La lezione kantiana sulla “Psychologie”

Elisabetta Mainenti

 

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kantABSTRACT. It is widely recognized that Leibniz’s basic understanding of the mind (as a combination of consciousness and unconsciousness) gave birth to a tradition destined to affect the entire evolution of German psychology until Freud. The proposal of the possible existence of unconscious mental processes was in complete contradiction with the dominant perspective. However, following Kant’s suggestions about the articulated and complex architecture of the soul contained in his Lectures on Psychology, it can be argued that, paradoxically, it is precisely the ‘Eponymous hero’ of the ‘Enlightened Era’ that gives us a first major revision of a ‘treasure’ made by very complex mechanisms, not detected by the spontaneous consciousness, through which our soul develops its knowledge. In fact, for Kant, far from Descartes but closer to Spinoza, the soul ─ which is not only a ‘thinking substance’, as it is continuously in commercium with the body ─ is an integrated and highly complex structure with functions and sub-functions, comparable today to a computer.


La sintesi in generale […] è il semplice effetto della facoltà di immaginazione, di quella funzione cieca, sebbene indispensabile, dell’anima, senza la quale non avremmo in assoluto alcuna conoscenza, ma della quale solo raramente siamo coscienti. Ricondurre questa sintesi ai concetti, è una funzione che spetta all’intelletto, ed è per mezzo di essa che l’intelletto ci procura, per la prima volta, la conoscenza, nel senso proprio di questo termine.
Immanuel Kant[1]

1. Introduzione alla psycologia

 

 

Per Kant tutte le questioni riguardanti l’anima, avendo la capacità di mettere in moto tutte le potenze dell’intelletto, hanno la facoltà di trascinare l’uomo in una gara speculativa il cui trofeo non può essere altro che una conoscenza artificiosa. Da questo punto di vista, la metafisica veniva intesa dal  Filosofo di Königsberg ― a partire già dal suo saggio I sogni di un visionario. Spiegati con i sogni della metafisica (1766) come «la scienza dei limiti della ragione umana»: la ragione, analogamente a un «piccolo paese» che ha sempre molti confini, dovrebbe infatti prodigarsi «per conoscere e fissare bene i suoi possessi», piuttosto che «andare fuori ciecamente in cerca di conquiste». Orbene, questa ricerca, che per Kant può essere condotta  solo da quella filosofia che è in grado di conoscere non solo gli oggetti dell’intelletto umano ma anche il rapporto di questo con quelli,  riesce allorquando «vengono posti dei termini che non permettono all’indagine di vagare fuori dal proprio dominio»[2].

Nonostante queste considerazioni sull’anima e su ciò che ad essa era connesso (la sua natura spirituale, la libertà, l’immortalità, ecc.) l’Eroe eponimo dell’erra illuminata non liquidò mai la psicologia, la quale non solo segnò tutta la sua produzione «dai primi scritti fino agli ultimi appunti»[3], ma fu fatta oggetto di insegnamento universitario nel periodo immediatamente antecedente alla (prima) pubblicazione della Critica della Ragion Pura (1781), presumibilmente durante l’anno accademico 1778-79 o quello successivo  ’79-80 [4].

Nelle Lezioni di psicologia ― pubblicate «per la prima volta nel 1821, insieme alle lezioni di ontologia, cosmologia e teologia razionale, come Lezioni di Metafisica»[5] ―,  Kant elaborò una capillare analisi della fisiologia intesa come conoscenza degli oggetti dei sensi:

(A) con una prima classificazione, operata secondo la fonte di conoscenza, egli distinse la fisiologia empirica (attinta dall’esperienza) dalla fisiologia razionale (attinta dai concetti di ragione);

(B) con una seconda classificazione, operata invece secondo le due specie dei sensi (esterno/interno), differenziò la fisiologia degli oggetti del senso esterno ― denominata fisica e la cui caratteristica generale è il moto ―, dalla fisiologia degli oggetti del senso interno ― denominata psychologia e la cui caratteristica è invece il pensare ―; quest’ultima può essere suddivisa a sua volta in: a) psychologia generalis o pneumatologia, (se si riferisce agli esseri pensanti in generale) e b) psychologia specialis (se si riferisce al soggetto pensante che noi consociamo, ovvero la nostra anima).

Infine ― poiché tanto la fisica quanto la psychologia possono essere distinte secondo la modalità con cui ciascun proprio oggetto esiste in empiriche  e razionali  ― Kant operò il seguente ulteriore distinguo:

(a) DOTTRINA DEI CONCETTI DELLA RAGIONE (metafisica) ― essa comprende la fisica razionale (conoscenza degli oggetti del senso esterno mutuata dalla pura ragione) e la psychologia razionale (la conoscenza degli oggetti del senso interno ― esseri pensanti ― mutuata dalla pura ragione);

(b) DOTTRINA DELL’ESPERIENZA ― essa comprende la fisica empirica (la conoscenza degli oggetti del senso esterno mutuata dall’esperienza) e la psychologia empirica (la conoscenza degli oggetti del senso interno ― esseri pensanti ― mutuata dall’esperienza). [6]

Per Kant è dunque evidente che la fisica empirica appartiene tanto poco alla metafisica quanto altrettanto poco appartiene alla metafisica la psicologia empirica (in quanto entrambe dottrine dell’esperienza e non della ragione pura che è invece di pertinenza esclusiva della metafisica); ed è altresì evidente il perché sia la fisica razionale sia la psychologia razionale siano invece finite dentro la metafisica. Di contro, il motivo per cui la psychologia empirica sia confluita nella metafisica, fu dovuto al fatto che ― come spiega sempre il Professore nelle sue Lezioni ― in primo luogo non si era mai indagato bene che cosa fosse la metafisica ― «conoscenza speculativa della ragione»[7] ―  così che non potendo definire i suoi confini, vi furono introdotte molte cose che non vi entravano; in secondo luogo perché la dottrina empirica dei fenomeni dell’anima non era mai riuscita a pervenire a sistema tanto da potersi costituire come una particolare disciplina accademica, sebbene, invece, essa meritasse «di essere sviluppata ed esposta così separatamente come la fisica empirica, perché la conoscenza dell’uomo non è affatto inferiore a quella dei corpi, anzi, quanto a valore, le va anteposta di molto»[8].

Ma, non è questo stesso valore quello che troviamo celebrato nel ‘commiato’ della Critica della ragion pratica (1788)?

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno […] La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un modo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare e con cui […] io mi riconosco in una connessione non come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell’universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non  si sa come) della forza vitale. Il secondo invece eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità, in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito[9].

Come è noto, uno fu infatti il quesito fondamentale che accompagnò Kant lungo il sentiero dei sui studi e quindi della sua esistenza: che cosa è l’uomo?; «problema che nella sua forma critica si articola nelle tre domande in cui si dispiega l’intera filosofia di Kant:   1. “Che cosa posso sapere?” 2. “Che cosa debbo fare?” 3. “Ce cosa mi è lecito sperare?”».[10]

2. L’analisi kantiana sulle malattie della mente

 

 

Due anni prima  della pubblicazione dei Sogni di un visionario. Spiegati con i sogni della metafisica (1766) Kant pubblicò un Saggio sulle malattie della mente (1764) che può essere inteso come inizio di quel percorso di ricerca sui disagi mentali che accompagnerà il Filosofo di Königsberg fino agli ultimi anni della sua vita; nel 1798, infatti, Kant pubblicherà lo scritto Sul potere della mente di vincere i sentimenti morbosi per mezzo della sola volontà, in cui sostiene la possibilità e la capacità della ragione umana di impedire lo sviluppo delle diverse forme di malattia nella testa dell’uomo, tra le quali prima tra tutte  è il fanatismo delirante (Scwärmerei), proprio dei fanatici dei visionari e dei mistici , grande nemico della misura e della chiarezza intellettuale e la cui corretta dieta non può essere altro che una concezione positiva della conoscenza che ― in quanto fondata su una corretta relazione sensibile con il mondo esterno ― è la sola capace di compiere quel processo inverso alla de-realizzazione operata dalla follia[11].

Nel Saggio Kant  ci propone una singolare fenomenologia  e quindi nomenclatura delle malattie della testa della gente ― «senza volerne indagare la radice, che certo risiede propriamente nel corpo»[12] ― che parte dall’analisi delle relazioni dell’essere umano con il proprio ambiente socio-culturale. Probabilmente fondamentali per questa sua riflessione a carattere relazionale devono essere stati tanto l’ambiente famigliare[13] quanto la città natale nella quale visse tutta la vita [14]; per Kant, che visse «tra cittadini saggi e ben costumati, e cioè tra persone che tali sanno apparire»[15] ― in quanto la rispettabilità stende un bel velo sui segreti disturbi[16] ― è, infatti, «l’artificiosa costrizione e la raffinatezza opulenta della società civile»  ciò che genera spiritosi, pedanti, pazzi e furfanti[17].  ‘Duettando’ con la felice ignoranza di Jean Jacques Rousseau (1712-1778) [18] ― «la semplice e frugale modestia della natura esige e forma nell’uomo soltanto concetti elementari e una rozza onestà …»[19] ― Kant mette in evidenza come sia proprio  il vivere sociale e artificioso ciò che getta nell’uomo il seme della follia:  le storture della mente, infatti, non sono altro che quelle particolari ‘qualità’ che la stessa mente sviluppa gradualmente proprio nella vita sociale e artificiosa, in una scala di valori che va dalla stupidità fino alla pazzia; una mente ottusa è quella che manca di spirito, quella stupida di intelligenza, quella scaltra di semplicità, quella stolta di capacità di giudizio.  E se da una parte gli istinti della natura umana (che sviluppandosi in diversi gradi generano le diverse passioni) sono le forze motrici del volere ― l’intelletto, che si aggiunge solo per valutare la soddisfazione raggiunta, in realtà, può poco contro le passioni  ― dall’altra è pur vero che un uomo saggio ― ironizza  Kant ― non lo si potrebbe trovare se non solo sulla luna, dove, potendo vivere senza passioni, sarebbe per questo infinitamente ragionevole[20].

Kant considera la pazzia  (che va distinta dalla stoltezza che fa semplicemente coartare la ragione)  quello stato in cui, supportati da una sciocca fantasia,  si capovolgono i principi della retta ragione; ne consegue che, la ragione distorta,  non essendo più in grado di valutare una passione dominante come negativa (scambiando così per soddisfazione l’opposto della sua stessa finalità naturale), crede erroneamente di essere in possesso di ciò di cui è in cerca quando, in realtà,  né è lontana e priva. Non a caso, spiega sempre Kant, la pazzia fa perno su due precise passioni, quali l’orgoglio e l’avarizia capaci entrambi di annientare ciò di cui in realtà si va in cerca: infatti l’orgoglio produce disprezzo piuttosto che riconoscimento (al quale mira una vanità arrogante) e l’avarizia l’impossibilità di godere dei beni posseduti.[21]

Per Kant i suddetti disturbi della mente sono  quelli che vengono generalmente disprezzati ai quali vanno aggiunti quelli che, divisibili in due gruppi, suscitano compassione. Il primo gruppo è quello derivante dell’impotenza che genera malattie della mente definibili tutte genericamente come imbecillità; l’imbecille si può trovare in uno stato di impotenza di fronte alla memoria, alla ragione e alla sensibilità, male quest’ultimo difficilmente sanabile per l’evidente difficoltà di infondere nei suoi organi avvizziti una nuova vita. Il secondo gruppo è quello della stortura che genera, invece, malattie definibili come squilibri psichici i quali, a loro volta, possono essere «distinti in tanti generi principali, differenti tra loro, quante sono le facoltà dell’animo che essi colpiscono»: ovvero, l’allucinazione (che interessa solo l’ambito della sensibilità e della memoria), il vaneggiamento e lo spirito demente (che interessano invece l’attività intellettiva e la facoltà del giudicare):

(a) l’ALLUCINAZIONE, dipendente dalla distorsione dei concetti dell’esperienza. Essa deriva dalla capacità di un determinato soggetto di rappresentarsi, in uno stato di veglia, analogamente a ciò che accade durante lo stato di sonno[22],  certi fenomeni come chiaramente sentiti benché di questi non sia presente nulla nella realtà; cioè, «l’allucinato trasporta fuori di sé dei semplici oggetti della sua immaginazione e li considera come cose realmente presenti davanti a sé […] e l’apparente sensazione acquisterà una così grande vivezza che l’allucinato non dubiterà della sua veracità»[23]. Questa può definirsi come la capacità di sognare ad occhi aperti, propria dei fantasti ― o altrimenti detti dei sognatori svegli[24] i quali sono capaci di vedere non quello che c’è, ma ciò che la loro inclinazione dipinge loro davanti. Tale costituzione fantastica dell’animo trova la sua massima espressione volgare nell’ipocondria,  le cui chimere ingannano non più  propriamente i sensi esterni ma la percezione del proprio stato psico-fisico che acquisisce così tutte quelle condizioni patogene di cui l’ipocondriaco ha nozione. Particolare attenzione merita, per la sua precipua pericolosità,  il fanatico (o visionario o esaltato), la cui allucinazione lo porta direttamente a contatto con le potenze celesti. Tali storture della mente, spiegherà Kant nei Sogni di un visionario,  si suppone derivino da una qualche malformazione e alterazione di certi organi del cervello per cui il movimento dei nervi, che oscillano armonicamente con certe fantasie, avviene secondo certe linee direzionali che, prolungate, si incontrerebbero fuori dal cervello; così che «il focus immaginarius è posto fuori del soggetto pensante e l’immagine, che è opera della pura immaginazione, viene rappresentata come un oggetto che sia presente ai sensi esterni»[25].

Tra le storture della mente che riguardano i concetti dell’esperienza, rientra anche il fantasta riguardo alla memoria, i cui perturbamenti si riferiscono appunto alla capacità memorativa e quindi alle rappresentazioni chimeriche di chissà quale condizione passata[26].

Ora, poiché fino a questo punto (ovvero quello dell’allucinazione) l’errore non eccede la condizione dei concetti dell’esperienza (e quindi della sensibilità) non si è ancora colpita la capacità intellettiva, il cui squilibro invece si manifesta solo attraverso l’errata attività del giudicare che porta alle ulteriori seguenti storture:

(b) il VANEGGIAMENTO (inteso come primo grado di una mente squilibrata): esso è appunto collegato alla capacità di giudizio quando non tiene conto delle comuni regole dell’intelletto: «il vaneggiante vede o si ricorda di oggetti con la stessa esattezza di qualunque sano, solo che spiega di solito il comportamento di altri uomini in base ad una vana presunzione di sé, e crede di potervi leggere chissà quali preoccupanti intenzioni che a quelli non sono mai venuti in mente»[27].

