Fatti di norme. Sul riconoscimento ideologico della vergogna

Antonio Carnevale

Abstract: In our society, ideology is no longer just a matter of ‘false consciousness’, an illusory mental construction of reality. Instead, the ideology regards the social structure of the illusion itself. The greater commitment of ideology is not so much shaping minds and distorting personality, rather to create a culture of objects and relationships to consume, transforming the material lack of the Other in terms of emptiness to be filled. It has gone from an ideology as design of the whole society to an ideology of the detail. In order to exist, the contemporary ideology needs to live everyday, it needs a continuous legitimization. Ideology requires ‘recognition’ as own ‘norm’ of existence. Norms and desires (for recognition) thus tend to overlap each other, producing in the relationship a stratum of ‘exteriority’ that affects both individuals and institutions. An exteriority, however, emotionally characterized and located, so ‘finely’ ideological. I would also say ‘factually’ ideological. Here the explanation of the title of the paper: “fatti di norme” (‘facticity of norms). To bear witness to this exteriority of (and into) the ideological recognition – in my opinion – it occurs a peculiar emotion: the ‘shame’, a really antique emotion which is currently experiencing a meaningful sensory and conceptual reformulation. The normed society towards which we are directing disengages shame from the feeling of exposure to the gaze of someone. On the contrary, what we experience is a sense of shame in front of the impersonal work of normativization and ideological recognition.


I.*

“Fatti di norme”, in che senso?

“Fatti di norme” è un titolo che volutamente ammicca alla nota opera Fatti e norme di Jürgen Habermas. Non si tratta, tuttavia, di un richiamo concettuale. Nel presente saggio non sarà confutata, difesa o ricostruita nessuna tesi habermasiana. Il riferimento sottile (thin) ad Habermas è da rinvenire, invece, nell’intuizione che sta a monte di quell’opera: aver compreso che si può porre rimedio alla perdita di senso dell’agire umano nelle società tardo-capitalistiche rendendo discorsiva la funzione normativa contenuta nelle istituzioni (giuridiche) delle società secolarizzate. Secondo l’intenzione habermasiana, in estrema sintesi, indubbiamente ogni istituto giuridico che la politica ratifica o legifera, prima di tutto, deve possedere – a prescindere da ogni suo contenuto possibile – quelle peculiarità di vincolo che ne consentono la sua efficacia. In primis, “vincolante” nei confronti del corpus di leggi di cui esso è un’emanazione: ogni provvedimento giuridico che si affermi, per essere efficace, deve essere infatti centrato sul rispetto dei principi e dei criteri enunciati nella costituzione dello Stato – il rispetto di questo vincolo sancisce la validità di quel provvedimento. Ma un provvedimento è “vincolante” anche nei confronti degli individui che sono oggetto del suo essere emanato.

Secondo il filosofo tedesco, questo doppio vincolo non è comunque sufficiente. L’efficacia normativa, se rimane l’attributo precipuo che fonda la legge, inerisce al diritto come un che di fattuale – dettato cioè dal fatto che il diritto è per sua costituzione un vincolo, un doppio vincolo, verso la legge e verso gli uomini, entrambi tuttavia assunti come entità astratta, il corpo delle leggi vs. il corpo sociale. L’efficacia viene così limitata all’applicazione del diritto e al rispetto delle regole da parte dei soggetti ed è questo ciò che lo legittima. Stando così le cose, però, si rischia di espropriare il diritto della sua cultura sociale, della capacità di farsi strumento di mediazione dei conflitti, finendo con lo smarrire anche il significato etico e politico che i diritti hanno allorché li si vede storicamente quali conquiste concrete nel lungo cammino ideale dell’umanità verso l’emancipazione dall’oppressione e dalla violenza. Un diritto così, ridotto al suo mero esercizio, si rende più vulnerabile alla pressione colonizzante di sottosistemi privi di scopi etico-politici propri, come il «denaro» e la «burocrazia». Come noto, per evitare simile deriva, Habermas restituisce vivacità alle istituzioni dello Stato di diritto corredandole di procedure di comunicazione democraticamente istituzionalizzate. Egli crede che una normatività di cui siano autori gli stessi soggetti destinatari delle norme non può che rimanere politicamente aperta e partecipata, per così dire “democratica” per sua costituzione discorsiva. Egli è inoltre convinto che istituzioni orientate verso un’etica del dialogo non rappresentino solo il presupposto per una democratizzazione discorsiva della politica, ma hanno un’influenza benefica ai fini del diritto stesso, inteso quale sistema oggettivo dotato di proprie regole di funzionamento. Difatti, grazie alla razionalità comunicativa, l’esigenza di un buon funzionamento del sistema-diritto non si trasformerà mai in un mero “funzionalismo”. Questo perché una normatività in dialogo è in grado di produrre da sé (ragione capace di auto-legiferare = Kant) e in maniera partecipata (tramite lotte per il riconoscimento = Hegel) gli strumenti democratici per difendersi dai suoi stessi pericoli, vale a dire dall’eventualità che con l’eccessiva apertura del diritto alla prassi sociale si possano infiltrare nelle costituzioni nazionali principi etici troppo ideologizzati, così come avviene negli stati totalitari o in quelli teocratici. Fin qui l’influenza di Habermas su questo contributo.

A muovere le riflessioni che cercherò di articolare in questo saggio è la convinzione che nelle società contemporanee il potenziale normativo della prassi non riesca più a stare dentro i registri comunicativi di una discorsività democratica, anche a causa di un mutamento di ruolo che la razionalità ha assunto nella politica e nella società. Ciò a cui quotidianamente assistiamo mi pare possa essere inteso alla stregua di uno slittamento paradigmatico verso il basso dell’idea regolativa kantiana che ha guidato per quasi due secoli la dialettica dell’illuminismo. Sto parlando dell’uso pubblico della ragione metaforizzato nell’icona giuridica del “tribunale”, immagine questa che serve a rendere un’idea di razionalità in cui ogni ragione è sia l’atto che viene pensato, il pensiero che si oggettiva, sia il giudice a cui l’atto pensato viene sottoposto per una valutazione. I mutamenti storici e politici dello scorso secolo hanno fatto sì che alla ‘ragione’ vengano progressivamente sostituendosi ‘le ragioni’, intese come una versione più plurale della razionalità, ma non solo. Soprattutto, direi che le ragioni vanno intese in guisa di pretese e istanze concrete alle quali è assai difficile applicare il confine che distingue il soggettivo dal sociale, la libertà negativa dalla libertà positiva (Isaiah Berlin), e che sono perciò foriere di una serie di visioni e desideri più situati e radicati, quasi mai disponibili sic et simpliciter a riconciliazioni normative unitarie – nonostante tutte le possibili correzioni in salsa “etica” che alcuni filosofi hanno proposto.

La normatività necessita di espandere e trovare nuovi punti di snodo per scandire il significato di ciò che viene scambiato e performato in pubblico come anche in privato. L’idea di un soggetto che è politicamente in grado di deliberare, poiché proprietario di tutte quelle facoltà intellettuali che gli consentirebbero di saper offrire buone giustificazioni alla propria condotta, pare non essere più sufficiente. Così facendo, rimarrebbero tagliati fuori – per fare solo degli esempi – i bambini, le persone diversamente abili e gli animali, come Martha Nussbaum ha ben mostrato[1]. Anche l’assunto secondo cui per stabilire gli standard di normatività si debba per forza di cose passare attraverso uno spazio pubblico scleroticamente separato da una sfera intima e privata, tenuta strutturalmente extra legis rispetto ai processi di deliberazione pubblica, ha poco di democratico. In questo senso, è stato soprattutto il pensiero femminista ad averci mostrato la fallacia di una tale costruzione concettuale, nonché spesso ideologica[2]. Ciò che è pubblico è definibile sulla base delle attinenze con ciò che è privato, e viceversa. I temi della corporeità, della cura dei figli e degli anziani, della divisione sessuale del lavoro, dei ruoli con cui vengono investite (e spesso create ad arte) le differenze tra i generi, non sono note a margine rispetto ai grandi temi di interesse pubblico su cui dovrebbe essere impostata l’agenda politica. Al contrario, il privato, così come ogni altro aspetto della vita che la politica cerca di espungere fuori dal proprio sguardo – evidentemente non neutrale – vanno reinterpretati. Non più sfondi monocromatici e piatti su cui montare l’organizzazione del vivere sociale, ma ambiti di significati che hanno una loro precipua e non casuale dimensionalità; sfere pratiche e semantiche attraverso le quali si regge l’impalcatura dei dispositivi e dei linguaggi che soggetti e istituzioni utilizzano per dare senso alla loro esperienza dello stare in società. Sta probabilmente qui la prima implicazione ideologica della vergogna con ciò che si è provocatoriamente definito “fatti di norme”: la vergogna non riguarda più solo l’emozione psicologica di un soggetto individuale che, posto di fronte alla trasgressione delle norme comunitarie e istituzionali che ha imparato a interiorizzare, appunto si vergogna. Questo rapporto verticale individuo-comunità si è definitivamente rotto, facendo ricadere entrambe le posizioni in una orizzontalità impersonale, tutta ancora in costruzione e nella quale sia soggetti che istituzioni si ritrovano esposti alla vulnerabilità del loro essere irrimediabilmente costituiti in maniera relazionale, bisognosi perciò di riconoscimento per poter esistere[3].

Sempre meno uomini e donne vivono in piccole comunità isolate; allo stesso tempo, anche l’individualismo non riesce a essere più quel modello politico di condotta morale propinatoci e che tanto successo ha riscosso in anni passati. Segno di questa difficoltà è lo sforzo con cui si cercano sempre nuovi aggettivi per svecchiarlo e riqualificarlo: individualismo metodologico, individualismo morale, individualismo democratico[4]. Non riconosciamo più la nostra identità né attraverso la metafora dello specchio, né tanto meno in quella del ‘muro contro muro’[5]. Piuttosto, siamo come posti continuamente in vetrina, costretti a rendere trasparenti a noi stessi e agli altri le motivazioni delle nostre azioni e soprattutto a svelare i retro-pensieri che ci spingono ad agire nel modo particolare in cui stiamo agendo, esponendo alla giustificazione universale il mondo appena tratteggiato dei nostri desideri più profondi, molto spesso oscuro anche a noi stessi. La carica psichica del desiderio, la sua area di significatività che la psicoanalisi aveva sdoganato, innalzandola a elemento centrale nella pratica dell’auto-comprensione soggettiva, ora sembra non accontentarsi più di fornire senso alle sole funzioni individuali della vita psichica. Come bene aveva inteso Herbert Marcuse[6], il desiderio rivendica un proprio spazio autonomo di espressione di sessualità e razionalità che si estende oltre il piano soggettivo. Comprendere i desideri individuali significa comprendere i meccanismi che nel profondo dell’inconscio individuale e collettivo lavorano all’istituzione della società, tanto che oggi è possibile congetturare l’esistenza di una filosofia politica dei desideri e dei bisogni accanto a quelle, ormai quasi vetuste, dei diritti e dei doveri[7].

