota 1), nel 1948 Kojève riconosce che quest’eventualità non è più ipotetica: «il ritorno dell’Uomo all’animalità appare non più come una possibilità futura, ma come una certezza presente» (p. 437).
[21] Camus, 2006c: 318.
[22] Cfr. Camus 2006c: 307: «La storia, senza valore che la trasfigura, è retta dalla legge dell’efficacia».
[23] Vauvenargues 1747, massima n.201. Per il commento di questa filosofia dell’attività e dell’interdipendenza ci permettiamo di segnalare il nostro testo (Bove 2015). Il pensiero di Camus si iscrive, sotto molti punti di vista, in una filiazione vauvenarghiana, nel senso in cui Camus e Vauvenargues costruiscono le loro rispettive opere e le loro filosofie dell’immanenza a partire da una stessa matrice filosofica: la concezione pascaliana della «seconda natura».
[24] Camus 2006c: 299 (la precisazione in parentesi quadre è nostra).
[25] Camus 2006c: 76.
[26] L’espressione «la pienezza dell’essere» è utilizzata da Camus con riferimento a Bielinski che contesta Hegel: «Bielinski ha compreso che ciò che desiderava non era l’assoluto della ragione, ma la pienezza dell’essere. Si rifiuta di identificarle» (Camus 2006c: 191).
[27] Camus 2006c: 321.
[28] Camus 2006c: 300.
[29] Camus 2006c: 75.
[30] Camus 2006a: 1030-1031.
[31] Ivi: 1044.
[32] Ivi: 1053.
[33] Camus 2006d: 938.
[34] Ivi: 927.
[35] Camus 2006c: 148.
[36] Camus 2006c: 268-269.
[37] Camus 2006a: 1269 (Minuta della lettera a M. Hädrich, corsivo mio). In chiusa al capitolo Révolte et art de L’Homme révolté, Camus, dopo aver citato Nietszche che vuole sostituire il «creatore» al «giudice» e al «repressore», continuava immediatamente «dramma della nostra epoca o il lavoro, sottoposto interamente alla produzione, ha cessato d’essere creativo» (Cfr. Camus 2006c: 296). Il mondo del giudizio e il mondo della produzione sono dunque un solo e medesimo mondo in cui l’«unità è quella del nichilismo» (Ibid.). E Meursault è la potenza attiva della loro sovversione.
[38] Camus 2006d: 925.
[39] Cfr. Bove 2014.
[40] Si pensi a Heidegger quando insegnava nel 1934 che l’esistenza come esposizione al-di-fuori era correlativa all’esplosione del soggetto in La Logique comme question en quête de la pleine essence du langage (Cfr. Heidegger 2008: 192).
[41]  L’espressione viene da Heidegger. È la traduzione dal tedesco, di Franck Fischbach, dell’In-der-Welt-sein, in Fischbach 2011: 11.
[42] Camus 2006b: 849.
[43] Camus 2006c: 319-320.
[44] Per avere un’idea più ampia della questione ci permettiamo di consigliare la lettura della nostra opera (Bove 2014).

 

 

 
Bibliografia

 
Bove, L. (2014), Albert Camus, de la transfiguration. Pour une expérimentation vitale de l’immanence, Paris, Publications de la Sorbonne.
Bove, L. (2015), Vauvenargues ou le Séditieux, Entre Pascal et Spinoza, une philosophie pour la seconde nature, Paris, éditions Honoré Champion, 2015.
Camus, A. (2006a), Œuvres complètes, Tome I (1931-1944), Paris, Bibliothèque de la Pléiade.
Camus, A. (2006b), Œuvres complètes, Tome II (1944-1948), Paris, Bibliothèque de la Pléiade.
Camus, A. (2006c), Œuvres complètes, Tome III (1949-1956), Paris, Bibliothèque de la Pléiade.
Camus, A. (2006d), Œuvres complètes, Tome IV (1957-1959), Paris, Bibliothèque de la Pléiade.
Fischbach, F. (2011), La privation de monde. Temps, espace et capital, Paris, Vrin, 2011.
Kojéve, A. (1968), Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phénoménologie de l’Esprit, Paris, Gallimard.
Heidegger, M. (2008), La Logique comme question en quête de la pleine essence du langage, Paris, Gallimard.
Michelet, J. (1965), Le Peuple, Paris, Julliard.
Nietzsche, F. W. (1971), Généalogie de la morale, inŒuvres philosophiques complètes, VII, Gallimard: Paris, Gallimard, 1971, p. 238.
Vauvenargues, L. (1747), «Réflexions et Maxismes», in Introduction à la connaissance de l’esprit humain, Paris, Brisson

 

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