I filosofi e il duello: dallo ‘Spirito delle leggi’ alla ‘Enciclopedia’.

Luigi Delia

Abstract: Between Montesquieu and Beccaria, the Diderot and D’Alembert Encyclopédie system proves to be a privileged site through which it is possible to remap both the judicial and socio-political stakes of the duel. What kind of logic presides over the ancient jurisprudence of judicial combat? Is God’s judgement a criterion for truth? Must we punish with infamy those gentlemen who (have) confronted each other in the name of aristocratic honor, self-esteem and notoriety?


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Intro. «La natura dell’uomo è di richiedere delle preferenze e delle distinzioni»: l’onore «è quindi, per la cosa stessa, situato nel governo monarchico», di cui è il principio politico, scrive Montesquieu nello Spirito delle leggi (1748)[1]. Il costume del duello, che riguarda essenzialmente l’élite maschile[2] dei nobili, i quali ricavano da questa usanza una legittimazione della lora differenza, è figlia dell’antico codice dell’onore. Incentrato sull’amor proprio, sull’aspirazione alla stima pubblica, sul desiderio di reputazione e di gloria, lo spirito che governa questa pratica assegna un prezzo maggiore alla speranza della distinzione che alla vita stessa. I miraggi dell’opinione e il bisogno di riconoscimento sociale inerenti all’onore conducono a compiere grandi azioni sfidando la morte e a rivendicare il primato della libertà individuale di regolare i propri contenziosi senza ricorrere alla giustizia pubblica[3].

In modo generale, gli illuministi deplorano il duello[4]. Secondo Voltaire, non vi sarebbe nulla di nobile in un tale faccia a faccia di brutalità sommaria, definito un «costume orribile », e uno dei due « crimini più funesti al genere umano»[5], insieme con l’adulterio. Conseguenza mortifera della «vana gloria», il duello «distrugge i difensori dello Stato»[6]. Per questa ragione, sotto Luigi XIV, «l’abolizione dei duelli fu uno dei più grandi servizi resi alla patria»[7]. Rousseau[8], a sua volta, ha censurato questa pratica anacronistica e irrazionale: «L’uomo di coraggio disprezza il duello […], l’uomo di valore [homme de bien] lo aborre ». E altrove : «Guardatevi dal confondere il nome sacro dell’onore con quel pregiudizio feroce che mette tutte le virtù sulla punta di una spada» [9].

Non è tuttavia sufficiente essere ostili al duello per cogliere appieno l’etica aristocratica nella quale esso affonda le radici. Tra Montesquieu e Beccaria, i diciassette volumi dell’Enciclopedia (1751-1765) tratteggiano un quadro d’insieme che fa emergere una moltitudine di dettagli suscettibili di affinare la nostra comprensione del duello. In particolare, si intende qui analizzare il modo in cui gli enciclopedisti pensano con, senza o contro Montesquieu, questo fenomeno complesso, inteso tanto nella sua forma primitiva di combattimento normato da regole precise e destinato alla costituzione della prova legale; quanto nella sua dimensione di pratica extra-legale, o infralegislativa, che ha attraversato, in concorrenza con il diritto, l’intero arco temporale dell’Antico Regime.

Benché non siano assimilabili, queste due usanze sono collegate, dal momento che il duello d’onore è la prosecuzione ideale del combattimento giudiziario. Montesquieu stesso le mette in relazione nel capitolo 20 del libro XXVIII dello Spirito delle leggi, consacrato all’«origine del punto d’onore». Privato, illegale, privo di solennità, regolato dai costumi, generato da una querelle che culmina in un démenti, il duello di punto d’onore non mira a rivelare la verità giudiziaria, ma la grandezza d’animo dei duellanti.

Non è dato in questa sede rendere conto in modo approfondito della discussione sui rapporti che la legalità del diritto intrattiene con la regolazione attraverso i costumi, discussione che ha conosciuto una svolta nel clima culturale francese della metà del secolo XVIII, con la diffusione dello Spirito delle leggi e la proliferazione di opere come il Projet pour perfectionner nos lois sur les duels, dell’abate di Saint Pierre (1735), l’Essai sur le point d’honneur del cavaliere Blondeau (1748) e il trattato giansenista del sieur di Champdevaux, L’honneur considéré en lui-même et relativement au duel (1752). Ci si terrà ad uno stato al contempo storico e problematico della questione, prima di soffermarci sulla ricezione delle idee di Montesquieu nell’Enciclopedia. Il tema del duello vi è affontato in vari articoli, quali CHAMP CLOS, ORDALIE, POINT d’HONNEUR, ma soprattutto CHAMPION, COMBAT, DÉMENTI, DUEL, ÉPREUVE, HONNEUR. Queste rubriche invitano ad interrogarsi sulla causa principale del duello, vale a dire il punto d’onore, tra istinto naturale e retaggio culturale; sull’antagonismo tra legge e costumi; sulla scrittura della storia del combattimento singolare, tra racconto storico e censura morale; sulle pesanti responsabilità della chiesa cattolica, accusata di aver consacrato la superstizione del combattimento giudiziario. Poiché l’intera discussione gravita attorno all’onore, cercheremo di mostrare, al termine del nostro discorso, in che modo l’Enciclopedia operi per razionalizzare questo ideale, abbandonando gli assunti teorici dello Spirito delle leggi, sia riguardo all’onore inteso come «molla» (ressort)  del regime monarchico, sia sul «falso onore», «utile alla cosa pubblica»[10].

