L’amicizia tra gelosia e gratitudine. Riconoscimento e virtù nell’«Etica» di B. Spinoza.

Francesco Toto

Abstract: Drawing on Baruch Spinoza’s analyses of jealousy and gratitude this article demonstrates the importance of friendship in his Ethics. Friendship is shown to be crucial both for those driven by reason and for those dominated by emotions. This article also shows the significance of the desire for recognition in the genesis of friendship itself. My emphasis on the notion of friendship addresses a gap in Spinozian studies and it produces a new reading of the problem of continuity/discontinuity between passion and virtue. Through this analysis the possibility of an affective agreement among men emerges that is independent from reason but at the same time able to promote the development of reason.

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1. In questo articolo parlerò del concetto spinoziano di amicizia, e della sua importanza in ordine a una più adeguata intelligenza del rapporto tra passione e virtù messo a punto nell’Etica spinoziana. Prima di dedicarmi all’analisi dei luoghi in cui l’amicizia viene chiamata in causa nella teoria degli affetti sviluppata dalla Parte terza dell’opera, che occuperà buona parte del mio discorso, mi sembra allora opportuno accennare alla funzione che la dottrina della virtù esposta nella Parte quarta assegna alla nozione di un’utilità non egoistica, ma capace di promuovere quei vincoli di solidarietà che stanno alla base dell’accordo o dell’amicizia tra gli uomini. Questa funzione appare chiara sin da E4p18sch, scolio in cui Spinoza offre al lettore un’esposizione sintetica dei dettami della ragione che si accinge a dimostrare secondo il suo «prolisso ordine geometrico», interamente centrata sul legame tra ricerca dell’utile e virtù. Per il modo in cui viene introdotto nella prima metà dello scolio e ripreso nelle proposizioni successive, questo legame rappresenta una conseguenza necessaria e pressoché immediata della definizione stessa della virtù. Se la virtù non è null’altro che «l’essenza o la natura stessa dell’uomo, in quanto ha il potere di fare delle cose che si possono intendere mediante le sole leggi della sua natura»[1] (e di essere quindi attivo, libero e felice[2]), e se però l’essenza o la natura dell’uomo è costituita da uno sforzo di conservare sé stesso che è tutt’uno con la ricerca dell’utile[3], è evidente che proprio quest’ultima deve rappresentare «il primo ed unico fondamento della virtù»[4]. Il legame tra questa virtù e la ragione viene allora a dipendere dal fatto che nessuno può propriamente agire, fare ciò che segue dalla sua sola natura, ricercare adeguatamente il proprio utile, se non nella misura in cui le idee che accompagnano i suoi desideri siano delle idee adeguate o razionali. Dove la violenza delle passioni può essere tale da spingerci a seguire il male anche quando vediamo il bene[5], e da costringerci anzi ad inseguire inconsapevolmente il nostro stesso annientamento quasi fosse la nostra salvezza[6], la determinazione a ricercare ciò che è «veramente utile» esige che la nostra vita affettiva sia non solo rischiarata da quella adeguata comprensione di noi stessi e del mondo[7] che chiamiamo appunto ragione, ma sorretta da quella «fermezza» che rappresenta un «desiderio di conservare il proprio essere secondo il solo dettame della ragione»[8], e che ci consente di trovare nella resistenza agli eccessi delle passioni un’occasione non di frustrazione, ma di gioia e di soddisfazione di noi stessi[9]. La ragione comanda «che ciascuno ami sé stesso» e «ricerchi […] ciò che è veramente utile»[10], e il suo dettame non deve essere pensato quindi come un ordine autoritario, al quale la volontà deve sottomettersi per potersi opporre alle innate disposizioni della natura umana, ma come l’espressione più alta e adeguata di una tendenza alla conservazione di sé, all’autonomia e alla felicità che coincide con la natura stessa dell’uomo, e che in una forma più inadeguata ne orienta anche la vita passionale.

Il carattere non egoistico della ricerca dell’utile di cui l’amore di sé può essere portatore viene rivendicato nella seconda metà di E4p18sch affermando che essa sta a fondamento non solo della virtù in generale, o di quelle sue specifiche forme che derivano dalla fermezza e riguardano direttamente la conservazione di sé stessi (come ad esempio la temperanza, la sobrietà e la castità[11]), ma anche di quelle che investono il rapporto con gli altri uomini e derivano dalla «generosità», dal «desiderio con cui ciascuno si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri uomini e di unirli a sé in amicizia»[12]. Coerentemente con la distinzione introdotta in E3p59sch, nel quale «fermezza» e «generosità» compaiono per la prima volta come due desideri ugualmente caratteristici dell’uomo guidato della ragione e che mirano però l’uno «soltanto» all’utilità dell’agente e l’altro «anche» a quella del proprio simile, non è certo per via di una loro presunta capacità di arginare una tendenza a conservare il proprio essere e ricercare il proprio utile di per sé stessa egoistica che la generosità e le sue derivazioni possono essere assunte come forme di virtù ed oggetto di un comandamento della ragione, ma proprio al contrario perché rappresentano quelle configurazioni nelle quali il desiderio del proprio bene si rivela inseparabile dal desiderio del bene dell’altro e l’amore di sé che orienta la vita affettiva di ogni uomo palesa quindi la propria disposizione a promuovere forme di socializzazione non estrinseche, fondate non sulla repressione delle pulsioni, ma sui vincoli di un’utilità comune e dell’amicizia che essa consente di costruire. Diversamente da quanto accade con la fermezza, però, il legame tra generosità e conservazione di sé non è immediato, perché dipende dalla possibilità di un’utilità comune, ed è allora proprio per dimostrare questa possibilità che Spinoza stabilisce una premessa maggiore, stando alla quale l’utilità di qualunque cosa esistente fuori di noi è direttamente proporzionale all’accordo tra la sua natura e la nostra, e una premessa minore, secondo la quale non c’è nessuna cosa che possa accordarsi con la nostra natura ed esserci utile più di quella di un altro uomo, concludendo che la ricerca dell’utile può stare all’origine di tutte le virtù atte a favorire un pieno accordo tra gli uomini (come la pietas, la giustizia, la lealtà, o l’onestà). L’utile che l’uomo virtuoso ricerca sotto la guida della ragione non può essere un utile egoistico perché per un individuo non c’è nulla di più utile di una comunità umana i cui membri si accordano integralmente, desiderano quindi l’uno per l’altro lo stesso bene che desiderano per sé, e cooperano con una potenza pari alla somma di tutte le potenze individuali ad un bene che è indivisibilmente di ognuno e di tutti.

Assegnando alla nozione di «accordo» la funzione di vera e propria chiave di volta dell’intera dottrina della virtù svolta nella Parte quarta, questa dimostrazione solleva al tempo stesso un problema di particolare rilievo per la comprensione del concetto di amicizia e del suo significato all’interno del sistema spinoziano. Quando afferma che due individui la cui natura è «del tutto identica» e che «si accordano del tutto» trovano nella loro unione un raddoppiamento della propria potenza di agire, e ne deduce che «nulla […] è più utile all’uomo dell’altro uomo», Spinoza presuppone che la natura degli uomini sia del tutto identica, e che l’integralità del loro accordo costituisca quindi una conseguenza immediata della loro semplice appartenenza a una «medesima specie»[13]. Riferendosi alla pienezza dell’accordo come all’oggetto di un desiderio, e più in particolare dello stesso desiderio che spinge l’uomo condotto da ragione a ricercare il bene dell’altro come fosse il proprio, le righe successive sembrano pensare identità di natura ed accordo non come un semplice dato di fatto, ma come un compito la cui realizzazione richiede un attivo esercizio della ragione e delle virtù che ne dipendono. Presente in E4p18sch ancora solo allo stato embrionale, questa oscillazione è destinata a diventare più evidente nelle pagine che ritorneranno sul tema dell’accordo tra gli uomini. Le proposizioni comprese tra E3p32 e 35, ad esempio, sembrano pensare l’accordo come possibile unicamente tra uomini che la guida della ragione rende perfettamente conformi alla loro comune natura umana e necessariamente utili gli uni per gli altri. Se una cosa si accorda con noi ed è «necessariamente buona» per tutto ciò che le nostre nature hanno in comune, mentre è contraria e cattiva per tutto ciò in cui le nostre nature differiscono tra loro (discrepant), e se gli uomini soggetti alle passioni possono «differire per natura» ed «essere contrari gli uni agli altri» ma in nessun caso «accordarsi per natura»[14], bisogna concludere che un accordo fondato su basi meramente passionali costituisce una vera e propria contraddizione in termini[15]. In questo stesso gruppo di proposizioni, però, sono disseminati diversi segnali che lasciano trasparire una linea di pensiero profondamente diversa, nella quale l’accordo non è più relegato al ristretto ambito della ragione. Parlando esplicitamente dell’accordo tra due uomini presi da una comune passione, ad esempio, E4p34sch ci invita a rileggere le proposizioni circostanti alla luce di questo possibile accordo, notando che secondo E4p32 e 33 gli uomini combattuti dalle passioni «possono differire (discrepare)» ed «essere contrari per natura», dove però la possibilità di questa discrepanza e di questo conflitto non implica la loro necessità, e che secondo E4p35 gli uomini condotti da ragione sono certo i soli a fare «necessariamente ciò che è necessariamente buono per la natura umana» e ad accordarsi «sempre necessariamente» tra di loro, senza tuttavia che in questo modo sia negato che gli uomini dominati dalle passioni possano essere in qualche misura utili l’uno all’altro e trovare una qualche forma di accordo[16]. Solo un uomo condotto da ragione, insomma, può accordarsi «al massimo» con un altro ed essergli «massimamente utile»[17], ma in una misura senz’altro minore qualunque uomo può essere utile ed accordarsi con qualunque altro[18].