(c) Lo SPIRITO DEMENTE (inteso come il secondo grado di una mente squilibrata): esso è proprio invece di una «ragione che è andata in confusione perché si è impegolata in immaginarie raffinatezze di giudizio su concetti generali»; il massimo grado di squilibrio di un cervello sconclusionato si riscontra nelle ultraraffinate intuizioni riguardanti «la scoperta della lunghezza del mare, la soluzione di profezie o chissà che pasticcio di sciocchi rompicapo».[28]

Quadro sintetico dei disturbi e degli squilibri psichici propri di ciascuna facoltà

RAGIONE: STOLTEZZA (coartazione della ragione); PAZZIA (capovolgimento dei principi della retta ragione); SPIRITO DEMENTE (proprio di una ragione che è andata in confusione)
INTELLETTO: VANEGGIAMENTO (la facoltà di giudizio del vaneggiante non è in grado di tener conto delle comuni regole dell’intelletto)
SENSIBILITÀ: ALLUCINAZIONE (distorsione dei concetti dell’esperienza, propria dei fantasti, fanatici o visionari e ipocondriaci; quando i perturbamenti si riferiscono alla capacità memorativa i fantasti si dicono “fantasti riguardo alla memoria)

Tutte le altre storture della mente possono essere comprese e sussunte sotto le classi sopra menzionate. È dunque evidente che l’uomo  nello stato di  natura, in quanto libero  ―  e perciò sempre in movimento e impegnato vicino all’esperienza per la soddisfazione dei  bisogni elementari  ―  e che utilizza l’intelletto solo per l’azione, «può andare soggetto soltanto a poche stoltezze e difficilmente a qualche pazzia».[29] È, infatti,

nella società civile che si trovano le condizioni favorevoli a tutta questa corruzione […]. L’intelletto, in quanto è sufficiente alle necessità e ai semplici piaceri della vita, è il sano[30] intelletto. In quanto invece viene stimolato ad artificiosa ricchezza, sia nel godimento sia nelle scienze, è il fine[31] intelletto. [… ] In quelli del primo tipo, fantasti o sofferenti di allucinazione, non è propriamente l’intelletto a soffrire, ma solo quella facoltà che suscita nell’animo i concetti dei quali, poi, la capacità di giudizio si serve per confrontarli tra loro. A questi malati si possono benissimo opporre giudizi di ragione, se non per ovviare il loro male, almeno per attenuarlo. Ma poiché in quelli del secondo tipo, i vaneggianti e gli spiriti dementi, è l’intelletto stesso ad essere colpito, non soltanto è stolto ragionare con loro (perché non sarebbero vaneggianti se fossero in grado di capire questi ragionamenti razionali) ma è anche estremamente dannoso. Infatti in tal modo, non si fa che offrire alle loro menti distorte nuova materia per eccitarli a sconsideratezze …[32]

Sarà proprio questo legame tra pazzia ed intelletto ― «pazzia ed intelletto hanno di limiti così mal tracciati che difficilmente si procede a lungo nell’uno dei due domini senza percorrere un piccolo tratto dell’altro»[33] ― che permetterà al Kant dei Sogni di un visionario prima e delle Lezioni dopo, di addentrarsi sempre più nei ‘profondi penetrali’ della mente umana.

Nei Sogni di un visionario Kant illustrò la dynamis dei pensieri oscuri ed inconsci[34] e, paradossalmente, fu proprio la forza di tali ragionamenti che suscitò un profondo interesse nell’Eroe eponimo dell’era illuminata divenendo cosi

… uno dei punti centrali del criterio di divisione tra esaltazione (Schwärmerei) e ragione. […] Confrontandosi con la patologia mentale umana, Kant si pose il problema di come fondare una metafisica come “scienza dei limiti della ragione umana”. Ad una metafisica fondata a posteriori sul  “privato” sentire e fantasticare nella varietà della fenomenologia individuale, Kant, doveva opporre una metafisica fondata a priori su principi “pubblici” regolativi della ragione.[35]



3. Lezioni di Metafisica I : Psycologia empirica e architettonica dell’anima

Kant  dopo aver distinto nelle sue Lezioni la psychologia razionale (che studia gli esseri pensanti considerati muovendo dai concetti) dalla psicologia empirica  (che studia gli esseri pensanti considerati muovendo dall’esperienza), passa all’analisi del substrato che ne sta a fondamento e che esprime la coscienza del senso interno. Tale analisi, ovviamente, non può che essere elaborata all’interno della psicologia empirica, solo attraverso la quale si può pervenire a «quel semplice concetto dell’io che è immutabile e non ulteriormente descrivibile, in quanto esprime l’oggetto del senso interno e lo distingue»[36], e, dunque, a quella «prima proposizione d’esperienza» attraverso cui «mi so immediatamente» e attraverso cui Cartesio poté formulare la sua prima verità: “Io sono”. Dall’esperienza dell’Io, quindi,  posso inferire immediatamente non la mia semplice rappresentazione, come potrebbe essere per tutti gli altri oggetti fuori di me, bensì  la mia stessa esistenza (auto-percezione)[37].

3.1. La distinzione dell’Io: l’intelligenza (in sé) e il suo commercium con il corpo. Il cervello non è il locus dell’anima ma l’analogon del luogo

 

Anche l’Io ― il cui concetto più semplice esprime sostanzialità (il primo soggetto), semplicità (l’anima che pensa in me è un’unità) e  immaterialità (in quanto oggetto del senso interno)[38] ―  va  distinto a sua volta attraverso le sue funzioni e relazioni:

(a) si può parlare dell’Io inteso come intelligenza; ed in questo caso l’Io è un oggetto del solo senso interno;

(b) oppure, si può parlare dell’Io inteso come essere umano; ed in questo caso l’Io è un oggetto tanto del senso interno che esterno, in quanto l’essere umano è costituito dall’intelligenza (oggetto del senso interno) collegata ad un corpo (oggetto del senso esterno); quando l’intelligenza non viene più considerata in sé stessa, ma in collegamento al corpo con cui costituisce l’essere vivente, essa viene denominata anima[39]; l’anima[40], dunque, per Kant ― lontano da Cartesio e più vicino a Spinoza ―, non è solo sostanza pensante

ma costituisce un’unità in quanto legata al corpo. Quindi i mutamenti del corpo sono miei mutamenti. Come anima io sono determinata dal corpo e sto nel commercium con esso. Come intelligenza non sono in alcun luogo […] come anima io determino il mio luogo nel mondo mediante il corpo […] Quel luogo dell’anima che noi ci rappresentiamo nel cervello, è solo la più stretta coscienza di un più stretto dipendere del locus corporeo in cui l’anima agisce in sommo grado. Il cervello è un analogon del luogo, ma non il locus dell’anima[41].

In questo senso l’anima (ovvero l’intelligenza in sé legata ad un corpo) non è da considerarsi un puro ‘pensiero di pensiero’, ma l’ ‘intelligenza di un corpo’ la quale «non sta semplicemente in unione, bensì anche in comunanza reciproca»; così’ che è già evidente che «non possiamo sapere che cosa l’anima sarebbe senza questo corpo, né che cosa il corpo senza l’anima».[42] «La comunanza è quell’unione in cui l’anima costituisce una unità con il corpo; i cui mutamenti del corpo sono al tempo stesso quelli dell’anima e i mutamenti dell’anima al tempo stesso quelli del corpo. Nell’animo non accadono mutamenti che non corrispondono ai mutamenti del corpo. In questo modo inoltre non solo il mutamento, ma anche la natura costitutiva e disposizionale [Beschafenheit] dell’animo corrisponde a quella del corpo»[43].

Il commercio[44] tra anima e corpo[45] ― puntualizza Kant sempre nelle sue Lezioni ― avviene mediante: 1. il pensiero, 2. il volere e 3. gli oggetti esterni;

(a) IL PENSIERO; con evidenti richiami al Teeteto platonico[46] al De Anima di Aristotele[47] e alla seconda sezione dell’Etica di Spinoza[48] Kant spiega appunto come l’anima non potrebbe nulla se il corpo non fosse co-affetto dal pensiero. Il pensiero altro non è che un’elaborazione del cervello ― definito come la tavola[49] «sulla quale l’anima segna i propri pensieri» e per questo condizione necessaria del pensiero delle impressioni ―, delle «impronte di quanto si è pensato» e delle idee materiali ricevute dal corpo, talmente soggetto ai molti attacchi dalla riflessione che diviene tanto più logoro, «quanto più l’anima è attiva »[50];

(b) IL VOLERE; esso «affetta il nostro corpo ancor più del pensare»; è il libero arbitrio che spinge a sua discrezione il corpo ad libitum il quale molto spesso rimane affetto e coinvolto dalle passioni che in esso transitano[51];

(c) GLI OGGETTI ESTERNI, affettando i nostri nervi e sensi, attivano nell’anima la facoltà del piacere/dispiacere che è la facoltà che porta all’azione. Ma come l’anima è affetta dalle sensazioni del corpo parimenti il corpo è altresì affetto dai moti dell’anima, così che si può sostenere che «si può pervenire al corpo attraverso l’animo e all’animo attraverso il corpo»[52].

Se da una parte Kant respinge con forza che l’anima in quanto tale possa definirsi come una unica forza (vis) fondamentale ― se così fosse l’anima non sarebbe sostanza (e sostanza particolare) ma solo una forza e dunque semplicemente fenomeno e dunque accidente ―, dall’altra evidenzia come noi non siamo in grado di derivare dall’anima, che comunque è certamente in sé un’unità,  tutti i suoi differenti atti e facoltà; «chi mai infatti ― domanda Kant ― si prenderebbe la pena di derivare l’intelletto dai sensi?»[53]

Quindi la facoltà cognitiva, e quella del piacere e dispiacere, e la appetitiva sono forze fondamentali. Invano ci si sforza di derivare da una sola tutte le forze dell’anima; e tantomeno è pensabile che come forza fondamentale si possa assumere la vis repraesentativa universi. Al contrario, la tesi che tutti i diversi atti dell’essere umano si debbano derivare dalle forze diverse dell’anima, risponde lo scopo di trattare la psicologia empirica in forma tanto più sistematica.[54]

3.2. La distinzione della coscienza e delle rappresentazioni

Orbene, poiché il nostro rappresentare può essere rivolto tanto agli oggetti del senso interno (sé stessi e i propri stati, e per cui si ha coscienza di sé stesi), quanto a quelli del senso esterno (altre cose fuori di noi; e per cui si conoscono altre cose), Kant procede classificando la coscienza, intesa come percezione o disposizione del percepire ―  un sapere ciò che appartiene a me. È un rappresentare mie rappresentazioni, un percepire sé, insomma percezione[55] ― e considerata necessaria come revisione (ri-flessione)[56] in quattro diversi stati:

(a) COSCIENZA PSYCHOLOGICA: è quella in cui si ha coscienza solo di sé come soggetto (e non delle altre cose);

(b) COSCIENZA LOGICA: è la coscienza rivolta, per esempio, all’attività del numerare; durante tale attività  il soggetto che numera (numerante) è cosciente dei numeri (cosciente di altre cose diverse da sé)  ma non è cosciente di sé come soggetto;

(c) COSCIENZA SOGGETTIVA: si tratta «di un osservare riflesso e rivolto a sé stessi; non è discorsivo ma intuitivo»; è da considerarsi come lo stato più forte;

(d) COSCIENZA OGGETTIVA: costituisce quell’attività cosciente  e necessaria per pervenire alla conoscenza di un qualsiasi oggetto; la conoscenza cosciente e oggettiva è da considerarsi lo stato più sano.

Le rappresentazioni degli oggetti vengono invece distinte in:

chiare: se se ne ha coscienza;

chiare e distinte: se si ha coscienza anche dei loro connotati;

oscure: quando non se ne ha affatto coscienza.[57]

Leibniz ― rammenta Kant ― diceva che il più grande tesoro della nostra anima consta di rappresentazioni oscure, le quali divengono chiare e distinte solo mediante la coscienza dell’anima. Quando, in una situazione sovrannaturale, ci fosse lecito prendere d’un sol tratto coscienza immediata di tutte le nostre rappresentazioni oscure e dell’intero ambito dell’anima, potremo stupirci di noi stessi e del tesoro contenuto nella nostra anima, per la ricchezza di conoscenza che essa contiene. […] Nel campo delle rappresentazioni oscure giace dunque un tesoro costituente quel profondo abisso delle conoscenze umane che non possiamo raggiungere[58].

Nella parte dedicata alla spiegazione della facoltà cognitiva superiore Kant ritornerà sull’argomento, ribadendo appunto che definire l’intelletto quale facoltà di conoscenze chiare e distinte è un errore, perché anche la sensibilità si fonda sulla coscienza; la coscienza infatti «è necessaria a tutte le conoscenze e rappresentazioni; quindi possono essere chiare e distinte anche delle conoscenze sensibili»[59]; è dunque la coscienza che determina chiarezza e distinzione tanto nella sensibilità quanto nell’intellezione.

3.3. La distinzione delle tre facoltà

 

Per Kant, tre sono le facoltà fondamentali: quella delle rappresentazioni (altrimenti detta facoltà cognitiva), degli appetiti e del sentimento del piacere/dispiacere; queste si suddividono ciascuna al loro interno in superiore o inferiore, a seconda che il soggetto si disponga nella relazione con gli oggetti in un atteggiamento attivo  o passivo;

(a) l’insieme delle facoltà inferiori (passive) costituisce la SENSIBILITÀ ― «aspetto passivo della nostra facoltà cognitiva, in quanto siamo affetti dagli oggetti»;  «capacità di appetire qualcosa, in quanto siamo affetti dagli oggetti»; «capacità di trovare gradimento o disagio in rapporto agli oggetti che ci affettano»; [60]

(b) l’insieme delle facoltà superiori (attive) costituisce l’INTELLETTUALITÀ ― «aspetto spontaneo della nostra facoltà, in quanto noi consociamo noi stessi, oppure appetiamo qualcosa o abbiamo gradimento o disagio rispetto a qualcosa»;[61].

Questa distinzione tra sensibilità ed intellettualità, per il filosofo di Königsberg, diversamente da Wolff,  non porta un immediato abbinamento tra  conoscenze sensibili e conoscenze confuse da una parte e  tra conoscenze intellettuali e conoscenze chiare dall’altra[62], perché «vi possono anche essere rappresentazioni intellettuali confuse e rappresentazioni sensibili chiare e distinte»  in quanto vi «è una chiarezza e distinzione sensibile e una intellettuale. Quella sensibile sta nell’intuizione e quella intellettuale nei concetti. […] Se […] la conoscenza è confusa, il motivo non è il suo essere sensibile, ma l’essere logicamente confusa, <cioè> non ancora elaborata dall’intelletto. Tutte le conoscenze provenienti dai sensi sono dapprima  logicamente confuse, se non sono ancora elaborate dall’intelletto; ma non sono sensibili per il solo fatto di essere ancora confuse […] La chiarezza e l’oscurità sono solo forme che spettano sia alle rappresentazioni sensibili sia a quelle intellettuali. Le rappresentazioni sono sensibili ed intellettuali a seconda della loro origine; e possono essere chiare e distinte oppure confuse.»[63]

3.4. La prima facoltà dell’anima: la facoltà cognitiva

3.4.1. La facoltà cognitiva inferiore: facoltà del sentire o dei sensi

La conoscenza sensibile, a sua volta, viene distinta da Kant in (A) rappresentazione dei sensi per sé stessi e (B) conoscenze della capacità figurante;

(A) LA RAPPRESENTAZIONE DEI SENSI PER SÉ STESSI è la conoscenza sensibile prodotta dai soli sensi per sé stessi a seguito dell’impressione che un oggetto suscita in noi; è dunque prodotta dall’affezione suscitata in noi dai diversi oggetti che determinano specifiche impressioni a seconda del sensorio coinvolto: vista, udito, olfatto, gusto e tatto. Dei sensi si può dire che alcuni sono oggettivi, altri soggettivi ed altri mostrano un connubio tra oggettività e soggettività; genericamente si può sostenere che quelli oggettivi sono informativi (di cui il primo è il tatto, il più grezzo  e con il quale si determina l’ermeneutica delle forme;  poi la vista, il senso più fine per la capacità di percepire la luce,  ed infine l’udito) mentre quelli soggettivi riguardano il godimento (come il gusto e l’olfatto) [64].

La conoscenza sensibile, evidenzia Kant, non proviene tutta da sensi, «bensì anche dall’intelletto, il quale riflette sugli oggetti che i sensi ci offrono»;

In tal modo nasce in noi il vitium subreptionis in quanto, essendoci noi abituati sin da giovani a rappresentarci tutto mediante i sensi, non notiamo le riflessioni dell’intelletto [65] sui sensi, e riteniamo le conoscenze intuizioni sensibili immediate. I filosofi antichi come Aristotele, e dopo di lui gli Scolastici, dicevano provenire dai sensi tutti i nostri concetti, il che esprimevano con la proposizione «Nihil est in intellectu, quod non antea fuerit in sensu». L’intelletto non può conoscere nulla che i sensi non abbiano prima esperito. In ciò Aristotele ragionava contro Platone, il quale, da filosofo mistico, asseriva il contrario e considerava i concetti non solo come fossero innati, ma pure quali restassero da quella precedente visione intuita di dio che ora il corpo ci ostacolerebbe. Per cogliere e intendere precisamente in quale misura sia ammissibile la tesi di Aristotele è necessario restringerla un poco e dire  «Nihil est quod materiam in intellectu, quod non antea fuit in sensu». La materia e il contenuto materiale ce li devono dare i sensi, e tale materia viene elaborata dall’intelletto. Ma per quanto attiene alla forma [Form] dei concetti questa è intellettuale. La prima fonte della conoscenza sta dunque nella materia che i sensi ci offrono. La seconda fonte sta nella spontaneità dell’intelletto. […] I sensi sono quindi il principio necessario della conoscenza.[66]

(B) LE CONOSCENZE DELLA CAPACITÀ FIGURANTE; è la conoscenza sensibile imitata, che scaturisce invece dal nostro animo che richiama alla mente una precedente impressione che un oggetto aveva suscitato in noi. Essa è quella facoltà che permette di costruire, a partire da noi stessi, «conoscenze che nondimeno hanno in sé la forma in cui gli oggetti affetterebbero i nostri sensi. Tale facoltà di figurazione appartiene dunque in effetti alla sensibilità».