I. Prodotto culturale dell’alto Medioevo, il costume del duello è l’espressione più estrema dell’ethos cavalleresco. Essa si diffuse con particolare intensità nel secolo XVII, al tempo della guerra dei Trent’anni (1618-1648), in una fase di eclissi del potere centrale. Usanza privata proibita a partire dalla metà del secolo XVI, il duello partecipa, sino al secolo XII, al pari del giudizio di dio, della procedura penale. Esso costituisce un mode legale per emettere una sentenza nel caso di gravi litigi tra privati: in mancanza di confessioni e prove testimoniali, la verità giudiziaria poteva legittimamente scaturire da un combattimento pubblico, solennemente deCCCretato e presieduto dal sovrano. Dietro questa antica epistemologia probatoria, si cela l’idea che la giustizia divina saprebbe riconoscere colui che è nel giusto e ne assicurerebbe la vittoria.

Sin dal principio, agli inizi del secolo XIII (Concilio di Latrano, 1215), la procedura inquisitoria mette al bando l’ordalia medievale e il correlato impianto di prove soprannaturali (metallo incandescente, acqua bollente…). La ricusazione delle ordalie, ritenute superstiziose, provoca la cancellazione dell’intervento divino della giustizia degli uomini a vantaggio del principe, e in questo modo, favorisce il consolidamento di una giustizia regale che si sostituisce progressivamente alla vendetta privata. Varie volte abolito e ristabilito[11], il duello giudiziario viene definitamente proscritto solamente tre secoli più tardi: l’ultimo combattimento autorizzato da un re francese si è svolto il 10 luglio 1547 a Saint-Germain-en-Laye, sotto gli auspici di Enrico II.

Questi antichi modi di costruire la prova sono stati gradualmente sostituiti dalla validità di indizi raccolti durante l’inchiesta giudiziaria, all’occorenza rafforzati dalla perizia medico-legale eseguita sul corpo della vittima. Associato ad un rinnovamento dei costumi e ad una maggiore raffinatezza della sensibilità, la proibizione del duello giudiziario gettò un’ombra sull’uso privato del duello d’onore. Ne offre una testimonianza, oltre alla legislazione promossa da Luigi VII e soprattutto da San Luigi[12], la ferma condanna della chiesa, in una celebre dichiarazione del Concilio di Trento[13]. Omicidio volontario, accompagnato da un suicidio (anche se non vi è passaggio all’atto), il duello è annoverato dal diritto canonico tra i crimini di lesa-maestà divina. Appropriazione del diritto regale di giustizia e atto sovversivo di insubordinazione, il duello fa parte della vasta categoria dei crimini di lesa-maestà umana ed è passibile di una condanna a morte infamante[14].

La duplice ostilità della corona e dell’altare non segna tuttavia la fine di questa antica abitudine nobiliare, che rimane ben impressa nella mentalità aristocratica dei secoli successivi. Il fatto è che, insieme con la nascita, per un nobile, la cosa principale era l’onore, e che l’onore non solo richiede il coraggio, ma esclude per ciò stesso la menzogna, essendo la menzogna considerata un atto di codardia. La sfida di un combattimento giudiziario, come più tardi quella di un duello d’onore, si esprime mediante l’accusa di avere mentito, il démenti, che disonora l’avversario e lo obbliga a domandare riparazione, dal momento che il rifiuto di battersi confermerebbe la sua viltà.

Sino a Luigi XIV escluso, uno scarto considerevole separa la severità del discorso normativo ufficiale dal lassismo della pratica giudiziaria. Fatta salva qualche rara eccezione, come quella notoria del conte François de Montmorency de Bouteville, condannato per dare l’esempio e decapitato nel 1627, dopo una ventina di duelli mortali, la giustizia castiga assai raramente. Malgrado lo spreco di sudditi sottratti al servizio della monarchia, i re si mostrano clementi nei confronti di combattenti di cui ammirano le prodezze, l’audacia e lo sprezzo del pericolo. Nonostante il crescente consenso che le critiche anti-duello riscontrano nel corso del tempo e soprattutto nel secolo XVIII, tanti uomini apparentemente ragionevoli continuano a puntare tutto su un combattimento aleatorio. Le élites intellettuali del secolo XVIII non hanno smesso di discutere sulla tirannia del point d’honneur. Cesare Beccaria vi consacra un capitolo del Dei delitti e delle pene (§ X, « De’ duelli). Sulla scia di Hobbes, Montesquieu e Vattel[15], Beccaria si interroga su una pratica che la legge proibisce, ma che sopravvive nel costume. Perché la repressione penale dei duelli è inefficace? Beccaria conosce il paradosso: non appena il potere sovrano impedisce la celebrazione di un duello, condanna l’offeso ad un’infamia senza rimedio. Ma questo paradosso non spiega per lui il fallimento delle leggi. Per «prevenire» la mania omicida del duello d’onore e ribaltare l’inveterata convizione secondo la quale è meglio essere un criminale al cospetto della legge che un vile agli occhi dell’opinione, Beccaria propone che il legislatore prenda delle misure suscettibili di favorire, con il tempo, la sottomissione dell’opinione al regime della giustizia di Stato. Al fine di contrastare l’ethos violento dell’onore, si mostra partigiano di una nuova pedagogia della legge. La formula è vigorosa: occorre che i cittadini imparino a temere le leggi, e non gli uomini. Preoccupandosi innanzitutto degli infelici oppressi dai costumi, raccomanda che solo chi ha provocato il duello sia punito, «dichiarando innocente chi senza sua colpa è stato costretto a difendere cio che le leggi attuali non assicurano, cioè l’opinione, ed ha dovuto mostrare a’ suoi concittadini ch’egli teme le sole leggi, e non gli uomini»[16].

