«In nihilum decidere». “Negatività” della creatura e nichilismo del peccato in Tommaso d’Aquino

Massimiliano Lenzi

(Sapienza, Università di Roma)
massimiliano.lenzi@uniroma1.it

 
 
Robert A Heremit1
Abstract: Thomas Aquinas was a major representative of a new ontological idea of nature, which was shaped in accordance with Christian theological notions in the context of medieval Aristotelianism. The crucial assumption of this idea was the concept of creation, which determined a radical rethinking of the autonomy that featured order and finality of the Aristotelian physis. Conceived of as a creature, that is, made from nothing in order to be an instrument of the Providence, nature was rooted in and contained by the divine power, upon which not only its existence, but also the realization of its potentialities, ultimately depended. The “nothingness” of the creature (namely, the fact that it was no more than nothing per se) implied a constitutive ontological and moral precariousness: nature could find stability and foundation only in the Godhead, from which it derived its origin and subsistence. Any claim of autonomy not only was improper and weak-willed, but represented a nihilistic act of annihilation of the self, preferring its nothingness and the nothingness of the sin rather than God. Like in Augustine, the nothingness of the creature represented the metaphysical ground of the analogy between creation and redemption, as it brought nature back to the full and unconditioned availability of its Creator.
 
Key-words: Thomas Aquinas; Medieval Aristotelianism; Nothingness; Nature; Grace.
 
 

  1. L’idea di natura e la costituzione teologica dell’aristotelismo medievale

Che l’ingresso della filosofia di Aristotele prolunghi e rinnovi un’idea di natura intesa come contesto ordinato di cause, idea che nel corso del XII secolo aveva trovato «il primo e più cospicuo successo» (Gregory 1992, 114, n. 112), è una tesi che nel suo complesso mi sembra difficile poter mettere in discussione[1]. Un’ampia e crescente documentazione mostra da una parte come un nuovo sapere scientifico e filosofico, trasmesso a partire dalla seconda metà dell’XI secolo dai greci e dagli arabi ed estraneo alla tradizione altomedievale, si costituisca come una chiave ermeneutica che permette di immaginare nuove spiegazioni fisiche e razionali del mondo e della sua creazione, e dall’altra come la ricezione del nuovo Aristotele, inizialmente filtrata attraverso Avicenna, maturi in questo contesto, prolungandone e potenziandone la prospettiva attraverso nuovi e impensati standard di scientificità destinati a culminare in un ideale di sapere puramente filosofico e razionale. In evidente continuità e sviluppo XII e XIII secolo segnano quindi un’indiscutibile novità «nella cultura e nella spiritualità medievale» (Gregory 1999, 807).

Tuttavia, al di là di una retorica dell’acculturazione, resta da vedere in che modo un’immagine della natura come quella aristotelica, in linea di principio estranea alla tradizione religiosa cristiana, si sia potuta costituire in corrispondenza di un sapere teologico e cristiano e quindi in che modo abbia potuto acquisire senso all’interno dei modelli e dei valori di un sapere che pure ha contribuito a trasformare e a riadattare[2].  Nel corso del XIII secolo Aristotele si impone non solo ai maestri delle Arti ma anche ai teologi, e tutti – benché «ciascuno a suo modo» (Bianchi 1990, 5-6) – finiscono con l’accettare l’immagine aristotelica del mondo e della natura (Nardi 1966, 4). Un’immagine, quindi, che proprio perché recepita da tutti non si pone in linea di principio fuori o contro l’ideologia religiosa della cristianità medievale – sebbene la storia della sua ricezione sia anche una storia di conflitti, di separazioni, di condanne e di interdizioni (Bianchi 1999) –, ma anzi con quella ideologia in molti casi si coordina e armonizza, fino a sostanziarne come vedremo il discorso teologico.

Un primo dato da sottolineare, allora, è che la nuova idea di natura che si costituisce nel corso del XIII secolo esprime, in un crescendo di rigore teorico e di consapevolezza epistemica, un’autonomia di principi e funzioni che non è assoluta, ma relativa e condizionata – anzi che, a rigore, se si privilegia l’interpretazione teologica di Tommaso d’Aquino, non è affatto una forma di autonomia.

In Tommaso la ‘natura’, pur dotata di una propria consistenza ontologica che ne regolarizza i fenomeni e ne costituisce un principio autentico di spiegazione, non solo dipende da una causa prima, ma ne dipende in un modo rispetto al quale, come vedremo, appare del tutto fuorviante parlare di autosufficienza. È chiaro infatti che la dipendenza teologica del mondo non costituisce un fattore meramente estrinseco della natura, perché – ed è la tesi che proverò ad argomentare in questo studio – una volta pensata nella sua radicalità essa si configura come il principio di determinazione di una condizione “cristiana” della natura, vale a dire come il principio di una natura le cui ragioni nascono e si costituiscono alla luce di una finalità eminentemente teologica e religiosa[3]. Una natura, per dirla in breve, per la quale vale meno una definizione di autonomia che di teonomia e della quale il senso religioso resta non solo impregiudicato ma, grazie all’Aristotele medievale, addirittura esaltato[4]. Difficile del resto anche solo immaginare, da un punto di vista critico, che le cose possano stare diversamente.

Qualsiasi indagine e ricostruzione banalmente archeologica non può in effetti non interrogarsi, come ho anticipato, sulle specifiche condizioni di pensabilità di questa nuova idea aristotelica di natura, verificando come essa si sia effettivamente formata in un orizzonte epistemico e culturale dominato dall’esperienza cristiana. Mi sembra infatti evidente, parafrasando Alain de Libera (2005, 142), che un cristiano non possa professare qualsivoglia teoria della natura. Il Cristianesimo ha quindi imposto delle scelte in materia di filosofia e l’Aristotele medievale è in primo luogo il risultato di queste scelte[5].

Della filosofia aristotelica della natura si deve allora pensare che nel corso del XIII secolo ci sia stata meno un’assimilazione nella sua pretesa neutralità religiosa che una consapevole e attiva integrazione e che, grazie anche a uno straordinario fenomeno di platonizzazione[6], di questa filosofia si sia inizialmente promossa una interpretazione radicalmente teologica: espressa dal primato di un Dio situato al centro dell’universo e da cui tutto ciò che è trae non solo l’esistenza ma anche il significato e la giustificazione[7]. A testimoniarlo, tra l’altro, il fatto che mentre Aristotele non si pone il problema dell’essere e della sua ragione – per Aristotele il fatto che la natura o una cosa sia non ha bisogno di alcuna giustificazione (cfr. Phys II, 1, 193a3-6, Met VI, 1, 1025b7-13 e Met VII, 17, 1041a10-15) –, l’Aristotele medievale e nella fattispecie l’Aristotele di Tommaso mettono al centro della loro riflessione la natura del fondamento (Pangallo 2004). E se è ragionevole dubitare che la questione «metafisica per eccellenza» – la domanda fondamentale: “perché c’è qualcosa piuttosto che niente” – possa avere senso nell’orizzonte teorico e metafisico di Aristotele (Narbonne 20012, 15), appare significativo della profonda trasformazione storica della sua filosofia il fatto che una delle prime attestazioni di questa domanda appaia invece in un commento medievale ad Aristotele[8]. Del resto il dio aristotelico, causa esclusivamente del movimento del primo cielo, è parte integrante del mondo e non causa trascendente della sua esistenza come il Dio medievale. E mentre Aristotele fa di questo primo motore un ente del mondo la cui essenza è il pensare, l’Aristotele medievale – e l’Aristotele di Tommaso in particolare – fa di Dio l’essere per essenza, causa e principio esemplare di tutti gli enti, costituendolo come il fondamento assoluto di una ontoteologia eminentemente “cristiana”[9].
 
 

  1. Creatio ex nihilo

La creazione dal nulla è, come è noto, dottrina teologica costituitasi nel Cristianesimo del II secolo a partire dall’esegesi del testo biblico, sotto l’influenza delle controversie gnostiche e marcionite e attraverso il confronto con l’insegnamento filosofico. In base a questa dottrina si è venuta storicamente affermando l’idea che tutta la realtà, compresa la materia, ha la sua origine in Dio, che Dio trascende un mondo a cui preesiste e che l’azione divina è libera perché, esercitandosi a partire dal nulla, cioè da alcunché di preesistente, è assolutamente incondizionata. Se il ‘nulla’ in senso proprio e assoluto può mai essere considerato un principio di libertà, esso lo è nel Medioevo cristiano solo per Dio[10].

Ora, forte di una tradizione teologica ormai millenaria, Tommaso pensa che la creazione dal nulla sia stata profetizzata da Mosè, ma che non sia soltanto la fede a tenerla per ferma, ma anche la ragione a dimostrarla (In II Sent, d. 1, q. 1, a. 2). Quel che però a suo giudizio sfugge a una prova dimostrativa è la “novità” della creazione ovvero il suo cominciamento, un fatto che dipendendo dalla libera volontà divina non può che porsi come esclusivo articolo di fede[11].

Tommaso in effetti distingue la creazione del mondo dal suo inizio “nel” tempo e diversamente da Bonaventura non considera l’eternità del mondo una tesi irrazionale, di cui sia possibile dimostrare la falsità, perché ritiene che l’eternità non contraddica l’idea di creazione[12]. Se Dio avesse voluto, il mondo avrebbe potuto essere creato ab aeterno, che è la tesi che tendenzialmente Tommaso attribuisce ad Aristotele[13]. Una tesi che, fondata su una peculiare interpretazione della locuzione ex nihilo, rappresenta nel suo complesso un fatto di assoluto rilievo teorico, perché consente a Tommaso di appropriarsi dell’ontologia aristotelica e di elaborare dal suo interno la propria dottrina teologica.