È proprio alla luce di questa duplicità di posizioni apparentemente inconciliabili che lo studio del concetto di amicizia può rivelarsi prezioso al fine di cominciare a districare il nodo che nel pensiero spinoziano lega passione e virtù. A testimonianza del rilievo che questo concetto assume nella teoria della virtù basterebbe ricordare il fatto che la generosità, definita come il «desiderio col quale l’uomo si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri e di unirli a sé in amicizia», sta alla base non solo dell’onestà, definita a sua volta come «il desiderio dell’uomo che vive sotto la guida della ragione di unire gli altri a sé in amicizia», di fare ciò che è onesto o «lodato dagli uomini che vivono sotto la guida della ragione»[19], ma di tutte le virtù atte a promuovere l’accordo tra gli uomini. Oltre che dal rapporto tra la generosità e le virtù che ne derivano la centralità dell’amicizia in campo etico è resa manifesta anche da alcuni passaggi meno espliciti, ma non per questo meno importanti. E4p70dem rilegge ad esempio la disposizione a desiderare per gli altri lo stesso bene che si desidera per sé[20] (disposizione che sta a fondamento di una «regola della virtù e dell’utilità comune» che ricomprende in sé tutti i precetti della ragione[21]) come l’espressione di uno sforzo «di legare a sé in amicizia gli altri uomini», vale a dire della generosità. Identificando l’accordo costante e necessario che lega gli uomini condotti da ragione con la forma di amicizia la più stretta possibile, analogamente, E4p71dem presuppone che amicizia ed accordo siano tutt’uno[22]. Il discorso spinoziano, però, non si limita a fare dell’amicizia un sinonimo dell’accordo tra gli uomini, elevandone il desiderio al rango di motivazione etica fondamentale, ma le assegna un ruolo altrettanto importante, anche se forse più nascosto, nel più vasto campo antropologico della teoria delle passioni. Ed è proprio questa sua natura anfibia a rendere l’amicizia un caso di studio particolarmente adatto a rischiarare la concezione spinozista dell’accordo tra gli uomini, e attraverso di essa quella del rapporto tra passione e virtù. Come è possibile una forma di associazione indipendente tanto dalla ragione quanto dallo Stato e dagli apparati ideologici −come la religione− attraverso i quali esso riesce ad orientare i desideri dei singoli? Come può un identico desiderio di amicizia orientare sia le passioni che le virtù degli uomini? L’aut-aut tra passione e virtù è davvero così netto come sembrerebbe a prima vista? Per rispondere a questi interrogativi partirò qui di seguito dalla lettura di E3p35, in cui la forma passionale del desiderio di amicizia compare per la prima volta in uno stretto rapporto con il desiderio di riconoscimento, mi rivolgerò in seguito all’analisi di E3p40-43 e di E4p70 e 71, che mostrano come il desiderio di amicizia e quello di riconoscimento cooperino alla produzione di un accordo fondato sulle passioni, e concluderò sostenendo che nel campo etico-antropologico −nel quale Spinoza parla ad esempio di «vera virtù», «vera libertà», «vera soddisfazione» di sé in opposizione alle loro rispettive forme immaginarie e passionali− il rapporto tra il vero e il falso deve operare secondo lo schema messo a punto dalla Parte seconda, conformemente al quale il falso non è l’opposto del vero, ma un suo momento, una sua forma ancora inadeguata e parziale.


2. E3p35 stabilisce la disposizione affettiva che nello scolio successivo riceverà il nome di «gelosia», e dichiara che quando «qualcuno immagina che un altro congiunga a sé la cosa amata con un vincolo di amicizia uguale o più stretto di quello col quale la possedeva da solo, sarà preso da odio verso la cosa amata ed invidierà quell’altro». Pur contenendo l’unica occorrenza dell’amicizia presente nella Parte terza, questo breve testo può essere comunque sufficiente ad afferrare il suo significato più generale ed i fattori passionali che possono suscitarne il desiderio. Il fatto che il suo scolio denunci il particolare rilievo che la gelosia assume nel caso dell’«amore verso la donna»[23] nato dalla libido, intesa come un «desiderio […] di mescolare i corpi»[24] ed «accoppiarsi»[25], non deve infatti occultare la portata generale di cui l’amicizia si trova investita in questo contesto, nel quale compare essenzialmente come sinonimo di ogni forma di «amore reciproco» tra esseri umani[26]. Per cogliere questa questo suo significato più generale è però necessario districare i diversi fattori che in ambito passionale spingono l’amore per un proprio simile a configurarsi come il desiderio di un’amicizia esclusiva, carico cioè di un’aspirazione non solo a vedere ricambiato il proprio amore da parte dell’altro ma anche a detenere in un certo senso il monopolio delle sue preferenze, e proprio per questo strutturalmente instabile e pronto a capovolgersi in odio ed invidia. Quando si osserva il modo in cui viene trattato prima di E3p27, prima cioè dell’introduzione della fondamentale proprietà della natura umana che Spinoza chiama imitatio affectuum[27], si scorge subito che in questa sezione della Parte terza l’amore tende a trovare la propria soddisfazione nella conservazione e nella gioia della cosa amata, senza nessuna pretesa di reciprocità e senza nessun bisogno di escludere gli altri dal suo godimento e dal suo amore. L’amore non è infatti per essenza «null’altro che una gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna»[28], e da questa sua definizione si possono dedurre molte conseguenze, come la disposizione dell’amante a desiderare la conservazione e la gioia della cosa amata e ad avversarne la distruzione o tristezza[29], a sovrastimare i suoi pregi e sottostimarne i difetti[30], a provare verso chi contribuisce al suo bene o al suo male quella forma di amore e di odio che chiamiamo «favore» e «indignazione»[31]. Poiché l’interessamento dell’amante verso la gioia che la cosa amata è in grado di provocare in lui o di provare essa stessa convive tranquillamente con una piena indifferenza verso l’amore che quella stessa cosa può provare verso di lui o verso chiunque altro[32], la brama di reciprocità e di possesso implicita nella gelosia non può essere considerata come una caratteristica intrinseca dell’amore, derivante dalla sua sola definizione[33], ma deve essere compresa a partire da fattori ulteriori rispetto a quelli che strutturano la dinamica amorosa nella sua purezza, e che come vedremo la dimostrazione di E3p35 indica proprio nell’influenza che l’amore subisce sotto la pressione dell’imitazione degli affetti e della lotta per il riconoscimento che essa innesca.

I primi affetti ad essere dedotti dalla generale tendenza dell’uomo a provare affetti analoghi a quelli da cui immagina siano presi i suoi simili[34] sono quelli della «commiserazione» e dell’«emulazione», definiti rispettivamente come la tristezza da cui l’uomo è preso di fronte alla tristezza del suo simile e come il desiderio che l’uomo prova verso una cosa per il semplice fatto di immaginare che essa sia desiderata da un suo simile[35]. Subito dopo, e proprio a partire dall’emulazione, Spinoza deduce un «desiderio di fare ciò che piace agli uomini»[36] e di piacere loro[37] che nella sua forma moderata o razionale consiste in quella specie di pietas o di generosità che può essere chiamata «cortesia» o «modestia»[38], mentre nella forma eccessiva che tende ad assumere in ambito passionale presenta solo una «falsa apparenza» di pietas[39], e deve essere considerato come una «specie di ambizione»[40], di quell’«immoderato desiderio di gloria»[41] che implica una altrettanto immoderata paura della «vergogna»[42]. Questo rapporto dell’emulazione con il desiderio di fare ciò che ci rende graditi agli altri mi sembra degno di una particolare attenzione. Secondo E3p29dem il desiderio di fare ciò che piace agli uomini nasce senza dubbio dall’emulazione, vale a dire da un mimetismo affettivo che ci dispone ad amare e desiderare le stesse cose che vediamo amate o desiderate dagli altri. In quanto siamo mossi da questo desiderio il nostro fine sembra certo quello di fare ciò che piace all’altro: non, però, in quanto piace a lui, o in quanto ci consente di intercettarne l’amore o l’amicizia, ma solo in quanto piace a noi stessi. È vero infatti che il nostro amore nasce dall’imitazione dell’amore dell’altro, e che ciò che facciamo per emulazione tende quindi a incontrare la sua approvazione, ma è altrettanto vero che in un primo momento questa approvazione non può rappresentare l’oggetto di un desiderio, il fine intenzionale e consapevole dell’azione, ma un suo effetto collaterale. Dopo aver provato quella forma di gioia che nascono in noi dall’imitazione della gioia provata dal nostro simile in rapporto a un’azione con la quale ci siamo sforzati di realizzare qualcosa che gli piaceva o desiderava, dopo aver provato la gloria che nasce in noi quando il nostro simile riconosce la nostra intenzione di fare ciò che gli piace e ricambia i nostri sforzi con la sua lode[43], l’emulazione si afferma però come un desiderio di fare ciò che piace agli altri proprio perché piace loro e ci consente di godere della gloria legata alla loro approvazione. Si capisce allora perché in diversi passaggi il desiderio di riconoscimento sia indicato come l’origine del desiderio dell’amore o dell’amicizia dell’altro, come accade ad esempio quando Spinoza si riferisce all’emulazione come a un desiderio di fare ciò che viene giudicato «onesto» e capace di promuovere i legami di amicizia, o alla paura della vergogna come a una passione in grado di trattenerci dal fare ciò che è «turpe» ed ostacola la formazione di quegli stessi legami[44]: se davvero l’amore non è «null’altro che una gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna», allora desiderare che le nostre azioni siano riconosciute dal nostro simile come la causa della sua gioia significa desiderare di essere oggetto di lode, quella specifica forma di amore nella quale troviamo la fonte della nostra gloria e la conferma dell’amicizia dell’altro.