(B1) Essa, in rapporto al tempo ― in quanto riproduce rappresentazioni o del tempo presente, o di quello passato, oppure anche del futuro ― può essere distinta in facultas formandi, facultas imaginandi e facultas praevidendi :

FACULTAS FORMANDI (riprodurre nel presente); il nostro animo, dice Kant «è perennemente occupato a formarsi l’immagine-quadro[67] [Bild] del molteplice col passarlo in rassegna». «Tale facoltà riproducente è la facoltà figurativa dell’intuizione. L’animo deve fare molte osservazioni, per riprodursi un oggetto ricopiandoselo diversamente da ogni lato. Per esempio, da levante una città ha un aspetto diverso che da occidente. Di una cosa dunque vi sono molte apparenze secondo i diversi lati e punti di vista. Di tutte queste apparenze l’animo si deve fare una riproduzione raccogliendole tutte insieme».

FACULTAS IMAGINANDI (immaginare rappresentazioni passate collegandole con quelle presenti); essa è la facoltà dell’immaginazione riproduttiva (da non confondersi con l’immaginazione produttiva che invece costruisce nuove immagini ed è per questo detta anche facoltà della fantasia [Phantasie]) la quale riproduce le rappresentazione del passato «mediante l’associazione, secondo la quale una rappresentazione attira l’altra, perché ad essa si accompagnava».

 

FACULTAS PRAEVIDENDI (prevedere rappresentazioni future); essa è la facoltà della pre-figurazione; essa consiste nella possibilità di connettere il presente con il futuro allo stesso modo in cui noi possiamo connettere il presente al passato: «come lo stato presente succede a quello passato, così appunto il futuro succede allo stato presente. Ciò avviene secondo leggi dell’immaginazione [riproduttiva]»[68].

(B2) Oppure ― in rapporto alla sua stessa attività (facoltà produttiva),  può ancora essere distinta in

FACOLTÀ DELL’IMMAGINAZIONE PRODUTTIVA [Einbildung]; come abbiamo innanzi accennato è la facoltà di «produrre immagini traendole da sé stessi, indipendentemente dalla realtà effettuale degli oggetti», dunque, facoltà di produrre immagini senza uno stimolo esterno; ed essa è la capacità inventiva del sensibile da non confondersi a sua volta con la capacità inventiva dell’intelletto;

FACOLTÀ DEL FIGURARE CONCLUSO [Ausbildung]; la facoltà (e impulso)  che porta a farsi idea dell’intero, cioè di dare una forma conclusa e conchiusa; essa quindi pone a confronto gli oggetti (imperfetti) con l’intero corrispondente.

FACOLTÀ DELLA FIGURAZIONE A RISCONTRO [Gegendbildung]: essa è la facoltà del caratterizzare: imitativo-mimico; è la facoltà di produrre l’immagine di un’altra cosa; [69]

«una rappresentazione che funga da mezzo del riprodurre per associazione, è un symbolum. La più parte delle rappresentazioni simboliche compare nella conoscenza di dio. Queste sono tutte per analogiam, cioè grazie ad una concordanza del rapporto intercorrente; per esempio, presso i popoli antichi il sole era un simbolo, una rappresentazione della perfezione divina, in quanto, presente dovunque nel grande ordine cosmico, dà molto (luce e calore) senza ricevere. […] Una conoscenza dell’intelletto la quale sia indirecte intellettuale e venga conosciuta con l’intelletto, ma prodotta mediante un analogon della conoscenza sensibile, è conoscenza simbolica, contrapposta alla conoscenza logica come la conoscenza intuitiva si contrappone a quella discorsiva. La conoscenza dell’intelletto è simbolica quando sia intellectuale indirecte, e prodotta mediante un analogon della conoscenza sensibile, ma consociuta con l’intelletto. Il simbolo è allora soltanto un mezzo per provocare l’intellezione: serve solo alla conoscenza intellettiva indiretta, ma poi con il tempo deve cadere. Le conoscenze di tutti i popoli orientali sono simboliche. Dunque, là dove non ci è concessa direttamente l’intuizione, noi ci dobbiamo aiutare con la conoscenza simbolica per analogiam. »[70]

3.4.2. La capacità figurante

 

 

Poiché tutte le attività della capacità figurante possono essere avvenire a volere nostro o involontariamente, ―  e tutto ciò che è involontario appartiene alla facoltà cognitiva inferiore mentre ciò che è volontario a quella superiore ― la memoria deve intendersi come facoltà dell’immaginazione volontaria, «così che fra la memoria e la facoltà di immaginare non sussiste una differenza essenziale. Così accade anche con le altre facoltà figuranti. Certi ipocondriaci hanno immaginazioni involontarie. L’immaginazione volontaria è la facoltà inventivo-poetica».[71]

CAPACITÀ FIGURANTE

si distingue, quindi, in

(a) IMMAGINAZIONE VOLONTARIA: appartiene alla facoltà cognitiva superiore; sua facoltà è la memoria, con la quale sostanzialmente si identifica;(b) IMMAGINAZIONE INVOLONTARIA; appartiene alla facoltà cognitiva inferiore

Abbiamo innanzi parlato della facoltà dell’immaginazione produttiva (Phantasie), facoltà capace di  produrre immagini traendole da sé stessi indipendentemente dalla realtà effettuale degli oggetti. Tale facoltà, presente nelle due condizioni di passività ed attività ― la capacità inventiva del sensibile  non è da confondersi con la capacità inventiva dell’intelletto ―, è quella facoltà tra sensibilità ed intelletto che è  una oscura funzione dell’anima  di cui non si è coscienti: «la sintesi generale ― scriverà Kant nella Critica della Ragion Pura ― […] è il semplice effetto della facoltà di immaginazione, di quella funzione cieca, sebbene indispensabile, dell’anima, senza la quale non avremmo in assoluto alcuna conoscenza, ma della quale solo raramente siamo coscienti. Ricondurre questa sintesi ai concetti, è una funzione che spetta all’intelletto, ed è per mezzo di essa che l’intelletto ci procura, per la prima volta, la conoscenza, nel senso proprio di questo termine». [72] Galileo, Torricelli, Sthal ― scriverà sempre Kant nella Critica della Ragion Pura ― «compresero che la ragione arriva a vedere solo ciò che essa stessa produce secondo il suo progetto; e compresero che essa deve avanzare secondo i principi dei suoi giudizi, secondo leggi stabili, e deve costringere la natura a rispondere alle sue domande, senza farsi guidare soltanto da essa, come se fosse tenuta per le dande»[73].

La capacità figurante, afferma chiaramente il Professor Kant nelle sue Lezionista fra l’intelletto e la sensibilità,[74] e «tutti i principi supremi a priori dell’intelletto sono regole universali che esprimono le condizioni della capacità figurante in tutti i fenomeni, con le quali possiamo determinare come i fenomeni vadano collegati tra di loro».[75] E «l’intelletto come facoltà dei concetti è parallelo alla sensibilità» [76].

L’immaginazione ― che è ciò che connette il molteplice dell’intuizione sensibile ― specificherà Kant nella Critica della Ragion Pura, «dipende dall’intelletto per quanto riguarda l’unità della sua sintesi intellettuale, e dalla sensibilità per quanto riguarda la molteplicità dell’apprensione».[77]

Come Aristotele aveva ricondotto l’intera varietà del mondo sensibile e sovrasensibile sotto l’unità e la chiave di volta della sostanza, così Kant fa principio unificante e supremo di tutta la realtà la soggettività. È il soggetto infatti, e la sua centralità, che costituisce nella sua filosofia il principio organizzativo e formativo dell’intero mondo, anzi addirittura la condizione di possibilità del suo stesso esistere. […] Il soggetto umano infatti per Kant consoce solo in quanto soggetto di sintesi, cioè in quanto organizza in una figura unitaria e determinata prima ― e poi in un orizzonte ulteriore di nessi tra più figure ― una molteplicità di dati dell’esperienza, che senza l’intervento di quella sintesi rimarrebbero irrelati, caotici e informi. [78]

Non è dunque più il soggetto che dipende da un mondo oggettivo, ma è il mondo oggettivo che dipende dal soggetto e dalla centralità delle sue funzioni sintetiche, ovvero, da tutte quelle forme trascendentali e universali attraverso le quali il soggetto dà appunto forma al mondo, di cui il massimo esempio ― accanto alle categorie dell’intelletto, allo spazio e al tempo ― è la funzione dell’Io penso, che, in quanto autocoscienza del nostro essere e pensare,  è inseparabile compagno del nostro conoscere ed esistere. [79]

3.4.3. I concetti; l’apparenza, la parvenza e l’inganno

 

 

Se da una parte i sensi costituiscono il fondamento di ogni conoscenza, dall’altra c’è da rilevare come non ogni conoscenza tragga origine da essi; infatti, se da una parte, secondo la materia, nell’intelletto non vi è nulla che prima non sia passato nei sensi,  dall’altra, secondo la forma, si danno conoscenze intellettuali (ma non innate) che sono state «per nulla oggetto dei sensi»[80]. L’intelletto è quindi in grado (diversamente da quanto credeva Locke) di formare dei concetti indipendentemente dalla sensibilità, sebbene poi basi la sua attività sull’esperienza e sulla riflessione immediata, applicata alle impressioni che gli oggetti esercitano sui sensi (es. rapporto causa/effetto)[81]; il punto è che, per il Professor Kant, nel processo di conoscenza intervengono dei meccanismi e processi non rilevati dalla coscienza (‘inconsci’) [82]: «l’abitudine ci rende spedita questa riflessione, così che non rileviamo[83] che stiamo riflettendo; e allora crediamo che ciò stia nell’intuizione sensibile». Ma le riflessioni sulle impressioni non sono impressioni; così come un non vedente può elaborare tramite l’intelletto una cognizione del concetto di luce senza ‘sentire’ la luce, analogamente possiamo separare la conoscenza dei sensi mediante l’intelletto dalla conoscenza attraverso le impressioni. «Ora, quando riteniamo impressioni le riflessioni sulla sensazione, incorriamo in un errore nel distinguere»[84].

Per Kant, poiché gli oggetti dei sensi ci inducono a giudicare, bisogna saper distinguere l’apparenza (fenomeno), la parvenza, l’illusione e l’inganno:

(a)  L’APPARENZA-FENOMENO sta nei sensi;

(b) LA PARVENZA[85], che è attribuibile ai sensi, è l’occasione che induce a giudicare, dall’apparenza (es.: «il Sole sorge; il Sole tramonta»), ma non è ancora giudizio; dalla parvenza degli oggetti si origina l’illusione; un’illusione non è ancora inganno dei sensi ma non è altro che un giudizio prematuro che entrerà presto in contrasto con il successivo giudizio e quindi scoperto e confutato dall’intelletto;

(c) L’INGANNO è prodotto dall’attività del giudicare:  «sensu non fallunt» non perché «i sensi giudichino giusto, ma perché non giudicano affatto […] questo principio ci porta altresì a risalire oltre la causa degli errori. I concetti universali non traggono origine dai sensi ma dall’intelletto». Dai sensi, che non possono essere affetti dalla negazione (infatti io non posso ‘sentire’ di ‘non sentire’) traggono origine solo i giudizi singoli[86]. Verità ed errore, ribadirà Kant nella Dialettica Trascendentale, si rinvengono solamente nel giudizio, ovvero nella relazione dell’oggetto con il nostro intelletto; dunque, né i sensi di per sé stessi ― che non producono giudizi ― né il nostro intelletto preso isolatamente ― che agisce secondo regole ― sono soggetti ad errore il quale è prodotto, invece, da un inavvertito[87] influsso della sensibilità che si frammischia all’attività dell’intelletto facendolo deviare.[88]

3.4.4. La facoltà cognitiva superiore: facoltà intellettiva

 

 

Ricordando che l’intelletto non va oltre i limiti dei sensi, bensì certamente fino al limite, e quest’ultimo è Dio e l’altro mondo, e che la capacità figurante  è ciò che sta tra sensibilità ed intelletto ― «degli oggetti dell’intuizione noi abbiamo cognizioni per mezzo della capacità figurante, la quale sta fra l’intelletto e la sensibilità»[89] ―, il Professor Kant avvia l’analisi sull’intelletto contrapponendolo dialetticamente alla sensibilità; infatti, se da una parte tutti gli oggetti appaiono in rapporto allo spazio e al tempo, dall’altra essi sono pensati solo in quanto sottostanno a regole.

Intelletto Sensibilità
è caratterizzato dalla spontaneitàè facoltà di riflessioneè la facoltà dei concettiè la facoltà delle regoleriguarda ciò che è oggettivoconosce le cose non come esse ci appaiono ma mediante l’attività riflessiva e discorsiva  (mai per intuizione) è caratterizzata dalla passivitàè la facoltà dell’intuizioneha solo forme originarieè facoltà di percezioneriguarda le coseconsoce solo come le cose ci appaiono e non come esse sono nella realtà

Massima dell’intelletto  è: « tutto ciò che accade, accade secondo regole, e tutte le conoscenze sottostanno a una regola»; di conseguenza, là dove è impossibile una regola è contrario all’intelletto. Ma cosa sono queste regole? Esse sono quelle costanti che sono elaborate dalla capacità figurante quando lavora in abstracto (es. il concetto di sostanza) e le rapporta dialetticamente al divenire del molteplice (es. il concetto di accidente), producendo così le ‘categorie’ dell’intelletto, altrimenti dette  ‘concetti puri’ dell’intelletto o ‘connotati universali’.  In tal senso possiamo definire l’intelletto quale facoltà delle regole e facoltà dei concetti; e poiché dai concetti si sviluppano i giudizi possiamo allora definire l’intelletto anche come facoltà dei giudizi;[90] e «queste tre definizioni sono tutt’una; concetto è infatti una conoscenza che possa fungere da predicato in un giudizio possibile. Ma un giudizio è una rappresentazione del confronto col connotato universale, e un concetto è un connotato universale. Ma il giudizio è altresì sempre una regola, poiché una regola dà il rapporto tra il particolare e l’universale […] quindi le tre definizioni concorrono in una, Possiamo anche dire che l’intelletto è la facoltà delle conoscenze universali»[91]

L’intelletto (umano) dunque consoce le cose quali esse sono attraverso concetti e riflessioni e dunque discorsivamente e non per intuizione (questa è proprio e solo di un intelletto mistico). Quando questi concetti sono concetti puri dell’intelletto, allora questi sono concetti trascendentali, quando invece i concetti si applicano ai fenomeni , essi si definiscono empirici e l’uso dell’intelletto in questo caso viene anch’esso definito empirico: uso empirico dell’intelletto.[92]

Ora, di questo intelletto però noi possiamo avere anche un uso a priori, ed in questo caso l’intelletto viene definito ragione (la quale è il principio a priori della regola): «intelletto e ragione sono quindi distinti solo nel riguardo all’uso empirico e puro. Ma fra i due abbiamo anche una facoltà intermedia» che è la facoltà del giudizio, che è quella facoltà di «sussumere sotto un giudizio universale e sotto una regola universale» e

(a) l’intelletto è la facoltà di conoscere il particolare muovendo dall’universale;

(b)  la facoltà di giudizio è quella di conoscere l’universale muovendo dal particolare;

(c) la ragione quella di conoscere l’universale a priori (cioè senza mai far ricorso all’esperienza) e di raccogliere le regole dai molteplici fenomeni (come per esempio «tutto ciò che è contingente deve avere necessariamente una causa»).[93] Anche la ragione si può distinguere a seconda che il suo uso si puro (è quello che non si riferisce a oggetti dei sensi) o empirico (si ha invece quando si conosce a priori qualcosa che trova conferma a posteriori, come la conoscenze della fisica sperimentale).