È stato detto (Van Steenberghen 1974, 98-102) che quando si studia la filosofia medievale è sempre difficile stabilire con certezza gli apporti del Cristianesimo, perché non bisogna confondere una verità rivelata e l’elaborazione filosofica del suo oggetto. La rivelazione può ad esempio aver suggerito l’idea di creazione, ma essa è diventata una nozione filosofica solo quando la ragione se ne è impadronita, rielaborandola in modo puramente logico e razionale. Ora questa obiezione vale se si assume a canone di interpretazione una distinzione epistemologica, quella tra fede e ragione e tra teologia e filosofia, che in realtà dovrebbe essere essa stessa oggetto di spiegazione, e se si ammette un ideale astratto e universale di ragione, che esclude qualsiasi forma storica ed empirica di determinazione. Ma se ci si interroga sulle forme storicamente assunte dal pensare, a me sembra che il caso della creazione mostri, all’opposto, come le credenze del Cristianesimo siano in Tommaso preordinate al discorso filosofico e vi entrino come elemento costitutivo. L’origine dal nulla non rappresenta infatti un modo estrinseco e indifferente di porre il mondo e dare inizio alla sua esistenza – un mero presupposto deista di una concezione della realtà per il resto «chiusa a ogni esito soprannaturale» (Gregory 1992, 25) –, ma costituisce il principio di un rapporto di dipendenza intrinseco e finalizzato e quindi un principio fondamentale di intelligibilità che spiega perché il mondo sia quel tipo di ente che è, con pesanti ripercussioni sulla sua natura, sul suo funzionamento e sul suo destino.

Vediamo allora in che modo questo accada, partendo dal significato che per Tommaso assume la provenienza dal nulla (ex nihilo) della creatura.
 
 
2.1. La natura come creatura
 
Conformemente a una consolidata tradizione teologica, ma che qui è fatta valere da un punto di vista puramente razionale, il ‘nulla’ a partire dal quale si esercita la creazione designa secondo Tommaso il ‘non essere’ preso nel suo senso più forte e radicale, vale a dire in quello di ‘niente’ (nullum ens), cioè di un ‘non essere’ che non è semplicemente privazione di qualcosa di determinato ma assoluta mancanza di essere, puro nulla (ex non ente quod est nihil) (ST I, q. 45, a. 1)[14]. Creare dal nulla significa dunque produrre l’essere senza partire da alcunché di preesistente e di increato – non c’è nulla, scrive Tommaso (In II Sent, d. 1, q. 1, a. 2), che preesista alla creazione quasi fosse non creato (nihil est quod creationi praeexistat quasi non creatum) – e questo differenzia la creazione sia dalla generazione, che presuppone una materia, sia dall’alterazione, che presuppone il subjectum già determinato. Nella locuzione ex nihilo la preposizione ex non può allora indicare la causa materiale[15], e non solo perché come si è appena detto non esiste alcun sostrato preesistente da cui sia tratta la creatura, ma perché il nulla non entra a far parte della creatura come un suo principio intrinseco e costitutivo – benché come vedremo ne caratterizzi “negativamente” la natura, che in questo senso può dirsi propriamente tratta dal (proprio) nulla.

La preposizione ex designa piuttosto un ordine di priorità, come quando diciamo – spiega Tommaso (ST I, q. 45, a. 1, ad 3) – che dall’alba si fa giorno (ex mane fit meridies), volendo dire che il giorno segue l’alba o si fa dopo l’alba (post mane). Ex nihilo significa quindi l’ordine con cui l’essere segue il ‘non essere’, indicando la precedenza del nulla. Ma se per Bonaventura, come si è accennato, questa precedenza è di ordine temporale, per Tommaso, che prolunga qui un’intuizione metafisica di Avicenna, il non essere precede l’essere per una priorità di natura (prioritate naturae) e questo perché «a ciascuna cosa appartiene prima per natura ciò che essa non ha da altro, rispetto a ciò che essa ha da altro [prius enim unicuique inest naturaliter quod non ex alio habet quam quod ab alio habet]», tanto è vero – aggiunge Tommaso – che se la creatura venisse abbandonata a se stessa, ne conseguirebbe il nulla (In II Sent,  d. 1, q. 1, a. 2)[16].

Ex nihilo significa allora, a seconda del senso importato dalla preposizione ex, sia da nulla di preesistente, sia a partire dalla precedenza metafisica e naturale del nulla, la quale indica la relazione di dipendenza ontologica e causale che lega indissolubilmente la creatura al suo Creatore. Ed è in questo modo, per Tommaso, che la nozione di creazione è non solo credibile ma anche dimostrabile e come tale difesa dai filosofi[17].
 
 

  1. Tra l’essere e il nulla: la sospensione della creatura

Quella attribuita ai filosofi è allora una tesi di non poco conto e cioè che la natura, in quanto creatura, se considerata a prescindere dalla sua relazione divina e causale (sine respectu ejus ad Deum), è di per sé nulla (est nihil), ‘niente’ (non ens), pura mancanza di essere (defectus essendi)[18], dove la “negatività” si configura come la nota costitutiva del suo concetto sotto l’angolatura della perseità, vale a dire dell’autonomia e dell’indipendenza, con delle conseguenze e delle implicazioni che è bene precisare.

Tommaso afferma – lo si è visto incidentalmente ma è un’affermazione assolutamente centrale e ricorrente – che la “negatività” della creatura è tale per cui, abbandonata a se stessa, ricadrebbe nel nulla. A suo giudizio è dunque una tesi non meno dimostrabile che credibile quella secondo la quale la natura è non solo creata ma anche conservata nell’essere dall’incessante influenza del suo creatore.

Creazione e conservazione appaiono qui strettamente implicate.

Tratta dal nulla e perciò creata anziché generata, la creatura non riceve un essere assoluto (esse absolutum), vale a dire di per sé sussistente, come l’essere del Figlio generato dal Padre, ma un essere creato, cioè dipendente dall’essere del suo Creatore (In II Sent, d. 1, q. 1, a. 2). La negatività della creatura non esprime altro, quindi, che la sua dipendenza, e rimanda alla differenza (onto)teologica tra l’essere per essenza e l’essere per partecipazione – distinzione con cui Tommaso rilegge in chiave platonizzante la nozione aristotelica di omonimia dell’essere e che è alla base della sua dottrina dell’analogia[19]. Il punto però è che per Tommaso la dipendenza ontologica che caratterizza la creatura fa dell’essere creaturale l’effetto di una causa per il quale vale, come per ogni effetto, un principio di simultaneità. Le cause esistono sempre contemporaneamente ai loro effetti, per cui – afferma Tommaso, citando ancora Avicenna (LPP VI, cap. 2, 301-302) – «nessun effetto può rimanere se è rimosso ciò che ne costituiva la causa in quanto tale [nullus effectus potest remanere, si auferatur id quod erat causa eius inquantum huiusmodi]» (QDV, q. 5, a. 8, ad 8). Dio, che è l’essere per essenza, ha come proprio effetto l’essere creato. Questo effetto, quindi, non è causato solo nell’istante in cui la creatura è tratta all’essere, ma in modo continuativo per tutto il tempo in cui la creatura si conserva nell’essere, proprio come – spiega Tommaso (ST I, q. 8, a. 1) – la luce causata nell’aria dal sole dura fintantoché dura la sua illuminazione da parte del sole (sicut lumen causatur in aëre a sole quandiu aër illuminatus manet).

L’esempio dell’azione del sole è ricorrente e nella questione della conservazione delle creature serve a Tommaso a dare intelligibilità alla sua tesi metafisica, presupponendo una distinzione tra causa del divenire (causa fiendi) e causa dell’essere (causa essendi): una distinzione cruciale, che va correttamente intesa perché se ne possa cogliere qui tutta la portata euristica.

Facendo appello a questa distinzione, Tommaso vuole mostrare come in ogni relazione causale la durata dell’effetto dipenda sempre dalla durata della causa nell’esatta misura in cui questa è causa. Tommaso cioè vuole dire che, se si vuole cogliere la portata davvero universale del principio di simultaneità, occorre appropriare gli effetti alla natura della causa.

Alcuni agenti – spiega allora Tommaso (ST I, q. 104, a. 1) – sono cause dei loro effetti non quanto all’essere ma quanto al divenire, come ad esempio tutti gli agenti artificiali o naturali che producono una forma a partire dalla potenza della materia. Tommaso pensa qui ai processi naturali di generazione, di cui i processi teleologici dell’arte costituiscono il modello di rappresentazione. E sulla base di questa analogia stabilisce, come principio generale, che a rientrare nella categoria delle cause del divenire sono tutte le cause univoche, vale a dire tutte quelle cause che appartengono alla stessa specie dei loro effetti e che per questo non possono essere cause del loro essere, perché –precisa Tommaso – altrimenti sarebbero cause anche di se stesse. Ogni qual volta quindi un effetto naturale è configurato secondo la medesima natura dell’agente, da quell’agente dipende per il suo divenire ma non per il suo essere[20].

Ora, il punto è che esattamente come il divenire di una natura non può perdurare se cessa l’azione della sua causa (generatio autem cessat, cessante operatione generantis), così non può perdurare il suo essere se cessa l’azione della causa da cui quell’essere dipende. Ed è questa – scrive Tommaso in un testo che vale la pena riportare per intero – la ragione per cui

 

l’acqua rimane calda, pur cessando l’azione del fuoco, mentre l’aria non resta illuminata neppure un istante, al cessare dell’azione del sole […], perché la materia dell’acqua è capace di ricevere il calore del fuoco secondo la medesima natura che ha nel fuoco [secundum eandem rationem qua est in igne]; quindi se viene portata a possedere perfettamente la forma del fuoco, manterrà il calore per sempre; se invece partecipa della forma del fuoco in modo imperfetto, il calore non vi rimarrà sempre, ma per un certo tempo, a causa di quella debole partecipazione del principio del calore. L’aria invece non è affatto disposta a ricevere la luce secondo la medesima natura in cui si trova nel sole, in modo cioè da ricevere la forma del sole che è il principio della luce: perciò al cessare dell’azione del sole, cessa anche la luce, perché non ha nell’aria la sua radice [quia non habet radicem in aerem]. Ora ogni creatura è in rapporto a Dio come l’aria in rapporto al sole che la illumina. Come infatti il sole è lucente per sua natura, mentre l’aria diventa luminosa partecipando la luce del sole, senza tuttavia partecipare la natura del sole, così Dio è il solo ente per essenza [solus Deus est ens per essentiam suam], giacché la sua essenza è il suo essere [quia eius essentia est suum esse], mentre ogni creatura è invece ente per partecipazione [omnis autem creatura est ens participative] e non tale che la sua essenza sia il suo essere. E pertanto, come dice Agostino (DG IV, 12, 22), ‘se per ipotesi la potenza di Dio cessasse di sostenere le cose create, cesserebbe all’istante anche la loro specie e ogni natura verrebbe meno’. E ancora (DG VIII, 12): ‘Come l’aria diventa luminosa alla presenza della luce, così l’uomo si illumina quando Dio gli è presente; mentre subito si ottenebra quando Dio si ritrae’. (ST I, q. 104, a. 1).