La trattazione delle passioni derivanti dal principio dell’imitazione, con il legame che al suo interno viene nascostamente a istaurarsi tra il desiderio di amicizia e quello di gloria, rende chiare le ragioni per le quali secondo la dimostrazione di E3p35 il desiderio di riconoscimento costituisce uno dei fattori fondamentali della trasformazione subita dalla passione amorosa, e della disposizione dell’amante a quella gelosia che sappiamo consistere nell’odio per la cosa amata accompagnato dall’invidia per colui che ne conquista l’amicizia. Anche se non viene esplicitamente menzionato nella sua dimostrazione, uno dei taciti presupposti di E3p35 è senza dubbio quello contenuto in E3p32 e nel suo scolio, costituito dal nesso che tende ad unire l’amore nato dall’emulazione all’invidia, a una disposizione a godere del male dell’altro e a rattristarci del suo bene che è una conseguenza immediata dell’odio[45]: quando per emulazione l’uomo comincia ad amare ciò che viene amato da un suo simile, e di cui non possono godere in comune, prova tristezza all’idea che ciò che ama sia goduto da un altro invece che da lui, e si sforza di impedire questa possibilità[46]. Spinto dall’emulazione ad amare o desiderare tutto ciò che è amato o desiderato da qualunque suo simile, ogni individuo tende ad odiare o invidiare chiunque lo possieda in maniera esclusiva, e se lo possiede ad immaginare con tristezza e paura l’eventualità di esserne privato[47]. Il secondo tacito presupposto della gelosia è poi quello enunciato nelle due proposizioni precedenti, che si concentrano l’una sul desiderio di reciprocità di cui l’amore viene caricato sotto l’influenza dell’imitazione degli affetti, e l’altra sulla gloria che l’amante prova quando riesce a soddisfare quel desiderio. E3p33 ed E3p34 affermano infatti che il nostro sforzo di allietare il nostro simile è più intenso nei confronti di una persona che amiamo ed indistinguibile da quello di ottenerne l’amore, e che il desiderio di reciprocità che accompagna l’amore passionale è quindi un’espressione del desiderio di gloria o di riconoscimento, perché l’amore che speriamo di ottenere dalla persona che amiamo rappresenta ai nostri occhi una forma di lode[48]. Chiamando in causa lo stesso desiderio di gloria che secondo le proposizioni precedenti sta alla base di quello di reciprocità, la dimostrazione di E3p35 identifica con chiarezza il bene di cui non si può godere in comune con il riconoscimento che ognuno spera di trovare nell’amore della persona amata, e la gelosia con una frustrazione di questo stesso desiderio di riconoscimento[49]. Questo riconoscimento, però, non può essere goduto in comune ed è dunque oggetto di una competizione che rende esclusiva l’amicizia ricercata dall’amante, perché l’amore è una forma di preferenza che rende lo sforzo di fare ciò che piace alla persona amata più intenso di quello rivolto a compiacere chiunque altro, costringendo il desiderio di reciprocità o di riconoscimento connesso all’amore a legare la propria soddisfazione a una analoga preferenza da parte dell’altro. La ragione per la quale ogni amante è geloso, e prova quindi odio verso la persona amata ed invidia verso colui al quale essa concede la propria amicizia, è legata al fatto  che l’amante vede nella persona amata e in quella che ne conquista l’amicizia i responsabili della tristezza legata al suo desiderio di riconoscimento frustrato, e che l’odio non è altro che una tristezza accompagnata dall’idea della sua causa esterna. Come disposizione a rattristarci della gioia di un altro e a godere della sua tristezza, l’invidia verso la gioia che il rivale trae dall’amore della persona che amiamo non è quindi una causa della gelosia, ma una sua conseguenza. Noi odiamo il nostro rivale perché il godimento di cui egli è fonte per la persona che amiamo, con l’amore o il desiderio che in questo modo egli suscita in lei, ci privano della sua preferenza, del riconoscimento di cui quella preferenza è la testimonianza, della conferma della nostra potenza o virtù e dell’amore o soddisfazione di noi stessi che contavamo di trovare in quel riconoscimento, ed è proprio questo odio che ci dispone a provare invidia verso il nostro rivale e frustrazione per ogni sua gioia, compreso il piacere erotico che può trovare tra le braccia di colei che amiamo.

Dipanati i fattori che rendono l’amore passionale inseparabile dalla gelosia ed esplicitata la rete argomentativa che sorregge la spiegazione di questo affetto, riusciamo a cogliere il valore più generale di cui l’amicizia viene investita nella sfera delle passioni. La spiegazione della gelosia proposta da Spinoza parte infatti dalla constatazione di un generale desiderio di amicizia, strutturalmente connesso all’imitazione degli affetti e al desiderio di riconoscimento che essa suscita, e prosegue mostrando le complicazioni che questa generale aspirazione subisce sotto la pressione di due fattori ulteriori, che sono rappresentati l’uno dall’amore che si può provare verso colui dal quale si spera di ottenere amicizia e l’altro dalla competizione per il possesso dei beni scarsi suscitata dall’emulazione, e che uniti spingono l’amante a desiderare da parte della persona amata una forma di amicizia esclusiva, e a provare odio verso la persona amata quando questo desiderio viene frustrato. Coerentemente con questa spiegazione l’anelito di reciprocità ed amicizia insito nel desiderio di riconoscimento sembra da un lato, nella sua forma più generale, spingere ogni uomo a fare ciò che può incontrare l’approvazione di qualunque altro, e manifestare quindi una intrinseca vocazione universalistica, ma dall’altro, nella forma che assume sotto la pressione della passione amorosa, essere rinchiuso in una logica particolaristica e inevitabilmente competitiva, e trasformarsi così in una brama di possesso che permette agli uomini di godere dell’amicizia solo a condizione che tutti gli altri se ne ritrovino esclusi, li dispone a vivere con frustrazione l’amicizia che la persona amata concede a qualcuno diverso da loro, ed è quindi inseparabile da inimicizie e conflitti. Tenendo conto di quanto Spinoza dirà nel seguito dell’opera, viene quasi il sospetto che le persone possono essere amate non nonostante il fatto che il loro amore non può essere condiviso, ma perché questa impossibilità rende il suo possesso fonte di invidia e veicolo di «distinzione». Se la gioia da cui si può essere presi in occasione del riconoscimento delle proprie virtù è tanto più intensa quanto più le virtù che si vedono affermate di sé sono al contempo negate degli altri ed appaiono quindi come «singolari»[50], eccezionali, e se la gloria è un bene che un uomo non può dunque conquistare per sé senza che gli altri ne siano in qualche misura privati[51], allora si può supporre che sia proprio il suo carattere esclusivo, la sua impossibilità di essere accordata a qualcuno senza essere rifiutata a tutti gli altri, a rendere l’amicizia della persona che amiamo e stimiamo una testimonianza adeguata della singolarità delle nostre virtù. La spiegazione della gelosia fornita in E3p35 sembra però alludere anche a un altro punto, vale a dire alla capacità del desiderio di riconoscimento e di amicizia di sottrarre l’amore al particolarismo che lo contraddistingue. Come desiderio tradito di reciprocità, la gelosia non è forse al tempo stesso un desiderio di fedeltà, di onestà, di giustizia? Per rispondere a questo interrogativo, tuttavia, occorre prima rivolgere l’attenzione alla trattazione spinoziana della «gratitudine», al ruolo che al suo interno viene svolto dal desiderio di reciprocità ed amicizia che già abbiamo visto suscitato dalla lotta per il riconoscimento ed intensificato dall’amore, e allo strano rapporto che viene a sottomettere l’amore alla logica universalistica delle virtù.