L’essere chiamati a rendere conto di ciò che in quanto individui desideriamo socialmente e culturalmente, ci costringe a ricostruire ex-post i modi attraverso i quali ci rapportiamo a cose e persone all’interno delle nostre cerchie di riconoscimento. Riflettere sulla nostra seconda natura volitiva ci mette in condizione di dover cercare opportune interfacce, compresa l’abilità di sapere giocare con il mondo interiore, rendendosi agli occhi di chi ci giudica abili attuatori di auto-analisi estemporanee, le quali sovente, visti i ritmi a cui la società ci costringe, risultano per lo più determinate dalle opportunità e dalle circostanze che non da un vero e proprio nosce te ipsum. Il dáimōn presente in ognuno di noi è come se fosse stato spogliato della sua eccezionalità: non scombina più gli schemi e si lascia guidare dalla placidità delle norme sociali vigenti. Non certo per amore della tradizione; tutt’altro: ogni norma sociale è difatti viepiù il risultato di atti di legiferazione tramite cui ci si accorda su codificazioni razionali di tipi di condotte. E anche per essere tradizionalisti occorre codificare gli atteggiamenti che si vogliono preservare e difendere dentro registri concettuali e valoriali più dinamici. Di qui, in anni recenti, l’apertura non solo strategica che la destra e gli intellettuali conservatori hanno fatto verso temi di norma ‘progressisti’ (come l’ecologia o la condizione della donna).

Il risultato è che, da una parte, ha determinato una maggiore normalizzazione delle sfere della vita, un processo razionale che ci consente oggi di poter continuamente intervenire sui presupposti storico-giuridici delle nostre istituzioni, per riformarne il significato in una maniera aperta e più consensuale possibile. Tra i giuristi e i filosofi del diritto un tale sviluppo è noto con il termine di soft law. Si potrebbe dire che una delle grandi novità nella politica odierna è la capacità di “inventare” nuove istituzioni, anche fuori dai percorsi stabiliti dalle tradizioni storico-politiche.         Dall’altra parte, dietro questa universalizzazione e differenziazione sociale di norme regolatrici della condotta morale, gli aspetti del comando e dell’autorità che si volevano bandire (punizioni, interdizioni, pesanti ammonizioni) in realtà non sono del tutto spariti. Hanno semplicemente subito un processo di personalizzazione e privatizzazione. Se hobbesianamente rimettevamo nell’autorità delle istituzioni statali il nostro desiderio di ordine, di legge, di giustizia, per sottrarci alla condizione di corruzione a cui ci destinava la comune natura umana, nell’universale differenziato e normativo siamo sospinti ad anteporre alla generale (e ormai metafisica) paura di perdere tutto (finanche la vita), il desiderio di riconoscimento e l’ansia di affermarci nella nostra unicità. Si genera così un processo di legalizzazione del desiderio di esserci: produrre per vie giuridiche misure di protezione che riescano a tradurre in identità pubblicamente riconosciuteci ciò che intimamente percepiamo come la nostra auto-immagine[8]. In un simile processo anche il paternalismo della punizione non si è dissolto, ma ha perlopiù mutato aspetto e significato: la punizione viene adesso percepita come una mancanza d’amore e di fiducia; con ciò non è certo meno sintomatica dal punto di vista di analisi dei cambiamenti del potere[9]. Per un verso, la politica si è data sistemi di auto-organizzazione che si rifanno ai movimenti sociali più che ai partiti storici e che, perciò, favoriscono una partecipazione sganciata da formazioni unilaterali incentrate sull’esclusiva difesa dei propri interessi. Per il verso opposto, il carisma dell’autorità, fuoriuscito dalle sezioni di partito, si è riversato nelle logiche di mediazione e trasmissione del potere, non incontrando altro limite che l’individualità e finendo di conseguenza con il sovrapporsi ad esso, privatizzandosi e personalizzandosi. Un esempio sta nella crisi dei grandi partiti di massa dell’inizio degli anni ’90 che non ha affatto segnato la fine del bisogno di leader carismatici. Tutto all’opposto: tramontati i partiti, le società civili hanno sfornato leader politici creati a immagine e somiglianza di se stesse. Aziendalizzazione, privatizzazione, esternalizzazione (che erano le forme stesse della società civile, lo «stato esterno» come lo definiva Hegel) sono diventati modelli di gestione dei servizi pubblici, mentre il consenso attorno alla politica è andato acquisendo i lineamenti di una comunicazione che non appare più tanto mediata, centrata sull’impatto dello slogan e dell’immagine, sull’estetica retorica dell’amore e dell’odio. La selezione pubblica delle classi dirigenti – aspetto fondamentale di una democrazia – pare non costituire più un elemento strutturale di rilevanza politica. La procedura di selezione, all’opposto, ha tutta l’aria di un contest tra candidati il cui talento è commisurato alla capacità di fare presa sui gusti di un pubblico spettatore senza più tare ideologiche. È così che capita che trasmissioni televisive si tramutino in talent scout per scovare i nuovi giovani politici in grado di bucare mediaticamente l’etere.

A livello interpersonale, accettiamo le regole prescritte nei singoli ambienti sociali solo perché così possiamo venire “accettati”, ma questo significa che nessuno ha messo seriamente in discussione o verificato criticamente le nostre perplessità morali, i nostri dubbi e spigolature, le nostre quotidiane umiliazioni o la nostra abilità nel saper prendere decisioni giuste. La distanza con gli altri, che sembrava essersi ridotta, in realtà si è intensificata. Non confrontiamo mai gli altri con la nostra personalità presa nel suo complesso, bensì solo per quello che crediamo o vogliamo far credere. Anche il narcisismo diventa una messinscena e misuriamo gli altri sulla base del nostro essere dei buoni esecutori di ruoli sociali[10]. Siamo diventati dei meri operatori e addetti di quella tecnologia del sé che Michel Foucault legava alla “cura di sé”, alla felicità, alla ricerca dell’autenticità, dell’immortalità. Mentre la genealogia foucaultiana ricostruiva i linguaggi e le tecniche che permettevano la gestione sociale del cammino della coscienza verso la felicità, delle sue trasformazioni reattive in vista di uno scopo ideale da raggiungere nell’avvenire – un avvenire che tali tecniche in qualche modo contribuivano pesantemente a profilare e decretare –, la vergogna oggi dice, piuttosto, di una adeguazione costrittiva all’attuale.

La normazione dei comportamenti sociali ha in qualche misura consumato l’esteriorità della mediazione. La dialettica, che era la logica della realtà sociale tramite cui l’alterità veniva riproposta nella storia sottoforma di relazione vissuta (nell’unicità di emozione e pensiero), pare non avere più sfoghi ideali, prolungamenti immaginifici in grado di proiettarla oltre la siepe del presente. Jacques Derrida ha sostenuto l’essere eccezione della norma[11]. Non penso si possa più individuare una valenza sistematica della negatività delle regole. Dall’“eccezione” derridiana – almeno così mi pare – la razionalità normativa si sta riposizionando sulla norma come formazione. La normatività, satura di discorsività, stanca di rappresentazioni di parole (le Wortvorstellungen de L’interpretazione della afasie di Freud), tende a riscoprire aspetti formativi, simbolici ed espressivi della vita che parevano essere stati accantonati poiché tacciabili di appartenerne troppo a “dottrine comprensive” (John Rawls).

Si potrebbe pensare che una società normata, pur avendo perso qualcosa in termini di spinta politica ideale e di vivacità nei rapporti interpersonali, ci abbia comunque guadagnato in fatto di giustizia, poiché più regolata secondo procedure che avvengono secondo giustificazioni e non tramite imposizioni. Non è del tutto così. Affinché si possa dibattere tra posizioni che giustificano pretese diverse – spesso incommensurabili tra loro – diventa necessaria l’operazione preliminare di costruzione di una spazio comune tramite cui, anche nel dissenso, ci si possa intendere in maniera più ragionevole possibile[12]. Non potendo condividere i valori etici (troppo assoluti) e nemmeno i bisogni individuali (troppo differenti), le visioni della giustizia hanno spesso optato per la condivisione dei presupposti morali che rendono necessaria la vita pubblica e politica. In tutto ciò, gli individui hanno visto ridimensionarsi sensibilmente le aspettative emancipative che essi da sempre correlavano al miglioramento delle situazioni reali di ingiustizia quotidianamente vissute. La vasta fenomenologia di oppressioni, misconoscimenti, prepotenze, sopraffazioni, è stata retrocessa e spogliata dello statuto empirico di motivi per cui vale la pena contestare una società strutturalmente ingiusta. Privata di pulsione motivazionale, tale fenomenologia è stata difatti riformulata dentro modelli di ingiustizia funzionali alle risposte che ipotetiche istituzioni ideali avrebbero dovuto mettere in campo. Come conseguenza, l’ingiustizia diventa il segno e la misura di ciò che non è stato attuato; per converso e riflesso, quindi, essa rappresenta anche ciò che l’ideale delle istituzioni vigenti avrebbe dovuto porre in essere per dare risposta effettiva al problema in questione. Ancora una volta soggetti e istituzioni si trovano a essere invischiati in una medesima glassa, nella medesima finitezza, entrambi fenomenicità vulnerabili che non resistono al desiderio di uno sguardo comune che li giudichi.

In un rapporto sempre più reciproco, giustizia e ingiustizia si trovano perciò a dipendere dalla idealizzazione del valore morale delle istituzioni vigenti: è perché queste istituzioni non funzionano come per principio dovrebbero, che l’ingiustizia si conserva e non viene affrontata. Delle istituzioni non si pone in questione la natura della loro costituzione, quanto le forme del loro attualizzarsi. Per questo motivo, la giustificazione concettuale del reale non consente di cogliere l’alternativa e lo scarto tra giustizia e ingiustizia, tra legge e desiderio, tra mantenimento dell’ordine e protensione verso il cambiamento. In questo quadro, la lotta, la contestazione, l’indignazione, il dissenso, diventano tipologie di condotte da cui è possibile dedurre la capacità pragmatica dei soggetti di saper confrontare i propri desideri con i desideri di tutti, in una sorta di situazione ideale – immagino qui l’esperimento mentale del velo di ignoranza proposto da John Rawls. Tutto si riduce alla bravura di un soggetto capace di sapersi destreggiare tra ostacoli e opportunità che la società crea.