Per quanto riguarda poi l’ampiezza dell’intelletto, Kant (riprendendo, a parere di chi scrive, riflessioni di spinoziana memoria) considera che fondamentali sono tanto la facoltà dei concetti (facoltà del discernimento: ovvero, facoltà di sapere se un dato caso rientra in una determinata regola, da distinguersi dall’ ‘intelletto in concreto’ che è invece la facoltà di ricordare la regola universale ― ma non sa discernere se il caso rientra nella regola ― e si applica ai casi empirici della vita) che la capacità di connessione di concetti universali e casi particolari.[94]

Tutte le suddette facoltà (intelletto, giudizio e ragione), possono distinguersi in sane ― quando attraverso l’esperienza si può fare la prova della giustezza delle diverse facoltà cognitive ― e  insegnate (o speculative) ― quando si esula dall’esperienza e la facoltà di giudizio ricorre a principi universali.

Alla facoltà cognitiva superiore inoltre appartengono anche l’ingegno e l’acume, che sono le due facoltà con cui si confrontano le rappresentazioni, secondo la concordanza nel primo caso ―  cioè quando riconosco se qualcosa è sussunto o meno sotto un determinato concetto universale ― e con cui ampliamo le nostre conoscenze, oppure secondo discordanze nel secondo caso con cui invece si distinguono le cose dalle altre, dicendo che esse non sono un certo qualche cosa.[95]

3.5. La seconda facoltà dell’anima: piacere e dispiacere

La facoltà del piacere/dispiacere ― che distingue le cose secondo il gradimento o il disagio ―  si costituisce, spiega Kant,  attraverso il rapporto dell’oggetto con il nostro sentimento dell’agire e determina pertanto la promozione della vita oppure il suo impedimento. Essa si distingue nettamente dalla facoltà cognitiva anche se poi la presuppone come conditio sine qua non; ogni piacere e dispiacere, sottolinea infatti Kant, presuppone necessariamente ― ignoti nulla cupidoignoti nulla complatentia ― la conoscenza dell’oggetto ; dunque, diversamente dalla facoltà cognitiva («conoscerei la figura rotonda del cerchio anche se il cerchio non fosse rappresentato […] quando Euclide parla del cerchio, non lo descrive come bello, bensì dice che cosa esso è in sè»), presuppone necessariamente la rappresentazione dell’oggetto la quale produce gradimento o disagio. In quanto tale la facoltà del piacere e dispiacere non è una facoltà che è riferita solamente agli oggetti, ma si riferisce anche alla natura del soggetto, perché «quando parlo dell’oggetto in quanto bello o brutto, piacevole o dispiacevole, non conosco l’oggetto in sé quale esso sia, ma così come esso mi affetta».Tale facoltà, dunque, non compete all’oggetto in quanto tale ma ad una facoltà particolare insita negli esseri umani, attraverso la quale essi distinguono le cose secondo le modalità con cui sono affetti, cioè rispetto al come la rappresentazione dell’oggetto produce una impressione nella soggettività. È evidente dunque che i predicati di detta facoltà non appartengano agli oggetti in sé ma esclusivamente al rapporto che essi intrattengono con il soggetto da essi affetto: nel piacere e dispiacere quindi «la faccenda non dipende dall’oggetto, ma dal come l’oggetto affetta l’animo».

Le rappresentazioni sono degli oggetti o dei soggetti, ovvero dell’intera capacità vitale di un soggetto che può accogliere nel proprio intimo una rappresentazione (piacere) oppure escluderla (dispiacere). Due sono quindi le possibili perfezioni: quella logica ― che si ha «quando la mia conoscenza si accorda con l’oggetto»― e quella estetica ― che si ha quando «la mia conoscenza armonizza con il soggetto» ― e poiché noi «abbiamo un principio interno per come agire in base a rappresentazioni, e questo principio è la vita» ― la quale è «il principio interno della vita da sé» ― il piacere e il dispiacere devono intendersi come «facoltà della concordanza o del contrasto del principio della vita nei confronti di certe rappresentazioni o impressioni degli oggetti». Attraverso il piacere dunque si dispiega l’agire mentre il dispiacere produce impedimento; «il piacere consiste dunque nell’appetire, il dispiacere nell’aborrire»[96]. Ora, poiché la vita ha tre aspetti, animale, umano e spirituale, si avranno tre tipi di piacere: 1. il piacere animale,  «che riguarda il sentire privato del singolo individuo»; 2. il piacere umano, « che è il sentimento secondo il senso comune, mediante la facoltà del giudizio sensibile; si tratta di qualcosa di intermedio che si prova con l’idea [Idee] movendo dalla sensibilità»;  3. il piacere spirituale, che «ha a che fare anch’esso con l’idea e si prova muovendo da puri concetti dell’intelletto». Orbene, poiché «la liberà è il sommo grado dell’agire e del vivere», dovremo anche dire che ciò che coincide con il grado sommo della libertà ― e dunque con il vivere spirituale ―  è (4.) il piacere intellettuale; tale piacere però esiste solo nella morale, la quale è il concordare della libertà con sé stessi: ciò che «concorda con la libertà, s’intona con la vita intera. E ciò che si intona con la vita intera piace», seppure tale piacere è un piacere riflettente in quanto lo proviamo con la riflessione e proprio per questo non dà diletto ma in compenso dà plauso[97].

Orbene, poiché qualcosa può essere l’oggetto del piacere/dispiacere secondo (a) la sensazione ― ovvero secondo l’individuale con l’intuizione ― oppure (b) secondo la facoltà di giudizio sensibile ― ovvero secondo l’universale  con i concetti dell’intelletto―, si dirà nel primo caso che si prova diletto e l’oggetto è considerato piacevole, mentre nel secondo che si prova piacere e l’oggetto è bello (o buono quando approvato dai concetti dell’intelletto) e ciò che distingue il piacevole e lo spiacevole è il sentimento (sensazione privata del soggetto), mente ciò che distingue il bello e il brutto è il gusto (che è una regola comune e di carattere empirico del sentire);  il gusto è  quando la sensazione privata dell’uno concorda con quella degli altri, e da questa concordanza si ottiene un sentire comunitario; il gusto in sintesi è il  piacere/dispiacere in comunanza con altri;  è il ‘piacere pubblico’ che in quanto non più semplicemente privato si chiama bello/brutto, mentre ciò che distingue il male e il bene è la ragione (in quanto è con l’intelletto che giudichiamo un oggetto buono in sé e non in altro)[98].

3.6. La terza facoltà dell’anima: l’appercezione

La facoltà appetitiva è la stessa facoltà del piacere o dispiacere di determinate azioni  che, in quanto conformi alla vita e alla sua promozione o difformi ad essa e quindi alla sua repressione, determinano l’appetire o l’aborrire. L’appetire si distingue in:

(a) meccanico (prodotto da una forza esterna),

(b) pratico (o animale; la forza agente è determinata sulla forza di un principio interno. quindi attivo),

(c) appetire passivo/inattivo (o desiderio, prodotto senza valutare se sia adeguato alla produzione della rappresentazione).

L’appetire passivo, cioè senza agire (appetito inattivo) viene definito “struggimento nostalgico”;

L’appetire attivo (sia come azione reale che come facoltà di omettere di agire, secondo il gradimento o il disagio prodotto da un oggetto) viene invece definito ‘appetire  pratico’. L’appetire attivo e vigoroso che ha il potere di costruire, attraverso cause impulsive, la rappresentazione dell’oggetto appetito è il libero arbitrio. Le cause impulsive possono essere: (a) intellettuali; in questo caso detti motivi (ovvero rappresentazioni del gradire o sgradire dipendenti dal modo in cui noi conosciamo gli oggetti per concetti attraverso l’intelletto ― e per questo ragioni motrici); oppure, (b) sensibili; in questo caso vengono dette stimoli (e per questo cause motrici, impulsi, cioè sono rappresentazioni del gradire o sgradire dipendenti dal modo in cui noi siamo affetti dagli oggetti).

Gli stimoli  quando conformi alle rappresentazioni oscure, vengono detti (a) istinti, mentre per ciò che concerne il loro grado di intensità con cui si delimita la nostra libertà vengono definiti (b) affetti ― che ci affettano e riguardano il sentimento che impedisce la libertà ― o passioni ― che ci travolgono e sopraffanno  la libertà ― . Gli stimoli possono avere (1) una vis necessitans, che è propria degli animali ― il cui arbitrio verrà per questo necessitato e detto brutum ― , o (2) una vis impellens che invece è propria degli esseri umani ― il cui arbitrium, in quanto non necessitato, è detto liberum (gli unici esseri che sono privi di libero arbitrio sono gli infanti, i folli) ―. Entrambi gli arbitri si distinguono a loro volta dall’arbitrio intellectuale o trascendentale che è quell’arbitrio che non è affatto affettato o impulso da stimoli ma solo determinato da motivi, ovvero dai moventi dell’intelletto.  Il libero arbitrio da nulla può essere costretto: «egli le può soffrire tutte e nondimeno persistere nel proprio volere […] in quanto e finché agisce secondo motivi dell’intelletto, il libero arbitrio è la libertà, la quale è buona sotto ogni riguardo. Questa è la libertà assoluta, cioè la libertà morale».

Per ciò che concerne il contrasto tra sensibilità e intellettualità, ovvero tra impulsi e motivi c’è da dire che «quanto maggior forza l’uomo ha di reprimere l’arbitrio inferiore mediante l’arbitrio superiore, tanto più è libero» e la virtù è quando, dopo aver represso l’arbitrio inferiore con quello superiore si costringe sé stessi secondo le regole della moralità. E quando «la conoscenza dell’intelletto abbia forza sufficiente per muovere il soggetto all’azione semplicemente perché l’azione è in sé buona, tale forza motrice è un movente che noi chiamiamo anche il sentimento morale», con cui si intende che noi compiamo il bene attraverso un sentimento che è il piacere, ma non inteso nel senso che il bene affetta i nostri sensi quanto piuttosto sentiamo piacere nel bene[99].

4. Lezioni di Metafisica II: la psycologia razionale

Se da una parte il concetto dell’anima (l’Io inteso come intelligenza in sé  in commercium con il corpo) è un concetto che noi traiamo dell’esperienza, dall’altra, la sua conoscenza, in quanto acquisita attraverso i concetti a priori della ragione pura, è una conoscenza metafisica;[100] ciò porta Kant a indirizzare la sua analisi a considerazioni generali riguardo l’origine, la condizione futura e la sopravvivenza dell’anima, attraverso tre punti di vista che sono quelli di considerare l’anima 1. absolute, 2. in confronto con altre cose in generale, 3. nel commercium con il corpo[101].

(A) L’ANIMA SEMPLICEMENTE IN SÉ E PER SÉ STESSAabsolute ―; l’analisi, basandosi su concetti esclusivamente puri della ragione, ovvero su concetti trascendentali  dell’ontologia, è una analisi di carattere trascendentale. Dell’anima noi non possiamo conoscere «a priori nulla di più di quanto l’Io ci fa conoscere»;[102] infatti, «il concetto dell’anima noi lo otteniamo solo attraverso l’Io, e dunque mediante l’intuizione interna del senso interno, in quanto io sono cosciente di tutti i miei pensieri, [e sono cosciente] che quindi posso parlare di me come di una condizione del senso interno»[103]. Per il Professore delle Lezioni, dell’anima noi consociamo che:

(a) «essa è una sostanza; ovvero io sono una sostanza»[104]; e questo nel senso proprio che Aristotele attribuisce alla sostanza nelle Categorie, ovvero come soggetto ultimo, non predicabile, di tutti i predicati possibili; l’Io è il vero substratum di ogni esperienza e su questo si annunciano i suoi predicati trascendentali;

(b) «l’anima è semplice, vale a dire l’io significa un concetto semplice»[105]; l’“Io penso” non esprime una pluralità di esseri aventi ciascuno una rappresentazione, che poi nel loro insieme possano generare una unica rappresentazione intera e totale, ma è soggetto unico di tutte le parti da essa rappresentate[106];

(c) «l’anima è una singola anima individuale (l’unitas, l’unità dell’anima), vale a dire la mia coscienza è la coscienza di una singola sostanza. Io non sono cosciente di più sostanze di me»[107];

(d) l’anima è simpliciter spontanea agens[108]; se nella psicologia empirica, come abbiamo visto, possedeva una libertà pratica (ovvero una indipendenza dell’arbitrio dalle necessitazioni degli stimoli), qui possiamo affermare che essa ha anche una libertà trascendentale, ovvero spontaneità assoluta (cioè senza condizioni, altrimenti avrebbe solo una spontaneità secundum quid), per cui essa agisce da sé sola «sulla base del principio interno secondo il libero arbitrio», senza alcuna determinazione da parte di una causa ed ha per questo una spontaneità simpliciter talis; «io sono un principio ― dice Kant― e non un principatum; io sono cosciente delle determinazioni e degli atti; e un siffatto soggetto, cosciente delle proprie determinazioni e dei propri atti, ha una libertas assoluta. Con ciò che il soggetto ha una libertas assoluta perché né è cosciente, si prova che esso non è subjectum patiens, ma agens» . Il problema però nasce quando l’intelletto nella speculazione si domanda come possa un ens derivatum compiere actus originarii;  tale problema in realtà dipende dallo stesso intelletto, «poiché noi non possiamo mai cogliere concettualmente l’inizio, bensì soltanto ciò che accade nella serie delle cause e degli effetti. L’inizio invece è il limite della serie, e la libertà non fa che apportare nuovi tagli verso un nuovo inizio; per questo è difficile scorgere ciò. Ma dal fatto che non si possa scorgere la possibilità di una tale libertà, non consegue che, siccome noi non la scorgiamo, neppure possa darsi libertà […] e dove non possiamo procedere oltre, noi facciamo bene a fermarci […] Ciò costituisce un motivo per scorgere i limiti dell’intelletto, non per negare la cosa».[109]

(B) L’ANIMA IN CONFRONTO CON LE ALTRE COSE IN GENERALE; ora, dell’anima si ha coscienza attraverso il proprio senso interno, dunque essa e tutte le sue azioni ― il pensare, il volere, il piacere/dispiacere ― è oggetto del solo senso interno e non di quello esterno il quale percepisce, attraverso il principio dell’impenetrabilità,  le cose materiali disposte nello spazio; dal che si può dedurre, seppur non con assoluta certezza ma per quel tanto che possiamo conoscere, che l’anima, in quanto oggetto del senso interno, è invece immateriale. L’immaterialità dell’anima è quindi desunta dalla sua stessa natura (ovvero perché oggetto del senso interno  ― e non come voleva Wolff  ―   dalla sua semplicità, poiché anche la più piccola e semplice particella può pur sempre essere materiale) e per via negativa in quanto «tutte le qualità e tutti gli atti dell’anima sono inconoscibili muovendo dalla materialità» e perché tutto ciò che è materiale e quindi non semplice ma composto, implica sempre una divisibilità all’infinito.  Il concetto dunque di immaterialità lo si ricava proprio dall’Io, in quanto oggetto del senso interno che mi fa pertanto escludere la materialità[110].

Dunque ― ricapitola e sintetizza Kant ―  «il corso, che abbiamo preso nello studio dell’anima è questo: abbiamo mostrato che l’anima è una sostanza; una sostanza semplice e agente liberamente; una sostanza immateriale. Ora emerge la domanda: l’anima è anche spirito?». Per spirito (Geist) si intende non solo una entità semplice e dunque immateriale separata da ogni materia ma anche capace di pensare sé stessa. Orbene, noi abbiamo già detto che per anima si intende l’intelligenza non  più considerata in sé stessa ma in collegamento al corpo con cui costituisce l’essere vivente; l’anima dunque, non è solo sostanza pensante (semplice e incorporea) ma è sintesi tra l’intelligenza e  il  corpo i quali qualora disgiunti fanno venire meno il concetto di anima.