3. L’affetto della gratitudine compare per la prima volta in E3p41 e 42. Secondo E3p40, E3p41 e i rispettivi scoli un uomo che immagini di essere amato od odiato da un altro tende o a ricambiare amore con amore ed odio con odio, come accade quando crede di non aver dato all’altro «nessun motivo» di amarlo od odiarlo, di considerarlo come causa della sua gioia o della sua tristezza, oppure a provare gloria o vergogna, come accade invece quando crede che l’amore e l’odio di cui è oggetto non siano privi di un «giusto motivo», rappresentino cioè delle forme legittime di lode o biasimo. Quando gli affetti di cui siamo bersaglio ci sembrano meritati noi proviamo gloria o vergogna perché, considerando noi stessi come la causa della gioia e della tristezza dell’altro, e quindi anche di quelle che proviamo per imitazione delle sue, amiamo od odiamo noi stessi come cause della nostra stessa gioia o tristezza. Quando ci sembra che l’altro non abbia motivo di attribuirci la responsabilità della sua gioia o della sua tristezza, e che il suo amore o il suo odio siano quindi immeritati, noi possiamo certo imitare la sua gioia o la sua tristezza, ma non il suo amore o il suo odio, perché la gioia e la tristezza che noi proviamo per imitazione delle sue ci appaiono non come causate da noi stessi, ma come liberamente, gratuitamente, ingiustamente provocate dall’altro[52]. Assegnato il nome di «vendetta» allo «sforzo di rendere il male che ci è stato arrecato» col quale ripaghiamo un odio immeritato, e quello di «gratitudine» allo «sforzo di far bene a colui che ci ama e che si sforza di farci del bene», e chiarito che per amor proprio l’uomo tende sempre a vedere l’amore come meritato e l’odio come immeritato, Spinoza afferma infine che, se ha fatto del bene a qualcuno «mosso da amore o da speranza di gloria», l’uomo tende a rattristarsi quando il suo beneficio «viene accolto con animo ingrato», perché questa ingratitudine frustra il desiderio di gloria che lo aveva spinto a fare del bene[53], e che «l’odio è accresciuto da un odio reciproco, e può al contrario essere distrutto dall’amore», perché come si è visto l’odio e l’amore suscitano altro odio e altro amore[54].

Il tema della gratitudine viene poi ripreso in E4p70, in E4p71 e nei loro scolli, che mettono a confronto le diverse maniere in cui la gratitudine opera sotto la giurisdizione della passione e della virtù, e che può valere la pena di leggere integralmente.

Proposizione 70: L’uomo libero, che vive tra gli ignoranti, cerca per quanto può di evitare i loro benefici.
Dimostrazione: Ciascuno giudica secondo il suo modo di sentire (
ex suo ingenio) cosa sia buono (per E3p39sch); l’ignorante che ha fatto qualche beneficio a qualcuno lo stimerà dunque secondo il proprio modo di sentire, e si rattristerà se lo vede stimato di meno da colui che lo ha ricevuto (per E3p42). Ma l’uomo libero cerca di legare a sé gli altri uomini in amicizia (per E4p37), e non di contraccambiare i benefici degli uomini con altri che essi stimino uguali secondo il loro affetto, ma di guidare sé stesso e gli altri secondo il libero giudizio della ragione, e di fare solo quelle cose che sa essere più importanti. L’uomo libero, dunque, per non essere in odio agli ignoranti e per non obbedire al loro appetito, ma alla sola ragione, si sforzerà per quanto può di evitare i loro benefici.
Scolio: Dico “per quanto può”. Pur essendo ignoranti, infatti, gli uomini restano comunque uomini, che nelle necessità possono apportare un aiuto umano, al di sopra del quale non ce n’è nessuno più prezioso; e perciò accade spesso che sia necessario ricevere da loro qualche beneficio, e conseguentemente, in cambio, essergli grati secondo il loro modo di sentire; a ciò si aggiunge che occorre cautela anche nell’evitare i loro benefici, per non dare l’impressione di disprezzarli o di temere per avarizia di ricompensarli, e non rischiare, proprio mentre cerchiamo di sottrarci al loro odio, di fare per ciò stesso in modo che si sentano oltraggiati. Nell’evitare i benefici si deve quindi tener conto dell’utile e dell’onesto.

Proposizione 71: Solo gli uomini liberi sono massimamente grati gli uni verso gli altri.
Dimostrazione: Solo gli uomini liberi sono massimamente utili gli uni per gli altri, sono congiunti tra loro dal più stretto vincolo di amicizia (per E3p35 ed E3p35cor1), e si sforzano di beneficarsi a vicenda con un uguale applicazione d’amore (per E4p37); e perciò (per Aff.def34) solo gli uomini liberi sono massimamente grati gli uni agli altri.
Scolio: La gratitudine che gli uomini guidati da un cieco desiderio hanno gli uni per gli altri è, per lo più, piuttosto mercato o uccellagione che gratitudine. Inoltre, l’ingratitudine non è un affetto. L’ingratitudine è turpe, tuttavia, perché indica per lo più che l’uomo è troppo preso da odio, ira, superbia, avarizia. Chi per stoltezza non sa ricompensare i doni, infatti, non è ingrato, e ancor meno colui che non si lascia indurre dai doni di una meretrice ad asservirsi alla sua libidine, o da quelli di un ladro a celare i suoi furti, né da quelli di un altro uomo a fare cose simili. Mostra infatti di avere un animo costante colui che non si lascia corrompere da nessun dono a fare ciò che porterebbe alla sua o alla comune rovina.


Nell’insieme dei testi che si sono appena letti il rapporto della gratitudine con l’amicizia e il riconoscimento è particolarmente evidente. La relazione tra gratitudine e amicizia, in particolare, è talmente stretta da rendere difficoltosa la loro distinzione: in E3p41sch2, in effetti, la gratitudine viene definita come  uno «sforzo di fare del bene a colui che ci ama e si sforza di farci del bene», coincidente con lo stesso «amore reciproco» in cui già abbiamo visto consistere l’amicizia di cui l’amante è geloso. Più complesso, ma non per questo meno evidente, il rapporto con il riconoscimento sta poi alla base della possibilità stessa della gratitudine e dell’amicizia. Dato che noi possiamo gloriarci di un amore meritato, ma non ricambiarlo, la gratitudine non può nascere da altra gratitudine, ma soltanto da un beneficio che appaia a chi lo riceve come un segno di generosità, di una forma di amore che si distingue cioè dalle altre proprio per il fatto di non sorgere da un beneficio precedentemente ricevuto[55], di eccedere la logica della ricompensa dell’eguale con l’eguale, e di poter almeno in questo senso essere considerata come immeritata, gratuita. Anche se non è priva di ogni riferimento all’utilità dell’agente, perché mira a godere della gratitudine di colui che ne beneficia, dell’amicizia che ne consegue, dei vantaggi e della gloria che essa comporta, la generosità resta comunque un affetto basato essenzialmente sulla fiducia, che l’altro può meritare solo a posteriori: fiducia nella sua giustizia, che richiede che egli saldi il debito di gratitudine che ha contratto accettando il beneficio[56]; nella sua equità, che esige che ne valuti imparzialmente il valore[57]; nella sua onestà, che gli vieta di tradire le aspettative del suo benefattore con comportamenti che ne ostacolerebbero l’amicizia e sarebbero indegni di un’approvazione razionale. Come i benefici in cui si esprime la generosità e l’offerta di amicizia di cui essa è portatrice attestano a chi li riceve il riconoscimento della virtù di cui viene supposto capace, così quelli in cui si esprime la gratitudine manifestano al benefattore quel riconoscimento della sua generosità e quel desiderio di corrispondere alle sue aspettative nei quali l’amicizia trova il proprio suggello, ed è dunque proprio questo riconoscimento reciproco, veicolato dallo scambio materiale e simbolico del dono e del controdono, a rendere possibile la gratitudine e l’amicizia, e una forma di accordo e di cooperazione capace di trovare il proprio fondamento non nell’artificio giuridico di un patto, ma nella reciprocità dell’amore[58].

A prima vista, questa solidarietà tra riconoscimento gratitudine e amicizia sembra doversi infrangere contro quella che su questo punto rappresenta senz’altro la principale difficoltà del discorso spinoziano. Sostenendo che il più stretto vincolo di amicizia è accessibile unicamente agli uomini guidati dalla ragione, tra i quali utilità e gratitudine possono essere maggiori, E4p71 e la sua dimostrazione presuppongono che una forma di amicizia meno stretta, ma comunque basata sulla gratitudine, sia accessibile anche agli uomini dominati dalle passioni. L’amicizia, è vero, non pone nessun problema nel caso di due uomini ugualmente guidati dalla ragione, nel quale ognuno offre all’altro ciò che l’altro gli domanda, gli domanda quello che l’altro gli offre, e non può quindi fare nulla che ostacoli il riconoscimento o la gratitudine impliciti nell’amicizia, che è desiderata da entrambi ma di cui si può godere solo in comune[59]. Tra uomini soggiogati dalle passioni, o tra un uomo guidato da ragione e uno asservito alla passione, la possibilità dell’amicizia appare invece tutt’altro che scontata. Gli uomini scossi dalle passioni non solo non possono essere generosi, perché la generosità è per definizione una prerogativa di colui che vive sotto la guida della ragione, ma sono inoltre disposti all’ingratitudine dal loro orgoglio, che li spinge a sopravvalutare i propri meriti e a sottovalutare quelli degli altri. L’uomo guidato dalla ragione e quello sottomesso alla passione, inoltre, sembrano desiderare ognuno ciò che l’altro non può offrire ed offrire ciò che l’altro non può desiderare, perché il primo non desidera per sé null’altro se non la conoscenza e ciò che può contribuirvi[60], ed è spinto dalla sua generosità ad offrire anche all’altro ciò che desidera per sé, mentre il secondo non desidera la conoscenza che l’uomo guidato da ragione gli offre, né ha da offrire la conoscenza che gli viene richiesta. Quando si osserva più da vicino il ragionamento spinoziano ci si rende conto che queste difficoltà non sono insormontabili, e che è proprio il desiderio di riconoscimento a fornire i rapporti di amicizia di una possibile base passionale.