L’ideale non esprime più la carica morale che motiva l’azione politica. Come detto, i principi morali traslano alle spalle della contesa politica. A questo punto l’ideale diventa un artificio della mente per fungere da presupposto razionale alla giustificazione di una società data, fatta di istituzioni che hanno una loro storia – anche contraddittoria – la quale tuttavia non appare minimamente chiamata in causa nel contratto morale vigente tra i soggetti. L’ideale è sempre più inteso quale forza trainante tesa a convenire le regole comuni che dovranno governare il contingente (“l’ideale sarebbe che X fosse Y”), mentre la contingenza, per coazione a ripetere, necessita di essere sempre superata da un inquadramento politico generale. La normazione cambia perciò senso: non rappresenta tanto la negoziazione della desiderabilità di tutti, la mediazione dei conflitti e delle pulsioni; piuttosto, pare più interessata a spersonalizzare il legame tra desiderio e valore, tra desiderio e motivazione del cambiamento. L’aspetto della desiderabilità viene proiettato e ribaltato nelle istituzioni, che diventano perciò “a misura d’uomo”, enti terreni a cui si può dare del “tu”. L’autorità dello Stato tramuta nella fiducia per le istituzioni. Il desiderio di giustizia muta nel desiderio di una giusta amministrazione. La sperequazione sociale diviene un problema di equa fiscalità. Mentre ai soggetti si chiede di fare un passo indietro rispetto alle loro autenticità, alle istituzioni si chiede di superare il proprio positivismo realista, centrato in fondo su una fictio iuris. È per questa via che il consenso verso le istituzioni si intreccia con i rapporti sociali. Il consenso non è più dato dalla risultante del doppio vincolo materiale e immaginario all’autorità delle istituzioni (rispetto dell’autorità racchiusa nelle leggi + assoggettamento psicologico a quella autorità); piuttosto, esso diviene una partita aperta a cui i dispositivi istituzionali non possono più sottrarsi, auto-proclamandosi giudici imparziali. Probabilmente, in questa frattura sta una delle ragioni filosofico-politiche del ruolo che la magistratura gioca nell’agone politico, come anche l’aumento dei conflitti tra i diversi poteri dello Stato.

Ogni consenso non può essere troppo risicato, altrimenti vi è rischio di una deriva autoritaria della politica; ma non può essere nemmeno troppo esteso, altrimenti rischia di risultare esuberante, populista, di cedere al qualunquismo. La sovranità statuale e la sovranità popolare, con la democrazia di massa, sono come scivolate fuori dalle loro posizioni originarie. Ognuna pare come alienarsi in un alter ego che la costringe alla ricerca di una riconciliazione. Ed è qui che l’esteriorità dell’una incontra l’esteriorità dell’altra, facendo così scattare nei due principi politici il desiderio di un reciproco riconoscimento che li rende fatti di norme[13]. Dopo questa ampia e forse un po’ vaga premessa, passiamo a chiarire più nel dettaglio qual è il ruolo giocato dalla vergogna in questo riconoscimento ideologico che rende soggetti e istituzioni fatti di norme.

II.

L’interpellazione quotidiana dell’ideologia

Iniziamo ad introdurci nella vergogna come emozione politica tirando in ballo una nota scena immaginata da Louis Althusser decenni fa. Si tratta della descrizione di un episodio ordinario –più volte ripreso nel corso degli anni successivi per la sua essenzialità paradigmatica– con cui il filosofo francese fornisce nel celebre saggio Ideologia e apparati ideologici di Stato (1970) l’esplicazione del suo concetto di interpellazione[14]. Un passante viene banalmente interpellato per strada da un poliziotto: «Ehi! Lei, laggiù!»; l’individuo interpellato si volta di 180 gradi e con questa torsione del corpo diventa soggetto, riconosce se stesso nell’essere che è interpellato, assoggettandosi così alla voce dell’autorità.

Come è noto, l’analisi di Althusser puntava a far emergere l’importanza degli apparati ideologici di Stato quali dispositivi di riproduzione del riconoscimento ideologico che il soggetto offre all’autorità delle istituzioni. L’ideologia non è più solo un fatto di falsa coscienza, di “rapporti che appaiono capovolti”, per dirla con Marx ed Engels dell’Ideologia tedesca[15]; non si tratta di una costruzione mentale che i soggetti si danno illusoriamente per cercare di sfuggire alle condizioni reali di privazione o alienazione. L’ideologia riguarda invece la struttura stessa dell’illusione, fino a implicare il soggetto che la concepisce e le sue condizioni reali di vita. È il soggetto, in quanto entità che si determina in un mondo già pre-istituito secondo sistemi ideologici, che diviene l’oggetto degli apparati ideologici di Stato. In altre parole, il soggetto inteso, da una parte, quale terminale su cui si esercita la razionalità sociale (soggetto come assoggettato) e, dall’altra, come essere vivente incarnato in affetti, sentimenti, sofferenze psichiche e sociali, diventa lo spazio in cui l’ideologia si infila per funzionare, avendo quest’ultima l’esigenza di doversi imporre nelle forme materiali dell’esistenza. L’ideologia interpella gli individui in quanto soggetti. Religioni, fedi politiche, convinzioni etiche, tutto ciò che riveste i filtri cognitivi con cui leggiamo il reale non è che un effetto minimale ed elementare ideologico. Molto più di un mero fattore condizionante astratto e sovrastrutturale, l’ideologia in sé costituisce la materialità di questi medesimi filtri, ossia la materialità nella quale si colloca il rapporto tra l’ideologia, in quanto illusione psicologica e umanistica, e le condizioni materiali di vita nelle quali alcuni gruppi di uomini esercitano la loro egemonia su altri gruppi. «L’ideologia è una “rappresentazione” del rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni di esistenza reali»[16].

Siamo ben consapevoli di come nel corso degli ultimi decenni l’autorità sovrana delle istituzioni statali sia stata sottoposta a un lento processo di indebolimento. Testimonianza ne è il fiorire di istituzioni a carattere regionale e sovranazionale (valga qui da esempio l’Unione europea) che organizzandosi progressivamente hanno finito, gioco forza, per delimitare la sovranità degli stati su quelle tematiche fondamentali che permettevano loro di detenere il controllo sul proprio territorio: lavoro e disoccupazione, politiche monetarie ed economiche, l’istruzione e la ricerca scientifica. Anche la promozione di una cultura universale dei diritti umani ha il suo ruolo in tutto ciò – cultura che sta conducendo alla creazione di un sistema internazionale di protezioni legali degli individui considerati tali non più perché cittadini di una qualche comunità politica particolare, ma in quanto esseri universali titolari di libertà fondamentali. Tuttavia, nonostante l’indebolimento della sovranità degli stati, la riproduzione degli apparati ideologici non per questo si è depotenziata. Inoltre, anche il passaggio a forme di vincolo morale più universali – come appunto sarebbero i diritti umani[17] – e che meno si legano ai contenuti etici e politici degli stati (i quali difatti spesso sono fonte di discriminazione, se non veri e propri genocidi e crimini contro l’umanità), secondo alcuni non sarebbe che la rappresentazione di una nuova fase di espansione dell’ideologia, un imperialismo culturale dell’Occidente sul resto del mondo sotto l’egida dell’esportazione dei diritti e della democrazia[18].

Non ritengo che i diritti umani costituiscano di per sé gli istituti giuridici di una nuova ideologia imperialista. Se non altro perché – come molti giuristi sanno bene – neanche tra chi li sostiene vi è comune accordo nel riconoscerli strumenti giuridicamente vincolanti, e anche i meccanismi di controllo e garanzia per la loro applicazione spesso si concludono in procedure di mera “raccomandazione” rivolta agli stati che non li rispettano. Quindi, quand’anche fossero strumenti ideologici, la constatazione che l’ideologia per potersi riprodurre necessiti nel nostro tempo di dispositivi così provvisori dovrebbe essere messa in conto come un elemento importante su cui riflettere. L’ideologia, semmai, si nasconde nelle tecniche tramite cui queste costruzioni ideali vengono rese quotidiane, normalizzate.

Mentre gli apparati ideologici degli stati hanno perso il loro carisma autoritario, la riproduzione ideologica si è invece normalizzata nel tessuto della società, immergendosi nei tanti rapporti di gestione del quotidiano, ognuno dei quali può essere, al tempo stesso, una pratica sociale come anche una forma di controllo. Riprendendo la scena di Althusser, è come se oggi essa non si svolgesse più soltanto per strada. A interpellarci non è la voce di un poliziotto, bensì assai più comunemente la nostra soggettività può venire interrogata da un medico che ci chiama nella sala d’attesa di un ospedale, come anche da un insegnate nella scuola dei nostri figli, dal nostro capo ufficio davanti alla macchina del caffè, dal nostro avvocato o commercialista. L’interpellazione rimane poiché esprime la carica che ci spinge a un desiderio di riconoscimento dell’apparato ideologico che ci assoggetta; viene tuttavia relativizzata la figura in cui l’autorità si oggettivava. Non più il poliziotto, bensì figure varie e tutte investite per convezione o per convenienza d’autorità. Si tratta di un’autorità non detenuta per atto sovrano o per virtù, ma assegnata per selezione, come esito di una cultura dell’esame a cui siamo continuamente sottoposti.

La cultura dell’esame è difatti la tecnica di normalizzazione dell’ideologia nella società odierna, uno dei dispositivi che riproduce e relativizza gli apparati ideologici di Althusser, portandoli oltre la crisi degli stati contemporanei. “L’esame combina le tecniche della gerarchia che sorveglia e quelle della sanzione che normalizza. È un controllo normalizzatore, una sorveglianza che permette di qualificare, classificare, punire. Stabilisce sugli individui una visibilità attraverso la quale essi vengono differenziati e sanzionati. Per questo, in tutti i dispositivi disciplinari, l’esame è altamente ritualizzato”[19]. Ci chiedono in continuazione di essere ‘esaminati’. Nella scuola eravamo abituati a essere valutati alla fine di un percorso da insegnanti in carne e ossa, cioè figure autoritarie con le quali veniva istaurato un rapporto sia dialettico (conflitto) che relazionale (dettato dalla prossimità in cui questo rapporto comunque si riproduceva). Oggi la tecnologia dell’esame riguarda ormai indistintamente studenti, genitori e insegnanti: tutti sottoposti a continua valutazione, tanto che la differenza di ruoli – insegnante/genitore; insegnante/studente – resiste sì, ma perde in funzione. Anzi, meglio, la funzione si unifica, si parifica, diviene per tutti la stessa: siamo sotto costante esame. Ciò ha tutta l’aria di una procedura di controllo più che di una effettiva valutazione. Anche l’università, per antonomasia il luogo di produzione di sapere critico e classi dirigenti, non conosce sorte migliore. L’istituzionalizzazione di una didattica basata sull’economia del “debito” avvenuta anni fa, viene oggi completata con il perseguimento di un obiettivo di normalizzazione assai più ambizioso: la gestione dei criteri di valutazione della produzione scientifica, come a dire del lavoro intellettuale e dunque, in definitiva, la gestione della funzione dell’intellettuale nella società. Spostandoci nel mondo del lavoro, la tecnologia dell’esame è un fatto ormai datato ed è così diffusa che determina le dinamiche del mercato del lavoro ancora prima che il soggetto abbia accesso al suo primo ed effettivo impiego retribuito – praticamente già a cominciare dalla preparazione del CV[20].