In effetti, l’editto di Luigi XIV nel 1643, senz’altro il più rigoroso per arginare la violenza illegale del duello, non faceva distinzione tra i rei del crimine di duello, l’accusato e l’accusante, condannando entrambi alla pena capitale. La proposta di Beccaria, volta a cambiare i costumi mediante lo strumento legislativo, interviene in un contesto in cui i rapporti tra le leggi e i costumi restano conflittuali, soprattutto in Francia. Nelle Lettere persiane, il contrasto tra giustizia del re e codice dell’onore è ben descritto da Usbek. Osservatore esterno, il persiano constata come i Francesi vivano in una «condizione assai violenta»: «perché le stesse leggi dell’onore obbligano un uomo onesto a vendicarsi quando è stato offeso, ma da un altro lato la giustizia lo punisce con le pene più crudeli quando si vendica. Se si seguono le leggi dell’onore, si muore sul patibolo; se si seguono quelle della giustizia, si è banditi a vita dalla società degli uomini: vi è dunque solo questa crudele alternativa, morire o essere indegni di vivere»[17].

Il fatto è che l’onore continua ad essere, per molti, non già una convenzione arbitraria, ma un istinto naturale. Nel 1680 Bayle afferma «che ci sono idee di onore nel genere umano che sono opera della natura, cioè della Provvidenza generale. Diciamolo in special modo di quell’onore di cui i nostri uomini valorosi (braves) sono tanto gelosi e che si oppone alla legge divina»[18]. Montesquieu/Usbek, dal canto suo, ha mostrato la connessione del desiderio di gloria a «quell’istinto che ogni creatura ha per la propria conservazione. Sembra che aumentiamo il nostro essere quando possiamo portarlo nella memoria altrui: acquisiamo una nuova vita, che diventa preziosa come quella che abbiamo ricevuto dal Cielo»[19]. Tale osservazione sembra legittimare, sul piano psicologico, il caso peculiare del desiderio di reputazione e di preferenze che è il punto d’onore. Certo, il duello all’ultimo sangue è, in definitiva, un rituale «piuttosto mal immaginato», visto che ha la meglio non già colui che ha ragioni più forti, ma chi si mostra più abile a maneggiare la spada. Senonché, Montesquieu non solo riconosce una certa impotenza delle leggi e della ragione dinanzi al culto francese dell’«onore, che vuole regnare sempre», che «si ribella e […] non conosce punto la legge», ma suggerisce al legislatore di rispettare i costumi che regolano le azioni degli uomini, guardandosi dal promulgare delle leggi contrarie allo spirito generale dei popoli[20]. Riconducendo il desiderio di gloria e il rifiuto del disonore ad un istinto naturale, e criticando l’universalismo astratto che vorrebbe autoritariamente cambiare i costumi a suon di leggi[21], Montesquieu non finisce in qualche modo col legittimare il fondamento del duello, o per lo meno, col giustificare il mantenimento di questa usanza?