Il fenomeno dell’illuminazione, ricondotto a quello della creazione, serve dunque a spiegare la ragione della dipendenza creaturale. Fatte le debite distinzioni, la tesi di Tommaso è che la creatura è in rapporto a Dio che la crea come l’aria illuminata è in rapporto al sole che la illumina. E come l’aria si illumina partecipando della luce del sole senza partecipare della sua natura, così la creatura esiste partecipando dell’essere di Dio senza partecipare della natura divina. Esistendo allora senza che la sua esistenza sia la sua essenza (così come la luce che illumina l’aria non è l’essenza di una sostanza luminosa), la creatura non può sussistere al di fuori dell’atto creativo che la produce e che la conserva. È solo in Dio infatti, come nella sua causa, che l’essere della creatura ha il proprio naturale fondamento.
 
 
3.1. Per modum intentionis. L’infondatezza della creatura
 
Ora, benché la luce eserciti un effetto fisico e naturale e perciò non abbia in senso proprio quello che i medievali chiamano uno statuto intenzionale (cfr. ST I, q. 67, a. 3), Tommaso non si esime dal riconoscere che essa esiste nell’aria «non come una forma naturale perfetta quale si trova in un corpo luminoso [non […] sicut quaedam forma naturalis perfecta prout est in corpore lucido], ma piuttosto al modo di un’intenzione [sed magis per modum intentionis]» (QDP, q. 5, a. 1, ad 6).

Intentio è qui termine tecnico ed esprime, nel quadro di una teoria aristotelica della percezione e sulla base di una sua significativa trasformazione (Lenzi 2014), lo statuto spirituale che la forma sensibile ha nel “senso” o nel medium che la trasmette (ST I, q. 56, a. 2, ad 3) rispetto allo statuto naturale che ha nella cosa sensibile (In DA II, cap. 14, 127-128, ll. 262-304). La tesi di Tommaso è che, mentre nella cosa sensibile la forma si realizza fisicamente, trovando stabilità e fondamento naturale nella determinazione della materia e nella costituzione di un’essenza, nell’organo di senso essa si manifesta solo spiritualmente perché la materia che la riceve non si fa sostrato delle sue proprietà naturali, ma come uno specchio ne riceve l’impressione senza subirne la determinazione. Di qui l’instabilità dell’essere intenzionale che si esprime nell’instabilità dell’immagine riflessa nell’acqua o riverberata nell’aria e la cui caratteristica è quella di essere un effetto transitorio e solo apparente, incapace di costituire, col soggetto in cui si manifesta, un’essenza in cui fondare la propria esistenza[21].

Questa è probabilmente l’idea che sta dietro la considerazione di Tommaso. Per Tommaso, cioè, il fatto che la luce non esista nell’aria come esiste nel corpo luminoso, vale a dire come principio costitutivo del suo fondamento sostanziale, ma vi esista come un’attività estrinseca che dipende dall’azione di un principio ulteriore, suggerisce che essa vi esista, nella sua infondatezza, al modo di un’intenzione, vale a dire come in sospensione. Del resto, quando Tommaso afferma che la luce è accolta nell’aria senza quella disposizione che le consente di essere ricevuta secondo la medesima natura in cui si trova nel sole, è proprio all’infondatezza del modo di essere intenzionale che fa allusione[22].

Ma se le cose stanno così, allora, attraverso l’equivalenza con la luce, Tommaso traccia i termini di una possibile convergenza tra il modo di essere dell’intenzione e quello della creatura, la quale, in ragione della sua negatività, appare analogamente «sospesa sulla propria infondatezza» (Givone 19963, 200). Naturalmente si tratta solo di un’analogia, per quanto suggestiva. A differenza dell’intenzione, infatti, la creatura non è un’entità in fieri ma una natura assolutamente determinata, su cui si fonda un modo di essere naturalmente perfetto (QDP, q. 5, a. 1, ad 6). Dal punto di vista formale e quidditativo Tommaso difende l’assoluta consistenza ontologica della creatura, fino al punto di immaginare, come è noto, «creature formalmente necessarie» (Porro 2012a, 449). L’analogia regge invece se si considera l’essere come una proprietà assoluta, a prescindere da qualsiasi determinazione predicativa. È a questo livello che Tommaso immagina una radicale dipendenza della creatura, la quale esiste sospesa sul nulla della propria perseità al modo di un’intenzione. «L’essere – scrive infatti Tommaso – non è la natura o l’essenza di alcuna creatura [esse autem non est natura vel essentia alicuius rei creatae], ma solo di Dio. […]. Nessuna cosa può allora conservarsi in essere cessando l’operazione divina» (SCG III, 65).

A questo si può poi aggiungere che l’essere partecipativo della creatura, essendo derivato da quello identitario e per essenza del Creatore, si costituisce secondo un rapporto di somiglianza e di imitazione che esprime proprio questo rapporto di derivazione (ST I, q. 15, a. 2). Immagine del suo Creatore, l’essere creaturale ne è quindi a pieno titolo una rappresentazione, cioè una forma che ne indica ed esprime la natura e la perfezione. Se allora si considera che proprio questa è la funzione dell’“intenzione” medievale, vale a dire annunciare e significare un oggetto in qualità di sua immagine e figura – dove la somiglianza costituisce il fondamento del tendere a ciò di cui l’intentio è somiglianza –, difficile non cedere di nuovo alla suggestione di cogliere nella relazione di somiglianza della creatura il valore rappresentativo che contraddistingue l’“intenzione”. Una prospettiva che evidentemente non spezza quella «mentalità simbolica» e religiosa che in realtà «domina tutta la contemplazione» medievale «della natura» (Gregory 1992, 85), sebbene adesso non sia più la realtà immediatamente sensibile ma la sua ontologia a farsi analogia e teofania, attraverso una distribuzione dell’essere regolata secondo il grado di partecipazione alla perfezione divina (Courtine 2005, 250).
 
 
3.2. In virtute Dei. La strumentalità della creatura
 
È chiaro allora perché Tommaso possa affermare che se la creatura fosse lasciata a se stessa verrebbe annichilita. Costituita a partire dal nulla e sospesa sul nulla della propria infondatezza, la creatura ha bisogno di essere costantemente sostenuta da un’incessante influenza del suo creatore.

Si tratta di una condizione necessaria, imposta alla creatura dalla sua “negatività”.

Tommaso tuttavia non vuole dire che nella creatura sussiste una capacità (potentia) di annullamento (ST I, q. 75, a. 6, ad 2) ma solo ribadire la dipendenza della creatura dal suo Creatore (ST I, q. 50, a. 5, ad 3), affermando l’assoluta e incondizionata libertà con cui quest’ultimo le offre il proprio sostegno. Dire per Tommaso che non è impossibile che Dio riduca al nulla la creatura significa in altri termini che non è per una qualche necessità, che non sia quella condizionata della sua eterna e immutabile volontà, che Dio la conserva nell’essere (QDP, q. 5, a. 3).

La creatura quindi non tende attivamente verso il nulla, semplicemente essa è priva di per sé di quella forza assoluta che le permetterebbe di permanere nell’essere nel momento in cui Dio le dovesse sottrarre il proprio sostegno. Senza il fondamento divino la creatura precipita, perché essendo derivata dal nulla essa non può essere fondamento a se stessa: non è infatti per sé ma in virtù di altro. L’annichilazione della creatura non dipende allora da una azione corruttiva del nulla – il nulla non è un misterioso agente patogeno (benché, come vedremo, sia una condizione di instabilità morale) – ma da una mancanza di essere al di fuori e indipendentemente dalla potenza divina.

La negatività della creatura esige dunque un’azione divina, per la quale vale secondo Tommaso un adagio di Gregorio Magno (Mor XVI, 37): «Tutte le creature cadrebbero nel nulla [omnia in nihilum deciderent], se la mano dell’onnipotente non le contenesse [nisi ea manus omnipotentis contineret]» (QDP, q. 5, a. 1, sc 3)[23].

Si tratta di un’immagine potente, che così come recepita e sviluppata da Tommaso prolunga nella metafora del contenimento (e dell’illuminazione) alcuni tratti del dualismo plotiniano, una concezione in cui la necessità di pensare «l’immanenza» causale «di ciò che è ontologicamente» separato e «trascendente» porta a rovesciare «i termini della relazione tra l’essenza aristotelica e l’oggetto materiale» e a far sì che non sia più la forma a insistere sulla materia ma la cosa materiale a essere contenuta nella natura intelligibile, «in quanto trae da essa il proprio essere ed è contenuta dalla sua potenza» (Chiaradonna 2002, 135).

Che Tommaso tragga qui ispirazione da questa concezione lo prova il fatto che, riferendosi alla creatura contenuta nella potenza del Creatore, pensi a un preciso «tema» del dualismo plotiniano, quello del corpo contenuto nell’anima:

 

Sebbene le cose corporali si dicano essere in qualcosa come nel contenente [sicut in continente], tuttavia quelle spirituali contengono quelle in cui si trovano [tamen spiritualia continente a in quibus sunt], come l’anima contiene il corpo [sicut anima continet corpus]. Perciò anche Dio è nelle cose come loro contenente [unde et Deus est in rebus sicut continens res]. (ST I, q. 8, a. 1, ad 2).