La cultura dell’esame è uno tra gli strumenti più potenti e capillari tramite cui l’interpellazione dell’ideologia diventa quotidiana. Pertanto, essa implica la presenza costante non più di qualcuno che controlla (il poliziotto), ma di un’intera società che si faccia carico di auto-controllarsi. A livello di opinione pubblica tutto ciò si esplica nell’interrogativo che sovente rimbalza nei dibattiti mediatici: “chi controlla i controllori?” Giocando con le parole e con i loro significati, si potrebbe dire che si è passati dal “panopticon” al panoptimum. Dal carcere ideale progettato dal filosofo Jeremy Bentham (1791) e studiato da Foucault in Sorvegliare e punire, alla prigione dorata dei nostri sistemi valutativi, che individualizzano la responsabilità, permettendo alla società di potersi liberare dal dovere politico di essere anch’essa sottomessa a giudizio da parte di chi in quella società ci vive. Insomma, fatti di norme.

La normalizzazione quotidiana dell’ideologia non significa che tutti gli attori – soggetti, formazioni sociali e istituzioni – che concorrono all’articolazione di una data società siano sottoposti in egual misura alla riproduzione inconsapevole dell’ordine ideologico. In altre parole, la relativizzazione dell’ideologia nella società non implica una de-responsabilizzazione di coloro che guidano in maniera decisiva i processi di costituzione dei centri di controllo e degli squilibri sociali. Semmai, il punto è che l’estensione del controllo e dell’esame a tutta la struttura della società espone ogni sua componente, istituzioni comprese, a un bisogno di riconoscimento, il quale piuttosto che togliere la responsabilità a coloro che compiono scelte decisive, tende invece ad accrescerla, addossandola ai singoli responsabili degli atti compiuti, alle loro biografie e ai difetti morali, reiterando perciò, per logiche di imitazione, meccanismi diffusi di capro espiatorio[21]. In questi conflitti mimetici (René Girard) sparisce l’orizzonte di una responsabilità generale e politica in cui quegli stessi atti, singolarmente compiuti, avrebbero probabilmente trovato una comprensione più collettiva.

Con la relativizzazione dell’ideologia nel quotidiano della società, perciò, non voglio sostenere che cittadini e istituzioni soffrano di identiche vulnerabilità e che pertanto abbiano bisogno dell’altro per un medesimo desiderio di auto-realizzazione. Evidentemente, le istituzioni rimangono a tutt’oggi enti autoritari corredati di strumenti di difesa – e di attacco – ben più potenti dei singoli cittadini, anche quando organizzati in gruppi (si pensi ai fatti di Genova durante il G8 del 2001). Tuttavia, una qualche forma di vulnerabilità colpisce anche loro, se non altro per un’estensione antropologica: le istituzioni altro non sono che rappresentazioni oggettivate e costruzioni convenzionali prodotte dall’uomo per difendersi da gradi sempre più complessi di vulnerabilità umana – sicurezza fisica, integrità morale, riconoscenza etica. Più le istituzioni diventano entità collettive ben organizzate al loro interno, capaci di darsi proprie finalità a cui weberianamente si conformano, più aumenta il grado di esposizione dell’uomo alla sua nuda singolarità agente (“io eseguivo solo gli ordini”, leitmotiv da Norimberga fino ai tesorieri di partito dei giorni nostri); segno dunque che tra vulnerabilità umana e vulnerabilità istituzionale c’è un rapporto di diretta proporzionalità. “Divenendo sempre più razionale la società porta alla luce il momento della sua insensatezza”[22].

L’emergere dell’insensatezza tra individui e istituzioni rende indispensabile far appoggiare questo rapporto leso e consumato dentro cornici etiche di riconoscimento che ne rimettano in funzione, in chiave terapeutica e riconciliante, la natura dialettica del loro rapporto. In Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) Sigmund Freud esponeva la funzione di appoggio della pulsione sessuale, secondo cui l’attività sessuale si poggerebbe in primo luogo a una delle funzioni del corpo che servono alla conservazione della vita (orale, anale e genitale) e solo in seguito se ne renderebbe indipendente. La ricerca del piacere sessuale nascerebbe, perciò, come attività connessa al soddisfacimento dei bisogni vitali, per appoggio alle funzioni vitali. Analogamente allo sviluppo della vita sessuale verso la maturità descritto da Freud, l’interpellazione quotidiana dell’ideologia per rendersi apparato maturo, indipendente e autoreferenziale deve prima di tutto poggiarsi sulle funzioni vitali dell’individuo all’interno della società, alimentarsi mediante i bisogni sociali fondamentali dell’uomo, per poi staccarsene e rendersi autosufficiente. Senza dubbio, uno dei bisogni astrattamente più importanti per l’uomo nella società è il godere di protezioni legali che ne difendano e ne promuovano il proprio grado di libertà. Stiamo parlando del riconoscimento di diritti. Non avendo modo di sviluppare in questa sede tale aspetto[23], opererò, per quanto possibile, una sintesi. Guardando alla storia delle conquiste sociali, ci si accorge di quanto i diritti siano diventati gli strumenti materiali e simbolici principali per avere un accesso alla società, soprattutto per quei gruppi umani che prima ne erano in qualche misura esclusi. Nella storia delle lotte per il riconoscimento, i diritti sono stati viepiù investiti di un desiderio vitale di realizzazione di sé (individuo o gruppo sociale), tanto che il loro significato è andato anche oltre la funzione politica di protezioni legali. Nel riconoscimento legale, la protezione di uno status della persona o del gruppo spesso si è correlata con la protezione di uno status sociale. Soggettività prima escluse, vedendosi attribuiti diritti, diventano magicamente degne di essere riconosciute, contribuendo in questo modo a far crescere positivamente le basi etiche del contratto sociale di quella data società. La battaglia per i diritti nella prima fase della modernità era una battaglia per l’onore; parimenti, oggi quella battaglia è divenuta una lotta per la dignità e il rispetto. In entrambi i casi, comunque, si tratta di un fattore positivo di trasformazione in istanze etico-politiche di motivazioni pulsionali storicamente presenti. In termini di quotidianizzazione dell’ideologia, dal particolarismo dei diritti borghesi all’universalismo dei diritti nelle odierne costituzioni, se probabilmente sarà venuta meno l’utilizzazione del discorso dei diritti a fini di legittimazione egemonica, certamente è invece aumentata nella semantica di quel medesimo discorso la sovrapposizione tra riconoscimento ideologico e diritti. A chi diviene possessore di un nuovo diritto viene riconosciuta una ragione ulteriore ad avere quel diritto. Ogni protezione legale sancita non è soltanto è il riconoscimento dell’importanza di un bene e la conseguente creazione di una difesa legale per favorire l’accesso a quel bene stesso. In ogni diritto viene inoltre riconosciuta una ragione secondaria e superiore: il diritto a godere di quel bene che fa tutt’uno con il diritto ad avere quel diritto. Il riconoscimento legale diventa strumento di realizzazione di sé nel senso di perseguimento della propria felicità. Tuttavia, come Freud mostra nel Disagio della modernità (1929), inseguire la felicità perseguendo il riconoscimento produce di per sé, per sua stessa costituzione, un tensione psichica che ci conduce al dispiacere. Troppo agognata per essere realizzabile, troppo limitata dal mondo e dalla sua diversità, la felicità dell’autorealizzazione via legale nasce limitata già di suo. Qui il punto decisivo: la costante possibilità di questa limitazione crea una tensione psichica. Il desiderio di riconoscimento legale, non potendo sempre scaricare in forme di partecipazione politica l’aggressività a cui esso induce, si riversa sul suo oggetto d’amore, i diritti, sublimandolo. La finzione giuridica e simbolica dei diritti riesce a mettere in scena ciò che l’autenticità psichica del desiderio di riconoscimento da sola non riesce a rappresentarsi, consumata com’è nel marasma delle fantasie narcisistiche. Insomma, fatti di norme.

La quotidianizzazione dell’ideologia interpella il soggetto non nella sua natura psichica unitariamente assoggettata al riconoscimento ideologico; piuttosto, a essere posta in questione è la pluralità di rimandi della sua identità sociale. Viviamo all’interno di personalità sempre più polifoniche e l’integrità di queste voci dipende (anche) dalla posta in palio del discorso dei diritti. Tra diritto, desiderio e autorealizzazione le connivenze si infittiscono. Le protezioni legali così come non sono più giustificate in nome di poteri divini o metafisici, allo stesso modo non servono più per difenderci da paure esterne, che avevano le sembianze di una qualche natura. La paura (singolare e naturalistica) che istituiva il contratto politico classico viene così superata dalle paure (plurali e prodotte) dell’io esposto allo sguardo della società e soprattutto delle istituzioni (le oggettivazioni di quella società) su cui abbiamo investito emotivamente per la realizzazione di noi stessi. Dalla paura alla vergogna. È questa la nuova base emotiva su cui, a mio avviso, si basa la ritrattazione dell’odierno contratto sociale. Da una legalità che protegge la vulnerabilità dei propri possessi esterni (proprietà terriera, conflitto di classe), a una legalità che tutela zone di esteriorità sempre più interiore – il corpo e l’immagine di sé, il feto e il limite della vita – riproducendo così all’esterno le nostre vulnerabilità più profonde, in un misto sovrapporsi di emotività e istituzioni. Siamo sempre più guardati dalle nostre stesse produzioni normative. La riproduzione in una natura, come anche in un universale, come bene aveva intuito Jacques Derrida, non sono che linguaggi da cui gli uomini si fanno governare e grazie ai quali essi si assicurano il dominio di ciò che è presso di sé[24]. Insomma, fatti di norme che, per di più, nel loro costituirci generano un senso di vergogna che non è possibile ascrivere ai rapporti interpersonali.

III.

Le pre-condizioni fenomenologiche della vergogna

In questo paragrafo vorrei abbozzare delle brevi considerazioni sul carattere generale dell’emozione della vergogna e sui motivi per cui credo che essa abbia due differenti livelli di implicazione fenomenologica, tanto che ai miei occhi (come mostrerò nel paragrafo successivo) tali livelli si rendono comprensibili mediante una traduzione in termini di filosofia politica dei significati emotivi, cognitivi e culturali che la vergogna pone in essere nelle varie sfere sociali in cui si manifesta.