Il desiderio di riconoscimento, innanzitutto, consente di superare entrambi gli ostacoli con cui si scontra la possibilità della gratitudine e dell’amicizia tra uomini ugualmente sottomessi alle passioni. La generosità, si è visto, è un affetto caratteristico dell’uomo guidato da ragione, e la gratitudine può nascere solo da un beneficio interpretato da chi lo riceve come un segno di generosità. Il desiderio di riconoscimento collegato all’ambizione, però, è comunque capace di preservare almeno una «apparenza» di generosità, di spingere chi lo prova ad offrire ai propri simili benefici immeritati, che possono dunque essere ricambiati con quella gratitudine nella quale l’ambizioso trova ciò che cercava, il riconoscimento delle sue virtù e la gloria o soddisfazione di sé che ne deriva. Affinché l’amore provato da colui che riceve il beneficio possa realmente corrispondere alla definizione della gratitudine e dell’amicizia, quella di un «amore reciproco», è necessario che anche l’ambizioso sia preso da amore verso colui che ricambia i suoi benefici con la propria gratitudine, e che la gratitudine sia dunque in qualche modo capace di suscitare un amore che non è affatto implicito nell’ambizione, e al quale l’ambizioso è reso riottoso dalla sua tendenza a vedere l’amore dell’altro come meritato e a trovare in esso non una incitazione ad amare, ma una fonte di gloria[61]. La soluzione di questo problema, che a dire il vero non viene affrontato esplicitamente nell’Etica, è legata al fatto che secondo la logica del ragionamento spinoziano la gratitudine non può essere ridotta a una formazione semplicemente reattiva, il cui unico contributo alla genesi dell’amicizia consisterebbe nel ricambiare un amore preesistente e interpretato come immeritato, ma è costretta dal desiderio di riconoscimento a giocare un ruolo propriamente attivo. La gratitudine è infatti una forma di amore, e secondo E3p33 chiunque provi una qualunque forma di amore è spinto dal desiderio di gloria che necessariamente lo accompagna a sforzarsi di comprare con i propri servizi l’amore della persona amata, di suscitare cioè una gratitudine nella quale possa trovare il riconoscimento dei propri meriti e il sigillo della loro comune amicizia. Poiché l’amore non può essere ricambiato da qualcuno che ritenga di aver meritato i benefici che glielo testimoniano, però, l’unico modo di suscitare l’amore dell’altro e di appagare il proprio desiderio di riconoscimento è quello di ricambiare il dono ricevuto con un controdono di maggiore valore, che ecceda la misura della ricompensa dell’eguale con l’eguale e possa quindi essere interpretato dall’altro come immeritato, come un segno di generosità nei propri confronti. L’amore reciproco in cui consistono gratitudine e amicizia è dunque possibile anche nel caso in cui il benefattore non provi nessun amore verso colui al quale offre il suo aiuto perché il desiderio di riconoscimento spinge chi ha ricevuto il suo beneficio a dare prova verso di lui della stessa generosità, quantomeno apparente, di cui ha ricevuto la prova, instaurando così una dinamica competitiva che spinge ognuno ad eccedere il dono ricevuto dall’altro.

La possibilità di una gratitudine e di un’amicizia tra l’uomo guidato da ragione e quello mosso da passione è anch’essa strettamente legata al ruolo del riconoscimento. Sotto la guida della ragione l’uomo non può desiderare null’altro, per sé o per il suo simile, che lo sviluppo della ragione stessa e ciò che vi contribuisce, ma per Spinoza esistono non solo passioni che ostacolano quello sviluppo, ma anche altre che lo assecondano[62], ed è dunque proprio l’esistenza di queste passioni che si accordano con la ragione a permettere un incontro tra l’uomo guidato dalla passione, in grado di prodigare a quello guidato dalla ragione un aiuto «utile» e «prezioso», e l’uomo guidato da ragione, in grado di offrire al primo delle cose che, pur soddisfacendo i suoi ciechi appetiti, favoriscono al contempo il fiorire della sua ragione. L’efficacia del desiderio di riconoscimento nella determinazione di questo incontro è resa visibile dal ruolo giocato dalla generosità o dall’onestà nello spingere l’homo liber sia a sforzarsi di evitare entro una certa misura i doni dell’ignarus, sia a mostrarsi disponibile ad accettarli quando quella misura viene ecceduta. L’homo liber cerca di rifiutare quei doni ogni volta che non gli sono indispensabili perché la sua onestà lo impegnerebbe a ricambiarli con altri che apparissero equivalenti non ai suoi occhi, ma a quelli del benefattore, e lo sottometterebbe in questo modo ai capricci dell’altro: interpretata dal benefattore come un segno di ingratitudine, e dunque anche come segno o di avarizia o di superbia e disprezzo, e in ogni caso come qualcosa di turpe, la mancanza di reciprocità non può fare a meno di suscitare odio e conflitti, impedendo l’amicizia che l’uomo guidato da ragione è invece spinto a ricercare tanto dalla propria onestà quanto dalla propria generosità. Il motivo che induce l’homo liber ad accettare in qualche misura quei benefici, allo stesso modo, risiede certo nella loro utilità, ma anche nel fatto che un loro completo rifiuto sarebbe vissuto anch’esso dal suo interlocutore come un segno di disprezzo e un’offesa, riproducendo il medesimo conflitto che il loro rifiuto era teso a evitare. La sua generosità ed onestà convincono l’uomo guidato da ragione e desideroso di amicizia ad accettare i benefici dell’uomo sottomesso alla passione[63] e a testimoniargli una gratitudine nella quale quest’uomo possa trovare il riconoscimento delle proprie virtù, e una ragione per riconoscere a chi testimonia questo riconoscimento quell’onestà, quell’equità e quella giustizia che solo lo rendono degno della sua amicizia. Allo stesso modo, si può supporre che l’uomo condotto da ragione sia determinato ad offrire all’uomo sottomesso alla passione proprio quei benefici che l’altro può riconoscere come un segno di generosità, e come un riconoscimento della sua onestà, equità e giustizia, e che lo vincolano quindi, se non vuole attirare su di sé biasimo e vergogna, a non tradire le aspettative dell’altro e a testimoniargli quella gratitudine nella quale la loro amicizia trova il proprio suggello.

A partire da quanto abbiamo visto finora mi sembra che si possa rispondere all’interrogativo che avevo lasciato in sospeso alla fine del paragrafo precedente. Attraverso la ricostruzione dei fattori che rendono possibile la gratitudine e l’amicizia che la accompagna, infatti, il desiderio di riconoscimento si è dimostrato capace di elevare la passione amorosa ad una logica universalista e compatibile con la ragione e la virtù. È proprio sotto la pressione di questo desiderio, infatti, che quella specifica forma di amore che chiamiamo gratitudine tende a produrre altra gratitudine, e a realizzare così quell’amicizia cui è legata la soddisfazione non solo della passione amorosa, ma anche di una delle esigenze etiche fondamentali. Persino l’odio implicito nella gelosia, da questo punto di vista, mostra di poter essere riletto come una conseguenza dall’ingratitudine con la quale la persona amata ricambia i benefici ricevuti dall’amante e lo priva dell’amicizia che ritiene di aver meritato, e dunque come l’espressione di un’aspirazione frustrata al riconoscimento e alla giustizia, all’equità e all’onestà che esso presuppone. La logica del riconoscimento inscrive i rapporti affettivi tra i singoli in una dimensione simbolica nella quale gli individui sono chiamati a dare prova l’uno verso l’altro almeno di una «apparenza» di virtù, necessaria e sufficiente alla formazione dell’amicizia. Proprio la constatazione di questo dominio delle apparenze, nel quale  l’ignarus è spinto dalla passione a conformarsi a quella che immagina sia la virtù comandata dalla ragione, e la ragione stessa comanda all’homo liber di adattarsi alla concezione immaginaria della virtù di cui l’ignarus si fa portavoce[64], mi sembrano invitare oramai a concludere questo lavoro con alcune rapide osservazioni sulla capacità del desiderio di amicizia di fondare la possibilità di un accordo tra gli uomini indipendente tanto dalla ragione quanto dallo “Stato”, e di illuminare il più generale rapporto tra passione e virtù.