Come ho cercato di mostrare altrove (Lenzi 2011, 14-16; 52-55 e 248-254), nel tentativo di adattare la teoria aristotelica dell’anima ai presupposti di un’antropologia teologica e cristiana, Tommaso attribuisce effettivamente alcuni tratti della causalità intelligibile plotiniana alla natura sui generis dell’anima umana. In larga parte questo è reso storicamente possibile dall’influenza che, attraverso Porfirio, le tesi plotiniane hanno avuto sul pensiero di Agostino (Catapano 2005). E del resto non è un caso che lo stesso adagio di Gregorio sia in realtà, come si è visto (cfr. il testo cit. sopra di ST I, q. 104, a. 1), di matrice agostiniana, a testimonianza di una precisa genesi dottrinale. Il punto tuttavia che mi preme adesso mostrare è che, assumendo qui questo modello per descrivere la relazione che sussiste tra la creatura e il Creatore, Tommaso lo riadatta alla propria ontologia e al proprio finalismo teologico. Il suo “platonismo” va quindi qualificato.

Nel caso del dualismo plotiniano la natura sensibile che di per se é «un ammasso di materia e qualità» (Enn. VI 3[44],8.20) è di fatto priva di capacità e di funzioni che non siano quelle proprie della sostanza intelligibile. Tommaso invece, conformemente alla sua ontologia aristotelica della forma, attribuisce alla natura una virtù propria, polemizzando a tal proposito con quelle “teologie” platonizzanti che riservano solo a Dio tutto il potere e l’iniziativa causale (cfr. Gilson 1926). L’esistenza e l’esercizio delle capacità naturali resta tuttavia possibile solo in virtù dell’azione divina che per così dire sovradetermina quella della natura. Pur dotata quindi di un principio interno di operazione, e dunque di un’essenza e di una potenza, la creatura necessita parimenti di Dio per essere sostenuta e indirizzata nell’essere come nell’azione; e questo perché, creata dal nulla, essa dipende dal suo Creatore non solo per l’indigenza della sua natura ma anche per la trascendenza della sua destinazione, essendo strumento anziché artefice della sua realizzazione.

La questione è decisiva e investe il senso in cui Tommaso recepisce il principio dell’immanenza di una causa trascendente. La dottrina plotiniana della causalità intelligibile appare infatti trasposta in un quadro concettuale diverso, dove, variamente combinata con l’elemento aristotelico, è messa a servizio di un’istanza eminentemente teologica e cristiana.

In particolare, così come recepita da Tommaso, essa si inquadra in una creativa teologizzazione della metafisica del flusso dello pseudoaristotelico De causis, in cui esplicita e operante è l’idea che l’azione della causa seconda è sempre sostenuta e contenuta dall’azione della causa prima[24].

Applicando alla gerarchia (procliana) delle cause la struttura teleologica che in Aristotele contraddistingue i processi naturali e artificiali, Tommaso fa delle creature e delle loro nature qualcosa di analogo alle cause strumentali del finalismo aristotelico, costituendo quella che Wolfgang Wieland (19923, 255) ha definito una «teleologia cosmica universale», cioè, per dirla con una semplificazione, un’interpretazione strettamente causale dell’idea religiosa che il mondo abbia uno scopo e sia governato da una provvidenza divina[25]. Un’interpretazione, aggiungo, che a ben vedere si fonda sulla tesi teologica e metafisica della “negatività” della creatura. È infatti la radicale dipendenza dal creatore espressa da questa “negatività” che fa della creatura e della sua capacità di operazione uno strumento governato dalla provvidenza divina – la quale d’altra parte non è che un’istanza del principio di conservazione delle creature (SCG III, 65). Priva di un proprio autonomo fondamento e di una propria autonoma destinazione, priva in breve di senso al di fuori dell’essere attribuitogli dal suo Creatore, la creatura non può essere in nessun modo la causa «prima della propria autodeterminazione» (Long 2002, 361). Benché quindi dotata di una propria capacità d’azione, essa non agisce se non in virtù (nisi virtute) del suo Creatore, come strumento indirizzato dall’arte (CT I, cap. 130)[26]. E come allo strumento non compete di essere causa dell’effetto se non in quanto mosso, così tutto ciò che la creatura realizza, lo realizza come effetto proprio dell’azione divina (SCG III, 66).

Questo dunque il senso teologico e aristotelizzante assunto dalla tesi plotiniana del contenimento causale: la creatura trae dal Creatore il proprio essere ed è contenuta dalla sua potenza come lo strumento dall’arte. Dio pertanto è causa non solo dell’essere ma anche dell’operazione, e lo è non solo in quanto causa della virtù ma anche in quanto principio del suo esercizio e della sua applicazione, «per cui cessando l’influenza divina [unde cessante influentia divina], ogni operazione cesserebbe [omnis operatio cessaret]». Nella macchina del mondo, infatti, ogni operazione della natura deve essere attribuita a Dio come al suo primo e principale agente (omnis igitur operatio debet attribui Deo sicut primo et principali agente) (SCG III, 67) e la “negatività” della creatura non solo esprime la necessità di questa attribuzione, ma rappresenta anche la condizione della sua infallibile e predestinata realizzazione. È proprio perché creata dal nulla che la creatura, come vedremo, è nella piena e incondizionata disponibilità del suo Creatore.
 
 

  1. Il nulla, la natura e la grazia

Fatta dunque, nella sua infondatezza, non per sussistere al di fuori del governo divino ma per essere sostenuta e contenuta dal suo esercizio, la natura in quanto creatura ha nella potenza del Creatore il suo luogo naturale e costitutivo, il suo principio di nascita, di nutrimento e di crescita. In questo modo il cosmo aristotelico, originariamente concepito «come un tutto in sé ordinato e compiuto» (Scholem 1986, 44) e per questo rappresentato dall’immagine della sfera, «reificazione» geometrica di un’entità unica e perfetta, capace di contenere tutte le figure «senza eccedenze» perché luogo dei luoghi o luogo di massimo spazio «confinato» (Stabile 2012), si trova a essere immerso nella sfera infinita della potenza divina che ne scardina l’integrità e l’assolutezza rovesciandone l’autonomia in una radicale dipendenza e teonomia[27].

Questo spiega allora innanzitutto l’originaria creazione dell’uomo nella grazia e il fatto che la natura, pur essendo distinta da quest’ultima, non ne sia separabile senza subire una “lacerazione”[28]. Un punto a mio avviso cruciale, perché costituisce un chiaro principio di intelligibilità: in quanto creatura la natura non può essere separata dal proprio Creatore o, per dirla altrimenti, la natura è fatta per essere contenuta e governata dalla potenza divina. Ecco allora la sua condizione eminentemente cristiana. Una condizione per la quale è nella grazia e solo nella grazia, cioè in quella virtù sovrannaturale che la rende partecipe della vita divina, che la natura, in quanto creatura, conserva la sua piena e perfetta integrità, vale a dire il perfetto esercizio delle sue funzioni. Questa integrità è data infatti storicamente da alcuni privilegi che le derivano dalla grazia e che consentono alla natura non solo un potenziamento e un superamento delle sue facoltà – nello stato di giustizia originale Adamo gode di una rettitudine sovrannaturale, contraddistinta da una perfetta sottomissione del corpo all’anima e dell’anima a Dio (ST I, q. 95, a. 1, resp.) –, ma anche il raggiungimento e la conservazione di una soglia di eccellenza puramente naturale[29].

Il fatto è che la grazia costituisce quella condizione che rende possibile il pieno sviluppo di una vita razionale, condizione che l’uomo è destinato a perdere con il peccato.

Sebbene infatti secondo Tommaso il peccato non intacchi i principi della natura (Quelquejeu 1965), esso comporta, a seguito della sottrazione della grazia e della perdita della rettitudine, l’instaurazione di una disposizione contraria e quindi una progressiva diminuzione, umanamente irreversibile, dell’inclinazione alla virtù[30].

Ora, l’inclinazione alla virtù è quel naturale orientamento morale che compete all’uomo in quanto razionale (ST I-II, q. 85, a. 2). A diminuire è quindi nel suo complesso l’effettiva capacità dell’uomo di vivere secondo ragione (o natura), una capacità che trova invece piena realizzazione nello stato di grazia[31]. La natura dell’uomo (natura hominis) può essere allora considerata, come scrive Tommaso (ST I-II, q. 109, a. 2), in due modi (dupliciter): nella sua integrità (in sui integritate), come la si trova prima del peccato, o in uno stato di “corruzione” (secundum quod est corrupta). Ma questo significa che non esiste uno stato di natura pura, concepibile senza la grazia. Fuori dalla grazia infatti la natura non è nella sua purezza, perché il peccato ne limita le funzioni e le effettive possibilità. Pura è la natura integra, ma essa sussiste solo in un concreto stato di grazia e da quello stato dipende. Il che, di nuovo, non significa confondere natura e grazia – per Tommaso infatti «la grazia non rientra nella definizione della natura» (Torrell 2001, 184) –, ma riconoscere nella grazia l’unico orizzonte possibile di realizzazione della natura una volta intesa quest’ultima come creatura.

Si tratta a mio avviso di un punto decisivo, che spiega altresì il paradosso dell’intrinseca finalità della creatura, la quale è naturalmente destinata a un fine, la beatitudine, che per essere raggiunto necessita dell’aiuto sovrannaturale di Dio[32]. L’apparente squilibrio di questa prospettiva in realtà rappresenta perfettamente il superamento della “chiusura” della natura aristotelica, esprimendo la vocazione sovrannaturale di una natura eminentemente cristiana, in breve la sua destinazione creaturale[33]. Questo paradosso indica infatti che l’uomo non solo è creato «nella grazia» ma anche «per la grazia» (Nicolas 1974, 582) e che la realizzazione della sua natura – realizzazione in cui si misura la sua “libertà” – non può essere fuori ma dentro il governo della provvidenza divina.
 
 

  1. Il nulla, la caduta e la redenzione

In effetti la natura non può essere privata del governo divino. Il suo statuto creaturale esclude qualsiasi forma di indipendenza e di autodeterminazione che non sia un atto nichilistico di pura nullificazione. Vale naturalmente per l’essere (ma è un’ipotesi puramente controfattuale), ma soprattutto vale per l’agire morale.