Stando a una prima ricognizione, la vergogna appare sin da subito un’emozione che trova il suo sbocco naturale nella struttura relazionale dell’essere umano. Come forse sarà capitato di sperimentare almeno una volta nella nostra vita, tra le diverse manifestazioni della vergogna possiamo certamente menzionare quel caratteristico senso di improvvisa e sgradevole nudità che assale la nostra persona, e che spesso si traduce in atteggiamenti critici e sanzionatori nei confronti di noi stessi (“Che figuraccia!”), con tono di rimprovero, disapprovazione, biasimo. Avvertiamo così una sensazione fastidiosa che ci avvampa (“Rosso come un peperone”) oppure che ci fa sentire come spogliati, come se una parte del nostro sé e della nostra immagine fosse sottoposta ad annientamento, a diminuzione o perdita (“Ho perso la faccia!”) – di qui il conseguente desiderio di scomparire (“Volevo sprofondare!”; “Voglio sparire dalla faccia della terra!”), per liberarsi da quel senso di paralisi, di blocco, che ci fa sentire irrigiditi, pietrificati. Ma ancora più significativa e istituente della relazione con il proprio Sé, nella vergogna gioca il proprio ruolo emotivamente fondante l’altro, il suo sguardo generale, in ultima istanza la società, attraverso e dentro la quale ci riconosciamo ma anche veniamo inchiodati a noi stessi.

La vergogna nell’immediato appare come un’emozione che si sviluppa all’interno di un rapporto umano e interpersonale, vale a dire simile alla relazione che Hegel aveva posto a modello nella sua dialettica di signoria e servitù. È un tipo di relazione nello svolgimento del quale avviene che due entità si trovano a interagire tra loro. Da questa iniziale contingenza, per successive azioni e contromosse via via sempre più necessariamente implicate, le due entità saranno obbligate a riconoscersi reciprocamente la facoltà di porsi a oggetto di se stesse, vale a dire (a) di avere un’autocoscienza e (b) che, per averla, occorre essere disposti a riconoscere l’autocoscienza dell’altro. La vergogna rappresenta la mancata realizzazione di questa doppia condizione della reciprocità del riconoscimento. Nella vergogna facciamo la fondamentale[25] esperienza dell’essere stati fatti oggetto da parte di un altro. Ci vergogniamo perché ci sentiamo guardati come se fossimo oggetti e non persone. Questo genere di vergogna ha dunque un impatto emotivo sull’Io, sulla sua struttura narcisistica di base, pone dubbi alla formazione del Sé. È il fallimento della regola generale per diventare coscienze pienamente realizzate nella vita concreta e reale: il Sé diventa un soggetto umano che sente, ama e pensa se chiede e riceve riconoscimento. Non si nasce soggetti; soggetti si diventa. A questo livello di implicazione, appare chiara l’esistenza di un rapporto di confluente determinazione tra vergogna e riconoscimento. Visto che il Sé per essere tale ha bisogno di essere riconosciuto, e visto che la vergogna è un’emozione che testimonia il processo di self-assessment[26] e di presa di coscienza di quello stesso Sé (autocoscienza), allora tra vergogna e riconoscimento ci sarà implicazione diretta. Su questa lato della vergogna, magistrale è stata la lezione di Jean-Paul Sartre[27].

Tuttavia, vi è un’ulteriore descrizione della vergogna che studi recenti nell’ambito psicologico e psichiatrico-fenomenologico[28] hanno posto in evidenza. In questa seconda variante, la vergogna non solo testimonierebbe direttamente di un riconoscimento andato male, bensì sarebbe essa stessa una reazione psichica organizzata a questo tipo di stortura. In realtà, ogni riconoscimento non riuscito si poggia su tutta una gamma di precedenti esperienze di fragilità dell’individuo, molte delle quali si connettono in maniera indiretta alle elaborazioni delle angosce infantili. Pertanto, dal fallimento dell’essere riconosciuto nel concreto di una situazione si generano paure e ansie secondarie contro cui la vergogna funge da risposta emotiva ma anche comportamentale (qui l’importanza dei “gesti” e della “postura” della vergogna[29]).

Nella prima variante descritta, l’emozione che si prova ha più a che fare con un senso generale di vergogna come pudore extra-morale (Georg Simmel), derivante dall’essere stati scoperti e messi a nudo nella struttura di affermazione e negazione dell’Io[30]. La vergogna in questo contesto può essere pensata come lo smascheramento più evidente – tanto da esploderci in faccia con il rossore – di una fragilità di base dell’umano, quasi di un suo presupposto antropologico. L’essere umano è per costituzione vulnerabile e deve pro-gettarsi nel mondo per potersi compiere; in questo suo essere costituzionalmente esposto, esso è destinato sin da sempre all’esteriorità, un destino da cui comunque cerca di liberarsi tramite l’azione quotidiana, per sfuggire a se stesso e alla sua condizione. Siamo di fronte a una sorta di ontalogia (la vergogna come onta + l’esperienza dell’esposizione come ontologia), così come la chiamava Jacques Lacan[31]. Subiamo emotivamente e razionalmente l’immagine del proprio corpo esposto e nudo[32]. Nudo non come corpo nudo, bensì come nudità, ossia il giudizio sul proprio corpo esposto che, proprio per questo, implica un ordine del riconoscimento[33] dentro il quale il nudo viene letto, interpretato, visto con occhi differenti (mi viene in mente l’esempio della modella nuda che, solo a un certo punto, si vergogna di come l’artista la sta guardando[34]). L’esposizione è qualcosa a metà strada tra una condizione dell’uomo e una relazione all’altro. Un altro con la “A” maiuscola, il cui sguardo ci spoglia, ci mette in dubbio, ma che, proprio perché gli affidiamo tutto questo ascendente, risulta tutto sussunto nel suo sguardo eccezionale, non intimo, in qualche misura neutrale – come se fossimo soggetti allo sguardo di Dio o di una alterità senza volto: è la vergogna di Adamo ed Eva nella cacciata dall’Eden[35]. La vergogna è qui una reazione a uno sguardo neutrale che ci riduce a pura assolutezza e opacità, che ci lascia soli di fronte alla totalità di noi stessi, facendoci avvertire tutto il peso del nostro esser-ci (Dasein) e sottraendoci ogni possibilità di fuga in avanti, di proiezione o deiezione, togliendoci la libertà avrebbe detto Heidegger. La vergogna è l’interruzione della piena realizzazione di sé; è la prova dell’impossibilità di darsi da sé la propria unicità, la propria autosufficiente completezza[36]. Spogliati dallo sguardo di un’alterità sovrana, forse in ultima istanza la sublimazione della nostra stessa condizione manchevole di uomini, ci ritroviamo nudi: mostrati per quello che siamo, siamo resi tutti uguali. La vergogna in questo primo significato è la reazione a questa uguaglianza negativa, è la reazione al non volere essere trattati nella stessa maniera in cui sono trattati tutti gli altri.

Nella seconda variante, la vergogna è una reazione ad un’angoscia secondaria, un’emozione perciò in grado di organizzare difese nella struttura della personalità e non solo di distruggerle. Si tratta di un tipo di vergogna che si assume un ruolo, che ha una responsabilità. Non è più il segno di una mera esposizione, la cifra di una condizione antropologica, il palesarsi nella vita razionale di un rimasuglio di narcisismo irrisolto. Non è più la risposta a uno sguardo neutrale e astratto, bensì essa è la reazione sistematizzata allo sguardo incarnato in un altro non generalizzato ma significativo[37]: un altro con un volto, con una storia e soprattutto con una storia che riguarda anche il soggetto che prova vergogna. La vergogna qui testimonia che qualcosa ci ha colpito in maniera specifica. Non è il pudore per la messa a nudo del proprio Io, quanto, piuttosto, la reazione a un’umiliazione che ha colpito e ferito un nostro modo particolare di essere, un aspetto di noi stessi su cui abbiamo lavorato, un talento o una capacità su cui avevamo fatto degli investimenti emotivi. La vergogna come umiliazione è la reazione a una differenza negativa, è la reazione all’essere stati trattati nella particolare maniera in cui siamo stati trattati (solo noi e non altri).

IV.

Riconoscimento ideologico e vergogna

Immaginarci forzatamente simili ad altri ci fa vergognare. Come anche ci fa vergognare immaginare ciò che ci ha costretto a sentirci diversi. Ho già esposto altrove quali sono a mio giudizio le differenti direttrici tramite cui la vergogna tende a manifestarsi proponendo un’articolazione progressiva di questa emozione[38]. In questo ultimo paragrafo, partendo dalle due pre-condizioni fenomenologiche descritte in precedenza, proverò a dare un resoconto in termini di filosofia politica di quella stessa articolazione.

Ogni rapporto dell’uomo con se stesso e con le istituzioni contiene profili filosofico-politici che potrebbero essere parte di un ragionamento più ampio. Per quanto riguarda la vergogna, questi rapporti hanno rimandi di una certa consistenza a cominciare dalle sue fondamenta, vale a dire dalla forma pura e astratta tramite cui la filosofia moderna ha posto la nozione di soggettività. La prima istituzione a cui la vergogna reagisce è l’istituzione della propria soggettività.

Come l’idealismo tedesco ci ha mostrato, l’atto puro del pensiero mediante cui l’Io pone se stesso non avrebbe la qualità di momento razionale se al suo interno non ci fosse anche il potenziale riferimento al suo contrario, il Non-Io. Ogni atto ideale che afferma la soggettività in maniera assoluta, in un certo senso la tradisce, poiché, ponendola teoreticamente, in pratica la limita. L’Io puro per essere se stesso – per essere uno – deve potersi alienare in qualcuno (Non-Io come “uno dei tanti”). Solo facendo esperienza condivisa dell’essere qualcuno, l’Io risorgerà in una sintesi reale in grado di darsi un’auto-legislazione. L’impossibilità del pensare in solitudine è una concezione che si ritrova anche nella più moderna filosofia del linguaggio. Con Ludwig Wittgenstein potremmo dire che anche quando facciamo astrazione intellettuale ricercando la purezza del linguaggio privato, in realtà stiamo aderendo a regole razionali condivise[39]. Sta forse qui la spiegazione di quel senso di estraneità che pensare il pensiero ci provoca. Come se ci fosse un senso di vergogna presente già solo nel mormorio della nostra voce mentale: pensare significa utilizzare la struttura cognitiva di un mondo già abitato da altri pensieri.