Dato dunque un distinguo tra anima e spirito, la successiva domanda che si pone è se in qualche modo l’anima possa essere anche spirito, cioè in grado di pensare vivere e perdurare anche separatamente dal corpo, ovvero senza comunanza reciproca con il corpo[111]. All’uopo è dunque importante compiere l’ulteriore distinguo tra: de anima bruti ― la cui comunanza dipende dai corpi ―,  de anima humana  ― la quale sta in comunanza con il corpo ma è indipendente in quanto è capace di vivere e pensare, come uno spirito, senza il corpoe de spiritu  ― totalmente indipendente dalla dimensione corporea.

Gli animali (diversamente da come voleva Cartesio) non sono semplici macchine o solo materia, intesa come estensione impenetrabile ed inerte (ovvero senza principio interno dell’agire)  ma hanno un’anima intesa, appunto, come principio del vivere e dell’agire. Orbene, presupponendo un confronto a priori (e dunque fuori dalla nostra esperienza) tra l’anima degli animali e quella degli umani, possiamo ipotizzare che i primi, diversamente dai secondi, siano dotati del solo senso esterno e quindi (poiché privi del senso interno) privi di tutte quelle rappresentazioni che si fondano su tale senso, primo tra tutti il concetto di Io;  di conseguenza non avranno né intelletto né ragione la cui attività dipende in primo luogo proprio dalla coscienza che si ha di sé stessi[112]. «La coscienza di sé stessi, il concetto dell’Io, in esseri privi di senso interno non ha luogo; quindi nessun animale irragionevole può pensare: “Io sono[113]; da ciò consegue la differenza che degli esseri dotati di un simile concetto dell’Io posseggono una personalità».[114] Agli animali però è possibile «attribuire un analogon rationis costituito da nessi di rappresentazioni secondo le leggi della sensibilità, dai quali conseguono i medesimi effetti che dalla connessione per concetti. Gli animali quindi non si differenziano dall’anima umana secondo il grado, ma secondo la specie.»[115]

Procedendo e presupponendo  un ulteriore confronto a priori, questa volta  tra gli esseri umani e esseri a loro superiori, come appunto gli spiriti, possiamo ipotizzare che quest’ultimi siano dotati solamente di senso interno e dunque privi di senso esterno e di qualsiasi riferimento alla materia: ovvero, esseri immateriali e dotati di coscienza di sé stessi: «un essere pensate immateriale, dotato di coscienza (e da ciò, dunque, già consegue che si tratta di un essere ragionevole), è uno spirito».[116] E per spirito (da distinguersi rispetto all’essere spirituale che è quell’essere che, pur essendo unito al corpo, può vivere pensare e volere anche quando separato dal suo corpo) si intende quell’essere che pur essendo realmente separato dal corpo può tuttavia pensare e volere ma, in quanto non presente nello spazio, non può essere oggetto del nostro senso esterno ; per questo né possiamo affermare né negare nulla a proposito in quanto l’esperienza non ci può assolutamente informare a proposito[117].

(C) L’ANIMA NEL NESSO CON LE ALTRE COSE. Il motivo per cui risulta difficile comprendere il commercium tra il soggetto pensante e il suo corpo è il fatto che il corpo e i suoi movimenti sono oggetto del senso esterno mentre l’anima e le sue azioni (pensare e volere)  sono oggetti del senso interno; «con la ragione noi non possiamo scorgere il determinarsi reciproco di pensiero, volontà e movimento. Ma l’impossibilità di scorgere una cosa simile con la ragione non prova affatto l’impossibilità interna della cosa stessa »[118]; nessun sistema esplicativo potrà mai essere in grado di poter spiegare,  a dispetto della loro incommensurabile differenza di natura e ‘posizione’, il naturale commercium tra anima e corpo; se infatti l’uno è oggetto del  senso esterno e si trova in un luogo ben preciso nello spazio, l’atra, l’anima, è oggetto del senso interno è nel corpo seppur non ne occupa un luogo preciso; e sebbene l’anima presieda la sensazione  che si sviluppa e si dirama attraverso il sistema nervoso, il quale trova il suo principio organizzatore nel cervello,  «ceppo di tutti i nervi»,  non per questo il cervello è la sede dell’anima. Non essendo infatti l’anima oggetto del senso esterno essa non può risiedere in alcuno spazio anche se poi invece è capace di agire nello spazio; quindi possiamo dire che, in quanto l’anima è un a-topon,  l’anima è nel corpo solo per analogia nello stesso modo in cui possiamo dire che Dio è in una chiesa. L’anima non è dunque in un luogo del corpo anche se è stretta in un commercium con esso, ed il commercium dell’anima con il corpo è proprio ciò che noi intendiamo per vita dell’essere vivente, il cui inizio viene definito nascita e la cui fine viene definita morte; la vita di un essere vivente è dunque la durata del commercium tra anima e corpo e non la vita dell’anima o la vita del corpo[119]:

nascita, vita e morte sono dunque solo condizioni [stati, situazioni] dell’anima; l’anima infatti è una sostanza semplice; dunque non può essere generata quando si genera il corpo, né esser dissolta quando il corpo si dissolve; poiché il corpo è solo la forma dell’anima. L’inizio, ossia la nascita dell’uomo, è dunque solo l’inizio del commercium, ovvero la mutata condizione dell’anima; e la fine, ossia la morte dell’uomo, è solo la fine del commercium, ovvero ancora la mutata condizione dell’anima […] ma una condizione presuppone già un esistere; poiché l’inizio non è condizione, e la nascita è invece una condizione dell’anima, dunque non l’inizio dell’anima.[120]


E dall’esistenza dell’anima prima dell’inizio della vita di un essere vivente si può inferire una vita dell’anima anche dopo la fine del commercium con il proprio corpo; qualora invece essa fosse nata con il corpo allora di contro avremmo potuto inferire che anch’essa sarebbe finita con il corpo.

Ma quali erano le condizioni dell’anima prima dell’inizio del suo commercium con il corpo? La condizione dell’anima prima della nascita di un essere vivente è sostanzialmente l’essere priva della propria capacità di coscienza di sé e del mondo, ovvero non capace di esercitare a pieno tutto le sue facoltà le quali appunto si attualizzano soltanto in connessione con il corpo.

La prova più attendibile della dimostrazione dell’immortalità dell’anima ― definita trascendentale ― è quella desunta dalla natura dell’anima e dal concetto della cosa stessa e  si fonda sul fatto che la vita non è altro che una facoltà di agire sulla base di un principio interno, ovvero sulla spontaneità dell’anima che anche dopo la separazione dal corpo  ― che di per sé è materia che l’anima vivifica e nel quale e attraverso il quale l’anima agisce ― continua a compiere gli stessi actus del vivere.[121]

Finché l’uomo vive, l’anima deve poter produrre tutte le rappresentazioni sensibili attraverso il cervello, quasi fossero tracciate su una tavola. A un’anima chiusa nel corpo accade come ad un uomo agganciato ad un carro[122]. Se questo uomo si muove, deve muoversi anche il carro. Ma nessuno affermerebbe che il  moto provenga dal carro; parimenti gli atti non provengono dal corpo, ma dall’anima. Finché l’uomo è al carro, quest’ultimo è la condizione del suo movimento. Se ne viene sciolto egli si potrà muovere più facilmente; questo dunque era un impedimento al suo muoversi. […] essendo materia senza vita, il corpo è impedimento del vivere. Ma finché l’anima è legata al corpo, deve sopportare tale impedimento e cercare in ogni modo di alleggerirsi. Ma quando il corpo cessa del tutto, l’anima è sciolta dal proprio impedimento e solo ora inizia a vivere bene. La morte dunque non è allentamento assoluto della vita, ma una liberazione da quanto ostacola una vita perfetta. […] Questa è l’unica dimostrazione che si possa dare a priori, desunta da quella conoscenza e dal quella natura dell’anima che cogliamo a priori[123].

 

Si pone dunque  la domanda di quali siano invece le condizioni dell’anima al di là del limite della vita; orbene, poiché i confini della nostra ragione si estendono fino a quel limite è dunque evidente che possiamo ipotizzare solo delle congetture basandosi su quelle che sono le caratteristiche proprie dell’anima in commercium con il proprio corpo, ovvero,  la facoltà di agire e di percepire, prima tra tutti la percezione del proprio Io (autocoscienza). Orbene, giacché il corpo non è principio di vita dobbiamo quindi presupporre che la vita e la percezione dell’anima non dipendano dal corpo che poco ha a che fare con il senso interno, dalla quale dipendono l’identità e la coscienza di sé. Si può dunque ipotizzare che l’anima prosegua una vita del tutto spirituale, nella quale abbandonato il proprio corpo non ne assuma affatto un altro trasfigurato (per intraprendere appunto una vita pienamente spirituale); per cui non occupando alcun luogo non è da collocarsi in alcun punto del mondo fisico ma nel mondo spirituale, cioè in una comunione con altri spiriti della medesima natura (solo in questo senso si può evocare l’inferno e il paradiso, intendendo con il primo una comunione di anima malvagie e con il secondo una comunione di anime sante) capaci appunto di vivere in un altro mondo distinto dal mondo fisico non per un mutamento di collocazione spaziale ma per mutamento di intuizione che passa da una condizione sensibile (determinata appunto dal commercium) a una condizione puramente spirituale. L’altro mondo dunque non è un altro luogo ma è un altro genere di intuizione[124]: «poiché mediante il corpo l’anima ha una intuizione sensibile del mondo fisico, allorquando essa sarà disciolta dall’intuizione sensibile del corpo, avrà un’intuizione spirituale, e questo è l’altro mondo»[125] e attraverso il quale si avrà «una intuizione spirituale dell’universo, del Tutto»[126].

Quindi neppure lo stato di beatitudine, ossia il paradiso, né quello di miseria, ossia dell’inferno ― che l’altro mondo comprende in sé entrambi ― vanno cercati affatto in questo mondo sensibile; ma se qui sono stato un uomo retto, e dopo la morte ottengo un’intuizione spirituale del Tutto, e entro nella comunione di siffatti esseri, appunto, buoni e retti, allora io sono nel paradiso. Se invece, a seconda della mia condotta, ottengo un’intuizione spirituale di esseri tali il cui volere contrasta con ogni regola della moralità, e se finisco in una simile comunanza, allora io sono all’inferno. Per la verità, questa opinione sull’altro mondo non si può dimostrare, ma è un’ipotesi necessaria della ragione, opponibile a chi sia contrario[127].


5. L’anima nella dialettica trascendentale: la ragione

«Ogni nostra conoscenza comincia dai sensi, di qui muove verso l’intelletto e si conclude nella ragione, al di sopra della quale non si incontra nulla di più elevato in noi per elaborare la materia dell’intuizione e per sussumerla sotto la suprema unità del pensiero»[128]. Orbene, se da una parte  l’intelletto si definisce quale facoltà delle regole dall’altra la ragione può dirsi la facoltà dei principi; se l’intelletto riconduce ad unità i fenomeni mediante regole la ragione invece riporta ad unità le regole dell’intelletto sotto principi; di conseguenza l’unità della ragione, che non si rivolge mai direttamente agli oggetti di esperienza, è di altra specie rispetto all’unità operata dall’intelletto[129].

LA RAGIONE (comprende) Produce l’unitàdell’intellettoattraverso deduzione (inferenza/sillogismo) Riporta ad unità le regole dell’intelletto sotto principi (idee); la ragione pura non ha alcuna relazione immediata con gli oggetti dell’esperienza e con la loro intuizione, bensì solo con l’intelletto e i suoi giudizi
L’INTELLETTO (intende) Produce l’unitàdi un’esperienza possibile attraverso riflessione Riconduce ad unità i fenomeni attraverso regole, sottomette cioè a concetti (categorie) il molteplice dell’intuizione sensibile
LA SENSIBILITÀ (intuisce) Produce l’unificazionedel molteplice attraverso l’intuizione sensibile. Riporta ad unità i fenomeni attraverso le forme pure a-priori dello spazio e del tempo.

La nostra conoscenza si sviluppa in parte attraverso percezione immediata (intuizione sensibile) ed in parte attraverso deduzione (inferenza); per esempio, che in un triangolo vi siano tre angoli è cosa conosciuta immediatamente; mentre il fatto che la somma di questi tre angoli sia uguale a quella di due angoli retti è cosa dedotta. Poiché la mente umana opera costantemente deduzioni, quest’ultime vengono considerate illusoriamente come percezioni immediate piuttosto che appunto processi inferenziali. Se da una parte le inferenze dell’intelletto sono inferenze immediate ― cioè la conseguenza dedotta deriva immediatamente dalla proposizione che sta a fondamento (es.: tutti gli uomini sono mortali à nulla di ciò che è immortale è uomo) ―, dall’altra le inferenze della ragione sono invece mediate ― cioè, per ottenere la conseguenza conclusiva necessitano di un giudizio intermedio oltre alla proposizione che sta a fondamento  (per dedurre che tutti i dotti sono mortali devo aggiungere alla proposizione che sta a fondamento “tutti gli uomini sono mortali” un’ulteriore giudizio: tutti i dotti sono uomini) ―.

L’inferenza di ragione viene anche detta sillogismo; dunque,  la ragione produce una conoscenza del particolare nell’universale attraverso sillogismi. In ogni sillogismo per mezzo dell’intelletto penso appunto una regola (maior) ― tutti gli uomini sono mortali ―; per mezzo della facoltà del giudizio sussumo la conoscenza sotto quella determinata regola (minor) ― tutti i dotti sono uomini ―  e infine determino, per mezzo del predicato della regola, la mia conoscenza (conclusio) ― tutti i dotti sono mortali ― «e dunque determino a priori per mezzo della ragione»[130], la quale «cerca di ridurre la grande molteplicità della conoscenza dell’intelletto al minimo numero di principi (condizioni universali) e con ciò tenta di realizzare l’unità suprema della conoscenza»[131]. Il sillogismo altro non è che «un giudizio ottenuto mediante la sussunzione della sua condizione sotto una regola universale (la premessa maggiore)»[132]. E poiché la ragione cerca nel suo uso logico anche la condizione universale del proprio giudizio ― ovvero la condizione della condizione, il principio supremo della ragione pura, e quindi il principio trascendente, in quanto supera i confini dell’esperienza e per questo si distingue in maniera netta da tutti i principi (immanenti) dell’intelletto che operano sulle possibilità dell’esperienza ―  essa tenderà a quell’incondizionato che rende possibile ogni conoscenza condizionata.[133]

Il compito che si propone Kant nella Dialettica trascendentale ― partendo dalle «sorgenti nascoste nel profondo dell’umana ragione»[134] ― è quello di

vedere se il principio per cui la serie delle condizioni (nella sintesi dei fenomeni, o anche del pensiero circa le cose in generale) si estende sino all’incondizionato abbia o meno una sua correttezza oggettiva […] <e> vedere se questo bisogno della ragione non sia stato inteso per un equivoco, come un principio trascendentale della ragione pura, il quale postuli in modo  molto precipitoso una tale compiutezza illimitata della serie delle condizioni negli oggetti stessi; e in questo caso poi cosa possa essersi infiltrato  per via di fraintendimenti e di abbagli nei sillogismi la cui premessa maggiore è stata ricavata dalla ragione pura […], e che dall’esperienza risalgono alle sue condizioni.[135]

5.1. I concetti della ragion pura: le idee trascendentali

 

Da quanto sopra argomentato è dunque evidente che concetti della ragione pura sono ottenuti mediante deduzione e non mediante riflessione (come invece accade per i concetti dell’intelletto); i concetti di ragione non si lasciano dunque delimitare dall’esperienza che, sebbene rimanga sempre la base di partenza del processo inferenziale per risalire sino all’incondizionato, può fornirci solo parte della conoscenza. E se i concetti dell’intelletto (categorie) servono a intendere le percezioni sensibili, i concetti della ragione, se dedotti correttamente ― e quindi oggettivamente validi e per questo definiti  conceptus ratiocinati e quindi opposti ai concetti sofistici detti conceptus ratiocinantes ottenuti ingannevolmente ― servono a comprendere[136]. Kant definisce quindi i concetti della ragione pura, con esplicito richiamo al sublime filosofo Platone ― «il cui slancio spirituale nel risalire da una considerazione in termini di copia di ciò che è fisico nell’ordine cosmico sino alla connessione architettonica dello stesso ordine secondo fini, cioè secondo idee, è uno sforzo che merita rispetto ed è degno di essere imitato»[137] ― idee trascendentali:

Platone si è servito del termine idea in un modo tale che si vede chiaramente che con esso egli intendeva qualcosa che non soltanto non è mai derivato dai sensi, ma oltrepassa di gran lunga gli stessi concetti dell’intelletto ― dei quali si occupò Aristotele ―, giacché nell’esperienza non troverà mai nulla che le si adegui. Per Platone le idee sono gli archetipi delle cose stesse, e non soltanto le chiavi di accesso ad esperienze possibili, come sono le categorie. Secondo la sua opinione esse discendevano dalla ragione somma, da dove venivano partecipate alla ragione umana, la quale non si trova più nella sua condizione originaria, bensì deve richiamare con fatica attraverso la reminescenza (che si chiama filosofia) le antiche idee ormai oscurate. […] Platone ha notato molto bene che la nostra capacità conoscitiva avverte un’esigenza assai più elevata che non quella di compitare[138] [buchstabieren] semplicemente i fenomeni conformemente all’unità sintetica per poterli leggere come esperienza, e ha osservato che la nostra ragione si eleva per sua natura a conoscenze, che vanno troppo al di là perché  un qualsiasi oggetto offerto dall’esperienza possa mai essere loro adeguato, e che tuttavia tali conoscenze hanno una propria realtà e non sono in alcun modo mere chimere[139].