II. La prospettiva muta nel libro XXVIII dello Spirito delle leggi. Il duello giudiziario vi è esaminato sotto il profilo della storia del diritto e nella sua dimensione di retaggio culturale. Studiando «l’origine e le rivoluzioni delle leggi civili dei francesi», Montesquieu consacra ben quindici capitoli (13-26) alla riflessione sulla formazione della «giurisprudenza del combattimento giudiziario». Egli esamina la questione dello «spirito generale delle leggi dei Germani» riguardo ai capi d’imputazione, alle prove giudiziarie, ai testimoni, alle épreuves e alle pene. Si tratta di spiegare la nascita del combattimento come istituzione giudiziaria e di far emergere la logica che presiede alla prova per mezzo del combattimento. Montesquieu mette in rilievo che la giuridicizzazione del duello dipende dall’istituzione delle prove negative, mediante le quali l’accusato negava il capo di accusazione. In un lungo inciso, inserito nell’articolo CHAMPION dell’Eniclopedia, D’Alembert commenta un passaggio del libro XXVIII (cap. 23), che è il primo dei tre libri dello Spirito delle leggi consacrati alla storia feudale: «è uno spettacolo curioso, dice l’illustre autore de Lo Spirito delle leggi, vedere questa mostruosa usanza del combattimento giudiziario ricondotta in principi, e di trovare il corpo di una giurisprudenza tanto singolare. Gli uomini, in fondo ragionevoli, sottopongono a delle regole i loro stessi pregiudizi. Nulla era più contrario al buon senso del combattimento giudiziario: ma una volta posto questo punto, l’esecuzione è stata fatta con una certa prudenza». Questo passo riveste un duplice interesse agli occhi di D’Alembert: per un verso, Montesquieu «entra in un dettaglio molto curioso circa le regole di questi combattimenti, che potremmo chiamare i codici degli omicidi [codes des homicides]»[22]. La locuzione «code des homicides»[23] è in corsivo nel testo. Essa sostituisce quella più descrittiva di «corpo di giurisprudenza»[24], impiegata da Montesquieu, e assume una connotazione peggiorativa che evidenzia l’istituzionalizzazione della violenza dell’antica legislazione. Per un altro verso, Montesquieu ha elaborato delle «preziose riflessioni filosofiche» che D’Alembert riconduce a tre aspetti. In primo luogo, lo scarto tra la legge salica del secolo VI[25] e quella dei Franchi ripuari[26], del secolo VII, in materia di prove. La legge salica non autorizzava il combattimento giudiziario, per la ragione che essa «non ammetteva l’uso delle prove negative, costringendo sia l’accusatore che l’accusato a provare», cioè a produrre una prova positiva. La legge dei Franchi ripuari, al contrario, ammettendo l’uso delle prove negative, metteva un guerriero «sul punto di essere confuso da una semplice asserzione o negazione» nella necessità di «concedere il combattimento al suo avversario per vendicare il suo onore»[27]. La genesi di quello che D’Alembert battezza «codice degli omicidi» è dunque legato ai risvolti epistemologici dell’assetto probatorio.

D’Alembert fa così osservare che Montesquieu «cerca nei costumi degli antichi Germani la ragione di questa usanza tanto bizzarra, che fa dipendere l’innocenza dalla casualità di un combattimento». Occorre non perdere di vista che ciò che è progressivamente caduto in desuetudine in età moderna costituisce un progresso giuridico ad un’epoca precedente. È quanto D’Alembert afferma parafrasando Montesquieu: «Presso questi popoli indipendenti, le famiglie si facevano la guerra per degli omicidi, dei furti, delle ingiurie […]. Si modificò questo costume, assoggettando quella guerra a delle regole»[28]. È lecito stabilire un parallelo tra il combattimento giudiziario e la legge del taglione: in ambo i casi, si tratta di scongiurare, attraverso l’impiego di regole e norme, la pratica delle vendette private, ovvero la tentazione di farsi giustizia da sé.

Per finire, il condirettore dell’Enciclopedia, che ha reso a Montesquieu un vibrante omaggio in apertura del tomo V, conclude l’articolo CHAMPION con una nota polemica che non attinge dallo Spirito delle leggi. Raccordando in un rapporto di causa-effetto combattimento giudiziario e duello d’onore, D’Alembert punta il dito contro «il furore della nostra nazione per i duelli»[29].

III. Altri tre enciclopedisti denunciano il duello: Boucher d’Argis, Jaucourt e Saint-Lambert. Giurista che ha redatto oltre quattromila articoli, Boucher d’Argis firma l’articolo DUEL, apparso nel 1755. In questo trattato in miniatura di storia del diritto, allo stesso tempo chiaro e ben documentato, egli associa ad una ricostruzione della genesi del duello giudiziario e d’onore, una condanna senza riserve: «Ci si è sempre indignati, e a ragione, contro questo costume barbaro dei duelli». Tanto le autorità ecclesiastiche quanto quelle monarchiche, aggiunge, hanno censurato questi «disordini» e moltiplicato invano gli sforzi «per sradicare questo odioso costume»[30]. Boucher d’Argis ricorda con discrezione le pesanti responsabilità comuni della chiesa e degli antichi re di Francia, che a lungo hanno legittimato o tollerato il duello. Pur conoscendo l’opera di Montesquieu, Boucher d’Argis la cita di rado. Si potrebbe invece mettere in relazione il suo articolo con il Secolo di Luigi XIV di Voltaire, pubblicato nel 1751. Alla stregua di Voltaire, Boucher d’Argis osserva che la liturgia romana benediceva i combattenti (missa pro duello). Se la chiesa aveva consacrato la violenza, il potere civile ha lasciato che imperversasse. Una frecciata lanciata a conclusione dell’excursus storico degli editti regali, ben riassume il senso della critica mossa nei confronti dell’autorità religiosa e civile: «L’analisi appena svolta degli ultimi regolamenti contro i duelli prova che si presta attualmente tanta più attenzione a prevenirli e ad impedirli di quanta se ne prestasse anticamente per permetterli»[31].