4. L’amicizia, si ricorderà, rappresenta nell’Etica la forma più generale dell’accordo tra gli uomini. Come molte delle forme di gioia e desiderio esaminate nel corso della Parte quarta, inoltre, anche il desiderio di amicizia e la soddisfazione che nasce dalla sua conquista possono rappresentare sia degli affetti passivi, legati al meccanismo immaginativo da cui originano l’imitazione degli affetti e il desiderio di riconoscimento, sia degli affetti attivi, che derivano dalla ragione e dalla generosità, la più generale delle virtù riguardanti il rapporto con i propri simili. Questa sua natura anfibia, assieme alla sua oggettiva centralità, rende il caso del desiderio di amicizia particolarmente interessante in rapporto alla trattazione spinoziana del problema dell’accordo tra gli uomini e della relazione tra passione e virtù, e alla soluzione dei problemi che essa presenta. La principale difficoltà in cui ci si imbatte nel corso dell’Etica è rappresentata dal fatto che diversi luoghi sembrano ammettere la possibilità di un accordo fondato su fattori meramente passionali, che però sembra radicalmente esclusa da E4p32, secondo la quale «non si può dire» che gli uomini soggetti alle passioni si accordino tra loro.  Secondo E3p3sch, alla quale si richiama la dimostrazione di E4p32, le passioni possono essere riferite all’uomo «solo in quanto implica una negazione», e cioè solo in quanto è «una parte della natura che non può essere concepita di per sé senza le altre parti»: differentemente dalle azioni, che si accompagnano a idee adeguate e possono essere comprese a partire dalla sola natura dell’uomo, le passioni si accompagnano a idee inadeguate e non possono essere comprese a partire dalla sola natura dell’uomo[65]. Se la potentia dell’uomo consiste nel fare ciò che segue dalla sua sola natura, ed è quindi al tempo stesso sinonimo di attività e di virtù, e se la passione è invece sinonimo di impotentia e consiste in una semplice negazione della potentia, un accordo appassionato sembra allora impossibile, perché «le cose che si accordano solo in una negazione, o in ciò che non hanno, in realtà non si accordano in nulla»[66]. Sulla base di questa contrapposizione tra passione e virtù, apparentemente così radicale da rendere impossibile ogni ricongiunzione o continuità tra l’una e l’altra, non si vede quale senso si possa assegnare ai passi che parlano di un accordo tra uomini appassionati, né come sia possibile quella transizione dalla passività all’attività, dalla servitù alla libertà, dalla discordia alla concordia, che rappresenta la meta alla quale Spinoza ritiene di poter accompagnare il lettore «quasi per mano»[67]. Per afferrare il significato più generale dell’amicizia nel pensiero spinoziano occorre cercare di individuare le condizioni alle quali un’amicizia appassionata, come anche la virtù e il riconoscimento su cui essa si basa, possa essere qualcosa di più che una mera apparenza.

Un contributo importante, in tal senso, può essere trovato nelle proposizioni della Parte seconda in cui viene elaborata la differenza tra il vero e il falso o tra la conoscenza adeguata e la inadeguata, e nell’uso che al loro interno viene fatto del concetto di «privazione», che nel lessico filosofico è in uno stretto rapporto con quello di negazione. Come qualunque lettore dell’Etica ben sa, infatti, per Spinoza nelle idee non c’è «nulla di positivo» per cui possano essere dette false, perché la loro falsità consiste certo in una «privazione di conoscenza», che rende la conoscenza «mutilata», «inadeguata», imperfetta rispetto all’idea «assoluta, ossia adeguata e perfetta»[68], ma non coincide con una «privazione assoluta», o con una non-conoscenza: il vero e il falso non sono l’uno il contrario dell’altro, non possono togliersi a vicenda, perché l’idea falsa, resa parziale e imperfetta dal fatto di essere separata dalle altre conoscenze di per sé stesse altrettanto parziali e imperfette che prese assieme compongono l’idea vera, conserva comunque un quid positivum per il quale è essa stessa portatrice di verità[69]. Il rapporto tra adeguatezza e inadeguatezza che opera in questo ambito epistemologico, però, è formalmente identico a quello che in ambito antropologico e morale sta alla base del nesso tra causalità adeguata e inadeguata, e dunque della distinzione tra passività e attività, o tra passione e virtù. Quando E4p23 e 24 affermano che «agire assolutamente secondo virtù» è possibile unicamente sotto la guida della ragione e della conoscenza adeguata in cui essa consiste, e che di chi è mosso da passione «non si può dire» che agisca «assolutamente secondo virtù»[70], è evidente che la differenza tra «agire […] secondo virtù» ed «agire assolutamente secondo virtù» lascia aperta la possibilità di una virtù che, per quanto inadeguata e imperfetta, resta comunque virtù, e dunque di un comportamento al tempo stesso appassionato e virtuoso. La virtù, in effetti, è uguale alla potenza, intesa come «potere di fare cose che si possono intendere mediante le sole leggi della propria natura», e dunque come «potenza di agire», di essere causa adeguata dei propri comportamenti, ma la passione non è il contrario dell’attività, della potenza o della virtù, ma una loro realizzazione ancora priva di quella pienezza che può acquisire sotto la guida della ragione: essere presi da una passione non significa subire qualcosa che non deriva in alcun modo dalla propria natura, ma fare qualcosa che segue dalla propria natura in maniera soltanto parziale, in cui si realizza un’attività ancora incompleta, una potenza ancora ostacolata, una virtù ancora imperfetta. Sostenendo che un uomo è tanto più dotato di virtù «quanto più si sforza ed è in grado di ricercare il proprio utile, vale a dire di conservare il proprio essere», infine, E4p20 presuppone evidentemente che anche i comportamenti dell’uomo impotente, il quale conserva sé stesso e ricerca il proprio utile sotto la spinta delle proprie passioni, siano delle espressioni sia pure mutilate della sua potenza o virtù, perché nel sistema spinoziano un uomo al tempo stesso attualmente esistente e sprovvisto di ogni sforzo e di ogni capacità di conservare sé stesso rappresenta una vera e propria contraddizione in termini.

Questa concezione del rapporto tra passione e virtù consente di trarre diverse conclusioni sul modo in cui l’amicizia e l’accordo tra gli uomini possono realizzarsi nei diversi campi della giurisdizione della passione e della ragione. Il desiderio passionale di amicizia non si limita a presentare una «falsa apparenza» di virtù, ma è esso stesso una forma −ancora inadeguata− di virtù, il cui riconoscimento rappresenta quindi non già una mera illusione, o un semplice qui pro quo, ma un atto di giustizia. È proprio il carattere almeno parzialmente attivo e virtuoso di questo desiderio, quel quid positivum che, senza ancora permettergli ancora di coincidere con una attività o virtù pienamente dispiegate, lo rende comunque irriducibile ad alcunché di meramente negativo, a un’ombra o a un’assenza, che rende possibile l’accordo di uomini appassionati. Quando E3p3sch afferma che una passione può essere riferita a un uomo solo in quanto «ha qualcosa che implica una negazione», non presuppone affatto che la passione sia essa stessa negazione. Nel dimostrare che l’uomo può essere spinto alle medesime azioni sia dalla passione che dalla ragione, anzi, E4p59dem farà riferimento a E3p3sch per ricordare che le passioni buone, quelle cioè che si accordano con la ragione anche senza bisogno di derivarne, «non sono passioni se non in quanto la potenza di agire dell’uomo non è accresciuta fino al punto che egli concepisca adeguatamente sé stesso e le sue azioni», in quanto cioè sono portatrici di una coscienza e di una attività ancora incomplete, ma comunque irriducibili all’incoscienza e all’inattività. Due uomini che condividono un desiderio passionale di amicizia non si accordano solo in «ciò che non hanno», ma in un desiderio che, rivelandosi come un’espressione della loro potenza, attività e virtù, viene a far cadere l’ostacolo che in E4p32sch sembrava impedire la possibilità di un accordo passionale. Il fondamento dell’accordo tra gli uomini, si è visto, risiede in ciò che le loro nature hanno in comune, e il desiderio passionale di amicizia può stare alla base di questo accordo perché, anche se la generale natura umana si realizza nei singoli individui in maniere tanto diverse quanto è diverso l’insieme degli affetti da cui ognuno di quegli individui viene preso, nulla impedisce che un affetto, per quanto passivo, possa essere comune a una pluralità di individui: l’amicizia, di cui nessuno può godere e che nessuno può desiderare senza che sia goduta e desiderata anche da un altro, è anzi la forma più generale della comunanza affettiva, della convergenza degli sforzi, delle attività, degli effetti che essi producono.