Per Kant, dunque, analogamente a Platone,  l’idea è quel concetto ― «composto di nozioni» ― della ragione  che trascende la possibilità di ogni esperienza e in riferimento al quale non si trova nell’esperienza nulla di adeguato[140]; l’idea pertanto non può essere affatto confusa con il concetto di rappresentazione in generale (repraesentatio). All’uopo, Kant illustra la successione graduale delle rappresentazioni[141]come di seguito sintetizzato:

REPRAESENTATIO(rappresentazione in generale)
PERCEPTIO (rappresent. accompagnata da coscienza)
COGNITIO (percezione oggettiva, quindi conoscenza) SENSATIO (percezione che si riferisce unicamente al soggetto, come la modificazione del suo stato)
CONCEPTUS (percezione mediata, per mezzo di una nota caratteristica  e può quindi essere comune a più cose) INTUITUS (percezione che si riferisce  immediatamente  all’oggetto, ed è pertanto singola)
NOTIO: CONCETTI PURI DELL’INTELLETTO (sono quei concetti la cui origine è unicamente nell’intelletto e non  nell’immagine pura della sensibilità) CONCETTI EMPIRICI
IDEA  O CONCETTO DI RAGIONE (è quel concetto composto di nozioni , che oltrepassa la possibilità dell’esperienza)

Come antecedentemente esposto, per Kant la funzione della ragione nel suo processo inferenziale consiste nel riportare un determinato predicato (es.: mortale) ad un determinato oggetto (es.: Caio)  dopo aver pensato nella premessa maggiore quel predicato nella quantità completa dell’estensione possibile (maior: tutti gli uomini sono mortali à minor ‘Caio è un uomo’ à conclusio, ‘Caio e mortale’), ovvero nella sua universalità (universalitas),  alla quale corrisponde «nella sintesi delle intuizioni, la totalità delle condizioni (universitas). [142]

Quindi il concetto trascendentale della ragione non è altro che il concetto della totalità delle condizioni per un condizionato che venga dato. […] Pertanto i concetti razionali puri nella totalità nella sintesi delle condizioni sono necessari ― almeno come problemi ― per prolungare dove possibile, l’unità dell’intelletto fino all’incondizionato, e sono fondati nella natura della ragione umana.[143]

La ragione si riserva soltanto l’unità assoluta nell’uso dei concetti dell’intelletto e cerca di condurre l’unità sintetica, la quale viene pensata nelle categorie, sino all’assolutamente incondizionato. Questa unità la si può chiamare pertanto unità razionale dei fenomeni, mentre quella che esprime la categoria la si può chiamare unità intellettuale. La ragione quindi si riferisce solo all’uso dell’intelletto […]. Pertanto l’uso oggettivo dei concetti puri della ragione è sempre trascendente, mentre quello dei concetti puri dell’intelletto, per sua natura, dev’essere sempre un uso immanente, limitandosi esso soltanto all’esperienza possibile.

Con il termine idea intendo un concetto necessario della ragione, al quale non può essere dato alcun oggetto corrispondente nei sensi. Dunque i concetti puri della ragione che abbiamo appena preso in esame sono idee trascendentali. […] Questi concetti non sono escogitati arbitrariamente, ma sono assegnati dalla natura stessa della ragione, e perciò si riferiscono in modo necessario all’intero uso dell’intelletto. Infine essi sono trascendenti e oltrepassano il confine di ogni esperienza, nella quale dunque non potrà mai presentarsi un oggetto che sia adeguato all’idea trascendentale.[144]

Dunque, lasciando da parte le idee pratiche e considerando la ragione solo dal suo uso speculativo, ovvero trascendentale, l’ idea, in quanto oggetto dell’intelletto puro, è un concetto maximun che nel suo uso speculativo in qualche modo manca il suo proprio scopo perché, per quanto si approssimi ad un concetto, non potrà mai rappresentare questo oggetto in concreto in modo adeguato; ed  è per questo che tale concetto, non raggiungendo l’oggetto, viene appunto detto essere solo un’idea. Nonostante ciò questi concetti trascendentali della ragione pura non sono affatto inutili, giacché se è pur vero che attraverso di essi non è possibile giungere a determinare alcun oggetto, dall’altra è pur vero che essi «possono servire all’intelletto sostanzialmente e inavvertitamente come canone per l’estensione e per la coerenza del suo uso». Grazie proprio a questo canone l’intelletto ― che non amplia il suo contenuto rispetto a quanto conoscerebbe già attraverso i propri concetti ― viene guidato meglio e più oltre nella conoscenza; infatti, poiché una regola ci dice una cosa valida universalmente sotto una determinata condizione, l’intelletto può poi considerare valido un caso particolare che implica quella condizione; l’intelletto così opera una serie di processi inferenziali i quali costituiscono una serie di condizioni.[145]

Dunque, abbiamo detto che l’idea è quel concetto della ragione  che trascende la possibilità di ogni esperienza ― ed essa stessa viene pensata a priori, prima dell’esperienza e in vista di essa» e non contiene nient’altro che «l’unità della riflessione circa i fenomeni»[146], ovvero la totalità delle condizioni per un determinato condizionato ― e in riferimento al quale non si trova nell’esperienza nulla di adeguato; essa è dunque quel  concetto maximun di una totalità incondizionata, di un’unità assoluta,  a cui la ragione costantemente aspira. E poiché l’unità assoluta può essere pensata in relazione  (1.) al soggetto,  (2.) al molteplice dell’oggetto nel fenomeno, (3.) a tutte le cose in generale, e poiché i concetti della ragione pura (idee trascendentali) hanno a che fare con l’unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale, ne segue che[147]:

tutte le idee trascendentali si possono ricondurre sotto tre classi, di cui la prima contiene l’unità assoluta (incondizionata) del soggetto pensante, la seconda contiene l’unità assoluta della serie delle condizioni del fenomeno, la terza contiene l’unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero in generale.
Il soggetto pensante è l’oggetto della psicologia, l’insieme di tutti i fenomeni (il mondo) è l’oggetto della cosmologia, e la cosa che contiene la condizione suprema della possibilità di tutto ciò che può essere pensato (l’ente di tutti gli enti) è l’oggetto della teologia[148].

Kant conclude dunque che la ragione pura ci fornisce l’idea per le tre scienze[149], o dottrine trascendentali e a cui l’intelletto non potrebbe mai pervenire (anche nel caso in cui fosse strettamente connesso con il più elevato uso logico della ragione): (1.) dottrina trascendentale dell’anima ― psychologia rationalis ―  (2.) dottrina trascendentale del mondo ― cosmologia rationalis ― (3.) conoscenza trascendentale di Dio ― theologia trascendentalis ―.[150] E con ciò si Kant sostiene anche di aver raggiunto il suo scopo, ossia

abbiamo sottratto da questa posizione equivoca i concetti trascendentali della ragione ― che solitamente nelle teorie dei filosofi vengono mescolati ad altri, senza essere opportunamente distinti almeno dai concetti dell’intelletto ―, abbiamo stabilito la loro origine e con ciò anche il loro numero determinato[151] ― che non può subire alcun aumento ― e li abbiamo potuti rappresentare in una connessione sistematica, con la quale viene definito e delimitato un campo particolare della ragione pura.[152]


5.2. L’Io penso e i problemi della ragion pura

 

Orbene, poiché l’idea trascendentale è una necessità dell’attività della ragione pura e delle sue regole, è dunque evidente che l’oggetto di tale idea sia privo di un concetto dell’intelletto il quale invece necessariamente deve fare riferimento ad una esperienza possibile. Questo però non vuol dire che le idee trascendentali, ovvero i concetti puri della ragione, siano spoglie di una qualsiasi realtà perché la realtà dei concetti puri della ragione, sebbene non faccia riferimento alcuno all’esperienza possibile, comunque si fonda (realtà trascendentale) «sul fatto che siamo condotti a tali idee tramite un sillogismo necessario. Vi saranno dunque, dei sillogismi che non contengono alcuna premessa empirica e tramite i quali da qualcosa che consociamo possiamo inferire qualcosa d’altro, di cui comunque non abbiamo alcun concetto, e a cui noi ugualmente, per mezzo di una parvenza inevitabile, attribuiamo realtà oggettiva».[153] Di questi processi inferenziali ― che vengono definiti da Kant inferenze raziocinanti (o sillogismi dialettici) e il cui fondamento non è né l’artificio né la casualità ma la necessità della ragione stessa  e dai quali neppure «il più sapiente fra tutti gli uomini saprebbe liberarsi» ― ne abbiamo tante specie quante sono le idee alle quali pervengono le loro conclusioni, di cui quella della prima specie ― definita paralogismo trascendentale  ― conclude «dal concetto trascendentale del soggetto, che non contiene nulla di molteplice, all’assoluta unità di questo stesso soggetto, di cui in tal modo non ho alcun oggetto».[154] Per paralogismo trascendentale si intende quel paralogismo che ha «un fondamento trascendentale che ci porta ad inferire erroneamente secondo la forma»[155].

Orbene, rispetto alla lista generale dei concetti trascendentali prima indicati,  Kant fa presente l’esigenza di considerarne un altro: «si tratta del concetto, o se si preferisce del giudizio ‘Io penso’. Non è difficile vedere che esso è il veicolo di tutti i concetti in generale, quindi anche di quelli trascendentali e dunque viene sempre compreso tra questi ultimi, anch’esso come un concetto trascendentale, pur non avendo alcun titolo particolare, poiché serve soltanto a che ogni pensiero sia pensato come appartenente alla coscienza»;[156] ed esso è ciò che ci permette di

distinguere due specie di oggetti a partire dalla nostra capacità rappresentativa. Io, in quanto pensato, sono un oggetto del senso interno, e mi chiamo anima.[157] Ciò che è oggetto dei sensi esterni si chiama corpo. Pertanto l’espressione ‘io’, in quanto essere pensante,[158] significa già l’oggetto della psicologia, la quale può chiamarsi dottrina razionale dell’anima, se dell’anima non pretendo di sapere nulla più di quanto, indipendentemente da ogni esperienza (che mi determina più da vicino ed in concreto), può essere dedotto da questo concetto dell’io, nella misura in cui esso si presenta in ogni pensiero.[159]

Ed è proprio per questa sua totale estraneità rispetto ad ogni possibile esperienza che essa non solo si differenzia dalla dottrina empirica dell’anima, ma si costituisce come pseudo scienza  fondata unicamente sulla proposizione ‘Io penso’; questa proposizione si riferisce non a un’esperienza interna del soggetto pensate, ma  è la «semplice appercezione io penso», cioè esprime la percezione di sé stessi[160] e «non la percezione di un’esistenza (il cartesiano cogito ergo sum), bensì soltanto nella sua semplice possibilità»[161] ― «rappresentazione semplice e in sé stessa completamente vuota, della quale non si può neppure dire che sia un concetto, ma una semplice coscienza che accompagna tutti i concetti»[162]; in breve essa può definirsi come «la forma di una rappresentazione in generale»[163] ―; quando alla semplice appercezione dell’io penso si aggiunge anche il «più piccolo oggetto della percezione (ad esempio anche il solo piacere o dispiacere)» la psicologia razionale si trasformerebbe immediatamente in psicologia empirica, giacché appunto «il minimo predicato empirico rovinerebbe la purezza razionale e l’indipendenza della scienza da ogni esperienza»[164]. Analogamente, «se a fondamento della nostra conoscenza razionale pura dell’essere pensante vi fosse qualcosa di più del cogito […] ne sorgerebbe una psicologia empirica, che sarebbe una specie di fisiologia del nostro senso interno»[165]. Tramite questo io che pensa,  infatti, «non viene rappresentato nient’altro che un soggetto trascendentale dei pensieri = x, il quale viene conosciuto solo tramite i pensieri che sono i suoi predicati, e di cui separatamente non possiamo avere il benché minimo concetto» [166]. Orbene, la possibilità dell’autocoscienza, ovvero dell’io penso, non scaturisce da una semplice attività di riflessione su sé medesimi ― cioè,  «non per il fatto che sono cosciente di me in quanto pensante» ― ma solo quando si attiva la propria attività intuitiva, così che «sono cosciente dell’intuizione di me stesso in quanto determinata rispetto alla funzione del pensiero»[167] e tutti i modi dell’autocoscienza del pensiero sono semplici funzioni logiche che in sé stesse non determinano la conoscenza di alcun oggetto, compreso «me stesso come oggetto».[168]

Seguendo il filo conduttore delle categorie Kant illustra «la topica della dottrina razionale dell’anima, da cui deve essere derivato tutto ciò che essa può contenere»[169] e dai cui «elementi sorgono tutti i concetti della dottrina pura dell’anima, unicamente per composizione, senza riconoscere minimamente alcun altro principio»[170]:

l’anima è sostanza;e questa sostanza fornisce il concetto di immaterialità;
nella sua qualità è semplice;come sostanza semplice fornisce il concetto di incorruttibilità (nei diversi tempi in cui esiste)   è unità;questa identità con sé e in quanto sostanza intellettuale è ciò che fornisce la personalità;
è in relazione a possibili oggetti dello spazio;questa relazione fornisce il commercium con i corpi, e con ciò rappresenta la sostanza pensante come il principio della vita nella materia, ossia come anima  e come principio dell’animalità;

I primi tre elementi costituiscono la spiritualità, la quale, delimitando il quarto principio dà l’immortalità[171].

Ora, però, Kant ritiene che a base di queste (presunte) conoscenze vi sia un paralogismo ― ovvero un processo inferenziale (sillogismo) errato nella sua forma ― che viene presentato con il seguente sillogismo[172]:

maior:          «ciò che non può esser pensato altrimenti che come soggetto, non esiste

anche  altrimenti come soggetto, e dunque è sostanza»;

minor:         «ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può

esser  pensato altrimenti che come soggetto»;

conclusio:  «quindi, esso esiste anche soltanto come soggetto, quindi come sostanza»[173].

Come Kant stesso specifica,  il paralogismo dipende dal fatto che il pensiero non ha il medesimo significato nella maior («ciò che non può essere pensato …») e nella minor («un essere pensante …»), perché: nella maior si sta parlando del soggetto pensante in generale; il pensiero è un oggetto  in generale  (che può essere pensato e dunque che potrebbe anche essere conosciuto: «così come può essere dato nell’intuizione»[174]);  nella minor, invece, l’essere pensante non è più l’oggetto della possibile intuizione, ma è considerato nella sua attività autoriflessiva, ovvero in relazione a sé stesso e quindi come forma del pensiero , ovvero come io penso;  si potrebbe dire che nella maior il pensiero è la materia oggetto del pensiero,  mentre nella minor il pensiero è la forma del pensiero stesso.