Ogni creatura, che considerata in sé come abbiamo visto è nulla (in se considerata est nihil), può essere conservata nel bene che si addice alla sua natura soltanto dal Creatore. Da se stessa (per seipsam) essa può solamente allontanarsi dal bene (deficere a bono) (ST I-II, q. 109, a. 2, ad 2), perché le cose che sono state create dal nulla (ex nihilo), per sé – scrive Tommaso (QDV, q. 5, a. 2, sc 5) – tendono al nulla (per se in nihilum tendunt).

Non si tratta tuttavia, come si è già detto, di un movimento della natura in senso proprio, come se il nulla fosse un principio attivo, ma di un difetto (QDP, q. 5, a. 1, ad 16). L’origine dal nulla è ciò che determina la precarietà della creatura in ragione di un’imperfezione che consiste, mi pare, nella stessa delimitazione quidditativa propria dell’essere creaturale. Una delimitazione che in termini metafisici è espressa dal grado di potenzialità introdotto dalla determinazione formale rispetto all’assoluta attualità del puro atto di essere[34].

A questa potenzialità, allora, va ricondotta la possibilità di peccare[35], la quale non è una funzione della libertà della volontà (non pertinet ad libertatem voluntatis), ma di quella fragilità che le deriva dall’essere una volontà creata dal nulla (sed magis est conditio voluntatis deficientis in quantum est ex nihilo) (In I Sent, d. 42, q. 2, a. 1, ad 3)[36]. È dunque la negatività della creatura ciò che contraddistingue la causa del peccato e che la rende una causa propriamente in-efficiente – alla lettera difettosa o ‘de-ficiente’ (deficiens)[37].

Tommaso prolunga qui la grande tesi agostiniana secondo la quale il peccare non è un fare (effectio), ma un disfare (defectio) che ha il suo principio nella deficitarietà dello statuto creaturale e che questa deficitarietà tragicamente rivela (Lenzi 2009). Peccare è infatti un atto che nel suo nichilismo mostra ciò che è proprio di una creatura che si vuole indipendente: il “niente”. La creatura non è stata fatta per essere lasciata a se stessa. Una simile libertà presuppone infatti il fondamento del nulla, cioè una restituzione della creatura all’abisso della sua infondatezza in cui la creatura è libera solo di precipitare. Un destino simbolicamente prefigurato dalla caduta di Lucifero, alla cui origine, non a caso, c’è per Tommaso un peccato di indipendenza o, come ha scritto Pasquale Porro (2012b, 333), di «autosufficienza»: la pretesa di conseguire la beatitudine senza la grazia, di raggiungere il fine soprannaturale con le sole forze naturali.

Ricorda infatti Tommaso, che

 

il primo peccato del diavolo consistette nel fatto che per conseguire la beatitudine soprannaturale, consistente nella piena visione di Dio, non si innalzò verso Dio, insieme con gli angeli santi, come uno che desidera la perfezione finale in virtù della sua grazia [ex eius gratia], ma volle conseguirla con la potenza della propria natura [per virtutem suae naturae]; tuttavia non senza Dio che opera nella natura, ma senza Dio che conferisce la grazia [sine Deo gratiam conferente]. […] il diavolo non peccò desiderando un determinato male, ma desiderando un determinato bene, cioè la beatitudine finale non secondo l’ordine dovuto [non secundum ordinem debitum], cioè non in modo da conseguirla per mezzo della grazia di Dio [id est non ut consequendam per gratiam Dei]. (QDM, q. 16, a. 3).

Tenendo conto dell’ideale di felicità mentale formulato in quegli stessi anni ’70 dai maestri della facoltà parigina delle Arti, un ideale prettamente filosofico e intellettualistico, Porro (2012b, 333-334) ha ipotizzato che il peccato dei diavoli rappresenti qui «un peccato essenzialmente filosofico», ovvero che l’ideale puramente intellettuale degli Artisti sia apparso a Tommaso come «una tentazione in senso stretto luciferina». Un’associazione di idee certo non inverosimile, se solo si pensa che sempre in quegli anni, benché sulla base di finalità e presupposti ben diversi, nelle sue Collazioni sui sei giorni della creazione Bonaventura arriva a fare di Aristotele niente di meno che il principe delle tenebre filosofiche (BO, V, 360). Ma soprattutto un’associazione che ne evoca irresistibilmente una ulteriore, quella con il pelagianesimo, errore esplicitamente ravvisato dal vescovo Tempier nell’illusione “universitaria” (non meno luciferina che filosofica) di poter fondare la rettitudine della volontà non sulla grazia ma sull’autonomia e sull’autosufficienza dell’intelletto e della sua educazione:

 

Se la ragione è retta, la volontà è retta – è un errore, perché contrario alla glossa di Agostino sul detto del Salmo [118, 20]: ‘L’anima mia bramò di desiderare, ecc.’ e perché in base a questo principio alla rettitudine della volontà non sarebbe necessaria la grazia [ad rectitudinem voluntatis non esset necessaria gratia], ma solo la scienza [set solum scientia], che fu l’errore di Pelagio [quod fui error Pelagii]. (Piché 1999, 118)[38].

In uno studio precedente (Lenzi 2013, 154-163) ho provato a mostrare come, in un primo momento della sua riflessione teologica, Tommaso abbia difeso in materia di preparazione alla grazia e di giustificazione una tradizionale posizione sinergica che lui stesso non tarderà a definire pelagiana[39]. In base a questa posizione, concepita sulla base del meccanismo metafisico avicenniano della preparazione e del flusso, Dio predestina e dona la grazia a chi prevede che farà ciò che è in suo potere per prepararsi e disporsi alla sua ricezione. Una prospettiva nella quale la libera scelta dell’uomo esercita un effettivo ruolo causale che condiziona la scelta divina, come – spiega Tommaso – la qualità della materia a disposizione condiziona la scelta del costruttore, per cui considerato che questa pietra è adatta per le fondamenta (quod lapis iste est aptus ad fundamentum), questi decide di collocarla nelle fondamenta (vult ipsum in fundamento collocare) (In I Sent., d. 47, q. 1, a. 3).

Come ho già avuto modo di dire, il difetto di questa soluzione, dove il fine (la giustificazione) appare condizionato dai mezzi (la preparazione), deve essere apparso ben presto a Tommaso da un punto di vista non meno filosofico che teologico, inducendolo a rovesciare la prospettiva fino al punto di fare dell’intero processo di conversione un effetto della predestinazione e di ammettere che sia Dio che agostinianamente converte l’uomo per poterlo giustificare (Lenzi 2013, 163-167).

In base a questa nuova impostazione, coerente con i principi del finalismo aristotelico, all’iniziativa umana è restituito un ruolo puramente strumentale, mentre l’indeterminazione della materia è messa a servizio dell’idea predestinazionista di una radicale indifferenza delle creature, massa peccaminosa in cui solo l’indebita misericordia divina distingue gli eletti dai dannati e prepara a ricevere la grazia coloro che ha imperscrutabilmente deciso di salvare. È l’idea agostiniana del peccatore come pura nullità morale, che domanda l’indebito e incondizionato intervento di ri-creazione divina (Lenzi 2009). Un’idea che si fa progressivamente strada in Tommaso e che appare compiutamente testimoniata dal rovesciamento della metafora del costruttore, per cui il materiale a sua disposizione appare adesso completamente uniforme, e che questa o quella pietra (ricevuta la debita preparazione) si trovi in un posto dell’edificio piuttosto che in un altro dipende dalla semplice volontà dell’artefice (ex simplici voluntate artificis dependet quod ille lapis est in ista parte parietis, et ille in alia) (ST I, q. 23, a. 5, ad 3).

Ora, al di là della «piega» senza dubbio «sconcertante» (Porro 2012b, 461) assunta qui come altrove dalla teodicea di Tommaso, piega che il modello metafisico che la sostanzia ha, se possibile, l’effetto di potenziare, un punto merita una particolare attenzione, ed è la capacità che Dio ha di preparare la volontà dell’uomo, una possibilità che realizzata vale come atto indebito e predestinato di conversione. Tommaso pensa infatti che la volontà dell’uomo sia un causa libera e contingente e che tuttavia Dio possa mutarne l’intenzione, conformandola al proposito certo e infallibile della predestinazione, ma senza sottrarle la libertà di agire. In breve, senza imporre alla sua scelta necessità o determinazione (ST I-II, q. 10, a. 4)[40]. Una tesi di cui Tommaso può difendere la pensabilità in base alla natura assoluta e incondizionata dell’azione di Dio, il quale, avendo tratto le creature dal nulla ed essendo quindi la causa di quanto di più intimo (magis intimum) e profondo ci sia nella loro natura, è in grado di operare in maniera altrettanto intrinseca e appropriata i loro effetti (ST I, q. 105, a. 5). In qualità di causa e principio della sua potenza (SCG III, 88), questa in breve la tesi di Tommaso, Dio può muovere la volontà in modo assolutamente conforme alla sua natura, ovvero con la stessa naturalità con cui la muove il suo soggetto, facendone uno strumento con cui realizzare infallibilmente i propri propositi provvidenziali[41].

La dottrina della creatio ex nihilo, inquadrata in un ordine teleologico universale, permette allora di rendere conto in maniera perspicua di tutte quelle autorità bibliche che rimettono i desideri dell’uomo nelle mani di Dio e di promuoverne contestualmente un’interpretazione forte, conforme a una teologia della grazia indebita e predestinata di matrice agostiniana[42]. Un’interpretazione in cui l’efficacia della natura resta condizionata dal proposito del Creatore e una potenza assoluta è ciò che consente a Dio di operare la buona volontà senza forzarla e quindi, nell’immaginario teorico ma un po’ anodino di questa prospettiva, di muoverla liberamente (Lenzi 2013, 169-170).

