“Questa testa di Medusa dentro”. Politiche della delegittimazione ne ‘Il dissidio’ di J.-F. Lyotard

Sergio Alloggio

Abstract: This article constitutes the second part of the essay “‘This head of Medusa within’: Politics of delegitimation in Jean-François Lyotard’s The Differend”, the first part of which was published in «Consecutio Temporum», no. 3, 2012. I begin by investigating Lyotard’s organic approach to Kant and argue that from the Critique of Pure Reason to Kant’s political works, Lyotard’s reading is wrought through the phrasal dispositif which illuminates how a politics of delegitimation takes place between Lyotard and Kant. Within Lyotard’s reading of Hegel the phrasal dispositif is made to engage with its inverted doppelganger, that is Hegel’s speculative dispositif: against Hegel, Lyotard makes use of the concept of an undialectical death, one which blocks both the speculative dispositif and the notion of différend itself. Lastly, some of the unavoidable consequences implied by this untranscendable death are discussed, thereby problematizing Lyotard’s own claim for a politics of resistance.



PARTE II*


Kant, Hegel, la Medusa

Una temporalità in cui gli istanti si rifiutano al ricordo che recupera e rap-presenta.
Levinas, Altrimenti che essere

Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri. Noi ci tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e sulle orecchie, per poter negare l’esistenza dei mostri.
Marx, Il capitale, libro I

La tesi secondo cui gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali sul terreno delle ideologie non è di carattere psicologico o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico.
Gramsci, Quaderni del carcere, quaderno 13 

In questa seconda parte dell’articolo discuterò prima le quattro Notizie Kant poi quella su Hegel, per concludere in modo sistematico sull’impianto generale del Dissidio di Lyotard. Infatti attraverso i due più grandi filosofi tedeschi della modernità il dispositivo frasale raggiunge il miglior livello di chiarezza disponibile nel libro. Inoltre è a ridosso della Notizia Hegel che Le différend, frasando il significato filosofico dello sterminio nazista degli ebrei, esprime nel modo più adamantino la radicale posizione anti-hegeliana di Lyotard. Le quattro Notizie Kant corrispondono alle quattro Critiche, le tre pubblicate dallo stesso Kant più la quarta, appena abbozzata sulla ragione politica, che però, secondo Lyotard, è possibile ricavare  dagli opuscoli, dalle opere storico-politiche e da quelle postume del filosofo di Könisberg. Insieme a Hannah Arendt e quasi negli stessi anni, Lyotard si interessa in modo organico sia alla Critica della facoltà di giudizio che alle varie opere storico-politiche di Kant, facendo così emergere anche in ambito anglosassone un filone storiografico che nell’Europa del secondo dopoguerra riceveva via via un’attenzione crescente.[1]

La frasatura lyotardiana della Kritik der reinen Vernunft inizia traducendo la ricettività del dato da parte della facoltà della sensibilità come una messa in situazione di ciò che si è presentato al soggetto, come se, cioè, ricettività significasse accogliere qualcosa in un universo di frase. Letto attraverso il dispositivo frasale, «il dato sensibile» è la «quasi frase» primordiale che pone, immediatamente, il soggetto come suo destinatario. Dalla presentazione di un magma senza tempo e spazio si passa direttamente alla sua messa in situazione, ecco l’Estetica trascendentale kantiana. Come sempre in Lyotard la «presentation» può solo esser colta al prezzo del situazionarla in un universo di frase – «accueillir» è «censurer». Questa riduzione dell’evento di una materia non ancora formalizzata, questa forclusione di ciò che in Kant viene descritto come il presentarsi di qualcosa alla sensibilità, e che ci pone in situazione di destinatari della materia, per Lyotard avviene «déjà» nel momento della ricezione del dato sensibile che, preso per sé, sarebbe il regno dell’«idioletto». Un tale avvenimento – la materia che diventa dato ricettivo del e nel soggetto – mentre è avvenimento diretto in Kant, Lyotard lo intende come composto non da una sola «quasi frase» – la materia – ma da due. In Lyotard l’avvenimento della presentazione del dato da ricevere, la prima frase che pone il soggetto kantiano della sensibilità come destinatario, viene seguita da un’altra frase, la relativa messa in situazione di questa prima «frase-materia», enunciata questa volta direttamente dal soggetto che, grazie al «filtrage» delle forme trascendentali dell’esperienza (spazio e tempo), si pone ora come destinatore della «frase-forma», ovvero la seconda frase. È da questo balletto delle istanze che si ricava il Phänomenon della Critica della ragion pura. Come sempre il dispostivo frasale lavora sul cronismo dei presupposti e sulla permutazione delle istanze: il magma «né essere né non essere» è una frase (la «frase-materia») di cui non si conosce il destinatore e che il destinatario, il soggetto kantiano, non può che ricevere senza comprenderne il linguaggio, il senso e perfino il referente. Il passaggio è importante. Per Lyotard nella prima «quasi frase» si può solo dire che il soggetto-destinatario viene «colpito», «en est affecté». Nella seconda frase, invece, il soggetto kantiano ribalta la situazione e traduce la «frase-materia» nel proprio idioma spazio-temporale, divenendone quindi destinatore e producendo in tal modo quel referente identificabile ancorché grezzo che siamo soliti chiamare fenomeno. A sua volta il Phänomenon, il referente della seconda frase, è dotato di marche deittiche quando viene intuito, in quanto oggetto ostensibile e quindi (di)mostrabile. In questo scambio frasale, in tale balletto istanziale e produzione referenziale, tutto quello che avviene è una negoziazione che si dimostra essere in entrambe le frasi asimmetrica. Per quanto rigurarda la prima frase, la “quasi frase materia”, fra un destinatore sconosciuto e il soggetto kantiano, per Lyotard, «l’“immediatezza” del dato (…) non è immediata», nel senso che

il destinatore “primo”, quello che attraverso la sensazione raggiunge il “soggetto”, rimane sconosciuto a quest’ultimo. Ciò significa che l’idioma-materia, pure essendo inteso, non è compreso dal soggetto, nel senso che quest’ultimo non sa, e secondo Kant non saprà mai, a cosa si riferiva l’impressione che egli prova nella frase del destinatore primo (noumeno).[2]

Di conseguenza, la seconda frase, un «supplément», svolge questo compito di traduzione e virtualmente pone il destinatore «sconosciuto» della prima come suo destinatario. Virtualmente perché, e questo sia per Lyotard che per Kant, il destinatore primo, messo in posizione di destinatario dal soggetto umano della seconda frase, semplicemente scompare dopo aver destinato la prima frase – il soggetto «non saprà mai» il senso della prima frase. È per questo motivo che il dispostivo frasale applicato alla sensibilità kantiana rivela la presenza di un «dissidio fra il destinatore primo e il soggetto», quella che chiamo una negoziazione asimmetrica. Fra questi due poli qualcosa rimane inespresso, il dissidio fra loro indica uno scarto taciuto e forcluso che per Lyotard cerca e aspetta la sua emergenza ma che non verrà mai portato a un livello linguistico esplicito – ecco il sentimento del dissidio che percorre tutta la Kritik der reinen Vernunft. Come concetto filosofico, il dissidio, nel momento sorgivo della soggettività kantiana, esprime al meglio questo rapporto asimmetrico fra presentazione, sensibilità e senso:

Per questo la sensazione è un modo del sentimento, in altre parole una frase in attesa della sua espressione, un silenzio commosso [un silence ému]. Questa attesa non è mai esaudita, l’espressione che ha luogo si proferisce nella lingua delle forme spazio-temporali che il soggetto “parla” e di cui non sa se è quella dell’altro. Questo dissidio è commisurato alla perdita del concetto di natura.[3]