Mentre la critica di Boucher d’Argis è espressa con finezza e prudenza, il protestante Jaucourt utilizza l’articolo ÉPREUVE per ingaggiare una polemica frontale nei confronti della chiesa romana e dei preti, descritti come pronti a tutto per consolidare il loro dominio sulle coscienze alimentando la superstizione e la credulità dei popoli. Diversamente da Montesquieu, che aveva cercato di comprendre questi fenomeni a partire dal loro sostrato storico, mostrando che l’ordalia permette di stabilire la prova giudiziaria secondo l’antica giurisprudenza del combattimento, Jaucourt preferisce denunciarne il carattere eminentemente irrazionale: «Non solo la chiesa tollerò per secoli tutte le prove dell’ordalia, ma ne indicò le cerimonie, diede le formule delle preghiere, delle imprecazioni, degli esorcismi, e accettò che i preti vi prestassero il loro ministero […]. Ma perché nella prova dell’acqua fredda si riteva reo e non innocente, colui che restava a galla? è perché per l’opinione pubblica, si trattava di una dimostrazione che l’acqua (che per cautela si era fatta preventivamente benedire) non voleva ricevere l’accusato, e che bisognava perciò guardarlo come assulatamente colpevole […]. In molti si stupiscono che i popoli abbiano potuto ritenere così a lungo che le prove dell’ordalia fossero dei modi sicuri per scoprire la verità, quando tutto concorreva a dimostrare la loro incertezza […]; ma ignoriamo forse che l’impero della superstizione è, tra tutti gli imperi, il più cieco e il più duraturo?»[32].

Talvolta, nell’Enciclopedia, una stessa nozione è oggetto di due articoli contigui, caratterizzati dalla stessa voce, ma classificati in materie diverse e firmati da autori diversi. Accade che questi autori difendano tesi contrapposte. Il caso più noto riguarda gli articoli DROIT NATUREL di Boucher d’Argis e di Diderot. Ma si possono evocare altri esempi in cui Boucher d’Argis e Jaucourt discutono sulla schiavitù[33], sul crimine di lesa-maestà[34], sulla tortura giudiziaria[35]… Quanto al duello, esso non dà adito a controversie: nessuna contro-argomentazione viene ad opporsi alle condanne pronunciate da D’Alembert, Boucher d’Argis e Jaucourt. Ciononostante, all’articolo DÉMENTI, Jaucourt ritorna sul problema del punto d’onore: «le leggi penali del démenti stabilite sotto Luigi XIV come la proibizione dei duelli e più ancora l’inutilità di quelle leggi cui nessuno ricorre, provano abbastanza la delicatezza che sempre sussiste tra noi, su questo articolo del punto d’onore». Jaucourt attinge tacitamente al capitolo 20 del libro XXVIII dello Spirito delle leggi, consacrato all’«origine del punto d’onore». Senza giustificare i duelli, il cavaliere de Jaucourt sembra in certo modo sedotto dall’ethos cavalleresco, al punto da postulare che «la vera ragione che rende i Francesi così sensibili al démenti, è che esso sembra racchiudere la bassezza e la viltà dell’anima». Sulla scia di Montesquieu, Jaucourt osserva che «restano nei costumi delle nazioni militari, e nella nostra in modo particolare, delle tracce profonde di quelli degli antichi cavalieri che giuravano di mantenere la parola data e di rendere conto in modo sincero delle loro avventure: queste tracce hanno lasciato forti impressioni, che non si cancelleranno mai; e se l’amore per la verità non è giunto sino a noi in tutta la purezza dell’età d’oro della cavalleria, esso ha perlomeno prodotto nel nostro animo un tale disprezzo per quelli che mentono in modo sfrontato, che si continua per questo principio a considerare un démenti come l’oltraggio più irrimediabile che un uomo d’onore possa ricevere»[36]. Quale che sia il punto di vista adottato, si deve constatare come la riflessione sul duello conduca necessariamente a mettere in questione l’idea di onore.

IV. Ora, l’autore dell’articolo HONNEUR prende apertamente le distanze da Montesquieu. Non firmato, ma abitualmente attribuito al marchese di Saint-Lambert, questo articolo designa l’onore come «la stima di noi stessi e il sentimento del diritto che abbiamo alla stima altrui». L’onore è poi messo in relazione al punto d’onore, definito come «l’esattezza nell’osservare certe leggi stabilite dai pregiudizi e dal costume». Pur senza essere esplicitamente menzionata, la furia distruttrice dei duelli è comunque presa di mira: «Si onora ancora oggi in certi paesi d’Europa la più vile e la più odiosa delle vendette […]»[37].