Per essere qualcuno non basta comunque avere un sistema di regole generale tramite cui accedere ai significati condivisi. Essere qualcuno significa provare e sentire qualcosa nell’essere quel qualcuno. Non si tratta, perciò, di condividere unicamente regole sociali di ragionamento, quanto piuttosto di condividere un intero mondo sensibile mediante cui l’esperienza del soggetto può crearsi i propri significati. Un mondo reale fatto anche di continuità emotiva che ci permetta di avere un’esperienza prolungata nel tempo della nostra soggettività. Se tutto finisse in un istante, non avremmo modo di accorgerci di noi. Si tratta di un mondo evidentemente pre-costituito rispetto alla nostra esperienza razionale. I suoi modi di essere, gli oggetti che lo riempiono, i linguaggi di cui è portatore, non ne fanno un agglomerato neutrale e anonimo di fronte al quale il soggetto si contrapporrebbe, scegliendo ogni volta nel mucchio di cose gli oggetti che più gli servono o che desidera. Al contrario, il mondo ha un ruolo costituente nel dare il significato che noi attribuiamo a tutte quelle cose e aspetti della vita che in seguito, nel corso dell’esistenza, riterremo per una qualche ragione carichi di uno specifico valore. La soggettività non si costituisce, dunque, soltanto lungo l’asse del ripiegamento concettuale su se stessa, come se la coscienza fosse il risultato dell’esclusiva ricerca delle forme razionali del proprio sentire esistenziale. A quest’asse verticale si contrappone quello orizzontale del rapporto soggetto-oggetto.

Nel mondo moderno il rapporto soggetto-oggetto non ha più i toni del confronto classico uomo-natura. L’oggetto non si oppone al soggetto per fargli resistenza, quasi fosse mosso in ciò da una volontà metafisica che lo spingerebbe a nascondere allo sguardo umano l’essenzialità noumenica della natura che l’originò. Assai diversamente, la disposizione odierna di ogni oggetto è data primariamente dalla funzione per cui quell’oggetto è stato prodotto. Dall’incontro del manufatto con il soggetto che lo utilizzerà, fino alla sua sostituzione con un altro oggetto, ogni prodotto della tecnica o prodotto industriale riflette un programma di organizzazione di se in quanto ente già situato in un ambiente ove operare, e tale programmazione si trova incorporata nella funzione per cui è stato concepito (finanche nelle sue sembianze e fattezze). La tecnica non è più solo una strumentalità che ha lo scopo di far nascere nel mondo un ente, sottraendolo al niente (niente come “no ente”). L’oggettività non ha più bisogno di giustificarsi razionalmente di fronte al nulla metafisico. È intrisa del mondo sociale stesso. Platone nel Simposio (205 b) scrive «tutto ciò che fa avvenire il passaggio dalla non-presenza alla presenza è poiesis, produzione». La poiesis (dal verbo poieîn = fare, produrre) designava sia la facoltà produttiva sia l’evento della sua realizzazione e rappresentava perciò la capacità di far apparire una cosa nella sua presenza. Si potrebbe dire che oggi la tecnica è invece tecnologica, vale a dire programmazione dettagliata e differenziata delle funzionalità dell’oggetto, tanto che molto spesso l’artefatto non esaurisce i propri compiti nella finitezza materiale di cui è provvisto, ma diventa un mero dispositivo dentro una composizione più complessa. Così capita che per fare funzionare alcune sue parti occorre servirsi di reti di altri oggetti e/o funzioni di oggetti. Per questo motivo, sempre più spesso sostituiamo oggetti della tecnica con versioni più aggiornate dello stesso oggetto non tanto per soddisfare un nostro bisogno, o perché l’incuria del tempo li ha resi inutilizzabili, ma perché le loro funzioni non riconoscono più gli altri dispositivi tecnologici circostanti – anche la tecnica oggi si interfaccia tramite logiche di riconoscimento!

La tecnica pone questioni che la filosofia teoretica non riesce più a mettere a fuoco da sola. Ciò che è tecnico non attiene semplicemente un tipo di razionalità interessata unicamente a realizzare i propri scopi, una razionalità incurante dell’ambiente circostante e dei rapporti etici ivi compresi (la nota questione della tecnica che tanto angustiava la cogitatio di Martin Heidegger). Diversamente, lo sviluppo tecnologico si è compromesso con dinamiche contestualizzate di potenziamento umano (human enhancement) che vanno a incidere in ambiti della vita così dettagliati – lo sport, il tempo libero, i servizi, la strumentazione militare, particolari branche della medicina – che diviene difficile operare una scelta ideologica di rifiuto. Quando il non-necessario della tecnologia diventa l’ideologia che produce la necessità di qualcosa, ossia il desiderio di averla e consumarla, ogni etica fondata su solide basi ideologiche rischia di risultare superflua.

Neuro-protesi, videogames, bio-tecnologie, domotica, per citarne solo alcune: l’impatto di queste applicazioni è questione la cui comprensione coinvolge non tanto un confronto tra visioni astratte del mondo, uno scontro epocale tra opzioni metafisiche divergenti. Il loro impianto nella prassi diviene un elemento di astrazione reale – come lo definirebbe Roberto Finelli reinterpretando il Marx della maturità[40] – che sottende alla produzione di norme e di comportamenti concreti di individui e istituzioni. Si potrebbe sostenere che il mondo della tecnica sia di molto mutato rispetto a ciò che immaginava Gunther Anders. Egli considerava i prodotti della tecnica come l’oggettivazione di una scienza tanto perfetta e infinitamente ripetibile da fare sentire sminuito e antiquato l’uomo; una simile umiliazione procurava all’uomo una vergogna prometeica[41], una reazione all’estraneità psichica rappresentata nell’oggettività fredda delle cose prodotte dalla tecnica. All’opposto, la tecnologia è parte integrante del rapporto che la soggettività intrattiene sia con se stessa che con l’oggettività del mondo. L’oggettualità del mondo e i modi in cui è organizzata sono una costituente reale della formazione emotiva e razionale della soggettività. Non è un caso se, stando ad alcune teorie psicoanalitiche, il bambino cominci a fare esperienza del Sé proprio attraverso relazioni oggettuali[42]. E proprio la condizione narcisistica infantile dimostrerebbe quanto originaria sia nell’esperienza soggettiva del mondo la simbiosi tra emotività e produzione. Il narcisismo infantile potrebbe essere letto, infatti, quale non-distinzione tra emozione e produzione: il bambino vive di una natura emotiva che egli produce senza avere gli strumenti cognitivi per capirlo da sé.

La diffusione delle nuove tecnologie nella vita quotidiana, la banalizzazione delle applicazioni tecnologiche allo scopo di penetrare in aspetti della vita mai raggiunti prima – si pensi all’infanzia – hanno creato una certa dimestichezza e ragionevolezza pratica nella coscienza collettiva rispetto all’introduzione di nuove tecnologie. Anzi, più i nuovi prodotti tecnologici conservano nel loro design un fattore umano evidente – residuo antropomorfico e totemico delle tecnica prometeica – più risvegliano quell’ansia e quell’angoscia che ancora nutriva la vergogna di Anders. Nell’effetto denominato di uncanny valley – che indica la reazione di perturbamento delle persone di fronte a robot dalle sembianze iper-realiste[43] – questa dinamica è molto evidente.

Il nesso soggetto-oggetto non giunge dunque mai totalmente ad acquisirsi, ormai mediato com’è da una rete di comandi e funzioni che dilatano l’esperienza soggettiva della tecnica – compreso quindi la tipologia di sforzo e di lavoro che serve per eseguirla – oltre il piano del manuale, del corporeo e del mentale soggettivamente e psicologicamente intesi, fino a trasformarla in una performance di lavoro astratto, impersonale. Ogni applicazione, nel mentre potenzia l’elemento umano (funzioni corporee, motorie, cognitive) nello stesso tempo lo rende una finzione-funzione (di qui l’accezione di performance che mischia appunto creazione e produzione, gioco e realtà, finzione e funzione) dentro un tipo di astrazione che non riguarda più solo le dinamiche intellettuali di un singolo o di un gruppo – le loro visioni del mondo e di sé – ma concerne la concreta attività posta in essere dal processo tecnologico di ogni singolo soggetto inteso come utente-attuatore di un programma generale di gestione di quella stessa applicazione.

In questo rapporto sempre più impersonale tra soggetto e oggetto, lavoro e astrazione, politica e tecnica, la materialità e la corporeità rimangono entità mai del tutto saggiate. Fuori dal contatto sensibile, asservite alle funzioni di volta in volta da assolvere, il loro radicamento pare essere più un’impressione o una congettura che una vera e propria esperienza. L’imperfezione di tutto ciò che è materia e corpo, il suo bisogno di dipendenza da altro, sono tutte caratteristiche che perturbano la stabilità di un sistema sociale che produce la sua ideologia, spersonalizzando il rapporto tra valori e desiderio, tra cultura e lavoro, tra visione del mondo e politica. La performance della tecnologia spersonalizza non creando forme oggettive di alienazione, ma concentrandosi sulla gestione del potere di immaginazione. Controllare l’immagine di qualcosa dà più potere che controllare direttamente quel qualcosa.

Siamo portati a relegare a immagini marginali, quasi all’invisibilità, gli aspetti della vita che pongono strutturalmente in pericolo l’ordine sociale, i modi che la società si è data per credere nella forma di organizzazione che la istituisce. Non solo. Releghiamo a fantasie private e narrazioni intimistiche, al gusto per la risata liberatoria anche ogni desiderio di ribellione e trasformazione dell’ordine sociale. Sfuggiamo l’oggettività positiva (reale = razionale) e negativa (reale = imposizione di una razionalità) del mondo sociale; il suo essere comunque prodotto ci inquieta. Viene alla mente qui l’abiezione descritta da Julia Kristeva: «c’è nell’abiezione una di quelle violente e oscure rivolte dell’essere contro ciò che lo minaccia e che gli pare venga da un fuori o un dentro esorbitante, gettati a lato del possibile, del tollerabile, del pensabile»[44]. L’abietto è simile all’oggetto, ma ne riflette una logica alterata perché irrisolta. Mentre l’oggetto è qualcosa che il soggetto ha imparato a porre dinanzi al sé, e che quindi può conoscere, distanziare, immaginare e riconoscere, l’abietto invece è un oggetto escluso, che si oppone all’io e che quindi sfugge alla verbalizzazione e all’immaginazione. L’abiezione riflette un senso di vergogna che non ha più nulla di antropomorfo e umano. È un senso ideologico di vergogna che non è neanche individuabile come reazione, ma ha più i caratteri di un riconoscimento, di una norma-sistema-sociale impersonale che donandosi al mondo ne gestisce il flusso di immagini che creano emozioni e pensieri. Non è la vergogna di fronte alla società delle immagini e dello spettacolo; è piuttosto la vergogna della società delle immagini e dello spettacolo. Capita così che ci scopriamo troppo abituati a vedere corpi lacerati e mutilati, mentre poi proviamo vergogna e disgusto vedendo la scena di un concepimento.