Il lavoro di «sovrapposizione» delle forme che operano sul magma senza nome, trasformandolo per mezzo di forme stabili in somme e serie di regolarità, è compiuto in Lyotard esclusivamente dal soggetto kantiano che, proprio per questo motivo, non può sapere in nessun modo della correttezza o meno di tale operazione. Niente può attestargli se ciò che compie sia fedele o meno al referente della prima «frase-materia». Il soggetto kantiano rimane per sempre irretito nell’instabilità ontologica della propria autarchia trascendentale. E in tutto ciò è la nozione di Darstellung (presentazione/exhibitio) che per Lyotard in Kant ne esce con le ossa rotte. La «presentazione» ed esibizione di un oggetto, ovvero l’ostensione necessaria per convalidare il giudizio conoscitivo, rimane sin dall’inizio un costruzione mediata piuttosto che essere un legame immediato fra un’intuizione obbligata e il relativo concetto che se ne dovrà speculativamente fare carico: «la Darstellung kantiana, malgrado il nome che porta, non è affatto la presentazione di un universo di frase. Essa è la congiunzione di due frasi di regime differente».[4] Tale lavoro di negoziazione Lyotard lo chiama «pontaggio» (pontage) e, come vedremo in seguito, esso sostanzia l’ufficio della facoltà del giudizio. Agli occhi di Lyotard l’attività del giudizio nella prima Critica è ancora troppo appesantita e lateralizzata dal conflitto che avviene fra la facoltà della sensibilità e quella dell’intelletto; nella seconda e terza Critica il giudicare, invece, assumerà tutta la sua carica filosofica fondamentale.

In breve, la ricettività nella Critica della ragion pura viene «pontata» (pontée) in modo autoritario dalla forme dell’intelletto. Il dispositivo frasale lyotardiano lavora sulla politica di legittimazione all’interno della costituzione trascendentale del soggetto conoscitivo – su come Kant concateni le frasi delle varie facoltà trascendentali. Dopo il dissidio fra il destinatore della «frase-materia» e il destinatore della «frase-forma», il dispositivo frasale manifesta la presenza di un’«agonistica generalizzata» persino nel costituirsi della soggettività trascendentale kantiana:

le “facoltà” non cessano di avanzarsi rimostranze, lagnanze reciproche, cioè di criticarsi confrontando i loro rispettivi oggetti. Esse sono così le une rispetto alle altre nella posizione ora di destinatore ora di destinatario. La sensibilità sarebbe quindi soltanto un idioletto priva di trasmissibilità se non subisse la rimostranza dell’intuizione pura. Quest’ultima rimarrebbe una frase ostensiva puntuale se non fosse sottoposta alle esigenze dell’immaginazione e del concetto, e queste facoltà a loro volta sarebbero prive di portata creativa o cognitiva se non si lasciassero investire dalle rimostranze della sensibilità, ecc.[5]

Lyotard trasporta il Kampflatz che è la filosofia, così com’è descritto da Kant nell’introduzione alla prima Critica, all’interno del soggetto e il risultato negativo di quest’agonistica trascendentale è per Lyotard l’oblio dell’evento di quella «frase-materia» primordiale, la prima: il «C’è» (Il y a) è sempre inteso come «quel che c’è» e questo perché in Lyotard la Darstellung è sempre una Vorstellung, un situazionare. Il soggetto kantiano è, nella lettura di Lyotard, un campo di battaglia tra le varie facoltà e ciò che lo tiene in piedi è proprio quest’infinito guerreggiarsi dei fronti trascendentali.[6]

Passando alla Critica della ragion pratica, è invece la frase prescrittiva del genere etico che diviene l’oggetto del dispositivo frasale. Come ben si sa, per la deduzione kantiana della sfera etica, la frase prescrittiva, non può funzionare lo stesso meccanismo di legittimazione della sfera cognitiva della prima Kritik, dove cioè ai dati empirici si fanno seguire le stesse leggi della costituzione trascendentale del soggetto, la famosa rivoluzione copernicana di Kant. Nel linguaggio lyotardiano la deduzione trascendentale delle categorie può essere condotta perché i principi dell’intelletto e l’esperienza scientifica operano nello stesso regime di frasi, quello descrittivo: tra principi e dati non vi è dissidio, al massimo lite quando ci sono disfunzioni di vario genere. Lyotard parla di «isomorfismo» tra il «metalinguaggio» critico-trascendentale e «la lingua-oggetto» della scienza. La deduzione nella seconda Kritik non può avviare lo stesso meccanismo legittimante usato per le cognitive della prima dato che, in ambito etico, le frasi prescrittive non seguono la causalità fisico-matematica ma, al contrario, sono frasi libere. La soluzione kantiana è, come è noto, il ribaltamento della deduzione della prima Critica: nella Critica della ragion pratica la legittimità della libertà è prodotta ponendo la legge morale come premessa stessa della deduzione. Questo perché se si trattasse la libertà come referente delle prescrittive si distruggerebbe la loro causalità libera e ciò significherebbe per Lyotard che «la libertà non si esprime nella lingua-oggetto», dato che essa «può esser messa in frasi solo nel commento critico».[7] Nel ribaltamento kantiano che viene azionato per legittimare le prescrittive è allora la legge morale a divenire una sorta di fatto empirico, la «lingua-oggetto» morale deve esser accettata come se fosse un Faktum. Ma questo «quasi-fatto» rimane comunque diverso dai dati empirici del regime cognitivo: il «quasi-fatto» che è l’«obbligo» della prescrizione deve rimanere eterogeneo al regime cognitivo della natura fisica e, per questa ragione, tale eterogeneità trasporta il soggetto della prescrizione nel regime etico. L’«obbligo» del dovere pratico non è un’esperienza cognitiva ma parimenti riesce a farsi «sentire» e percepire nel soggetto in tutta la sua forza vincolante. Come è noto, Kant pone l’obbligo come origine della deduzione della libertà e tale ordinamento trascendentale viene sintetizzato nella frase kantiana: «Se tu devi, allora puoi». Esposta in questo modo, la «frase di libertà» pone il soggetto come destinatario in modo irreversibile, caricandolo cioè immediatamente di una «costrizione» che può sì rifiutare ma che non si può evitare in se stessa. Nella Critica della ragion pura l’obbligo produce la causalità libera ma, si domanda Lyotard, «come è possibile?». La potenza inaggirabile dell’obbligo viene attestata non da una frase cognitiva, che ne proverebbe di per sé il referente ma, seguendo uno schema già visto nel dissidio fra «frase-materia» e «frase-forma» della prima Critica, l’obbligo viene trasmesso al soggetto da un Bedürfnis a priori che è per Lyotard è «un mezzo silenzio» presupposto, ovvero il sentimento del rispetto (Achtung).[8]

Il momento fondamentale del dispostivo frasale che opera nella Kritik der praktischen Vernunft riguarda lo slittamento istanziale che accade fra il «Tu devi» e il «Tu puoi» nel primo postulato della ragion pratica. Chi pronuncia il «Tu devi», il destinatore di questa frase, non è oggetto di conoscenza. Per Lyotard è come se si tornasse alla stessa cinetica frasale in atto nella Critica della ragion pura:

Ma il quasi-fatto dell’obbligo è come un segno inciso sull’entità destinatrice in forma di sentimento. L’obbligato ha una presunzione sentimentale che ci sia un’autorità che lo obbliga rivolgendosi a lui. Questo segnale che, in un regime di frasi che non è precisamente quello delle descrittive, una causalità, che non è principio dell’esperienza, agisce sull’obbligato. (…) È il destinatore, che è il potere. E, nell’universo della frase dell’obbligo, il destinatore, se parlasse di se stesso, direbbe io, come direbbe tu obbligando il destinatario (tu devi).[9]