Naturalmente ad essere prospettata qui non è che un’idea di “libertà” conforme ai principi ontoteologici che la comandano e che, come si è visto, fanno dell’uomo e della sua natura una creatura che per essere e per agire deve insistere sul suo Creatore. Tratto dal nulla e perciò di per sé dotato solo della sua infondatezza, l’uomo “è” in virtù esclusiva di ciò che gli è donato da Dio, il quale si costituisce come il fondamento e l’orizzonte assoluti della sua esistenza e della sua azione. Dio rappresenta infatti non solo il principio ma anche il fine e il “motore” di una creatura la cui negatività inibisce qualsiasi autentica possibilità di autodeterminazione. Solo Dio quindi esprime il senso della libertà dell’uomo, cioè dell’autentica realizzazione della sua natura, perché solo Dio ha il potere di convertire all’essere la sua negatività, creando e ricreando la buona volontà che resta l’unica condizione per la felicità. Al di fuori di Dio non c’è libertà, perché non c’è alcuna condizione di possibilità. Al di fuori di Dio c’è solo il “niente” e qualsiasi forma di libertà intesa come «indipendenza libertaria nei confronti di Dio» (Long 2002, 362), cioè come avversione nei confronti dell’essere e del bene, si configura giocoforza come un atto nichilistico e sovversivo di annullamento e di degradazione. Un atto tragico e velleitario, che nella tradizione cristiana merita senz’altro un destino terribile di dannazione, ma che nella funzione ontoteologica che gli attribuisce Tommaso assume, come si diceva, un senso forse anche peggiore, se è vero – come lui stesso scrive – che Dio permette ad alcuni di peccare solo per salvaguardare la molteplicità dei gradi dell’universo e poter così rappresentare la bontà divina non solo sotto l’aspetto della misericordia ma anche sotto quello della giustizia[43].
 