Ne consegue che la conclusione  «viene inferita per sophisma figurae dictionis», in quanto il termine intermedio, che unisce la conclusio alla maior è equivoco e non univoco[175]; e la correttezza di tale argomentazione, scrive Kant, risulta già con tutta evidenza se si andrà a rivedere

lì dove è stato dimostrato che il concetto di una  cosa, che per sé stessa può esistere come soggetto ma non come semplice predicato, non comporta ancora alcuna realtà oggettiva […] e di conseguenza, che tale concetto non offre assolutamente alcuna conoscenza; […] se esso vuole diventare una conoscenza, allora alla sua base si dive porre un’intuizione permanente, quale condizione imprescindibile della realtà oggettiva di un concetto, vale a dire ciò tramite cui soltanto è dato l’oggetto. Noi però nell’intuizione interna non abbiamo nulla di permanente, poiché l’io è solo la coscienza del mio pensiero; e dunque se rimaniamo fermi al pensiero ci manca anche la condizione necessaria per applicare il concetto di sostanza ― cioè di un soggetto sussistente di per sé ― a sé stesso come essere pensante. Ma così ci viene a mancare completamente, insieme alla realtà oggettiva di questo concetto, anche la semplicità della sostanza ad esso connessa, e viene trasformata in una unità qualitativa semplicemente logica dell’autocoscienza nel pensiero in generale, a prescindere se il soggetto sia composto oppure no. [176]

Dunque, denunciato il sofisma dell’anima in quanto sostanza cadono anche le successive tesi ad esso correlate, ovvero, quella della semplicità, dell’unità, spiritualità ed immortalità. Infatti, per Kant,

(a) l’ ‘io penso’ in quanto soggetto determinante di ogni relazione che costituisce un giudizio, non implica necessariamente che esso sia al contempo ente sussistente per sé stesso, cioè sostanza; sono infatti necessari «anche dei data che nel pensiero non si incontrano affatto e che forse (nella misura in cui considero l’essere pensante in quanto tale) sono più di quanti io possa trovarne (nel pensiero)»[177];

(b) il fatto che «l’io dell’appercezione sia in ogni pensiero un che di singolare  […] non significa che l’io pensante sia una sostanza semplice […]. Il concetto di sostanza si riferisce sempre ad intuizioni, che in me non possono essere che sensibili, quindi del tutto al di fuori del campo dell’intelletto e del suo pensiero, mentre è solo di questo campo che si parla propriamente, quando si dice che l’io nel pensiero è semplice»[178];

(c) per affermare l’identità del soggetto in ogni rappresentazione della quale si è coscienti, non è sufficiente l’intuizione di sé stessi, la quale può dare solo l’ ‘io penso’ come oggetto, e non «l’identità della persona, con cui si intende la coscienza dell’identità della propria sostanza in quanto essere pensante in ogni mutamento degli stati»[179];

(d) la distinzione della propria esistenza in  quanto essere pensante dalle altre cose al di fuori del proprio essere pensante (tra cui quella del proprio corpo), viene presupposta dal fatto che «le altre cose sono tali in quanto io le penso come distinte da me. Ma se questa coscienza di me stesso sia possibile senza cose fuori di me, tramite le quali mi vengono date le rappresentazioni, e se quindi io possa esistere come essere pensante (senza essere uomo), con tale proposizione io non lo so affatto».[180]

«Non esiste dunque alcuna psicologia razionale come dottrina, che procuri un incremento della nostra conoscenza di noi stessi, ma solo come disciplina, che pone confini invalicabili alla ragione speculativa in questo campo»; tale disciplina deve piuttosto rammentarci «il rifiuto della nostra ragione a dare una risposta esaustiva alle domande curiose che travalicano questa vita».[181]

Da tutto ciò si vede che la psicologia razionale trae la sua origine da un semplice equivoco. L’unità della coscienza che sta alla base delle categorie viene assunta qui come intuizione del soggetto considerato come oggetto, e a tale unità viene applicata la categoria della sostanza. Essa, però, è solo l’unità del pensiero, e per suo tramite soltanto non viene dato alcun oggetto; motivo per cui non le può essere applicata la categoria della sostanza, in quanto quest’ultima presuppone sempre un’intuizione data.[182]

La parvenza dialettica nella psicologia razionale si basa sullo scambio di un’idea della ragione (l’idea di una intelligenza pura) con il concetto indeterminato in tutto e per tutto, di un essere pensante in generale. […] Di conseguenza, scambio la possibile astrazione della mia esistenza empiricamente determinata con la presunta coscienza di una possibile esistenza separata del mio me stesso pensante, e credo di conoscere ciò che è sostanziale in me come soggetto trascendentale, mentre invece nel mio pensiero non  ho altro che l’unità della coscienza che sta alla base di ogni determinazione, in quanto semplice forma della conoscenza[183]

TAVOLA SINOTTICA DELL’IO

dall’Io della Psychologia empirica all’’Io penso’ della Dialettica Trascendentale

Lez. di Psychologia empirica(dottrina dell’esperienza)IO Lez. di Psychologia razionale(dottr. dei concetti della ragione-metafisica)ANIMA Critica della Ragion PuraDialettica Trascendentale‘IO PENSO’ (coscienza ‘vuota’)
l’Io è il fondamento di molti altri concetti. ‘Io sono’ è la prima proposizione (concetto di esperienza);L’Io esprime la sostanzialità: perché il substratum inerente a  tutti gli accidenti e predicati e non può essere predicato di altro; «questo è l’unico caso in cui possiamo intuire immediatamente la sostanza. Noi non possiamo intuire il substratum e il primo soggetto di alcuna cosa; ma in me intuisco la sostanza immediatamente. L’Io dunque non esprime solo la sostanza, ma anche il sostanziale stesso. Anzi il concetto che noi abbiamo in generale di tutte le sostanze, lo abbiamo derivato da questo io. Esso è il concetto originario  che a sua volta esprime:(a) la semplicità: «molti [in quanto molti] non possono certo dire “Io” »; l’anima che pensa è in me è dunque singolare e dunque semplice;(b) l’immaterialità: in quanto oggetto del senso interno e «qualcosa è immateriale quando è presente nello spazio senza occupare spazio, né essere impenetrabile»[184]. l’anima è un concetto che noi traiamo dall’esperienza e non possiamo conoscere a priori nulla di più di quanto l’Io ci faccia conoscere; il concetto dell’anima infatti noi lo otteniamo attraverso l’Io, ovvero mediante l’intuizione interna del senso interno, in quanto sono cosciente di me e del mio pensiero;(A) dell’anima semplicemente in sé e per sé stessa, consociamo che è: sostanza (io sono una sostanza, nel senso aristotelico delle Categorie: soggetto ultimo della predicazione); semplice (l’Io penso è il soggetto unico di tutte le mie rappresentazioni); singola (la mai coscienza è singola in quanto non sono cosciente di più sostanze in me); simpliciter spontanea agens (spontaneità assoluta) in quanto cosciente delle proprie determinazioni e dei propri atti;dall’anima presa in confronto con le altre cose in generale, possiamo dedurre che essa sia immateriale, in quanto oggetto del senso interno che mi fa escludere la materialità(B) nel nesso con le altre cose, posso presupporre il commercium con il corpo, in quanto, l’impossibilità di scorgere una cosa simile con la ragione non prova affatto l’impossibilità interna della cosa [185] (e dalla qual cosa posso anche poi presupporre l’immortalità dell’anima). L’io penso non è una percezione del senso interno, non è un concetto, ma esprime solo una possibilità; è la coscienza ‘vuota’ che accompagna ogni successivo pensiero.È il soggetto trascendentale ‘x’ dei pensieri, che si auto percepisce solo quando si attiva l’attività del pensare; i pensieri sono i suoi predicati ed è solo tramite questi che è possibile avere il concetto ‘io penso’(1) l’ ‘io penso’, dunque, non può essere sostanza, né ciò che da essa può essere derivato (semplicità, unità, identità, in relazione con il corpo);(2) l’io penso è piuttosto, il soggetto determinante di ogni relazione che costituisce un giudizio;(3) L’io penso è sì semplice nel pensiero, ma non è sostanza semplice perché il pensiero esula dall’attività intuitiva sensibile (attraverso cui si ha il concetto di sostanza).(4) l’identità dell’‘io penso’ nel pensiero non è l’identità della persona alla quale la coscienza si riferisce,(5) la distinzione della persona in quanto soggetto pensante dalle altre cose fuori del soggetto è presupposta e non dedotta.[186]

[1] KANT I., Critica della Ragion Pura, a cura di e tr. it C. Esposito, Bompiani, Milano, 2007², B 103, p. 203.

[2] Cfr. KANT I., Sogni di un visionario. Spiegati con i sogni della metafisica, Op. Cit., passim,  pp. 159-161.

[3] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., tr. it. di G. A. De Toni, Laterza, Roma-Bari, 1986,  p. 2.

[4] Cfr. Ivi,  Note al testo di G.A. De Toni, p. 39.

[5] Cfr. Ivi, Saggio introduttivo di L. Mecacci, p. 10.

[6] Cfr. KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., pp. 47-49.

[7] KANT I., Critica della Ragion Pura, Op. Cit., B XIV, Prefazione alla seconda edizione.

[8] Cfr. KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., passim, pp. 49-50.

[9] KANT I., Critica della Ragion Pratica, tr. it. di F. Capra, Laterza, Roma-Bari, 2008⁶, 288-289, p. 353.

[10] RICONDA G., Invito al pensiero di Kant, Mursia, Milano, 1987, p. 50.

[11] Cfr. KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, tr, it. di A. Marini, Pavia, 1994₃, Prefazione di F. Papi, pp. 9-16.

[12] KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit., pp. 58-59.

[13] «Quarto di undici figli di cui solo un fratello e tre sorelle sopravvissero ai genitori» Cfr. RICONDA G., Invito al pensiero di Kant, Op. Cit., p.13.

[14] «Una grande città, il centro di uno Stato, in cui si riuniscono gli organi del governo di esso, che possiede una Università (per la cultura scientifica) e che è sede di commercio marittimo, collegata per via fluviale con l’interno e con i paesi di diverse lingue e costumi, una simile città, come è Königsberg sul Pregel, può essere ritenuta adatta allo sviluppo della conoscenza degli uomini e del mondo anche senza viaggiare». Cfr. RICONDA G., Invito al pensiero di Kant, Op. Cit., p. 14. La citazione riportata da Giuseppe Riconda fa riferimento  ai contenuti dell’Antropologia kantiana.

[15] KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit., p. 28.

[16] Cfr. Ivi, p. 27.

[17] Ibidem.

[18] Cfr. KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit.,  Prefazione di F. Papi, p. 19. Celebre è l’affermazione  di Rousseau (nell’Emilio) per cui tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo. La forte ammirazione di Kant nei confronti di Rousseau (come d’altronde per Newton), come è noto,  è sottesa nel celebre commiato della Critica della Ragion Pura, antecedentemente richiamato: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me». KANT I., Critica della ragion pratica, Op. Cit., p. 353.

[19] KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit., p. 27.

[20] Cfr. Ivi, pp. 29-35.

[21] Cfr. Ivi, pp. 35-39.

[22] KANT I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit., p. 44; «Non c’è nessuna ragione di credere che nello stato di attività il nostro spirito, segua leggi diverse che nel sonno, è piuttosto da supporre che solo le impressioni sensibili più vivaci oscurino, nel primo caso, e rendano irriconoscibili le più tenere immagini delle chimere, anziché che queste abbiano tutte la loro forza soltanto nel sonno, quando l’accesso all’anima è chiuso a tutte le impressioni esterne. Non c’è quindi da meravigliarsi, per tutta la loro durata, vengano presi per esperienze veraci di cose reali. Infatti, essi sono allora nell’anima le rappresentazioni più forti e sono quindi, nel sonno, proprio ciò che, nella veglia sono le sensazioni». KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit., pp. 42-43.

[23] KANT I., Sogni di un visionario. Spiegati con i sogni della metafisica, Op. Cit., pp. 133-134.

[24] Ivi, p. 129.

[25] Ivi,  passim, pp. 130-134.

[26] Cfr. KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit., pp. 29-51.

[27] Ivi, pp. 51-52.

[28] Ivi, passim, p. 53.

[29] Ivi, passim, pp. 54-55.

[30] Il corsivo è di chi scrive.

[31] Il corsivo è di chi scrive.

[32] KANT. I., Saggio sulle malattie della mente, Op. Cit., pp. 56-58.

[33] KANT I., Sogni di un visionario. Spiegati con i sogni della metafisica, Op. Cit., passim, p. 144.

[34] Cfr. KANT. I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., Saggio introduttivo di Luciano Mecacci, p. 6.

[35] Ivi, p. 6-7.

[36] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 52.

[37] Cfr. Ivi, passim, pp. 50-51

[38] Cfr. Ivi,  p. 52

[39] Cfr. Ivi, passim, pp. 51-52.

[40] Essendo l’io un concetto dell’esperienza e quindi della psicologia empirica ―  Cfr.  Ivi,  p. 50 ― anche il concetto di anima è da intendersi come concetto di esperienza; Cfr. Ivi,  p. 99.

[41] Ivi, p. 51.; è evidente la sottesa polemica contro la visione cartesiana della collocazione dell’anima nella ghiandola pineale.

[42] Ivi, p. 93.

[43] Ivi, p. 91.

[44] Termine con il quale si intende quell’ «attività economica che consiste nello scambio di prodotti in natura o contro denaro in base alla reciproca utilità dei contraenti». Vocabolario illustrato della lingua italiana, di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, F. Le Monnier e Selezione dal Reader’s Digest, Milano, 1967, Vol I, “commercio”, p. 616.

[45] In realtà non si potrebbe parlare propriamente di un commercio tra anima e corpo perché «il concetto di anima presuppone già un commercium»; e per commercium si deve intendere una determinazione reciproca; e non una dipendenza  non reciproca che determina viceversa un semplice collegamento. Cfr. KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 117.

[45] Cfr. Ivi, p. 52.

[46] «Fa conto dunque, così per dire, che ci sia nell’anime nostre come un blocco di cera da improntare, in uno più grande in un altro più piccolo, in questo di cera più pura in quello più impura, in alcuni di cera più dura in altri più molle, in altri di temperanza giusta […] e ora diciamo che codesta cera è dono di Mnemosine, la madre delle Muse; e che in essa, esponendola appunto alle nostre sensazioni e ai nostri pensieri, noi veniamo via via imprimendo, allo stesso modo che si imprimono segni di sigilli, qualunque cosa vogliamo ricordare di quelle che vediamo o udiamo o in noi stessi pensiamo; e quel che vi è impresso noi lo ricordiamo e conosciamo finché l’immagine sua rimane; quello invece che vi è cancellato o sia impossibile imprimercelo, lo dimentichiamo e non lo conosciamo.» Platone, Teeteto, tr. it. di Manara Valgimigli, Editori Laterza, Roma-Bari, 2006³, 191c – e; pp. 141 -143.

[47] Scrive Kant: «Nel corpo vi devono essere impressioni che corrispondono ai pensieri e accompagnino l’idea». KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 91.

[48] Scrive Kant «Le idee dell’anima corrispondono a qualcosa di corporeo». Ibidem.

[49] Scrive Kant: «Il cervello veramente non elabora i pensieri, ma è solo una tavola [Tafel, tabula] sulla quale l’anima segna i propri pensieri». Ibidem.

[50] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit.,, passim, pp. 91-92.

[51] Ivi, p. 92.

[52] Ivi, pp. 92-93.

[53] Cfr. Ivi,  pp. 93-94. Il bersaglio qui è dichiarato dallo stesso Kant: Wolff.

[54] Ivi, pp. 94-95.

[55] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 53.; la coscienza, dunque, riflettendo percepisce prima sé come soggetto e, quindi,  i concetti (le rappresentazioni delle mie rappresentazioni).