Si comprende piuttosto facilmente come Lyotard stia usando qui la filosofia di Emmanuel Levinas come fonte primaria del genere di discorso etico e la Notizia Levinas del Dissidio serve proprio a questo, a tradurre lo scacco etico levinasiano nei termini del proprio dispositivo frasale. Tornando alla frasatura della seconda Critica tra il «Tu devi» e l’«Io posso», ci viene spiegato come la concatenazione tra queste due frasi sia compiuta da un soggetto diverso dal destinatore della prima frase; se lo fosse, e Lyotard lo ripete spesso, l’obbligo si scioglierebbe nell’orizzonte del liberum arbitrium. Come il precedente «pontaggio» fra ricettività sensibile e forme spazio-temporali a priori della Critica della ragion pura, assistiamo qui a un «pontaggio» che unisce la provenienza vuota dell’obbligo alla libertà soggettiva che agisce sulle serie empirico-fenomeniche. La crepatura della Critica della ragion pratica fra obbligante e obbligato resta impresentabile, non c’è possibilità di averne referente mostrabile, cioè deduzione propriamente detta e quindi nel Dissidio «la legge resta non dedotta. […] Non si sa di chi sia la libertà».[10] È importante rimarcare che nella frasatura della Critica della ragion pratica i fenomeni permettono sì di intrattenere il soggetto etico, ma non di dimenticare il paradosso di un obbligo dettato da un destinatore senza volto. Il dissidio di fondo della prima Critica non è meno forte di quello della seconda, la crepatura è altrettanto profonda, è solo che le serie fenomeniche nel campo etico non riescono più a nascondere del tutto il torto di una negoziazione asimmetrica fra l’obbligante e l’obbligato, come invece riesce a fare, nella prima Critica, la causalità scientifica nel dissidio fra il destinatore della «frase-materia» e il destinatario della «frase-forma». La fenomenicità è sì l’unico campo in cui la libertà può attuarsi ma, e questo il soggetto kantiano lo sa bene, lo scarto qualitativo fra libertà etica e causalità empirica è imbarazzante.

Il punto sul quale preme Lyotard nella seconda Notizia Kant è l’«abisso» (Abgrund) tra frase/regime cognitivo e frase/regime prescrittivo – quell’«abîme» tra il genere di discorso scientifico-conoscitivo e quello etico o, detto altrimenti, tra il vero e il giusto. Nell’agonistica interiore che prende così corpo nel soggetto trascendentale kantiano, il problema dell’«abisso» diventa assillante solo quando si desidera trasformare l’incommensurabilità e il dissidio tra «conoscenza e obbligo» in un «litige», quando l’esigenza asimmetrica di egemonizzare nel soggetto si fa pressante:

Quello che è veramente astratto è il porre la questione dell’abisso in modo alternativo, di modo che si dovrebbe colmarlo o scavarlo ancor di più. Ora, se si ha abisso, e in genere limite, è solo perché ogni parte – per riprendere la simbologia giudiziaria o militare – concede a se stessa un diritto di vigilanza sull’argomentazione dell’altra poiché estende le sue pretese al di là delle sue frontiere. È solo in questo modo che essa finisce per trovarle.[11]

Come già discusso, nel Dissidio la convalida della legittimità di una frase può solo avvenire in un genere diverso dalla frase in questione, nel genere appunto della convalida: la prescrittiva e la cognitiva vanno in giudizio e il giudice kantiano, la «guardia critica» (veilleur critique) per Lyotard, attesta che l’etica non produce conoscenza perché essa ha già presupposto, pre-giudicato, di giudicare e intendere il giusto nei termini del vero. All’interno del teatro trascendentale kantiano vengono messe in scena delle pièces che hanno come protagonista la legittimazione, con tutte le politiche e i relative pre-giudizi del concatenare che essa comporta. Il termine che Lyotard adotta da Kant per descrivere questa operazione legittimante è «passaggio» (passage), Übergang.[12] Non ci può essere «passaggio» possibile tra il giusto e il vero senza riduzione della libertà in determinismo causale.[13] Se la sovrapposizione avvenisse, la sua illegittimità non potrebbe mai essere ridotta in lite. Conscio di ciò Kant per Lyotard

finisce col ricorrere a un modo di passaggio che non è più l’estensione semplice di una legittimazione da un campo all’altro ma l’istituzione di un differenziale delle rispettive legittimazioni. Il nome generico di tale differenziale è il “come se”. Esso non approfondisce né colma l’abisso, passa o ha luogo sopra, prendendolo quindi in considerazione, è un Übergang che è il modello di tutti gli Übergänge. L’analogia che risulta dagli als ob è un’illusione quando le differenze sono dimenticate e il dissidio soffocato. (…) Il come-se deriva dall’immaginazione trascendentale per l’invenzione della comparazione, ma dal giudizio per la sua regolazione.[14]

Nelle massime della Critica della ragion pura che regolano i giudizi dell’etico, l’als ob esprime l’impossibilità delle prescrittive di basarsi su intuizioni, nel senso che non vi sono intuizioni possibili per l’idea di bene, come cioè per tutte le altre idee e ideali kantiani. Il giudicare in campo etico attua un «passaggio» in quello scientifico per usufruire del meccanismo «della conformità alla legge» e, conseguentemente, poter finalmente orientare il corso delle azioni. Dall’«esempio» del campo cognitivo, quando si tratta di giudicare dell’eticità di un’azione passata, presente e futura si passa al «tipo» del campo etico. In tal senso, Lyotard chiama il «tipo» kantiano «un complesso pontaggio fra i due regimi, quello della conoscenza – come io so – e quello della volontà – come tu devi».[15] Quello che accade in questo «pontage» che trasporta le legittimazione del cognitivo nel campo del prescrittivo è un indebito trasporto della causalità che, da essere trait d’union a priori delle serie fenomeniche, passa nell’etico diventando un sentimento a priori, il rispetto, un sentimento che però non è rinvenibile nelle serie fenomeniche ed è prodotto come «effetto» di un’affezione ricevuta da un destinatore sconosciuto attraverso il «Tu devi». Dalla certezza dell’autocostituzione dell’io all’incertezza dell’obbligo del tu, il «pontaggio» avviene in modo alquanto surrettizio per Lyotard perché, se nella prima Critica la «frase-materia» che vede il soggetto come destinatario viene rigirata in «frase-forma» in modo stabile, nella seconda Critica il «pontaggio» avviene, per prima cosa, tra due genere diversi, il conoscitivo e l’etico, e, in secondo luogo, esso prende le sembianze di un’«analogia della legalità attraverso il tipo». Il punto omega della critica lyotardiana al Kant della Kritik der praktischen Vernunft risiede nell’universalizzazione della tipizzazione prescrittiva sulla base della modellizzazione cognitiva:

apparentemente, la dissimetria fra io e tu deve essere dimenticata a profitto dell’universale, “l’umanità”, il noi degli io e dei tu intercambiabili. (…) Intercambiabili quindi soltanto sull’istanza dell’obbligato, il tu del Tu devi, per formare una comunità di ostaggi, ma anche sull’istanza del legislatore, l’io dell’Io posso per formare una comunità di costituenti.[16]

In questo dimenticare trascendentale si oblia l’«abîme» tra prescrittiva e cognitiva e il contrattualismo politico-filosofico diventa quindi una mera questione di litige e non più un différend. Il consenso, il dialogo (platonico) e il reciproco scambio degli alter ego non solo è possibile ma diviene il motore del progresso etico-politico. Il modello alternativo che Lyotard oppone al consenso fondato su una «apparenza trascendantale», che riduce l’etica alla conoscenza, è la filosofia di Levinas, che tradotta secondo il dispositivo frasale, attesta un’insopprimibile «esigenza» di frasare politicamente l’etico «solo eticamente». Un programma filosofico, meglio, una politica filosofica che Lyotard non inizierà mai a mettere in pratica dopo Il dissidio, ma che invece Derrida e Nancy hanno sviluppato in modo consistente proprio a partire dagli anni ottanta. Tutta la caparbia insistenza del tardo Derrida sul non ridurre il dono, l’amicizia, il segreto, il lutto, la promessa, il perdono o l’ospitalità in una forma cognitiva, pena la perdita dell’urgenza etica alla base delle nozioni in questione, trova nel Dissidio la sua migliore articolazione genetica. Fino a quando i suddetti concetti vengono pensati in forma etica, secondo cioè uno schema levinasiano di negoziazione estenuante fra un io e un tu in posizioni asimmetriche, essi mantengono tutta la loro carica ingiuntiva ma, non appena inizia la loro frasatura in ambito cognitivo o politico, e quindi tra degli io divenuti dei semplici alter ego metafisicamente simmetrici, ecco allora assistere agli infiniti moniti derridiani sulla sparizione del cuore etico della nozione in esame, un cuore etico che a fortiori e aporeticamente per Derrida deve essere sempre conservato nel cognitivo se in esso si vuole anche solo mantenere il nome stesso della nozione in discussione.