 
Tavola delle abbreviazioni
 
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Note al testo
 
[1] Lo ha fatto però Barbara Obrist (2004, 11-13), criticando il “mito” del XII secolo concepito «comme le début de l’histoire du rapport “réel” entre l’homme et la nature» e, sulla base di alcuni elementi iconografici e testuali, retrodatando l’esistenza di una spiegazione scientifica e razionale del mondo a partire dal VII secolo. Resta tuttavia da capire come vada effettivamente interpretata la documentazione esistente, per evitare di proiettare sul passato forme di pensiero maturate in ambiti storici epistemicamente diversi. Secondo Gregory (2007, 205-206), «i pochi frammenti della cosmologia greca e latina trasmessi dai testi della tarda antichità alla cultura medievale si inseriscono», e con «presenza marginale», nella prospettiva di una cosmologia biblica, in cui prevale «una lettura simbolica dell’universo fisico».
[2] Faccio qui mia, riadattandola al contesto, la terminologia e la conseguente prospettiva critica di Wachtel (1981, 100-101).
[3] Parlando dell’etica tommasiana e del suo «carattere autonomo e razionale», che ne farebbe «un’etica rigorosamente filosofica non condizionata dalla cornice teologica», Sciuto (2007, 208) afferma che questa cornice «fornisce il senso ma non pregiudica la natura dell’etica stessa». Io penso invece, e proverò nelle pagine seguenti a mostrarlo, che proprio perché principio di senso, l’elemento religioso si costituisce inevitabilmente come principio di costituzione e di determinazione.
[4] Voglio dire che attraverso una ragione non solo simbolica ma concettuale, che si costituisce come un ulteriore principio di intelligibilità, è la stessa struttura ontologica del mondo a farsi teofania e ad essere investita della potenza e del senso del sacro.
[5] In questo senso, anche quei maestri che a partire dalla seconda metà del ’200 difenderanno l’autonomia del sapere filosofico, valorizzandolo indipendentemente dall’esercizio della teologia, lo faranno a partire da un “Aristotele” profondamente teologizzato (cfr. ad es. infra, il testo di Sigieri cit. nella n. 8).
[6] Sul ruolo decisivo giocato dalla platonizzazione tardoantica di Aristotele nella costituzione (teologica) dell’aristotelismo medievale mi sono già espresso in Lenzi (2011), dove ho cercato di mostrare, con particolare riferimento alla tradizione del De anima, come grazie alle affinità dei platonismi il tradizionale quadro teologico e agostiniano si sia rivelato naturalmente incline a comandare l’integrazione del nuovo sapere peripatetico.
[7] Cfr. Gilson (19692, 4-5, 10-11 e 32-33), di cui faccio valere qui, senza particolari pretese teoriche e senz’altro depurata delle sue implicazioni teologiche, ecclesiastiche e confessionali la nozione di “filosofia cristiana”, cioè di una filosofia «nel suo stato cristiano» (Gilson cit. in Humbrecht 2011, 16), che per come la intendo io è la nozione di una filosofia che ha nel Cristianesimo l’ambito e lo spazio di un esercizio storicamente possibile, e quindi di una filosofia che nell’insieme delle sue pratiche storiche, compresa quella di matrice esegetica, si costruisce alla luce della credenza cristiana e della tradizione teologica che la sostanzia. Per una difesa invece della “neutralità” religiosa della filosofia medievale tutta, compresa quella di Tommaso, cfr. Van Steenberghen (1979), contro il quale ancora Gregory (1979).
[8] «Se infatti si chiede perché c’è qualcosa piuttosto che nulla [quare magis est aliquid in rerum natura quam nihil], intendendo nelle cose causate [in rebus causatis loquendo], occorre rispondere: perché c’è un primo motore immobile e una causa prima immutabile [quia est aliquod Primum Movens immobile et Prima Causa intransmutabilis]» (QM IV, 170, ll. 65-67). L’autore, vale a dire Sigieri di Brabante, sta qui commentando la tesi aristotelica secondo la quale esiste una scienza, la metafisica o filosofia prima, che studia l’ente in quanto ente (Met IV, 1, 1003a21). La domanda fondamentale così come formulata appare quindi condizionata dalla natura di questo ente. A differenza di Tommaso, per il quale l’ens commune è solo l’ente creato (cfr. ad esempio ST I-II, q. 66, a. 5, ad 4), Sigieri ritiene con Avicenna (LPP I, cap. 2, 14, ll. 58-64) che l’ente in quanto ente includa anche la causa prima, la quale non potrà quindi essere causa di tutto l’essere, perché altrimenti sarebbe causa anche di se stessa (cfr. Zimmermann 1998, 231-234 e soprattutto Wippel 2011, 84-89).
[9] Vale qui l’argomento della “causalità del massimo” che Tommaso desume da Aristotele (Met II, 1, 993b24-26) e in base al quale si sente in diritto (ma cfr. Berti 1975, 350) di affermare che «ciò che è massimamente ente [id quod est maxime ens] […] è causa di ogni ente [est causa omnis entis]» (ST I, q. 44, a. 1). Sulla centralità di questo argomento per la costituzione ontoteologica della metafisica tommasiana e della dottrina dell’analogia, si vedano anche Porro (2001, 241-249) e Courtine (2005, 265-266).
[10] Sull’origine della dottrina della creazione dal nulla e sul problema del nulla nel pensiero cristiano si possono vedere gli studi di Padellaro de Angelis (1974), May (1978), Fantino (1996), Torchia (1999) e Siniscalco (2009). Sulla ripresa della questione nella filosofia ebraica medievale e nel pensiero islamico, cfr. Zonta (2009) e Lizzini (2009).
[11] Cfr. In II Sent, d. 1, q. 1, a. 2, cit. infra n. 17 e ST I, q. 46, a. 2, sc: «[…] Mosè profetizzò sul passato dicendo: ‘In principio Dio creò il cielo e la terra’ [Gen 1, 1], un detto nel quale si trasmette la novità del mondo [in quo novitas mundi traditur]. Quindi la novità del mondo si ha soltanto per rivelazione [ergo novitas mundi habetur tantum per revelationem]. E pertanto non può essere provata in modo dimostrativo [et ideo non potest probari demonstrative]».
[12] Secondo Bonaventura, invece, «porre che il mondo sia eterno o prodotto dall’eternità [aeternaliter productum], ponendo che tutte le cose siano prodotte dal nulla [res omnes ex nihilo productas], è del tutto contrario alla verità e alla ragione […] e implica in sé una manifesta contraddizione» (BO, II, 22). Come suggerisce Bianchi (1984, 116-117), la contraddizione sta verosimilmente nel fatto che, creato dal nulla (ex nihilo), il mondo deve ricevere l’essere dopo il nulla (post nihil), secondo un ordine temporale che impone che si trovi ora (nunc) in una condizione diversa da quella in cui si trovava prima (prius) (BO, II, 33).
[13] Cfr. ad esempio In Phys VIII, lec. 3: «[…] sebbene Aristotele ponesse il mondo come eterno [poneret mundum aeternum], tuttavia non riteneva, come dissero alcuni, che Dio non fosse la causa dell’essere [causa essendi] per quel mondo stesso ma soltanto la causa del suo movimento». Benché quando dice che i filosofi hanno posto la creazione (philosophi creationem posuerunt), Tommaso nomini essenzialmente Avicenna (cfr. ad es. In I Sent, d. 5, q. 2, a. 2 e In II Sent, d. 1, q. 1, a. 2, ad 1), non c’è dubbio che pensi anche ad Aristotele (diversamente Gilson 1969, 69-71, n. 1), alla causa prima del quale attribuisce espressamente una causalità dell’essere e della sostanza (cfr. In I Sent, d. I, q. 1, a. 1, ad sc 1; In Met II, lec. 2 e VI, lec. 1). Creare significa infatti per Tommaso ex nihilo aliquid facere, esattamente perché significa produrre una cosa secondo l’integralità della sua sostanza (producere rem in esse secundum totam suam substantiam) (In II Sent, d. 1, q. 1, a. 2). Inoltre, in almeno un’occasione Tommaso definisce il Dio di Aristotele “fattore” (In Cael, I, lec. 8), nome con cui stando a CT I, cap. 96 (cit. infra, n. 25) si indica appropriatamente il creatore cristiano. Sull’attribuzione ad Aristotele della dottrina della creazione si vedano anche Bianchi (1984, 36, 79-80 e 118-119) e Johnson (1989).
[14] Tommaso definisce questo ‘nulla’ assoluto un ens rationis, cioè un’entità che ha un’esistenza esclusivamente logica e mentale. Cfr. ST, I, q. 16, a. 3, ad 2 e ST I-II, q. 8, a. 1, ad 3, su cui Cottier (1992, 13-15) e Padellaro de Angelis (1974, 83-86).
[15] Tommaso pensa qui evidentemente a Phys II, 3, 194b24 o simili, dove Aristotele indica la causa materiale come tò ex où, che la greco-latina rende con ex quo.
[16] Cfr. anche DAM, 87-88, ll. 180-190 e ancora In II Sent, d. 1, q. 1, a. 5, ad 2 e QDP, q. 3, a. 14, ad 7 dove esplicito è il riferimento ad Avicenna, LPP VI, cap. 2 (304, ll. 68-74): «Questo è il significato di ciò che dai sapienti è chiamata creazione [quae apud sapientes vocatur creatio] e che consiste nel dare a una cosa l’essere dopo un assoluto “non essere” [quod est dare rei esse post non esse absolute]. Infatti al causato in sé spetta di “non essere”, mentre rispetto alla sua causa gli spetta di “essere” [causatum enim quantum est in se, est ut sit non, quantum vero ad causam suam est ei ut sit]. E quel che alla cosa appartiene di per sé è anteriore nella mente per essenza, non per quanto riguarda il tempo, rispetto a quel che gli deriva da altro da sé [quod autem est rei ex seipsa apud intellectum prius est per essentiam, non tempore, eo quod est ei ex alio a se]. Quindi ogni causato “è” dopo che “non è” secondo una posteriorità per essenza [igitur omne causatum est ens post non ens, posterioritate essentiae]», su cui Lizzini (2009, 99-103; 2011, 257-278 e 2012, 156-159).
[17] «E se queste due cose bastano a definire la natura della creazione, allora la creazione può essere dimostrata [sic creatio potest demonstrari] ed è così che i filosofi l’hanno posta [et sic philosophi creationem posuerunt]. Se invece assumiamo che a definire la natura della creazione occorra una terza cosa, e cioè che anche nella durata la creatura abbia prima il “non essere” che l’“essere” [etiam duratione res creata prius non esse quam esse habeat], così che si dica dal nulla [ex nihilo], perché dopo il nulla quanto al tempo [quia est tempore post nihil], allora la creazione non può essere dimostrata né concessa dai filosofi [sic creatio demonstrari non potest, nec a philosophis conceditur] ma solo supposta per fede [sed per fidem supponitur]» (In II Sent,  d. 1, q. 1, a. 2).
[18] Si vedano In II Sent, d. 37, q. 1, a. 2; In III Sent, d. 11, a. 1, ad 7; QDP, q. 3, a. 5, ad 2; QDP, q. 3, a. 14, ad 4 e DAM, 88, ll. 192-195: «Ora la creatura non ha l’essere se non da un altro e abbandonata a se stessa [sibi autem relicta] e considerata in se stessa è nulla [in se considerata nichil est]; perciò secondo natura le conviene prima il nulla che l’essere [prius naturaliter est sibi nichilum quam esse]». Sulla negatività della creatura valgono ancora le considerazioni di Fabro (1960, 20-21): «Il nulla dal quale Dio col suo atto creativo toglie la creatura è precisamente quel che la creatura è, il quel-che-non-è, prima e fuori dell’atto creativo di Dio, cioè quel che la creatura sarebbe fuori e senza di quell’atto, a ogni istante ch’esso venisse a mancare».
[19] L’‘essere’ si predica analogicamente di Dio e delle creature non solo perché dionisianamente sussiste una misura e una proporzione che regola la relazione di ciascuna creatura al Creatore (l’ad modum recipientis), ma anche e fondamentalmente perché la differenza dei loro rispettivi modi di essere, primario e identitario quello di Dio, secondario e partecipativo quello delle creature, è riconducibile al rapporto di dipendenza e derivazione ontologica che lega le creature al Creatore (unità di provenienza).
[20] Così un costruttore (che è causa univoca della casa in base all’arte, cioè in base all’idea della casa che ha nella mente) è causa della casa quanto alla sua costruzione (e un uomo quanto alla sua generazione), ma non quanto al suo essere che dipende dalle proprietà fisiche dei suoi materiali (come l’essere dell’uomo dipende dalla sua anima, creata direttamente da Dio, e dalle proprietà fisiche del suo corpo, riconducibili alla creazione degli elementi). Cessando la sua azione cesserà allora solo l’effetto che ne dipende e cioè la costruzione (o nel caso dell’uomo la generazione), non ciò che è stato costruito (o generato) che ha cause diverse (ST I, q. 104, a. 1). Cfr. anche SCG III, cap. 65, dove si legge che «come l’opera dell’arte [opus artis] presuppone l’opera della natura [opus naturae], così l’opera della natura presuppone l’opera di Dio creatore [opus Dei creantis]: infatti la materia degli oggetti artificiali deriva dalla natura, mentre quella degli enti naturali da Dio per creazione. Ma gli oggetti artificiali sono conservati in essere in virtù degli enti naturali: come ad esempio la casa grazie alla solidità delle pietre. Di conseguenza tutti gli enti naturali non sono conservati in essere se non in virtù di Dio».
[21] È in questo senso che secondo Tommaso l’intentio è priva di quell’«esse firmum et ratum in natura» (In II Sent, d. 13, q. 1, a. 3) che compete alla res extramentale (In I Sent., d. 25, q. 1, a. 4).