Per concludere, mi sembra che per Spinoza non sia tanto l’amicizia a derivare da una razionalità già conquistata, quanto piuttosto lo sviluppo della ragione a rappresentare in misura maggiore o minore l’effetto di un’amicizia −o di un accordo, di una socializzazione− acquisita per via passionale. Per tutto ciò che le loro nature hanno in comune, in effetti, gli uomini non possono essere contrari e cattivi l’uno per l’altro, ma solo accordarsi ed essere buoni l’uno verso l’altro[71]: «quanto più una cosa si accorda con la nostra natura, tanto più ci è utile, ossia tanto più è buona». Secondo E4praef, però, nel contesto della Parte quarta le cose vengono dette «buone» nella misura in cui sappiamo con certezza che rappresentano «un mezzo per avvicinarci sempre più al modello della natura umana che ci proponiamo», alla piena realizzazione in noi stessi una razionalità, di una virtù e di una libertà la cui capacità è insita nella natura umana. Questa capacità dell’amicizia e dell’accordo di promuovere lo sviluppo di un’affettività non più passiva, ma capace di promuovere razionalità autonomia e virtù, è strettamente legata alla teoria spinoziana del comune. Essere attivi e virtuosi significa fare sotto la guida di una conoscenza adeguata ciò che segue dalla nostra sola natura, secondo una definizione che sembra negare qualunque ruolo agli affetti e alle cause esterne da cui derivano nello sviluppo dell’attività e della virtù: un affetto è qualcosa la cui natura è determinata almeno in parte dalla causa esterna che lo eccita, che è quindi accompagnato non da idee razionali, ma immaginative, e che pare allora incapace di spingere l’uomo a fare le cose che seguono dalla sua sola natura. Nel caso in cui le cause esterne agiscono su di noi attraverso ciò che le nostre nature hanno in comune, però, non solo secondo Spinoza noi tendiamo ad acquisire una conoscenza razionale delle proprietà che abbiamo in comune, e dunque sia di noi stessi che delle cose esterne[72], ma cessa inoltre ogni sostanziale differenza tra l’essere determinati da altro e l’essere determinati da sé stessi, tra il fare ciò che segue dalla nostra sola natura e fare ciò che segue dagli affetti suscitati dalla causa esterna. L’amicizia, allora, rende gli uomini «utilissimi» gli uni per gli altri proprio perché la comunanza l’accordo che in essa si realizza consente ad ognuno di vivere il rapporto con l’altro non come una fonte di frustrazione, ma come una condizione dell’approfondimento della sua consapevolezza di sé e della sua autonomia, dell’approssimazione ad un comune «modello della natura umana», dell’incremento della propria «vera virtù», «vera libertà», «vera soddisfazione» di sé.


[1] E4def8. E4def8. Per il testo spinoziano, d’ora in poi farò riferimento a B. Spinoza, Etica, traduzione di G. Durante, note di G. Gentile rivedute e ampliate da G. Radetti, Bompiani, Milano, 2007, modificando la traduzione di Radetti ogni volta che mi sembrerà opportuno. Per la citazione dei singoli passi adottererò il seguente sistema di abbreviazioni. “E” =Etica; “praef” = prefazione; “def” = definizione; “p”= proposizione, “dem” = dimostrazione, “cor” = corollario; “sch”= scolio; “Aff.def.” indica una delle definizione degli affetti  posta alla fine della Parte terza; “expl”= spiegazione; “cap” indica uno dei capitoli posti alla fine della Parte quarta. E4def8, ad esempio, indica l’ottava definizione della Parte quarta.

[2] Per l’attività, cfr. E3def2; per la felicità e la libertà vedi invece E2p49sch, E4p18sch ed E5p42sch.

[3] Cfr. E3p7, E4p20.

[4] E4p22sch.

[5] EpP17sch.

[6] È il caso in cui un amore o un odio eccessivo ci costringono a cercare ciò che ci dà gioia anche se contribuisce alla nostra impotenza e alla nostra distruzione, e a fuggire ciò che ci rattrista anche se potrebbe contribuire alla nostra conservazione o liberazione. Cfr. E4p42.

[7] E3p3, E4p24.

[8] E3p59sch.

[9] E5p42. La soddisfazione di sé viene definita da Spinoza come la gioia che nasce in noi dalla contemplazione di noi stessi e della nostra potenza di agire (Aff.def25), ovvero della nostra capacità di

[10] E4p18sch.

[11] Cfr. E3p56sch, E3p59sch, Aff.def48sch.

[12] E3p59sch.

[13] E4cap9.

[14] Cfr. in particolare E4p32, la sua dimostrazione e il suo scolio, secondo i quali  «in quanto sono soggetti alle passioni non si può dire che gli uomini si accordino per natura», perché accordarsi per passione significherebbe accordarsi «nell’impotenza o nella negazione», e «le cose che si accordano solo in una negazione […] in realtà non si accordano in nulla». Torneremo su questo punto alla fine del presente lavoro.

[15] Per Spinoza la «natura umana» è una natura generica comune ad ogni uomo, che però non si realizza negli individui attualmente esistenti se non come «determinata» dalla loro constitutio, dall’insieme degli affetti da cui quegli individui sono presi. Poiché gli affetti che sono passioni possono porre la «natura determinata» del singolo in contraddizione con quella natura umana che è comune a tutti gli uomini, e possono quindi spingerlo entrare in conflitto con gli altri uomini, un accordo tra gli individui sembra imporsi come necessario nella misura in cui incarnano ognuno quel «modello della natura umana» che è tutt’uno con un’«idea universale» dell’uomo (E4praef), e dunque in quanto le loro nature attuali siano determinate unicamente da affetti attivi, derivanti da una ragione che rende irrilevante ogni differenza individuale. Per il carattere generico della natura umana, cfr. ad es. E4p35dem, dove la «natura umana» compare come «natura di ogni uomo». Sulla «natura determinata» cfr. in particolare E3p7dem ed Aff.def1. Sul concetto di constitutio rinvio a F. Toto, ‘La costituzione dell’essenza umana’, un’identità in divenire, in A. Sangiacomo, F. Toto (a cura di), «Essentia actuosa. Riletture dell’Etica di Spinoza», Milano, di prossima pubblicazione.

[16] E4p70sch.

[17] E4p35cor1 e 2.

[18] Secondo E4p31cor bisogna ritenere non solo che le cose siano tanto più buone l’una per l’altra quanto più si accordano per natura, ma anche, viceversa, che il loro accordo sia tanto maggiore quanto più sono buone l’una per l’altra. Se però anche gli ignoranti possono essere utili gli uni agli altri, allora l’accordo deve essere possibile a prescindere dalla ragione.

[19] Cfr. in E3p59sch e E4p37sch1.

[20] Cfr. E4p18sch e E4p37.

[21] Basta pensare al caso più esplicito dell’onestà, che compare appunto come il «desiderio dell’uomo che vive sotto la guida della ragione di unire a sé gli altri in amicizia» (E4p37sch1).

[22] Questo presupposto è chiaramente confermato da E4cap12, nel quale si dice che è utile tutto ciò che rende gli uomini atti ad accordarsi tra loro e consente di consolidare le amicizie.

[23] Ibidem.

[24] Aff.def48. Spinoza usa il termine «libido» anche in un senso più ampio, volto ad indicare tutti gli appetiti che non si accordano con la ragione. Per quanto riguarda questo secondo uso, cfr. E4p17sch, E4p58sch, E4cap14, E5p41sch, E5p42.

[25] Aff.def48expl.

[26] E3p35sch.

[27] E3p27sch.

[28] E3p13sch.

[29] E3p19 e 21.

[30] E3p26sch.

[31] E3p22sch.

[32] Questa indifferenza dell’amante verso l’amore della cosa amata, che sembra subordinare il desiderio di reciprocità a un desiderio di riconoscimento, potrebbe essere revocata in dubbio già a partire da semplici criteri utilitaristici. Allo stesso modo in cui «chi immagina di essere odiato da qualcuno lo immaginerà come causa di qualche male» (E3p40sch1), e tenterà di impedirgli di effettuare questo male incutendogli paura (E3p39), si può ritenere che chi immagina di essere amato da qualcuno lo immaginerà come causa di qualche bene, e tenderà a fare del bene al fine di eccitare questo amore e di godere dei vantaggi che ne conseguono. Sta di fatto, però, che non è questo il ragionamento sviluppato da Spinoza.

[33] Questo punto è uno dei presupposti di E5p20 e dal suo corollario, secondo i quali tutti gli uomini possono godere in comune del medesimo amor Dei, inteso in senso al tempo stesso soggettivo e oggettivo come un amore dell’uomo verso Dio e un amore di Dio verso gli uomini.

[34] E3p27.

[35] E3p27sch1.

[36] Aff.def43.

[37] E3p29sch.

[38] Cfr. E3p59sch, E4cap25.

[39] E4cap25.

[40] Aff.def48expl.

[41] Aff.def44.

[42] E3p39sch.

[43] Per lode e biasimo cfr. E3p29sch, per gloria e vergogna E3p30sch.

[44] Cfr. Aff.def33 e Aff.def31expl. Per la definizione del turpe e dell’onesto cfr. invece E4p37sch1.

[45] E3p24sch.

[46] Cfr. anche E4p34sch.

[47] Per il modo in cui ogni possibile fonte di tristezza viene immaginata con paura, cfr. E3p18sch2.