Il principio alla base di tutto Le différend, e del concetto stesso di dissidio, il principio tragico di tutto il libro, è la mancanza di un genere e di un idioma universalmente comuni.[17] Questo principio in Lyotard proviene dall’incorporazione della scissione delle facoltà kantiane e dall’assunzione dell’impossibilità della loro conciliazione – a ogni Critica Lyotard affianca un genere incommensurabile (il cognitivo, l’etico e l’estetico). È questa inconciliabilità strutturale, insieme al ruolo nomade della facoltà del giudizio, il vero carburante che alimenta sia il concetto di différend che il libro omonimo.[18] In tal senso, l’origine del Dissidio è filosofica in modo autonomo visto che il presupposto che aziona il dispositivo frasale è l’interpretazione aporetica dell’intera architettonica kantiana, nel senso che il presupposto all’origine del testo lyotardiano non è fatto risiedere in un’imposizione rappresentazionale tra l’umano e una pretesa matrice neutrale o naturale. Sostenere la tesi della piena autonomia filosofica del Dissidio significa intendere la filosofia non solo come un genere di scrittura in cui si citano quei filosofi che, da Platone a Spivak, compongono il canone di una disciplina accademica, la filosofia, a sua volta legittimata dall’essere professionalmente tenuta in vita dalle università – ricapitolo qui la definizione di filosofia avanzata da Richard Rorty, il quale pone il Kampflatz accademico nel cuore stesso del filosofare.[19] Il carattere che contraddistingue la pratica filosofica in Lyotard sarebbe anche quello, allora, di assumere il proprio cominciamento come già filosofico, un approccio che diviene visibile ed esplicito con Hegel per la prima volta in tutta la sua portata. Al di là della ricerca degli inizi neutrali e naturali della filosofia moderna, la produzione del sapere filosofico in ambito contemporaneo e quindi postmoderno richiederebbe, quindi, di prendere una particolare decisione filosofica sul reale. Intendendo tale scelta come attiva e consapevole per poi porla, in modo immediato, come presupposto non nascosto o represso ma, al contrario, come assunzione di una specifica politica filosofica in quel particolare Kampflatz storico-accademico che contraddistingue il campo disciplinare oggi chiamato filosofia. Nel Dissidio la decisione filosofica alla base di tutto il libro, ancorché non espressa chiaramente ma parimenti avvertibile, è la tripartizione kantiana dei generi della ragione. Generi intesi nella loro dirompente inconciliabilità al fine di spezzarne qualsiasi possibilità di riconciliazione non surrettizia. La tripartizione kantiana nell’agonistica generalizzata lyotardiana, da un lato lascia la facoltà del giudicare come unica modalità nomade in quel mare magnum che è l’incommensurabilità dei generi e delle ragioni e, dall’altro, la riflessione sul giudizio rimane l’unico mezzo attraverso il quale ricercare un modo «degno» di filosofare.[20]

La facoltà del giudicare è espressamente discussa da Lyotard nella terza e quarta Notizia Kant, pagine nelle quali il filosofo di Vincennes affronta direttamente ciò che secondo lui Kant avrebbe analizzato in un’ipotetica «Critica della ragion politica», ovvero «l’“oggetto” politico» – una campo d’indagine comunque già presente nella Critica della facoltà di giudizio.[21] Tradotta nel dispositivo frasale, la facoltà del giudicare è il modo in cui Kant intende la convalida delle frasi nei generi teorici, pratici ed estetici.[22] Ciò che sostanzia il giudicare sono i «passaggi fra le facoltà», gli Übergänge, «passaggi» attuati per esprimere la legittimità dell’oggetto che viene di volta in volta presentato ed esibito nel proprio ambito specifico. Secondo Lyotard la Kritik der Urteilskraft è l’opera tragica di Kant perché qui «la dispersione dei generi di discorso» è il terreno sul quale il giudizio deve esprimersi direttamente. Nell’agonistica dei generi kantiani, il giudizio si trova a dover espletare il proprio ufficio ogni qual volta entra in gioco la decisione di legittimare ciò che viene preso in esame. Lyotard chiama «arcipelago» lo spazio tra i generi e le ragioni incommensurabili. E in questa geografia trascendentale, i generi/ragioni sarebbero le «isole», mentre il giudizio opererebbe come

un armatore o come un ammiraglio che organizzasse fra un’isola e l’altra delle spedizioni destinate a presentare all’una quanto si fosse trovato (inventato, nel vecchio senso) nell’altra e potesse servire alla prima da “intuizione come-se” per convalidarla. Questa forza d’intervento, bellica o commerciale, non ha oggetto, non ha un’isola propria, ma esige un elemento intermedio, che è il mare, l’Archepelagos, il mare principale, come una volta si chiamava il mar Egeo.[23]

Lo abbiamo già visto avvenire attraverso il lavorio del dispositivo frasale sulla prima e seconda Critica: è solo grazie alle reciproche «remontrances» e «doléances» tra le facoltà, a quel continuo debordamento e sconfinamento dei campi trascendentali che il giudicare entra in scena e decide di «pontare» l’abisso tra un genere e l’altro. L’interesse maggiore di Lyotard, una volta azionato il proprio dispositivo frasale sul contenuto delle tre Critiche, è quello di seguire ed esplicitare come il giudizio di legittimità operi quando si tratta di porre fine alla contesa fra due idee kantiane, quando cioè entrambe le parti in conflitto non possono suffragare le proprie tesi con intuizioni fenomeniche. Nella fattispecie, il caso preso in esame da Lyotard è la risoluzione kantiana del conflitto fra la tesi finalista e la relativa antitesi meccanicista per quanto riguarda la questione del senso della natura in generale. Tale scelta lyotardiana è dettata dalla considerazione che è solo nel conflitto fra queste due idee kantiane che la facoltà del giudizio si vede costretta a operare una «transazione» (transaction e arrangement) allo stato puro, un termine che Lyotard guadagna dallo stesso Kant (vergleichen).[24] In una «transazione» come questa non ci sono regole preesistenti che possano guidare il giudizio, ma solo il «principio» kantiano-lyotardiano che prescrive: «l’eterogeneità deve esser rispettata positivamente».[25] L’andamento a tentoni del giudizio è ciò che caratterizza stricto sensu la Critica della facoltà del giudizio.[26] Il giudizio riflettente è infatti l’unico vero giudizio kantiano che per Lyotard sia realmente «attento alle singolarità». Nella terza Critica i «passaggi» e le «transazioni» vedono il giudizio quasi naufragare nell’«arcipelago» delle facoltà se Kant non ricorresse, nelle pagine dedicate alla chimica del giudizio riflettente, alla nozione di «filo conduttore» (Leitfaden). Il problema è che, nell’architettonica speculativa di Kant, il giudizio riflettente non può davvero fermarsi ai singoli enti dato che, in un modo o in un altro, esso li veicola in una struttura regolativa, e deve farlo. Il «filo conduttore» è esattamente il modo in cui il giudizio kantiano orienta se stesso nella «transazione» tra finalismo e meccanicismo e, per risolverla, esso «presuppone» nelle serie fenomeniche della «Natura», e quindi nelle frasi cognitive, un «fine» che per Lyotard altro non è che un «ordine, in altre parole giudica come se ce ne fosse uno».[27] Le difficoltà aumentano, vengono accresciute dal fatto che questo presupposto, questo «filo conduttore», è un idea in senso kantiano: non vi è quindi oggetto e intuizione per tale presupposto ideale che si incarica di risolvere una contesa tra altre idée. Di nuovo un pre-giudicare, di nuovo un politica del concatenamento che la si osserva legittimare nel momento stesso in cui ne viene evidenziata la propria costitutiva illegittimità: si ordina il fenomenico con ciò con cui non si può negoziare né presentare ma solo pregiudicare, inserendo a tal fine un presupposto imposto in ciò che non si lascia ordinare. Quando Lyotard, totalmente immerso nei meccanismi della «transazione» fra cognitiva e prescrittiva della terza Critica, descrive il presupposto imposto del pre-giudicare kantiano, è come se stesse già retrodatando la nascita dell’hegelismo in Kant:

Il giudice supplice all’assenza di un tribunale o di un giudizio ultimo di fronte al quale il regime della conoscenza e quello della libertà potrebbero essere, se non riconciliati – non lo saranno mai – almeno messi in prospettiva, ordinati, finalizzati secondo la loro differenza. Questa “supplenza” è tuttavia autorizzata dall’Idea di una natura, in senso kantiano. Natura è il nome portato dall’oggetto dell’Idea di finalità oggettiva, la quale a sua volta è richiesta dal giudizio riflettente quando cerca di render ragione delle esistenze singolari che la legalità del mondo determinato “meccanicamente” non spiega. Ma se, inversamente, l’attività di distinguere, la Genauigkeit, l’attenzione ai dissidi, che è operante nella critica, può farsi carico di questa supplenza invocando la finalità oggettiva di una natura, ciò è dovuto al fatto che è essa stessa (l’attività critica) un mezzo messo in opera dalla natura per preparare il suo scopo finale.[28]

La legittimazione della critica filosofica, o «guardia critica» come la chiama Lyotard importando una formula kantiana, avviene attraverso un pre-giudicare ciò che si ritiene autorizzi a rivestire il ruolo di giudice – in questo caso l’idea kantiana di natura. Le prova migliore che Lyotard riesce a trovare in Kant come fonte di questo automatismo e autismo della legittimazione è un «sentimento», un’esigenza emotiva di produrre giudizi anche nell’«assenza di diritto». Il pontaggio tra piani incommensurabili avviene in Kant attraverso la permutazione di un sentimento che diventa, come rileva Lyotard, «segno» dell’agire in conformità alla natura e quindi una

prova (Beweisen) attestante che esistono un diritto e un dovere di giudicare al di fuori del diritto, se, e solo se, la natura persegue i suoi fini per il tramite di questo stesso sentimento. Non si esce da questo circolo chiuso.[29]

Se ritorniamo al dissidio fra «frase-materia» e «frase-forma» in atto nella Critica della ragion pura, e a quello fra il destinatore della frase «Tu devi» e quello dell’«Io posso» della Critica della ragion pratica, cioè al dissidio risolto in lite fra soggetti intercambiabili che possono quindi riappacificarsi in una comunità universale ma surrettizia, il dissidio fra la frase-finalismo e quella del meccanicismo nella Critica della facoltà di giudizio viene obliato, in primo luogo, grazie a dei presupposti imposti che attestato i «segni» della finalità della Natura e, poi, come direttamente chiosa Lyotard, «che un destinatore sconosciuto non soltanto ce li consegni ma anche li rivolga a noi perché li decifriamo».[30] Nel Dissidio tale pre-giudicare viene rifiutato come non filosofico e il libro suggerisce in diversi suoi luoghi che il giudizio, per produrre i propri «passaggi», debba orientarsi senza presupporre nessun «filo conduttore». L’ipotesi paradossale di Lyotard è che sia lo stesso giudicare a produrre le «isole» o i «domini» nell’«arcipelago» delle facoltà, e non il contrario. Il capovolgimento che il filosofo di Vincennes ne ricava è totale: il giudizio produce i generi incommensurabili nel momento in cui compie le «transazioni». In caso contrario ci si scontrerebbe con l’afilosoficità di un presupposto ideale che legittimerebbe non solo «i segni» ma anche «il diritto al segno». Questa circolarità afilosofica, e di questo va dato atto a Lyotard che non lo nasconde, persisterebbe persino nel concetto di una postmodernità che cercherebbe di irreggimentare la natura nell’esaurimento della proprio autorizzazione «al segno».[31] Dopo solo quattro anni, Il Dissidio e il dispositivo frasale in esso contenuto cariano e sbriciolano dall’interno quello stesso concetto di postmoderno che aveva reso Lyotard celebre in tutto il mondo, specialmente nell’accademia anglofona ed europea.

La progressione delle Notizie Kant è tutta nel passare dalla crudezza del dissidio della prima Critica, nel quale il giudicare svolge un ruolo minimo poiché soffocato dallo scambio asimmetrico fra materiale sconosciuto e fenomeno, ai dissidi razionali in ambito storico-antropologico della terza e «quarta» Critica, ovvero quei dissidi fra idee nelle cui «transazioni» la facoltà kantiana del giudicare mostra al contrario tutta la propria forza organizzatrice. La quarta e ultima Notizia Kant è di conseguenza dedicata ai «passaggi» nello storico-politico. In Kant, senza «segni» della natura, la storia sarebbe perpetua distruzione, ma il fatto stesso di provare «delusione» per il perpetuarsi del dolore nelle serie storiche dei fenomeni produce una «protesta sentimentale», un’affezione intellettuale guidata dall’«Idea di progresso della libertà» che attesta come la ragione sia di per sé in connessione ed espressione di questa stessa finalità della Natura. Tale «sentimentale protestation», che prende corpo nel genere speculativo, si scontra però con l’attestazione della storia come semplice disordine che emerge dal genere cognitivo, dove cioè le serie empiriche vengono registrate solo nel loro mero succedersi cronologico. C’è quindi un conflitto nella ragione del soggetto fra pretesa speculativa e constatazione fenomenica, un conflitto razional-ideale tra storia con un fine e storia come (intuizione del) «caos». Ecco un’altra «transazione» nel tribunale kantiano, un altro giudizio per la «veiller critique» e lo scenario in cui questa controversia prende corpo è l’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. Da un lato la parte cognitiva ha sì le intuizioni dei fenomeni ma non può oltrepassarli mentre, di contro, la parte finalistica può avanzare solo delle prove analogiche per supportare la propria pretesa razionale, può frasare cioè solo in modo dialettico senza portare d’avanti al giudice «esempi o schemi» cognitivi.[32] In questo caso l’articolazione del giudizio kantiano, come ricostruito da Lyotard, segue la decisione di accogliere le rimostranze della parte finalistica perché la facoltà del giudizio accetta come legittima la nozione di «filo conduttore» della Critica della facoltà di giudizio. Nell’Idea il giudizio, come ricostruito da Lyotard, può appropriarsi del «filo conduttore» dato che secondo Kant tale nozione non snatura «la sussunzione delle intuizioni sotto concetti». Il materiale cognitivo preso in esame, le serie empiriche della storia, non vengono cioè mutate nella loro composizione specifica quando sono ordinate dalla tesi finalistica. In altre parole, nel giudicare questa «transazione», il giudice kantiano ritiene la frase cognitivo-fenomenica e la frase finalistico-speculativa fra loro «eterogenee» ma, nondimeno, esse sono «compatibili». E la giustificazione della legittimità di tale compatibilità risiede nel fatto che il medesimo avvenimento storico non viene modificato nella sua composizione fenomenica quando è preso come referente da entrambe le frasi. Ciò che cambia, e il dispositivo frasale è al lavoro qui, è solo il senso del referente considerato.[33] Nella frase cognitiva-fenomenica il senso della frase-avvenimento è «disperazione», per la speculativa esso è invece assunto come segno di «emancipazione».