[22] ST I, q. 104, a. 1, citato sopra, si spiega alla luce di In DA II, cap. 24, 169, ll. 30-59, dove Tommaso commenta la celeberrima definizione aristotelica del ‘senso’ come capacità di ricevere la forma senza la materia (DA II, 12, 424a17-19). Tommaso spiega in questo testo che ricevere la forma senza la materia significa, per l’organo sensibile, ricevere la forma senza subirne un’alterazione materiale, cioè secondo un modo di essere diverso da quello fisico che essa possiede nell’oggetto sensibile. Quando invece la materia del paziente riceve, ad opera della forma, la stessa disposizione verso la forma della materia dell’agente, allora la forma è ricevuta nel paziente come era nell’agente, secondo le stesse proprietà fisiche che ne contraddistinguono il modo di essere naturale, come l’acqua che si riscalda al calore del fuoco (cfr. Lenzi 2014, 334-340).
[23] Ma si vedano almeno anche In I Sent, d. 1, q. 4, a. 1, ad 6; In I Sent, d. 8, expos.; In I Sent., d. 8, q. 3, a. 2; In I Sent, d. 37, q. 1, a. 1; In II Sent, d. 1, q. 1, a. 5, ad 2 sc; ST I, q. 50, a. 5, ad 3 e In Phys. II, lec. 6.
[24] Nella prospettiva di Tommaso la prima proposizione del De causis – «ogni causa primaria esercita sul suo effetto una influenza maggiore [plus est influens] della causa seconda universale» – esprime il principio teleologico e metafisico secondo il quale, nella serie ordinata delle cause, l’effetto dipende più dalla causa prima che dalla causa seconda, perché la causa seconda non agisce se non in virtù [nisi in virtute] della causa prima (ST I-II, q. 19, a. 4, resp.). Dire allora che la creatura è contenuta nella potenza del Creatore significa riconoscere al Creatore la titolarità di un’azione che dal punto di vista creaturale è puramente strumentale, conformemente all’immagine del fabbro e del martello evocata da Tommaso nel commento alla prima proposizione del De causis: «<Le cause> sono ordinate per sé quando l’intenzione [intentio] della prima causa mira [respicit] sino all’ultimo effetto, attraverso tutte le cause intermedie; così come l’arte del fabbro muove la mano, la mano il martello che colpisce il ferro e lo forgia, al che mirava l’intenzione dell’arte [ad quod fertur intentio artis]» (In LDC, prop. I, lec. 1).
[25] Vale qui il celeberrimo adagio secondo cui opus naturae est opus intelligentiae (ad es. In III Sent., d. 33, q. 2, a. 5), da mettere in relazione con ciò che è detto in CT I, cap. 96: «Bisogna quindi che gli effetti procedano da Dio secondo la determinazione della volontà. Non agisce quindi per necessità di natura, ma per volontà. Da qui deriva il fatto che la fede cattolica nomina Dio onnipotente non solo creatore [creatorem] ma anche fattore [factorem]: il “fare” [facere] infatti spetta propriamente all’artefice, il quale opera mediante la volontà [qui per voluntatem operatur]».
[26] Tommaso fa sua un’accezione ampia di strumento (ma non priva di forti ambiguità), in grado come vedremo di comprendere anche la natura della volontà: «[…] dallo strumento non è necessario escludere del tutto la nozione della libertà [non oportet quod omnino excludatur ratio libertatis], perché qualcosa può essere mosso da altro [quia aliquid potest esse ab alio motum], ma in modo da muovere se stesso [quod tamen seipsum movet]; e così è della mente umana» (QDV, q. 24, a. 1, ad 5).
[27] Sempre attuali restano a questo proposito le considerazioni di Nardi (19672, 195-196) sull’empireo, lo splendore della Mente divina inteso come luogo dell’universo che lo contiene non solo spazialmente ma anche virtualmente. Si veda inoltre, anticipando quanto segue, anche Aertsen (1988, 385), che a proposito di Tommaso parla della necessità «to overcome the closedness and autonomy of the Aristotelian concept of “physis”. Nature must be opened up for a reality which is “supernatural”».
[28] Per questa unione senza confusione, Torrell (2001, 184) ha parlato di «statuto calcedonese» della grazia nella natura. Segnalo poi che, a proposito della virtù della fede, Tommaso afferma (ST II-II, q. 4, a. 4, ad 3) che Dio opera incessantemente la giustificazione dell’uomo (Deus semper operatur iustificationem hominis), come incessantemente il sole illumina l’aria.
[29] Si pensi qui all’eccellenza fisica (In III Sent., d. 15, q. 2, a. 3, ad q. 3) e spirituale (ST III, q. 9, a. 1, ad 2) a cui, nell’immaginario cristiano, è condotta la natura umana nella sua unione con la natura divina nella persona di Cristo (cfr. anche Nicolas 1974, 584).
[30] Il meccanismo è quello “aristotelico” della determinazione del carattere mediante l’abitudine: «Gli atti umani producono una certa inclinazione ad atti consimili […]. Ora, dal momento che uno si porta verso uno dei contrari, diminuisce la sua inclinazione verso l’opposto. Perciò, essendo il peccato il contrario della virtù, dal momento che uno pecca diminuisce quel bene di natura che è l’inclinazione alla virtù» (ST I-II, q. 85, a. 1). Il peccato di Adamo costituisce il principio di una deriva puramente “naturale”.
[31] Tommaso afferma che nello stato di natura corrotta l’uomo può senz’altro realizzare qualche bene particolare (per virtutem suae naturae aliquod bonum particolare agere), ma non tutto quel bene a lui connaturato (totum bonum sibi connaturale) che presumibilmente sarebbe stato in grado di realizzare nello stato di natura integra (ST I-II, q. 109, a. 2), come ad esempio è detto espressamente per la realizzazione della capacità naturale di amare Dio più di sé stessi (ST I-II, q. 109, a. 3), su cui Lenzi (2015, 544-549).
[32] Così anche Torrell (2001, 192): «Avant tout autre considération, ce désir est naturel pour l’homme créé dans la grâce et il le reste même une fois la grâce perdue, bien qu’il ne puisse trouver son accomplissement que lorsque la grâce sera de nouveau retrouvée». Secondo Tommaso tutte le creature tendono a Dio come al proprio fine in quanto partecipano della sua somiglianza. L’uomo d’altra parte, in quanto creatura di natura intellettuale, è anche immagine di Dio (imago Dei) e perciò aspira e desidera naturalmente raggiungere questo fine in maniera speciale, vale a dire attraverso la sua contemplazione intellettuale. Questo desiderio, quindi, come chiariscono bene Dockx (1964) e ancora recentemente Oliva (2012, 642-654), non è altro che l’appetito dell’intelletto che nasce dalla sua naturale capacità di visione, ancorché necessiti per poter essere soddisfatto di un dono di grazia che ne potenzi la virtù (cfr. QDV, q. 8, a. 1, ad 7; In BDT, q. 1, a. 3, ad 4; SCG III, 25; ST I, q. 12, a. 1; ST I, q. 62, a. 1; ST I, q. 93, a. 4; ST I-II, q. 3, a. 8; ST III, q. 9, a. 2, ad 3; QDM, q. 5, a. 1, ad 1 e CT I, cap. 104).
[33]  Su questa distinzione tra una natura “filosofica” (aristotelica) e una natura “teologica” (o cristiana), cfr. già de Lubac (19912, 435) e più recentemente Bradley (1997, 398-399; 459-462 e 533-534), secondo il quale l’uomo è naturalmente destinato a un fine sovrannaturale e la concezione della natura di Tommaso non può essere ridotta a quella di Aristotele. Diversamente (sulla scia del dibattito teologico suscitato dall’opera di de Lubac) Long (2010), Feingold (20112) e Cullen (2012), sulla base però di preoccupazioni teologiche neoscolastiche del tutto estranee a Tommaso.
[34] Sul significato metafisico di questa potenzialità (In I Sent, d. 3, expos. e In II Sent, d. 12, q. 1, a. 3), cfr. Porro (2012a, 448-449 e 2012b, 41, 69-71 e 407-408), che suggestivamente, attraverso la mediazione del De causis, riconduce la distinzione tommasiana tra essere ed essenza al tema plotiniano della superiorità dell’Uno rispetto ad ogni determinazione formale (cfr. Enn. VI 7[38], 17.40-41). Ad ogni modo vale qui, mi sembra, una perfetta corrispondenza tra essere e conoscere (e agire), tale per cui l’indefettibilità divina è fondata e configurata sul carattere assoluto e identitario della sua entità, mentre la fallibilità umana deriva dal suo statuto partecipativo e creaturale: «Ora l’intelletto divino è causa e misura delle cose e perciò, secondo se stesso, incessantemente verace e ogni cosa è vera nella misura in cui si conforma ad esso. Analogamente, in quanto la verità viene presa dal punto di vista della cosa, l’uomo da se stesso non possiede la verità, perché la sua natura è convertibile nel nulla [vertibilis est in nihilum]; ma solo la natura divina che non è né dal nulla [quae nec est ex nihilo] né è convertibile nel nulla [nec vertibilis in nihilum] possiede la verità da se stessa» (In Rom, cap. 3, lec. 1).
[35] Questa possibilità assoluta si è attualizzata in Adamo, il quale, benché creato in uno stato di grazia e di giustizia, evidentemente poteva peccare, ancorché solo mortalmente, dal momento che la sua rettitudine impediva qualsiasi disordine nelle parti inferiori dell’anima (QDM, q. 7, a. 7). L’uomo postlapsario, invece, non può non peccare mortalmente se non per un tempo limitato (ST I-II, q. 109, a. 8), perché in lui ormai prevale come si è visto un’inclinazione al male (QDM, q. 16, a. 4, ad 22). Ci si potrebbe però domandare se anche nel caso di Adamo l’uomo avrebbe veramente potuto non peccare o se questa possibilità sarebbe potuta dipendere solo dalla volontà divina e dalla concessione di una grazia adeguata.
[36] Si veda altresì In II Sent, d. 5, q. 1, a. 1, sc 2; In II Sent, d. 34, q. 1, a. 3, ad 4; In II Sent, d. 37, q. 2, a. 1, ad 2; In II Sent, d. 44, q. 1, a. 1; QDV, q. 24, a. 3 e QDM, q. 16, a. 6, ad 5. La volontà non è “libera” perché può peccare, ma agostinianamente perché “può” non peccare.
[37] Cfr. SCG III, 10; SCG III, 71; QDM, q. 1, a. 3, ad 6; ST I-II, q. 75, a. 1 e ST I-II, q. 79, a. 2.
[38] Sull’ideale etico e intellettualistico sotteso alla proposizione condannata si vedano, con particolare riferimento a Sigieri di Brabante, le considerazioni di Putallaz (1995, 42-45 e 79-81).
[39] «I pelagiani infatti stabilirono che l’inizio dell’agire retto dipendesse da noi (sit ex nobis), il suo compimento invece da Dio. E così per questo accade che l’effetto della predestinazione sia concesso a uno e non a un altro, perché quello e non l’altro diede inizio, preparandosi [quia unus initium dedit se preparando, et non alius]» (ST I, q. 23, a. 5).
[40] Nella prospettiva teocentrica e predestinazionista di Tommaso Dio non si limita a muovere la volontà secondo la sua natura libera e contingente, vale a dire in modo indifferente, come pura condizione trascendentale ma talvolta la muove (irresistibilmente) a volere qualcosa di determinato, e cioè il bene (ad aliquid determinate volendum, quod est bonum), come nel caso di coloro che sono mossi in virtù della grazia (ST I-II, q. 9, a. 6, ad 3). Si tratta dell’auxilium divinum (ST I-II, q. 109, a. 2), col quale Dio inclina interiormente (interius) la volontà (ST I-II, q. 75, a. 3 e ST I-II, q. 80, a. 1), ispirandole il buon proposito (ST I-II, q. 109, a. 6; ST I-II, q. 111, a. 2 e ST I-II, q. 113, a. 1, ad 3), convertendola (ST I-II, q. 109, a. 6, ad 1 e ST I-II, q. 109, a. 7) e preparandola in questo modo alla ricezione della grazia abituale (ST I-II, q. 112, a. 2).
[41] Si veda su tutti ST I, q. 106, a. 2: «Invece da parte della potenza stessa, la volontà può essere mossa solo da Dio. L’operazione della volontà infatti è un’inclinazione del soggetto volente verso l’oggetto voluto. Ora una tale inclinazione può subire un mutamento solo da parte di chi conferisce alla creatura la potenza volitiva: come l’inclinazione naturale può essere mutata solo dall’agente che conferisce la virtù cui è annessa l’inclinazione naturale. Ma Dio solamente può conferire alla creatura la potenza di volere, essendo egli solo l’autore della natura intellettiva».
[42] Penso qui a testi della Vulgata come Prov 21, 1 («Il cuore del re è nella mano del Signore: egli lo volgerà dovunque a lui piace»), su cui si veda almeno ST I-II, q. 6, a. 4, ad 1; Fil 2, 13 («È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo la buona volontà»), su cui ST I, q. 83, a. 1, ar. 3 e ad 3, e Is 26, 12 («Tutte le nostre opere infatti tu le hai operate per noi»), su cui SCG III, 67.
[43] Cfr. ST I, q. 23, a. 5, ad 3: «Dalla stessa bontà divina si può desumere la ragione della predestinazione di alcuni e della riprovazione di altri. Si dice infatti che Dio ha creato tutte le cose a motivo della sua bontà, perché così la sua bontà fosse rappresentata in tutti gli esseri. Ma è necessario che la bontà divina, che in sé stessa è una e semplice, sia rappresentata nelle cose sotto varie forme [multiformiter], per il fatto che le cose create non possono raggiungere la semplicità divina. Quindi, per la perfezione dell’universo si richiedono vari gradi nelle cose [diversi gradus rerum], delle quali alcune dovranno occupare un posto elevato e altre un luogo infimo. E perché si conservi questa multiforme varietà di gradi, Dio permette che avvengano alcuni mali, in modo che non siano impediti molti beni […]. Così dunque consideriamo tutto il genere umano alla stregua dell’universo. Dio volle che tra gli uomini alcuni, quelli che predestina, rappresentassero la sua bontà sotto l’aspetto della misericordia [per modum misericordiae], perdonandoli, e altri, quelli che riprova, sotto l’aspetto della giustizia [per modum iustitiae], punendoli», su cui ancora Porro (2012b, 461-464) che rimanda anche a In Rom, cap. 9, lect. 4.

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