[48] La coincidenza tra la forma di amore o di gioia che speriamo di suscitare nella cosa amata e la lode è testimoniata dal riferimento a E3p29 contenuto nella dimostrazione di E3p33, mentre quella tra l’amore dell’altro e una fonte di gloria è esplicitata dal riferimento a E3p30 contenuto nella dimostrazione di E3p34.

[49] Concentrandosi sul caso esemplare dell’«amor erga foeminam» e sui risvolti secondari che gli sono connessi, il testo spinoziano spinge il lettore ad entrare nel mondo ossessivo costruito dall’immaginazione dell’amante, ad assistere con lui alla congiunzione tra il corpo dell’amata e le «parti vergognose» dell’amante o le loro «secrezioni», a identificare il desiderio che viene frustrato dal legame di amicizia tra la donna e l’altro uomo con quello connesso alla libido, e a supporre che l’oggetto della rivalità e dell’invidia consista dunque innanzitutto nel corpo della donna e nei piaceri che gli sono associati. Il fatto che la gelosia consista essenzialmente nella frustrazione di un desiderio di gloria rende invece manifesto che, anche nel caso particolare dell’amore per la donna, la situazione è più complessa, perché l’oggetto della contesa non può essere costituito direttamente dal corpo dell’altro o dal piacere che esso può dispensare, il cui godimento non necessariamente è impedito da un godimento uguale o maggiore da parte di un altro, ma solo dal riconoscimento di cui il suo amore è portatore.

[50] E3p55sch1.

[51] E4p58sch.

[52] Secondo E3p48 l’amore e l’odio che proviamo verso una cosa X sono distrutti (o diminuiti) quando ci convinciamo che X non è la causa (o la sola causa) della nostra gioia o della nostra tristezza. In questo caso, infatti, l’affetto che in precedenza provavamo verso X si trasforma in tutto o in parte in un affetto verso Y. Su queste basi E3p49 può legittimamente affermare che gli affetti verso le cose che immaginiamo come libere sono i più intensi che si possano dare: immaginare una cosa come libera, infatti, non significa altro che immaginarla come la sola causa delle proprie azioni, e concentrare su di essa l’interezza del nostro amore e del nostro odio legati alla gioia o tristezza suscitate da quelle azioni.

[53] E3p42. Vale la pena di notare che E3p42 parla di «amore aut spe gloriae», dove la formula disgiuntiva «aut» sembra distinguere l’amore e la speranza di gloria, mentre la dimostrazione sostiene che chi «ha fatto per amore un beneficio a qualcuno, lo ha fatto con il desiderio di esserne riamato, cioè (per E3p34) con speranza di gloria», e sovrappone in questo modo i due moventi.

[54] in E3p43.

[55] Che la generosità, definita come una forma di desiderio, sia pensata da Spinoza al tempo stesso come una forma di amore è chiaro in E4p46 e nella sua dimostrazione, dove si parla di «amore […], sive generositate», e di «amore […], hoc est, generositate». Che il desiderio sia una forma di amore, o l’amore di desiderio, è implicito in tutta la trattazione di questi due affetti, ed esplicito ad esempio in E3p56sch. Su questo punto vedi anche il modo in cui il riferimento a E3p37 opera all’interno delle dimostrazioni di E4p70 e 71: la disposizione a ricercare per l’altro lo stesso bene che si desidera per sé, stabilita in E3p37, viene vista in E4p70dem come uno sforzo o un desiderio di legare gli altri in amicizia, vale a dire come una forma di generosità, e in E4p71dem come una forma di amore.

[56] Spinoza, in E4p37sch2, accetta la definizione classica della giustizia come disposizione ad attribuire a ciascuno il suo.

[57] L’aequitas compare in E4cap15 e 24 accanto a giustizia e onestà. Mi sembra chiaro che la «parzialità» di cui parla E2p49sch rappresenti il suo opposto.

[58] Con queste parole non intendo contrapporre un accordo fondato su un legame affettivo a quello che potrebbe essere fondato su un legame giuridico, ma suggerire semmai che per Spinoza la possibilità stessa di un vincolo giuridico, che trova in un patto la sua espressione formale o verbale, presenta dei presupposti di ordine affettivo. In questo senso  non mi sembra un caso che per indicare una convergenza affettiva Spinoza utilizzi una parola, «convenientia», che nel lessico seicentesco può tranquillamente valere come sinonimo di «pactum», quasi a sottolineare che quella forma di accordo verbalmente formalizzato che di solito chiamiamo “patto” o “contratto” è l’espressione di una convergenza affettiva reale, oppure non è che l’ombra di un accordo. Su questo punto vedi in particolare E4p72.

[59] Secondo E4p18sch due uomini che in ogni circostanza seguissero realmente i dettami della ragione formerebbero un individuo guidato da un’unica mente e due volte più potente di entrambi presi separatamente. Il carattere fittizio di questo accordo incondizionato e fondato su una perfetta identità di natura è reso evidente da E4p4 e dal suo corollario, in cui si denuncia l’impossibilità di un uomo che non sia mai scosso dalle passioni.

[60] Cfr. E4p26-28.

[61] Essendo fonte in chi la riceve e ritiene di averla meritata non di amore, ma di gloria, la gratitudine sembra poter essere reale solo in due casi: quando il benefattore ama il proprio simile già prima del beneficio che gli ha offerto al fine di essere ricambiato, oppure quando è inconsapevole dei propri meriti, e vede perciò il beneficio che riceve non come un segno di gratitudine, ma di quell’amore gratuito che chiamiamo generosità. Se così fosse la gratitudine e l’amicizia potrebbero nascere esclusivamente da un qui pro quo: o è infondato l’amore del benefattore verso colui al quale offre i suoi servizi, perché in realtà l’altro non è mai stato la causa della sua gioia, oppure è infondata la gratitudine con la quale esso viene ricambiato, perché colui che riceve il beneficio non sa di averlo meritato.

[62] Sulla possibilità di questi affetti che possono accordarsi con la ragione anche quando non ne derivano, e restano in ogni caso passivi, si possono ricordare non solo affetti di gioia come il piacere (E4p45sch) il favore o la gloria (E4p51, E4p58), ma anche certi affetti di tristezza, come il dolore che affievolisce un piacere eccessivo (E4p43), o quella commiserazione, quella vergogna e quel pentimento che non sono certo buoni «di per sé», ma contribuiscono all’accordo tra gli uomini (E4p54sch), e dunque anche allo sviluppo della ragione (E4p40).

[63] Questa circostanza, per la quale l’accettazione di un dono può essere un’espressione di generosità, non mi sembra priva di interesse. A prima vista, si potrebbe credere che il ruolo della generosità in questa accettazione sia legato al fatto che il dono sottomette chi lo riceve all’appetito di chi lo offre, e che accettandolo l’uomo guidato dalla ragione acconsente anche a sacrificare sull’altare dell’amicizia almeno una parte della propria libertà. Le cose, però, stanno diversamente. L’uomo guidato dalla ragione vive più libero nello Stato, dove è obbligato a seguire le decisioni della collettività, che nella solitudine (E4p73), nella quale potrebbe seguire solo i propri desideri. Esattamente allo stesso modo, si deve supporre che anche alla base dell’amicizia, nella quale ognuno sottomette i propri desideri al vincolo della compatibilità con quelli dell’altro, ci sia dunque non un sacrifico, ma una conquista di libertà.

[64] Questo cortocircuito tra immaginazione e ragione, implicito nella generale struttura dell’argomento spinoziano, diventa esplicito nell’uso spinoziano delle nozioni di onesto e di turpe. Per E4p37sch1 l’onestà è un desiderio di amicizia caratteristico dell’uomo che vive sotto la guida della ragione, mentre è turpe ciò che si oppone alla formazione dell’amicizia, e contrario all’onestà. Per E4cap15 i «costumi» sono portatori di una precisa concezione dell’onesto e del turpe: una concezione che non può essere se non immaginaria, se è vero, come afferma Aff.def27expl, che il turpe e l’onesto variano da popolazione a popolazione col variare delle consuetudini, e definiscono quindi il modo in cui quelle popolazioni immaginano ciò che è conforme o difforme a un’approvazione razionale. Poiché però ciò che viene immaginato onesto suscita veramente amicizia, e ciò che è considerato turpe suscita altrettanto realmente conflitto, l’uomo non può essere mosso da una reale onestà a fare null’altro se non ciò che viene definito come onesto dalla concezione immaginaria dell’onestà definita dai costumi.

[65] Cfr. E3deff1-3.

[66] Cfr. Anche E4p32dem e sch.

[67] E2paef.

[68] Cfr. E2p33-5.

[69] Cfr. E4p1, E2p32.

[70] Vale la pena di osservare che l’espressione questa espressione («non potest dici») è la stessa che tornerà in E4p32 («non possunt dici»): «non si può dire» che uomini guidati dalla passione agiscano assolutamente per virtù o si accordino per natura, e ciò non perché quella loro virtù e quell’accordo siano impossibili, ma semplicemente perché non può essere derivato in maniera certa o necessaria dal semplice fatto che gli uomini siano presi da passione.

[71] Cfr.  E4p30 e 31.

[72] Cfr. E2p39.

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