È in questo giudizio del tribunale kantiano che dal segno di natura si ricava il «segno di storia», un altro «passaggio» che, nel Kant del Conflitto delle Facoltà, prende la «transazione» sul segno di natura avvenuta nell’Idea come proprio presupposto. Nella «transazione» messa in scena nel Conflitto delle Facoltà si tratta ora di decidere della presenza o meno del progresso umano nella storia e, conseguentemente, della sua direzione. La peculiarità di questo secondo «passaggio» dello storico-politico risiede nell’idealità totale di ogni sua componente: storia, progresso, umanità presente e umanità futura sono tutte delle idee kantiane, prive per definizione quindi di referenti presentabili o intuibili. In questa seconda «transazione», la risoluzione del giudizio avviene producendo davanti al giudice del criticismo una prova che non può appartenere alle serie fenomeniche della storia – tocchiamo qui l’apoteosi di quella progressione verso l’idealità che caratterizza per noi il passaggio dalla prima alla quarta Notizia Kant. In questo caso giudiziario dello storico-politico che deve giudicare nient’altro che la storia stessa, l’impervio articolarsi della facoltà kantiana del giudizio viene efficacemente riassunto da Lyotard in questo modo:

Per arrivare alla dimostrazione richiesta, occorrerà cambiare famiglia di frasi, cercando nel campo antropologico non un dato intuitivo (un Gegebene), che non può mai convalidare altro che la frase che lo descrive, ma ciò cui Kant dà il nome di Begebeneit, un avvenimento, un “fatto di concedersi” che sarebbe anche un fatto di liberarsi, un dare come di chi distribuisce le carte (il manoscritto di Cracovia, preparatorio dell’Idea, lo chiama Ereignis), avvenimento che si limiterebbe a indicare (hinweisen) e non a provare (beweisen) che l’umanità è capace di essere sia la causa (Ursache) sia l’agente (Urheber) del suo progresso. Più precisamente, spiega Kant, occorre che questa Begebenheit che si concede nella storia umana indichi una causa tale che l’occorrenza del suo effetto resti non determinata (unbestimmt) nei confronti del tempo (in Ansehung der Zeit): la causalità libera non può essere subordinata alle serie diacroniche del mondo meccanico.[34]

In questa legittimazione storico-politica il giudizio basa se stesso su una produzione diretta e consapevole di un presupposto da porre possibilmente su più fronti temporali: il meglio dell’umanità si dà e prova se stesso attraverso la possibilità di ritrovarsi idealmente in ciò che non l’ha attestato nel passato, che può non esserci nel presente e può non aspettarlo nel futuro della propria storia. Ecco la funzione del «segno di storia», un fenomeno storico che prova il «filo conduttore» come operante nelle serie storico-antropologiche. Il «segno di storia» è un evento empirico che cioè ordina le serie fenomeniche della storia secondo il fine del progresso. La soluzione escogitata da Kant è di trovare questo «segno di storia» in uno dei sentimenti specifici del suo concetto di sublime, l’«entusiasmo» disinteressato degli spettatori stranieri per la Rivoluzione francese. Dalla prima all’ultima Notizia Kant, la pressione filosofica che la lettura lyotardiana riserva a Kant, la pressione progressiva che cioè il dispositivo frasale riversa alle varie «transazioni» kantiane tocca nell’entusiasmo (un sentimento sublime collettivo) il momento di massima forza. E questo in virtù delle componenti razional-sentimentali di ogni aspetto di questa specifica «transazione». Il «segno di storia» è una modalità sublime del sentimento perché non vi può essere un’intuizione empirica per un’ideale della ragione ma, nondimeno, l’immaginazione spinge per produrre l’intuizione corrispondente all’oggetto frasale del progresso umano. Il frutto di «questo rapporto contrariato» fra le facoltà è appunto un sentimento per ciò che non si può presentare: dall’assenza sul piano storico-antropologico si passa alla presenza di questa mancanza nella geografia delle facoltà soggettive. In questo cortocircuito trascendentale, l’umanità trova se stessa come proiezione di una mancanza. Molto è stato scritto sul modo in cui Lyotard rivaluta la tematica del sublime kantiano, specialmente in ambito estetico.[35] Il fatto è che ci stiamo muovendo nel campo storico-antropologico e il «pontage» dell’entusiasmo non viene legittimato in modo cognitivo o etico, ma solo come pressione affettiva ed estetica di chi non è direttamente coinvolto dagli eventi che lo producono: in Kant, come ben si sa, sono solo gli spettatori della scena internazionale che possono provare e mostrare autentico entusiasmo per la Rivoluzione francese, un sentimento positivo ma disinteressato nei confronti degli avvenimenti non programmati nella Francia di fine Settecento. La legittimazione della possibilità del progresso del genere umano viene giustificata da Kant con un’affezione collettiva disinteressata. E ciò perché il concetto kantiano di entusiasmo, nascendo nell’ambito delle riflessioni estetiche sul bello e sul sublime, segue le regole del giudizio di gusto.

È opportuno accennare, in modo veloce, alla struttura delle «transazioni» kantiane in sede estetica. Nel giudizio estetico non ci può basare che sul «sensus communis», il sentimento comune (Gemeinsinn) di una comunità di giudicanti che vuole accordarsi sul bello e, per questa ragione, la regolazione avviene su un’idea di comunità che è di per sé un’idea sublime, un genere di idea di cui l’immaginazione può presentare solo i suoi surrogati, giammai i suoi concetti o intuizioni.[36] La «transazione» sul «sentimento estetico» tra chi vorrebbe promuovere a un rango universale il bello sentito e chi invece nega tale universalità vede appunto la soluzione, come ben ricostruito in Kant anche da Lyotard, dell’istituzione del «sensus communis»: almeno il sentimento del bello tra queste due parti è comune e, chiosa Lyotard: «altrimenti non potrebbero neppure trovarsi d’accordo sul fatto che sono in disaccordo. Questo sentimento prova che c’è tra loro un legame di “comunicabilità”».[37] Tale minimale condivisibilità sentimentale diventa un «legame», tanto in Kant quanto in Lyotard, che cerca di raggiungere un «consenso» sul senso dell’idea stessa del bello. Inoltre, l’ambito di questo giudicare è estetico perché non si passa neanche attraverso la mediazione di quel concetto della ragione che, in sede etica, Kant chiama idea di libertà.[38]

Tornando ora alla seconda «transazione» dello storico-politico nel Dissidio, quella cioè sul «segno di storia», la sublimità dell’entusiasmo è tutta qui, nella sua presa comunitaria diretta, nel non richiedere la mediazione razionale dei concetti e, tuttavia, nel suo avvenire a priori attraverso il gusto. In Lyotard questo significa una cosa in particolare:

il sentimento sublime giudica senza regola. Ma, come il giudizio del bello, ha comunque un a priori che non è una regola già universalmente riconosciuta bensì una regola di attesa della sua universalità. È a questa universalità in istanza o in giacenza che fa appello il giudizio estetico.[39]

L’entusiasmo è posizionato «agli estremi del sublime» ed è come se, agli occhi di Lyotard, in quanto sentimento del sublime, esso fosse il punto omega di Kant nell’affrontare l’«eterogeneità», ovvero la materia di cui sono fatti i dissidi. Le «transazioni» e i vari dissidi nell’«arcipelago» trascendentale delle Notizie Kant raggiungono qui e ora il loro zenit perché è nella tematica dell’entusiasmo che Kant per Lyotard finalmente chiarisce il fine intrinseco verso cui mira la natura. Tale finalità sublime è percepibile in Kant soltanto attraverso l’aspetto maggiormente indipendente e sovrano che l’umanità secondo lui possiede, la cultura, oppure, detto in altri termini, il volgere la riflessione verso le idee della ragione, gli «incondizionati». L’entusiasmo come «segno di storia», se originato da un fenomeno non causale nel presente, nella fattispecie la Rivoluzione francese, presuppone di per sé il progresso di un cultura già ampiamente sviluppata nel passato per essere percepito nell’attualità e, conseguentemente in Kant, l’evento empirico che origina l’entusiasmo spinge per un allargamento via via sempre più cosmopolitico di se stesso, in quanto esso è ormai fonte riconosciuta di progresso.[40]