[56] Ibidem.

[57] Ivi, passim, pp. 53-54.

[58] Cfr. Ivi, pp. 54-55.

[59] Cfr. Ivi, pp. 69-70.

[60] Ivi, passim, p. 56.

[61] Ibidem.

[62] Cfr. Ivi, pp. 55-56.

[63] Ivi, pp. 56-57. Il rilievo ed il corsivo sono di chi scrive.

[64] Ivi, passim, pp. 57-60.

[65] Il corsivo ed il rilievo è di chi scrive.

[66] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 60.

[67] Il rilievo ed il corsivo è di chi scrive.

[68] Cfr. KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., passim, pp. 63-64.

[69] Ivi, passim, pp. 64-66.

[70] Ivi, pp. 66-67.

[71] Cfr. KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 66.

[72] KANT I., Critica della Ragion Pura, Op. Cit., B 103, p. 203.

[73] Ivi, Prefazione alla seconda edizione, B XII-XIII, p. 31.

[74] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 68.

[75] Ibidem. Il rilievo è di chi scrive.

[76] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 69.

[77] KANT I., Critica della Ragion Pura, Op. Cit.,  B 164, p. 285.

[78] FINELLI R., La soluzione kantiana, in La libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità, Liguori Editori, Napoli, 2003, p. 14.

[79] Cfr. Ivi, pp. 15-16.

[80] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 61.

[81] Cfr. Ibidem.

[82] Il concetto di meccanismi inconsci avrà un’importanza fondamentale negli studi dell’inconscio nella seconda metà del ‘900. Norman Dixon, pubblicando nel 1981 l’opera Preconscious Processing (in realtà  opera che nasce come revisione e ampliamento del precedente testo da lui pubblicato nel 1971 sulla Subliminal Perception), facendosi paladino dell’elaborazione preconscia, diede avvio ― attraverso le idee della psicologia cognitiva contemporanea e grazie all’utilizzo di un nuovo lessico guidato dalla metafora del computer ― ad una rivisitazione delle idee freudiane, che,  prima respinte in quanto ritenute assurde e poco scientifiche, vennero riconsiderate e legittimate:  non si parlò più di censura ma di selettività e filtraggio; non si parlò più di Io ma di processi esecutivi, non si parlò più di coscienza ma di memoria di lavoro; la vecchia distinzione tra regioni consce e inconsce fu invece riformulata nei termini di elaborazione controllata e automatica: «la prima è avviata volontariamente, sostenuta da uno sforzo prolungato e procede in modo sequenziale. la seconda può essere innescata da richieste o stimoli ambientali, è mantenuta senza alcuno sforzo e implica una progressione in parallelo. […] Il concetto di processi inconsci,  automatici, in azione all’interno della mente aveva attraversato in modo discontinuo la filosofia, la psicologia e la neurologia sin dai tempi di Leibniz; tuttavia la metafora del computer permise una comprensione più soddisfacente di questi processi. Potevano essere interpretati come programmi. Una volta avviati, i processi automatici tendono a seguire un percorso predefinito, fino a quando non vengono interrotti […] ciò che intendiamo con il termine competenza è esattamente il grado di automatismo cui giunge un’abilità. […] La tendenze delle abilità a diventare automatiche sembra riflettere un principio generale che guida il funzionamento cerebrale. Appena si è appresa un’abilità, questa viene automatizzata il più rapidamente possibile. Questo processo ha un importante significato, perché la coscienza ― anche se limitata e lenta ― è assolutamente necessaria nel momento in cui si devono affrontare situazioni nuove. I processi controllati sono essenziali per la pianificazione e l’assimilazione di nuove competenze. […] Le regole sintattiche e semantiche che guidano la selezione lessicale operano al di sotto della soglia di coscienza e sono in gran parte inaccessibili. Studi sperimentali hanno cominciato a dimostrare che molti aspetti del comportamento umano sono influenzati da regole ed euristiche inaccessibili ». Cfr. TALLIS F., Breve storia dell’inconscio, tr. it. A. Ranieri e M. Longoni, Il Saggiatore, Milano, 2003, passim, 148-154. Proseguendo Tallis mette altresì in evidenza come gli ulteriori sviluppi sugli studi dell’inconscio arrivano a formulare l’ipotesi per cui «l’elaborazione dell’informazione all’interno del cervello è un’attività prevalentemente inconscia» (Ivi, p. 157); e lo stesso concetto di inconscio cognitivo, apparso intorno agli anni ottanta del secolo scorso, si fonda sulla nozione di automazione progressiva; «se il cervello può rapidamente trasformare compiti in “abitudini”, allora possono essere destinata più risorse elaborative all’analisi delle contingenze ambientali in corso»; in sintesi, l’automazione altro non è che «il divenire inconscio della mente conscia». Ivi, 182-183.

[83] Il corsivo è di chi scrive. «Per inconscio si intendono quindi non solo gli oscuri contenuti che emergono dal fondo dell’anima, ma anche le regole, le leggi, la grammatica di cui non siamo coscienti. Sono regole nascoste, come lo è il “modo di comportarsi dell’intelletto” attraverso lo schematismo: “questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un’arte celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi”». KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., Introduzione di L. Mecacci, p. 13.

[84] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 62

[85] Nella Critica della Ragion Pura Kant definirà la dialettica in generale quale logica della parvenza, intendendo con questa una conoscenza manchevole ma non per questo ingannevole: «verità e parvenza infatti non sono nell’oggetto, in quanto esso viene intuito, ma si trovano sul giudizio dell’oggetto, in quanto esso viene pensato». Kant inoltre distingue 1. la parvenza empirica, che si determina quando l’influsso dell’immaginazione fa deviare la facoltà di giudizio  (come per esempio l’illusione ottica); 2. la parvenza trascendentale, che influisce su principi trascendenti il cui uso non è basato sull’esperienza e che «ci porta completamente fuori strada, al di là di ogni uso empirico delle categorie, e ci blocca con il miraggio di un ampliamento dell’intelletto puro (es.: l’illusione che si trova nella proposizione: il mondo deve avere un cominciamento temporale); e 3. la parvenza logica che invece sorge da una mancanza di attenzione alle regole logiche e consiste nella semplice imitazione della forma della ragione (l’illusione dei sofismi). Compito della dialettica trascendentale è quello «di scoprire la parvenza dei giudizi trascendenti e contemporaneamente di far si che essa non inganni […] Esiste perciò una naturale e inevitabile dialettica della ragion  pura: non una dialettica in cui un pasticcione, per carenza di conoscenze, si sviluppi da sé stesso, o che un qualunque sofista abbia artificiosamente escogitato per ingannare le persone ragionevoli; bensì una dialettica che è inscindibilmente connessa all’umana ragione che ― anche dopo aver smascherato il suo miraggio― non cesserà tuttavia di sedurla e di trarla continuamente in errori momentanei che richiederanno sempre di essere nuovamente eliminati». Kant intende per principi trascendenti quei principi (differentemente dai principi imminenti) la cui applicazione non si mantiene entro i limiti dell’esperienza e che non solo elimina questi limiti ma addirittura li oltrepassa. In questo senso bisogna notare la differenza tra trascendente e trascendentale, in quanto invece quest’ultimo indica un errore della facoltà di giudizio che, «non imbrigliata a dovere»,  non presta sufficiente attenzione ai confini del campo dove solo l’intelletto puro può agire. Cfr. KANT I., Critica della Ragion Pura,  Op. Cit., passim,  B352-355, pp. 531-533.

[86] Cfr. KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., passim, pp. 62-63.

[87]Corsivo mio.

[88] Cfr. KANT I., Critica della Ragion Pura,  Op. Cit., Dialettica trascendentale, B350-352, pp. 527-529.

[89] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 68.

[90] Ivi,  passim, pp. 68-69.

[91] Ivi, p. 69

[92] Ivi, passim,  69-70.

[93] Cfr. Ivi,  pp. 71-72.

[94] Ivi, passim, pp. 72-73.

[95] Ivi, passim, pp. 73-74.

[96] Ivi, passim, pp. 75-77.

[97] Ivi, passim, pp. 78-80.

[98] Cfr. Ivi, pp. 80-82.

[99] Ivi, passim, pp. 84-90.

[100] Cfr. Ivi,  p. 99. «Nella psicologia razionale non si consoce l’anima umana sulla base dell’esperienza come nella psicologia empirica, bensì sulla base di concetti a priori. Qui dobbiamo indagare quanto noi possiamo conoscere dell’anima mediante la ragione. La massima aspirazione dell’uomo non è sapere gli atti dell’anima che egli conosce attraverso le esperienze, ma la sua condizione futura». KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 99.

[101] Cfr. Ivi,  pp. 99-100.

[102] Ivi,  p. 102.

[103] Ibidem.

[104] Ibidem.

[105] Ivi, p. 103.

[106] Cfr. Ivi, pp. 103-104.

[107] Ivi,  p. 104.

[108] Ivi, p. 101.

[109] Ivi, passim, 104-108.

[110] Cfr.  Ivi, pp. 108-111.

[111] Cfr.  Ivi, pp. 111-112.

[112] Cfr.  Ivi, 112-114.

[113] L’ ‘Io sono’ costituisce la personalità psicologica distinta dalla personalità pratica determinata invece dalla libertà.

[114] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., pp. 114-115.

[115] Ivi,  p. 114.

[116] Ivi, p. 116.

[117] Ivi, pp. 116-117.

[118] Cfr. Ivi,  p. 118.

[119] Cfr. Ivi, pp. 118-122.

[120] Ivi,  p. 122.

[121] Cfr. Ivi,  p. 122-126.

[122] Il corsivo è di chi scrive. Evidente è il richiamo alla dottrina platonica (Fedro)dell’anima e all’unione di questa con il corpo.

[123] KANT I., Lezioni di Psicologia, Op. Cit., p. 126.

[124] Cfr. Ivi, pp. 136-138.

[125] Ivi, p. 138.

[126] Ivi,  p. 139.

[127] Ibidem.

[128] KANT I., Critica della Ragion Pura,  Op. Cit. B 355, p. 533.

[129] Cfr. Ivi,  Op. Cit. B 356, p. 535.

[130] Cfr. Ivi, B 355-B361, pp. 535-541; Cfr. anche  Ivi, B 378-379, p. 563: «La funzione della ragione nelle sue inferenze consiste, come si è visto, nell’universalità della conoscenza secondo concetti e il sillogismo stesso è un giudizio che viene determinate a priori in tutta l’estensione della sua condizione. […]. Nella conclusione di un sillogismo, dunque, noi restringiamo un predicato ad un certo oggetto, dopo aver pensato ― nella premessa maggiore ― quel predicato in tutta la sua estensione, sotto una certa condizione.»

[131] Ivi, B 361, p. 541.

[132] Ivi, B 364, p. 545.

[133] Cfr. Ivi, B362-365, pp. 541-545.

[134] Il corsivo ed il rilievo sono di chi scrive. KANT I., Critica della Ragion Pura,  Op. Cit., B 365, p. 547.

[135] Ivi, B365-366, p. 547. Compito infatti della dialettica trascendentale è quello di «scoprire la parvenza dei giudizi trascendentali e contemporaneamente di far sì che essa non inganni.» Ivi, B354, p. 533.

[136] Cfr. Ivi, B 367-368, pp. 551-553.

[137] Ivi,  B 375 p. 559

[138] Il corsivo è di chi scrive, per evidenziare un probabile collegamento con quella logica con la quale Leibniz intendeva ‘ragionare calcolando’.

[139] KANT I., Critica della Ragion Pura,  Op. Cit., B 370-371, p. 553.

[140] Ivi, B 377, p. 561; anche se poi diversamente da Platone essa è svuotata da qualsiasi contenuto ontologico (idee quali cause  e originarie di tute le cose) in quanto l’idea è quel «concetto necessario della ragione a cui non può essere dato alcun oggetto congruente dei sensi». Ivi,  B 383; Cfr. RICONDA G., Invito al pensiero di Kant, Op. Cit., p. 113.

[141] Cfr. KANT I., Critica della Ragion Pura,  Op. Cit.,B 376-377, p. 561.

[142] Cfr. Ivi,  B 378-379, pp. 561-563.

[143] Ivi,  B379-380, p. 563-565.

[144] Ivi,  B383-384, p. 569.

[145] Ovvero, quell’insieme di processi inferenziali che prevedono la sussunzione di un giudizio possibile (minor) sotto le condizioni di un giudizio dato che costituisce la regola universale (maior) , per arrivare al giudizio reale che enuncia l’asserzione della regola rispetto al caso sussunto (conclusio), [maior: ogni composto è mutevole; minor: i corpi sono composti; conclusio : i corpi, dunque, sono mutevoli]. In questo processo inferenziale si elabora  una conoscenza (conclusio) condizionata dalla totalità nella serie delle premesse; una conoscenza viene considerata condizionata quando «la ragione è costretta a considerare la serie delle condizioni in linea ascendente come compiuta e data nella sua totalità». Critica della Ragion Pura,  Op. Cit.,  B 385-389, pp. 571-577.

[146] Ivi, B 367, p. 549.

[147] Cfr. Ivi, B 391, p. 577-579.

[148] Ivi,  B 391, p. 577579.

[149] Di queste tre idee, dice Kant, non è però possibile alcuna deduzione oggettiva, come quella che si è invece potuta fornire per le categorie, ma solo soggettiva a partire dalla nostra stessa ragione. Cfr. Ivi, B. 393, p. 581.

[150] Cfr. Ivi,  B391-392, p. 579.

[151] «Il procedere dalla conoscenza di sé stessi, (dell’anima) alla conoscenza del mondo, e tramite questa alla conoscenza dell’ente originario, è un progresso così naturale da sembrare simile al processo logico della ragione che muove dalle premesse sino alle conclusioni ». «La metafisica ― scrive ancora Kant in nota ― ha come scopo peculiare della sua indagine soltanto tre idee: Dio, la libertà e l’immortalità, cosicché il secondo concetto, connesso con il primo debba condurre al terzo come ad una conclusione necessaria». KANT I., Critica della Ragion Pura,  Op. Cit.,B 394, p. 583.

[152] Ivi,  B.395-396, p. 583.

[153] Ivi, B 397, p. 585.

[154] Cfr. Ivi, passim,  B 397-398, pp. 585-587.

[155] Ivi, B 399, p. 587.

[156] Ivi, B 399-400, pp. 587-589.

[157] Il corsivo è di chi scrive.

[158] Il corsivo è di chi scrive.

[159] KANT I.,Critica della Ragion Pura,  Op. Cit., B 400, p. 589.

[160] Ivi, B 400-401, pp. 589-591.

[161] Ivi, B 405, p. 595.

[162] Ivi, B 404, p. 593. I corsivi e i rilievi sono di chi scrive.

[163] Ivi, B 404, p. 593-595.

[164] Ivi, passim, B 400-401, pp. 589-591.

[165] Ivi, B 405, p. 595.

[166] Ivi, B 404, p. 593.

[167] Ivi, B 406, p. 597.

[168] Ivi, B 407, p. 597.

[169] Ivi, B 402, p. 591.

[170] Ivi, B 403, p. 593.

[171] Cfr. Ivi, B 402-403, pp. 591-593.

[172] Cfr. Ivi, B 410, p. 601.

[173] Ivi, B 410-411, 601-603.

[174] Ivi, B 411, p. 603.

[175] Cfr. Ivi, B 410-411, pp. 601, 603.

[176] Ivi, B 412-413, pp- 603-605.

[177] Ivi, B 407, p. 597-599.

[178] Ivi, B 408, p. 599.

[179] Ivi, B 408, p. 599.

[180] Ivi, B 409, pp. 599-601.

[181] Ivi, B 421, p. 615.

[182] Ivi, B 421-422, p. 615.

[183] Ivi, B 426-427, p. 621.

[184] Cfr. KANT I., Lezioni di psicologia, Op. Cit., pp. 52-53.

[185] Cfr. KANT I., Lezioni di psicologia, Op. Cit., p. 99 – 122.

[186] Cfr. KANT I., Critica della Ragion pura, Op. Cit., B 397- B409, pp. 585-601.

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