Proponendo di convertire in articolazione la distinzione tipologica onore/virtù, e postulando  che «l’onore o la virtù nella repubblica, nella monarchia, sono la molla principale, a seconda della natura delle leggi, della potenza, dell’estensione, dei pericoli, della prosperità dello Stato»[38], Saint-Lambert prende in contropiede Montesquieu, che considerava la distinzione tra i principi, onore e virtù, «di una fecondità così grande che [essa] forma quasi tutto il mio libro»[39]. Con un’ironia rispettosa, Saint-Lambert corregge Montesquieu: «Un genio di prim’ordine ha preteso che l’onore fosse la molla delle monarchie, e la virtù quella delle repubbliche. È permesso vedere qualche errore nelle opere di questo grand’uomo, che aveva onore e virtù!». In particolare, l’enciclopedista rimprovera a Montesquieu un difetto di precisione. La definizione stessa di virtù come «l’amore delle leggi e della patria» gli sembra difettosa, perché «tutti gli uomini, scrive, amano la loro patria, vale a dire che l’amano attraverso la loro famiglia, i loro possedimenti, i loro concittadini, da cui attendono e ricevono aiuti e consolazioni. Quando gli uomini sono contenti del governo sotto il quale vivono, quale che sia il suo genere, amano le leggi, amano i principi, i magistrati che li proteggono e li difendono. Il modo in cui le leggi sono stabilite, eseguite, o vendicate, la forma del governo, sono ciò che si chiama l’ordine politico. Credo che il presidente di Montesquieu si sarebbe espresso con maggiore precisione, se avesse definito la virtù come l’amore dell’ordine politico e della patria. L’amore dell’ordine è in ogni uomo»[40].

In modo generale, nell’Enciclopedia la nozione di onore non è pensata né come il principio unico e la passione dominante delle monarchie, né è dissociata dalla virtù politica. Questa, a sua volta, non è una passione propriamente repubblicana, prerogativa unicamente dei cittadini delle repubbliche, ma degli uomini, a qualunque condizione essi appartengano. Per questa ragione, il legislatore saggio o prudente assocerà «l’idea dell’onore e della virtù all’amore e al rispetto di tutte le leggi»[41].

Va inoltre sottolineato il rifiuto della tesi di Montesquieu sull’onore quale sostituto economico dell’amor patrio[42]. Saint-Lambert non crede né che la monarchia riposi su ambizioni egoiste, né che l’onore conduca i sudditi a contribuire involontariamente alla realizzazione del bene comune; viene negata, in tal modo, la pretesa convergenza involontaria  che l’onore realizzerebbe, secondo Montesquieu lettore di Mandeville[43], tra gli interessi singolari e l’interesse generale[44]. Per Saint-Lambert, l’onore si confonde oramai con la virtù morale e politica, che esige la subordinazione volontaria dell’interesse privato a quello pubblico: «[…] i Mandeville e i loro echi infami non persuaderanno mai gli uomini che il coraggio, la fedeltà ai propri impegni, il rispetto per la verità e per la giustizia non siano punto necessari nei grandi stati»[45]. Saint-Lambert si riferisce forse a Montesquieu quando evoca gli «echi infami» di Mandeville? In ogni caso, contrariamente a Montesquieu, che aveva postulato che l’onore «prende il posto della virtù e la rappresenta ovunque», per andare a parare sull’idea che «nelle monarchie ben regolate, ognuno sarà più o meno un buon cittadino, e si troverà raramente qualcuno che sia un uomo di valore [homme de bien]: perché per essere un uomo di valore bisogna avere l’intenzione di esserlo»[46], Saint-Lambert, più vicino alla tradizione aristotelica, pensa l’onore come prezzo della virtù e considera che sotto un buon governo il vero onore coincide, «in ogni cittadino», con «la coscienza del proprio amore per i doveri per i principi della virtù, e la testimonianza che rende a se stesso, e che aspetta dagli altri, che ottemperi ai propri doveri, e che segua i principi»[47]. Non è l’onore che crea le virtù, ma è l’amore per i propri doveri e per i principi della virtù ad essere la condizione dell’onorabilità, della stima e del riconoscimento generali: «Il legislatore attento eccita i talenti più necessari; è allora che distribuisce ciò che si chiamano gli onori. Sono il marchio distintivo con il quale egli annuncia alla nazione che un tale cittadino è un uomo di merito e d’onore. Ci sono onori per tutte le classi» : il «negoziante abile e l’artigiano industrioso» dovrebbero poter essere decorati proprio come «il fattore intelligente, laborioso, economo, che fa fruttare la terra»[48]. Invece di separare virtù e onore, Saint-Lambert fa quindi dipendere l’onore dalla virtù e dal civismo, e mostra la dissoluzione del punto d’onore nelle molteplici perversioni che genera l’ignoranza.

Rileviamo, in conclusione, che l’Enciclopedia restituisce in modo dettagliato il posto che il duello occupa nella cultura francese del secolo dei Lumi, e che Montesquieu assurge a imprescindibile fonte d’ispirazione. Ciò non toglie, tuttavia, che nella rete enciclopedica le riflessioni dello Spirito delle leggi appaiano non tanto puramente riprodotte, ma commentate, rielaborate e talvolta contestate radicalmente. Mentre Montesquieu, in ciò fedele al proprio metodo che consiste nel ricercare la razionalità dei fenomeni senza giustificare le usanze[49], indossa i panni dello storico che descrive una giustizia che per essere rudimentaria non è sprovvista di una sua peculiare logica, gli enciclopedisti, pur con sfumature e accenti diversi, considerano prevalentemente il duello come una pratica arcaica, irrazionale e mortifera, generata dalla superstizione e da convenzioni barbare. Dinanzi all’onore aristocratico mal compreso, che fa del combattimento all’ultimo sangue e della vendetta privata un privilegio nobiliare, essi operano per promuovere dei valori etico-politici alternativi, come la cultura della ragione, l’amore delle leggi e il primato della virtù che fonda il vero onore. Il duello offre, così, un esempio paradigmatico dell’impegno filosofico che gli enciclopedisti hanno profuso per illuminare l’opinione pubblica nascente e  «cambiare il modo comune di pensare»[50].