Si è in grado ora di intravedere l’obiettivo filosofico finale di Lyotard nei confronti di Kant, la meta conclusiva verso cui tende il suo mostrare come ogni volta i vari dissidi delle differenti ingegnerie speculative delle tre Critiche siano sempre pontati e quindi in qualche modo obliati da Kant. Essendo il concetto di dissidio lyotardiano incentrato sulla difesa di un sentimento che non fa che attendere tragicamente di essere frasato nel proprio idioma – di un sentimento che dovrebbe esprimersi al di fuori dei regimi imposti al fine di trasmettere tutta la profondità del torto subito – si capisce bene la preferenza di Lyotard per le analisi kantiane del sublime. L’ultima Notizia Kant, la quarta, ricapitola pazientemente tutto il lavorio compiuto da Lyotard nelle altre tre Notizie, una paziente analitica tutta diretta a far emergere il sentimento del sublime kantiano come la figura filosofico-antropologica terminale dell’intera umanità occidentale. Solo che nel Dissidio, dall’entusiasmo kantiano si passa al suo contrario speculare, la «tristezza» (chagrin) novecentesca provata da chi assiste al crollo materiale di quei «segni di storia» che avrebbero dovuto attestare il progresso della grand récits moderne. Questi veri e propri segni negativi di storia sono per Lyotard: “«Auschwitz”», il nome metonimico per lo sterminio nazista degli ebrei europei; le varie repressioni sovietiche nell’Europa dell’Est, e anche quelle avvenute nel 1968 da parte delle democrazie liberali nei confronti dei moti studenteschi; ulteriori segni negativi di storia sono, infine, le grandi crisi economiche, da quella del 1919 a quella del 1974-1979. E conclude Lyotard: «i passaggi promessi dalle grandi sintesi dottrinali danno su sanguinose impasses».[41]

È opportuno ora, dopo aver analizzato nel dettaglio la lettura lyotardiana di Kant presente nel Dissidio, passare all’interpretazione lyotardiana di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Nell’unica Notizia Hegel il dispositivo frasale si concentra sui modi in cui il genere speculativo ingloba sia l’agonistica sia il dissidio come propri momenti e si concentra, quindi, sulle modalità in cui lo speculativo egemonizza e riduce la contesa argomentativa asimmetrica come forme di una più generale autoprocessualità del medesimo. Ho deciso di riservare alla discussione lyotardiana di Hegel la posizione finale in questo mio scritto perché, come è facile intuire, il principale bersaglio filosofico di tutto il libro è sia la dialettica hegeliana che la sua sottilissima capacità di trasformare tutti i presupposti del filosofare in posizioni del Geist – ovvero, il pre-giudicare di Hegel.[42] Ma anche la rivalutazione lyotardiana del cattivo infinito di Kant, della eterogeneità delle facoltà kantiane come anche la riproposizione del sentimento del sublime (intesto come spinta comunitaria), puntano tutte chiaramente contro Hegel. Lyotard fa cioè giocare un Kant elevato al massimo grado dell’inconciliabilità contro l’Hegel campione della permutazione continua della Sostanza in Soggettività. È stato già sottolineato come Lyotard sia il più kantiano fra i poststrutturalisti francesi della seconda metà del Novecento;[43] nondimeno, c’è più di un’occasione in cui Lyotard dimostra un’ambigua affiliazione hegeliana – e Althusser ha spiegato piuttosto chiaramente il rapporto di reciprocità che deve esserci fra i nemici in filosofia.[44]

Il genere della dialettica speculativa hegeliana non può che usare frasi e quindi presenta una determinata politica delle loro concatenazioni. Il meccanismo hegeliano viene riattivato nel dispostivo frasale di Lyotard per mostrare sia la produzione della sua legittimazione frasale che la relativa «permutazione» delle quattro istanze. Come sappiamo, ciò che muove Hegel nell’erigere l’edificio della propria dialettica speculativa è, fondamentalmente, l’esigenza di superare l’arbitrarietà delle determinazioni contenutistiche dell’intelletto. Nel Dissidio la domanda che in Hegel viene fatta valere dall’inizio è: «come evitare che la relazione (sintesi) fra il predicato e il soggetto di un giudizio sia arbitraria?».[45] È per risolvere quest’esigenza nasce una nuova soggettività in filosofia che deve unire il soggetto della frase e quello delle mutevoli determinazioni dell’oggetto in modo incondizionato. Nello svolgersi della logica speculative, per Lyotard, è sempre il «Selbst» del Geist hegeliano che nella frase di partenza viene preso come referente mentre, nella frasi successive, esso ne diventa senso, destinatore e destinatario. Il contenuto immediato di conoscenza (Selbst come referente) diventa autoconoscenza mediata del proprio nome nel sopprimersi di quelle differenze oppositive e intellettuali con cui esso si scontra, e questo avviene attraverso l’unificazione razionale e reciproca delle stesse differenze oppositive (Selbst come senso). In queste trasformazioni che devono superare l’immobilità dell’intelletto, i referenti delle frasi intellettuali diventano i sensi delle frasi della ragione, i suoi concetti. Il Selbst diventa quindi, sempre e comunque, il destinatario finale, il «per noi» di chi è già da sempre nello speculativo. Nei vari «cambiamenti di “soggetto”», il dispositivo frasale rivela che i passaggi dall’immediatezza alla mediazione sono delle continue creazioni di «un metalinguaggio su un linguaggio-oggetto» e, per Lyotard, nello svolgersi di questa autoprocessualità, l’energia della dialettica speculativa si trova tutta nella «Doppelsinnigkeit», nella «Zwifelhaftigkeit» e nei sensi opposti delle parole, frasi e concetti impiegati da Hegel.[46] Soltanto nella fase finale e assoluta del Geist l’equivocità dei termini, dei concetti e delle proposizioni impiegate verrà eliminata. Il genere speculativo però, alla fine, non produrrà un metalinguaggio diverso dalle lingue-oggetto via via inverate, sarà soltanto la somma e la storia di queste permutazioni mediate ogni volta dall’avvento delle somme precedenti – il farsi esplicito dell’implicito nella terminologia dell’inferenzialista hegeliano Robert Brandom­. Comunque, quando Lyotard riflette nei propri termini sul modo in cui Hegel realizza le proprie permutazioni istanziali, la sua critica non può che rilevare l’innegabile potenza del dispositivo speculativo di Hegel:

il Selbst si toglie, si leva da un’istanza verso l’altra, dal senso in sé (referente) verso il senso per sé (destinatario) ma si mantiene e si eleva perché si riflette nello speculum dell’universo di frase. Questo discorso speculativo pretende di non far altro che liberare il movimento infinito di alterazione del Selbst che è in potenza nell’universo della più piccola frase in conseguenza della sua disposizione in più istanze. Esso lascia percorrere al Selbst le relazioni situazionali che uniscono le istanze nell’universo di frase.[47]

Questa frasatura dei meccanismi dialettico-speculativi è il momento in cui nel Dissidio il dispositivo frasale espande e maggiormente apre se stesso. È come se Lyotard stesse malvolentieri attestando quanto Hegel si sia spinto, seppur illegittimamente ai suoi occhi, in un genere di frasatura che continuamente «ponta» l’eterogeneità. Ciò che però Lyotard non può mancare di riconoscere è come l’eterogeneità in Hegel venga «pontata» innestando non materiale esterno a essa ma, al contrario, permettendo la proliferazione dell’operazione di «pontaggio» soltanto attraverso una permanente autoesplicazione frasale.