Oltre il nesso della soggettività con se stessa, oltre il rapporto soggetto-oggetto, il riconoscimento ideologico della vergogna non potrebbe non intaccare l’ultimo importante asse: la relazione con l’altro. Nell’abiezione abbiamo visto operare un rifiuto che mette in discussione sia il Narciso a cui rimanda ogni immagine di sé, sia il Prometeo che si incarica della titanica lotta contro il mondo. È un rifiuto già informato dei fatti (di norme) con i quali le mitologie hanno dovuto già da tempo confrontarsi. Nel rapporto con l’altro, la vergogna come emozione politica giunge alla sua più piena e propria realizzazione di se stessa. Siamo di fronte a quel tipo di vergogna che nel paragrafo precedente abbiamo definito secondaria, testimone di umiliazioni determinate subite in maniera sistematica – si era definita una differenza negativa, la reazione all’essere stati trattati nella particolare maniera in cui siamo stati trattati (solo noi e non altri). Tale differenza negativa è data dalla possibilità concreta di fare esperienza di un trattamento diverso subito unicamente per ciò che si rappresenta e non per ciò che si è. L’esclusione di interi gruppi umani non è un’esclusione di per sé; rimanda piuttosto alla struttura della società. La differenza negativa umilia perché trasmette il senso dell’ingiustizia non in maniera diretta ma, in quanto rappresentazione, sta al posto di qualche altro significato, dunque perché si “appoggia” a significati immaginifici che vanno oltre il piano della relazione – dunque, ancora una volta la funzione di appoggio di Freud, ma ribaltata: un appoggio su qualcosa di immateriale anziché corporeo.

La differenza negativa è così proiettata oltre il piano del riconoscimento da tirarselo dietro in modalità reificata. È così che la vergogna diventa secondaria e testimone delle umiliazioni ricevute, perché, investita dall’ideologia della società, anticipa l’esito del riconoscimento e per anticiparlo, lo ricrea. Infatti, poiché viviamo in contesti di vita dove siamo immersi da continue informazioni sulla criticità di noi stessi e dei nostri partner d’interazione, anticipiamo nella nostra mente le conseguenze negative dovute al presunto fallimento di fronte a un pubblico. Non è la paura che genera la paura. Non è il non-sapere che genera la paura. Qui siamo di fronte a una chiusura anticipatoria e immaginifica imposta per un eccessivo carico di conoscenza. La differenza negativa appoggiandosi a un piano rappresentativo del riconoscimento, sussume su di sé la vergogna come emozione che diventa perciò politica, poiché risente fortemente degli squilibri di potere e delle asimmetrie sociali che formano la società. La relazione con l’altro diventa l’anticipazione di un desiderio dell’altro represso o reificato, se non addirittura sublimato. Il desiderio dell’altro anticipato e snaturato non può che costituire un elemento di rifiuto dello stesso desiderio. Per questo lo spazio relazionale con l’altro, anticipato e sussunto nella differenza negativa della vergogna, viene riempito da tutta una serie di fonti parziali e fittizie di felicità. Si tratta, in definitiva, di un desiderio che deve vivere continuamente l’umiliazione di selezionare i suoi feticci. Il riconoscimento ideologico della vergogna ha a che fare con una selezione significativa ma senza significante, una selezione a cui quotidianamente siamo chiamati e che ci costringe a tagliare qualcosa nel desiderio dell’altro. Questo senso politico-filosofico della vergogna si manifesta essenzialmente come intersoggettività tagliata[45]. Ciò che è tagliato non è un “non-desiderato”; esso parla di sé in quanto segno della mancanza, concisione del desiderare relazionale, intersoggettivo. Il sistema sociale in cui viviamo definisce sempre più il mancare di qualcosa (desiderare) nei termini di “vuoto” da riempire[46]. Normalmente, ‘mancare di qualcosa’ è un altro modo per dire desiderare qualcosa: la mancanza di qualcosa è un’aspettativa di completezza che va oltre il semplice desiderio di quella stessa cosa. Contro questa basilare assunzione umana, il riconoscimento ideologico, che punta a una soddisfazione consumistica dell’oggetto (prodotto), ha generato un’idea di mancanza come vuoto: la mancanza sarebbe un vuoto che si colmerebbe soddisfacendo il desiderio di godimento di un determinato oggetto. Nasce così l’illusione che l’oggetto del desiderio sia incarnato nell’oggetto di godimento, ovvero l’illusione che sia possibile, attraverso il consumo dell’oggetto di godimento, sanare la lesione di quello stesso taglio che la società infligge nella sua corporeità sociale e relazionale. È così il desiderio come vettore di scambio erotico-amoroso lascia il posto alla relazione unilaterale con una serie illimitata di partner-inumani (droga, cibo, alcool, psicofarmaci, realtà virtuali, ecc). Ma può la produzione di un senso di vuoto essere la causa primaria che invera e conserva il riconoscimento ideologico? Evidentemente non basta “fare il vuoto” per poter gestire la profondità delle mancanze, le basi della felicità. Mentre l’ordine tecnologico dà senso alla felicità, nella relazione con l’altro il riconoscimento ideologico della vergogna dà senso a quell’ordine. Sullo sfondo di questo passaggio dall’oggetto all’Altro agisce, per quanto mi è possibile argomentare in questa sede, un confronto con la riflessione di Antonio Gramsci sull’ideologia.

Per Gramsci le ideologie sono «il terreno su cui gli uomini si muovono, acquistano coscienza della loro posizione» e che definiscono i soggetti nella loro pluralità di piani di azione. L’ideologia è il luogo di costituzione di un tipo di soggettività che non può che essere perciò collettiva, un luogo nel quale continuamente i soggetti vivono e agiscono, scegliendosi ancora prima di autodeterminarsi tramite le scelte morali e culturali individualmente pensate. Anzi, ciò che è individualmente pensabile non è che un modo in cui l’ideologia si esplica nelle forme che istituiscono la vita di tutti i giorni, dallo sport alla cultura popolare, dai modi di organizzazione del lavoro alla letteratura. È grazie all’ideologia che un soggetto collettivo diviene cosciente di sé e di conseguenza capace di contrapporsi all’egemonia avversaria. Non esiste un’unica ideologia. Ideologico è il terreno di scontro tra ideologie diverse, tutte organizzate in apparati, trincee e casematte, vengono continuamente rielaborate, adattate, propagate. Com’è noto, Gramsci opera una positivizzazione – anziché in una prospettiva scientifica, in una chiave etico-politica che risente della filosofia sociale di Hegel – la concezione dell’ideologia come capovolgimento della coscienza reale e distorsione delle rappresentazioni data dal giovane Marx. «Non sono le ideologie che creano la realtà sociale, ma è la realtà sociale, nella sua struttura produttiva, che crea le ideologie»[47].

Mentre l’interpretazione di Gramsci tende a fare emergere un significato di ideologia come progettazione relativa alla società complessiva[48], credo che lo sviluppo della società dei consumi e dello spettacolo, la cultura dell’esame e della valutazione dell’attività intellettuale, le nuove tecnologie dell’informazione, costringano la progettazione ideologica a doversi legittimare nella vita reale intesa non più come totalità, bensì come differenza e bisogno di riconoscimento. Siamo di fronte a una concezione dell’ideologia positiva – in quanto “presa di coscienza” contro l’illusione e la “falsa coscienza” dell’ideologia negativa – e insieme negativa, poiché per realizzarsi necessita di ciò che invece dovrebbe guidare, forgiare, illuminare e convincere.

V.

Conclusioni

Ci troviamo dunque di fronte a un tipo di vergogna che non ha più a che fare con una determinata cerchia di riconoscimento (la vergogna di Aiace nella tragedia sofoclea). Essa non è sociale in base al grado di inserimento e interiorizzazione nella propria comunità. Al contrario, essa è sociale poiché incarna lo spirito stesso dello spaesamento dovuto all’impersonalità contemporanea. Una vergogna che trascina l’identità fuori dai nuclei fondativi che avevamo imparato a fissare fino a oggi. Al di là di provincialismi e regionalismi, si intravede dietro l’angolo il profilo di un’emozione politica figlia della globalizzazione, uno spazio insieme emotivo e normativo che potrebbe fornire alla riflessione concettuale dettagli per una nuova forma di responsabilità, non più fondata sul vecchio senso di colpa colonialista ed etnocentrico[49], ma testimone dei livelli sempre più complessi tramite cui ingiustizia sociale e sofferenza psichica si montano.


* Questo scritto costituisce il tentativo di dare seguito ad alcune riflessioni raccolte in un precedente contributo (cfr. A. Carnevale, L’imbarazzo della vergogna. Una ricerca sulle condizioni di possibilità di un’emozione sociale all’interno di un volume collettaneo curato dal colloquium di estetica Sensibilia e in corso di pubblicazione presso l’editore Mimesis, Roma 2012). In quel testo avevo soprattutto lavorato seguendo una prospettiva di filosofia morale e di teoria dell’intersoggettività, cercando di tratteggiare le condizioni sociali che supportano il differente manifestarsi relazionale della vergogna. Riprendendo le fila di quel discorso, con il presente lavoro vorrei invece spostare qualche passo in avanti il fulcro della mia analisi, andando a sollevare le strutture concettuali della realtà sociale più attinenti al campo della politica e delle istituzioni e vedere se per caso al di sotto di esse, così come credo, l’emozione della vergogna giochi un qualche ruolo filosofico-politico importante nella determinazione delle pratiche materiali e simboliche del “riconoscimento”. Per gli stimoli e le suggestioni collezionate durante vivaci quanto mai proficue conversazioni, colgo l’occasione per ringraziare Francescomaria Tedesco, Vincenzo Casamassima, Roberto Franzini Tibaldeo, Anna Loretoni, Alessandra Farina, Jacopo Branchesi, Marco Nuzzaco, Stefania Pellegrino, Danilo Bovenga.

[1] Cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna 2007.

[2] La letteratura sul pensiero femminista come si sa è assai vasta. Senza pretesa di esaustività nei confronti delle varie differenze in cui il pensiero femminista si è venuto articolando, rimando ai seguenti lavori: C. Gilligan, In a Different Voice, Harvard University Press, Cambridge 1982; S. Harding, The Science Question in Feminism, Open University, London 1986; J. Benjamin, The Bonds of Love: Psychoanalysis, Feminism, and the Problem of Domination, Pantheon, New York 1988; I.M. Young, Justice and the politics of difference, Princeton University Press, Princeton 1990; S. Benhabib, Situating the Self: Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics, Routledge, New York 1992; M. Nussbaum, Sex and Social Justice, Oxford University Press, New York 1999; J. McLaughlin, Feminist Social and Political Theory, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2003; R. Braidotti, Transpositions: on Nomadic Ethics, Polity Press, Cambridge 2006.

[3] Sul legame tra vulnerabilità, riconoscimento e istituzioni, si vedano:  A. Honneth, “Anerkennung als Ideologie”, in:  WestEnd. Neue Zeitschrift für Sozialforschung, vol. 1, 2004, pp. 51-70; E. Renault, “Reconnaissance, Institutions, Injustice”, in: De la Connaissance. Revue de Mauss, n. 23, pp. 180-195; B.S. Turner, “Diritti culturali, vulnerabilità e riconoscimento critico”, in: A. Carnevale, I. Strazzeri (a cura di), Lotte, riconoscimento diritti, Morlacchi, Perugia 2011, pp. 315-349. Sul rapporto tra riconoscimento e istituzioni nell’ambito delle relazioni internazionali, si veda: A. Wendt, “Why a World State is Inevitable”, in: European Journal of International Relations, vol. 9, n. 4, 2003, pp. 491-542; una parziale traduzione italiana di questo articolo si trova ora in: A. Carnevale, I. Strazzeri (a cura di), Lotte, riconoscimento, diritti, cit, pp 491-542.