Il presente articolo è tratto da una relazione che ho presentato il 25 novembre 2011, nell’ambito del seminario «(Re)lire L’Esprit des lois», organizzato dalla Société Montesquieu (UMR CNRS 5037 dell’École Normale Supérieure di Lione e dell’Institut d’Études Avancées – Collegium di Lione.

[1]Lo spirito delle leggi (III, 7). La traduzione di tutte le citazioni francesi è nostra.

[2]Sulla natura del duello come rituale virile, fondato sull’onore, si veda R. A. Nye, Masculinity and Male Codes of Honor in Modern France, Oxford, Oxford University Press, 1993.

[3]Sulla storia del duello nell’Europa moderna, si vedano i lavori di M. Cuénin, Le Duel sous l’Ancien Régime, Paris, Presses de la Renaissance, 1982; F. Billacois, Le Duel dans la société française des XVIe-XVIIe siècles, Paris, EHESS, 1986; V. G. Kiernan, The Duel in European History : Honour and the Reign of Aristocracy, Oxford, Oxford University Press, 1988; P. Brioist, H. Drévillon et P. Serna (dir.), Croiser le fer. Violence et culture de l’épée dans la France moderne (XVIe-XVIIIe siècle), Seyssel, Champ Vallon, 2002, p. 349-357.

[4]J. Pappas, «La campagne des philosophes contre l’honneur», Oxford, Voltaire Studies, n° 205, 1982, p. 31-44.

[5]Essai sur les mœurs et l’esprit des nations (1756), chap. 100, «Des duels», in B. Bernard, J. Renwick, N. Cronk, J. Godden (éds.), Les œuvres complètes de Voltaire, t. 24, Oxford, Voltaire Fondation, 2011, p. 536.

[6]Voltaire, Prix de la justice et de l’humanité, Londres, 1777, art. IV, «Du duel», p. 19.

[7]Le Siècle de Louis XIV, in Œuvres historiques, Paris, Gallimard, 1957, p. 972.

[8]Si veda C. Spector, «Rousseau: l’honneur au tribunal de l’opinion publique», in H. Drévillon et D. Venturino (dir.), Penser et vivre l’honneur à l’époque moderne, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2011, pp. 127-142. 

[9]Julie ou La nouvelle Héloïse, Œuvres complètes de Rousseau, Paris, Gallimard, 1959-1995, 5 volumes, t. II, première partie, lettre LVII.

[10]Sulla giustificazione del costume del duello in Montesquieu, si veda C. Spector, «“Il faut éclairer l’histoire par les lois et les lois par l’histoire”: statut de la romanité et rationalité des coutumes dans L’Esprit des lois de Montesquieu», in M. Xifaras (dir.), Généalogie des savoirs juridiques : le carrefour des Lumières, Bruxelles, Bruylant, 2007, p. 15-41.

[11]Abolito da Luigi IX (Saint Louis), in accordo con la dottrina cattolica, fu ristabilito dal nipote Filippo il Bello.

[12]Cf. l’articolo DUEL dell’Enciclopedia: «In Francia, Luigi VII fu il primo a limitare l’uso dei duelli […]. S. Luigi andò oltre; dopo aver proibito le guerre private nel 1245, con l’ordinanza del 1260, proibì anche e assolutamente i duelli nei suoi territori, sia in sede civile sia penale; e, al posto del duello, impose che si facesse ricorso alla prova testimoniale» (Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, etc., abbreviato ENC., eds. Denis Diderot and Jean le Rond D’Alembert, Paris, 1751-1772. University of Chicago: ARTFL Encyclopédie Project [Spring 2011 Edition], Robert Morrissey [ed.], http://encyclopedie.uchicago.edu/, art. DUEL [Jurisprudence], t. V, p. 161b).

[13]Sess. 25, can. 19.

[14]Cl.-J. de Ferrière, Dictionnaire de droit et de pratique, art. DUEL, 2 vol., Paris, chez la veuve Brunet, 1769, t. I, p. 519b.

[15]Emer de Vattel, Le droit des gens ou Principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux affaires des nations et des souverains, 2 vols., Londres, 1758, t. I, chap. XIII, § 175-176, «Du duel ou des combats singuliers».

[16]Cesare Beccaria, Des délits et des peines. Dei delitti e delle pene, éd. Ph. Audegean, Lyon, ENS Éditions, 2009, § X («De’ duelli»), p. 174.

[17]Montesquieu, Lettres persanes, in J. Ehrard et C. Volpilhac-Auger [éd.], Œuvres complètes I, Oxford-Naples, Voltaire Foundation et Istituto italiano per gli Studi Filosofici, 2004, lettre 88. Il passo non è ripreso nell’Enciclopedia.

[18]Pierre Bayle, Pensées diverses sur la comète (1682), chap. 172.