[4] A titolo di esempio rinvio ai lavori di N. Urbinati, a cominciare dallo scritto: Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Donzelli, Roma 1997.

[5] In una logica di analisi critica dell’identità, sulla contrapposizione spesso vana tra metafora dello specchio e metafora del muro, cfr. B. Henry, Multiculturalismo in: L. Cedroni, M. Calloni (a cura di), Filosofia politica contemporanea, Mondadori, Milano 2012, pp. 101-120.

[6] H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1968; dello stesso autore, si vedano a questo proposito gli scritti raccolti in: Psicanalisi e politica (Manifesto Libri, Roma 2006) curati e introdotti da un fine saggio di R. Finelli.

[7] Desideri e bisogni rompono perciò la dualità classica di diritti-doveri e si interpongono come ulteriore area di ricettività significativa e giustificazione razionale. Con una lettura che a me pare sovrapponga la psicologia morale humeana dei desideri con la filosofia sociale hegeliana dei bisogni, rinvio all’interessante studio: L.A. Hamilton, The Political Philosophy of Needs, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

[8] Cfr. C. Douzinas, Identità, riconoscimento, diritti: cosa può insegnarci Hegel sui diritti umani? in: A. Carnevale, I. Strazzeri (a cura di), Lotte, riconoscimento, diritti, cit., pp. 35-77.

[9] Á Heller, Il potere della vergogna. Saggi sulla razionalità, Editori Riuniti, Roma 1985; Id., “Five Approaches to the Phenomenon of Shame”, in: Social Research, vol. 70, n. 4, 2003, pp. 1015-1030.

[10] C. Lasch, La ribellione delle élite, Feltrinelli, Milano 1995.

[11] Cfr. J. Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003. Su questo tema segnalo inoltre: G. Agamben, Stato di eccezione , Bollati Boringhieri, Torino 2003, anche se molto probabilmente simili impostazioni concettuali devono essere fatte risalire agli studi di Carl Schmitt e Walter Benjamin.

[12] Sulla possibilità di fare rientrare anche alcune voci di dissenso nei termini di ragionevolezza che andranno a costituire l’ipotetico presupposto morale da cui sorgeranno le istituzioni politiche concrete, si veda lo studio ancora attuale: A. Gutmann, D. Thompson, Democracy and Disagreement, Harvard University Press, Harvard 1996.

[13] ‘Fatti’ sia nella variante di sostantivo, dove i “fatti” sono insieme di eventi successivi o azioni compiute che si possono ri-vivere nella misura in cui si riesce a trasmetterli, a raccontarli o a darne testimonianza (la nota storiella dell’albero che cade nel bosco e che, se non c’è nessuno nei paraggi, produce realmente rumore?), sia nella variante di predicato, dove invece i “fatti” sono l’aggettivazione dell’essere costituiti in una particolare maniera, la cui particolarità nella società attuale riusciamo a viverla insieme agli altri se, e solo se, riusciamo ad accettarla.

[14] L. Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma 1997. Tra quanti hanno riutilizzato l’esempio di Althusser, ricordo qui: J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, Meltemi, Roma 2005.

[15] “Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico”, K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967², p. 13.

[16] L. Althusser, Ideologia ed apparati ideologici di Stato, in: Id., Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 65-123, qui p. 99.

[17] Tra i numerosi contributi, rimando qui a: M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2003; T. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani, Laterza, Bari 2010.

[18] A mo’ di esempio, cfr: S. Žižek, Contro i diritti umani, Il Saggiatore, Milano 2005; D. Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

[19] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1993, qui p. 202.

[20] È curioso qui constatare come tutte le riforme dell’università – e pertanto del sapere – abbiano trovato nel mondo del lavoro, già a partire dal linguaggio impiegato (debito, credito, produzione, valutazione), il loro luogo d’origine semantica, una curiosità che la dice lunga su quanto capitalismo e cultura in questa società siano effettivamente ancora legati, spesso con la seconda prostrata al primo.

[21] Sulla funzione sociale del capro espiatorio in chiave di imitazione della violenza, rimando agli studi di René Girard: La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980; Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987.

[22] T.W. Adorno, “Individuo e organizzazione” [1953], in: La società degli individui, vol. 3, n. 9 (2000), pp. 125-139, qui p. 129.

[23] Per un approfondimento ulteriore di questo aspetto, mi permetto di rimandare al mio contributo: Vergogna, diritti e riconoscimento, in: A. Lenci, A. Carnevale, Il «sociale» della giustizia , Pensa Multimedia, Lecce 2008, pp. 228-246.

[24] J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006.

[25] Dico “fondamentale” perché ritengo che l’essere resi oggetto di un qualche desiderio o affetto sia una tra le più fondamentali e originarie forme di esperienza della relazione con altri, a cominciare dall’essere stati accuditi e curati da bambini in quanto oggetti di un amore genitoriale.

[26] J.P. Sartre, L’essere e il nulla [1943], Il Saggiatore, Milano 1997.

[27] G. Taylor, Pride, Shame, and Guilt. Emotions of Self-Assessment, Oxford University Press, Oxford 1996.

[28] Senza pretesa di esaustività: A. Ballerini, M.R. Monti, La vergogna e il delirio, Bollati Boringhieri, Torino 1990; M.W. Battacchi, O. Codispoti, La vergogna. Saggio di psicologia dinamica e clinica, Il Mulino, Bologna 1992; M.W. Battacchi, Vergogna e senso di colpa, Raffaello Cortina, Milano 2002.

[29] Si veda qui: L. Anolli, La vergogna, Il Mulino, Bologna 2003.

[30] G. Simmel, Sull’intimità [1901], Armando, Roma 1996.

[31] J. Lacan, “Il potere degli impossibili” [1970], in: La Psicoanalisi. Rivista italiana della Scuola Europea di Psicoanalisi, n. 46, 2009, pp. 9-23.

[32] M. Lewis, Il Sé a nudo. Alle origini della vergogna, Giunti, Milano 1995.

[33] Cfr.: J.-M.Ferry,  Les puissances de l’expérience, Cerf, Paris 1991; P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina, Milano 2005.

[34] Nel noto esempio originariamente discusso da Max Scheler e poi ripreso da Gabriele Taylor, una modella ha posato nuda per un pittore per un certo tempo, ma arriva a provare vergogna allorché comprende che il pittore non la guarda più come modella bensì come un oggetto sessuale. La modella nella sua prima nudità si era sentita mascherata, vestita nel suo ruolo di modella, mentre prova vergogna – pur continuando a essere nuda – quando giunge alla consapevolezza di essere stata privata della sua maschera di modella e per questo si sente esposta a uno sguardo che la desidera. Cfr: M. Scheler, Schriften aus dem Nachlass: Über Scham und Schamgefühl [1913], in: Id., Gesammelte Werke, vol. 10, Bouvier-Verlag, Bonn 1986; G. Taylor, Pride, Shame, and Guilt, cit.

[35] Cfr. J.D. Velleman, “The Genesis of Shame”, in: Philosophy & Public Affairs, vol. 30, n. 1, 2001, pp. 27-52.

[36] Sulla vergogna come emozione risultante dall’impossibilità del desiderio narcisistico di auto-completezza, si veda M. Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma 2005.

[37] Sull’altro generalizzato si veda il lavoro magistrale di G.H. Mead, Mente, sé e società: dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, Editrice Universitaria G. D’Anna, Firenze 1966. Sulle differenza tra altro generalizzato e altro significativo, cfr. S. Benhabib, The Generalized and Concrete Other: The Kohlberg-Gilligan Controversy and Moral Theory, in: E.F. Kittay, D.T. Meyers (a cura di), Women and Moral Theory, Rowman and Littlefield, Totowa 1987, pp. 154-177.

[38] Cfr. A. Carnevale, L’imbarazzo della vergogna, cit.

[39] Cfr. le note riflessioni contenute in L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1957. Sull’inferenza nella realtà di significati condivisi, risultano a mio giudizio interessanti le ricerche condotte da Robert Brandom.

[40] R. Finelli, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma 1987.

[41] G. Anders , L’uomo è antiquato. Vol. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale [1956], Bollati Boringhieri, Torino 2007.

[42] Si veda: D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974;

[43] Si veda lo studio pioneristico: M. Mori, “The Uncanny Valley”, in: Energy, n. 7, vol. 4, 1970, pp. 33-35.

[44] J. Kristeva, Poteri dell’orrore, Spirali, Milano 2006, p. 3.

[45] Cfr. A. Carnevale, L’imbarazzo della vergogna, cit.

[46] Secondo Slavoj Žižek alla base di questo rapporto feticizzato ci sarebbe una castrazione che la modernità ha operato sul significato umano di ‘mancanza’. Cfr. S. Zizek, Politica della vergogna, Nottetempo, Roma 2009.

[47] A. Gramsci, Quaderni del carcere; Croce e Marx, Q 4, 15, Torino, Einaudi 1975, pp. 436-437.

[48] F. Rossi Landi, Ideologia, Meltemi, Roma 2005.

[49] Rimando qui alla riflessione di Bernard Williams, secondo cui la responsabilità moderna si è infatti fissata su modelli di obbligo verso le leggi morali della propria comunità. Questa individualizzazione della responsabilità, ha posto il soggetto solo di fronte alla legge, incentivando la formazione di un senso di colpa per allentare la morsa del risentimento allorché si trasgrediscono le regole comuni. Tuttavia, come sostiene Williams, mentre la vergogna può comprendere la colpa, la colpa non può comprendere la vergogna. Posso considerare giusta la rivendicazione che le vittime avanzano nei miei confronti, così come la loro rabbia e la loro indignazione, perché mi rendo conto che esse sono rivolte verso degli atti che ho commesso, e il danno provocato è definibile nei termini di conseguenza a un atto (o una serie di atti) volontari. Ma sotto questa pacifica superficie, qualcosa preme. La moderna teoria politica riesce a intravedere nella responsabilità della colpa un’emozione ben più trasparente della vergogna, unicamente perché essa contemporaneamente tiene separati l’azione dagli elementi dell’immagine che si ha di se stessi compiendo quell’azione. Ci si può sentire responsabili nei confronti di coloro che hanno subito dei torti e chiedono riparazione, ma una simile responsabilità non ci aiuterà a capire quali siano le ragioni che mettono in rapporto il torto o il danno subito con la rivendicazione. B. Williams, Vergogna e necessità, Il Mulino, Bologna 2007.

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