[19]Lettere persiane, 89.

[20] Cf. il principio enunciato in XIX, 14: «il principio enunciato in XIX, 14: «quando si vogliono cambiare gli usi e i costumi, non bisogna farlo con le leggi; ciò apparirebbe troppo tirannico; meglio cambiarli con altri usi e con altri costumi».

[21] Cf. il principio enunciato in I, 3: le leggi il principio enunciato in I, 3: le leggi «devono essere telmente specifiche al popolo per il quale sono fatte, che è rarissimo che quelle di una nazione possano andar bene ad un’altra».

[22]ENC., art. CHAMPION (Histoire moderne), t. 3, p. 85a.

[23]Dans l’Essai sur les mœurs, Voltaire impiega la loczione «code des meurtres». Si vedano Les œuvres complètes de Voltaire, cit., t. 24, p. 527.

[24]Sulla ricezione encivclopedica dell’idea di codice nello Spirito delle leggi, si veda L. Delia, « L’Encyclopédie et le “code Montesquieu” », in R. Minuti et L. Bianchi, Montesquieu et les philosophies de l’histoire, Napoli, Liguori, « Cahiers Montesquieu n° 10 », in corso di pubblicazione.

[25Codice penale e civile proprio ai Franchi detti  “saliens” (secolo IV).

[26]Ripuaria Lex, è una raccolta di diritto germanico che data del secolo VII.

[27]ENC., art. CHAMPION (Histoire moderne), t. III, p. 85a.

[28]ENC., art. CHAMPION (Histoire moderne), t. III, p. 85ab.

[29]ENC., art. CHAMPION (Histoire moderne), t. III, p. 85b.

[30]ENC., art. DUEL (Jurisprudence), t. V, p. 161b.

[31]ENC., art. DUEL (Jurisprudence), t. V, p. 164b.

[32]ENC., art. ÉPREUVE, t. V, p. 838-9. Cf. l’articolo ÉPREUVE delle Questions sur l’Encyclopédie di Voltaire, in Ch. Mervaud (éd.), Les œuvres complètes de Voltaire, cit., t. 41, p. 197-205.

[33]L. Delia, «Esclavage colonial et droits de l’homme dans l’Encyclopédie», in L. Delia et F. Hoarau (dir.), L’esclavage en question: regards croisés sur l’histoire de la domination, Dijon, Publications du Centre Georges Chevrier, 2010, p. 43-63.

[34]L. Delia, «Le crime de lèse-majesté en question dans l’Encyclopédie», CORPUS, revue de philosophie, 51 (2007), p. 249-277, dossier sur «L’Encylopédie et l’ordre des renvois», sotto la direzione di F. Guénard, F. Markovits et M. Spallanzani.

[35]L. Delia, «La torture judiciaire dans l’Encyclopédie», in Filósofos, filosofía y filosofías en la Encyclopédie, in M. Granada, R. Rius et P. Schiavo (dir.), Barcelona, EUB, 2009, p. 175-188.

[36]ENC., art. DÉMENTI (Histoire moderne), t. IV, p. 808-9 (corsivo mio).

[37]ENC., art. HONNEUR (Morale), t. VIII, p. 288a.

[38]ENC., art. HONNEUR (Morale), t. VIII, p. 289a.

[39]Montesquieu, Réponses à la Faculté de Théologie, in Œuvres complètes de Montesquieu, éd. A. Masson, Paris, Nagel, 1955, t. III, p. 660.

[40]ENC., art. HONNEUR (Morale), t. VIII, p. 288b (corsivo nel testo).

[41]ENC., art. HONNEUR (Morale), t. VIII, p. 290a.

[42]Voir Lo spirito delle leggi, III, 6-8.

[43]Mandeville, La Fable des abeilles (1714), trad. L. et P. Carrive, Paris, Vrin, 1998. Cf. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, XIX, 11: «non tutti i vizi politici sono anche vizi morali, e […] e non tutti i vizi morali sono vizi politici; ed è ciò che non devono ignorare coloro che fanno delle leggi contrarie [qui choquent] allo spirito generale». Si veda C. Spector, « Vices privés, vertus publiques : de la Fable des abeilles à L’Esprit des lois », Montesquieu and the Spirit of Modernity, D. Carrithers & P. Coleman éd., Oxford, Voltaire Foundation, 2002, p. 127-157.

[44] «È vero che, filosoficamente parlando, è un falso onore quello che guida tutte le parti dello Stato: ma questo falso onore è tanto utile alla cosa pubblica, quanto quello vero lo sarebbe per i singoli che potrebbero averlo».

[45]ENC., art. HONNEUR (Morale), t. VIII, p. 290ab.

[46]Lo spirito delle leggi, III, 6.

[47]ENC., art. HONNEUR (Morale), t. VIII, p. 290b.

[48]ENC., art. HONNEUR (Morale), t. VIII, p. 289b.

[49]Lo spirito delle leggi , XVI, 4: «Dans tout ceci, je ne justifie pas les usages, mais j’en rends les raisons».

[50]ENC., art. ENCYCLOPÉDIE (Philosophie), t. V, p. 642a.

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