Ad ogni buon conto, sono tre per Lyotard le regole «non derivate» e quindi imposte che fondamentalmente governano la formazione e il concatenamento delle frasi nel genere speculativo e che egli, nella Notizia Hegel, ricava analizzando primariamente La scienza della logica. La prima è «la regola di equivocità», la seconda è la regola di «derivazione immanente o regola paradossale», mentre l’ultima è quella «di espressione o risultato». Questi tre presupposti traducono in ambito frasale i più generali momenti dialettici dell’inizio immediato e astratto, quello della negazione-contraddizione lacerante e, infine, quello della sintesi razionale dei risultati contraddittori dell’intelletto. La prima regola di «equivocità» attesta che nella determinazione iniziale, il contenuto di ciò che viene immediatamente affermato è vuoto e contiene i propri opposti, ad esempio dire essere è dire nulla. La frase, grazie alla regola di equivocità, «co-presenta» più universi e istanze. Azionando quindi la seconda «regola di derivazione immanente», a questo punto si può concatenare su questo stallo della coincidenza vuota mostrando come la prima frase e la sua negazione determinata si dissolvano reciprocamente l’una nell’altra – in modo però non ancora esplicito. In questo passaggio specifico del concatenamento speculativo, la «derivazione immanente» permette di legare un’identità al suo opposto e di manifestare la contraddizione come l’altra faccia della posizione identitaria iniziale. La «regola di derivazione immanente» risulta essere per Lyotard «lo sviluppo dell’equivocità in forma di implicazione immanente».[48] Il genere speculativo con una terza frase – la sintesi razionale degli opposti – esprime in seguito il passaggio, in modo esplicito, del reciproco fronteggiarsi, scontrarsi e, quindi, negarsi degli opposti. Tale concatenazione, questo reciproco attacco annichilente, segue il terzo presupposto del genere dialettico-speculativo, la «regola del risultato». In questa terza frase che dispiega le prime due, il passaggio raddoppiante di negazione da un termine all’altro nel reciproco richiedersi diventa completamente manifesto, viene cioè esplicitato e quindi affermato nel momento stesso in cui accade: il divenire del passaggio risulta tematizzato in modo definitivo come forma del tempo che somma in serie il negarsi degli opposti. E, come è facile presagire, la serie di queste frasi trova il proprio senso finale proprio nella terza ed ultima frase – ecco la frasatura lyotardiana della processualità razionale hegeliana. Dalla Fenomenologia dello spirito alla Scienza della logica, il noi speculativo, meglio, il für uns come posizione conclusiva del calvario dell’esperienza storica della coscienza – il suo Bildungsroman fenomenologico –, cede il passo al farsi e al disfarsi di un pensiero che si pensa nella progressiva eliminazione di ogni sua forma ancora parziale, di ogni suo presupposto accidentale. E che queste forme siano i suoi nomi, pronomi o la loro relativa memoria lessicografica, nulla blocca l’autoesplicazione frasale del Geist.

Vi è però un presupposto ben più forte delle tre regole appena viste, che nel Dissidio determina il principio di quella macchina hegeliana «onnivora» dalla quale è impossibile uscire una volta entrati – Lyotard ripete spesso che «on ne sort pas du speculative», neanche con la dialettica negativa di Adorno che ne attesterebbe ancora il funzionamento. Più precisamente, l’entrata nella dialettica speculativa avviene quando si presuppone un «Selbst polimorfo» al posto del soggetto. Il polimorfismo sarebbe solo il miglior modo filosofico per rendere conto di quella sostanza unica che abbiamo già discusso nelle pagine precedenti di questo saggio, quel magma di «essere e non essere», l’appercezione di sostanza che non si può provare filosoficamente ma solo presupporre in modo oscuro. Questa appercezione di sostanza, ed è stato già sottolineato qui, è il vero grande presupposto a cavallo fra ontologia ed epistemologia alla base di tutto Le différend. Ciò che va ricordata ora è la mossa di Lyotard: quando egli assimila la produzione del presupposto-imposto hegeliano del «Selbst polimorfo» a questa materia primordiale inverificabile, l’autore del Dissidio ripropone tutti i meccanismi di designazione attiva della sostanza primitiva già evidenziati nella Notizia Antistene e poi nella Notizia Aristotele.[49] In altri termini, questa materia primordiale sarebbe quel referente impossibile posto nel cuore della prima frase sussurrata da destinatore sconosciuto della prima Notizia Kant, quella che cioè frasa la Critica della ragion pura.  Ora, nella Notizia Hegel, Lyotard giudica in tal modo la tattica hegeliana di assimilare il presupposto infino di un «Selbst polimorfo» a una materia primordiale di origine assolutamente sconosciuta: «l’esame filosofico non rivela mai un simile soggetto-sostanza. Rivela delle frasi, degli universi di frase e delle occorrenze, rispettivamente delle presentazioni, dei presentati e degli avvenimenti».[50] Il pre-giudicare hegeliano aggira qualsiasi obiezione perché può generarle tutte e, quindi, confutarle tutte –Colletti echeggia Lyotard: «Hegel include tutto; il principio della totalità dialettica non esclude nulla».[51] Una volta ammesso questo Selbst iniziale ma oscuro, lo si intende successivamente come riflessione, rifrazione e quindi proiezione infinita di una materia sì impresentabile ma che, ogni volta in modo diverso, essa viene riempita con qualunque possibile posizione e, alla fine, qualunque concatenamento dialettico diviene possibile. La legittimazione e la relativa delegittimazione di ogni contenuto, passaggio e concatenamento diventa solo una questione di proiezioni più o meno spirituali. L’obiezione di Lyotard a questa politica filosofica del presupposto infinito di Hegel – il Selbst che può presuppone qualunque posizione – investe la radice primaria e il compito stesso del filosofare e, a ben vedere, non potrebbe essere diversamente visto che Lyotard in Hegel sta affrontando il proprio Doppelgänger luciferino.[52] Abbiamo già visto come nel Dissidio la filosofia sia il questionare continuo dei propri presupposti; ora, scontrandosi con Hegel, il più grande maestro della critica dei presupposti filosofici, quello che praticamente Lyotard cerca di fare è di erigergli contro la barriera del proprio dispositivo frasale distinguendo, a tal fine, fra generazione delle regole, cronismo del pre-giudicare e serializzazione delle frasi:

Non si può evidentemente obiettare alla presupposizione del Selbst che “in realtà non è così”. Si può obiettare che è una regola di un genere di discorso, il genere metafisico che cerca di generare le proprie regole, ma che precisamente questa regola non può generarsi a partire dal discorso. Che il generamento della regola sia ciò che è in gioco nel discorso (oppure: che “frasi” per insegnare come si possa “frasare” ciò che si “frasa”), è questa la regola nel genere filosofico. Si “comincia” sempre a “frasare” senza sapere se ciò che si “frasa” è legittimo. Giacché, fino a quando la regola è posta in gioco nel discorso, essa non è la regola, e il discorso si concatena come può, per tentativi. Quando poi essa è “identificata” come la regola del genere nel quale ci si cimentava, la posta in gioco in questo genere cessa di essere questa regola e il genere di essere il tentativo o la critica. È così che la regola “speculativa”, quella del Resultat, la terza, resta necessariamente presupposta.[53]

La «regola del risultato», avvenendo come terza frase, prescrive di frasare sia le due precedenti che se stessa per arrivare alla sintesi speculativa esplicita. Ma questa regola-frase, azionando le frasi dall’interno, in quanto frase regolatrice delle successive, andrebbe «logicamente» posta prima di tutte le altre. Se però la si ponesse prima delle altre, in quanto frase-regola prodotta e trovata dalle precedenti, sarebbe alquanto palese l’aporia del suo riferirsi a frasi non ancora avvenute, inventate e quindi impensate. Come è noto, in Hegel e nel suo genere dialettico-speculativo, l’immediatezza della posizione iniziale, il suo essere il cominciamento dell’odissea del Geist, viene «generata» dalla mediazione perfetta di se stessa con l’altro da sé che però avviene soltanto nella posizione finale. Quindi, la vera legittimità dell’immediato è tale solo alla fine del processo conoscitivo-esperienziale; in Hegel la legittimazione filosofica diviene reale sempre e solo nel für uns. Per Lyotard il concatenamento hegeliano segue questa regola invisibile e tale politica della legittimazione speculativa risolve sempre in questo modo tutti i dissidi, le asimmetrie e le «transazioni» dialettiche prodotte – non c’è delegittimazione che tenga. Il dispositivo frasale del Dissidio lavora al massimo dei suoi giri quando deve azionarsi sulle articolazioni speculative hegeliane, sulle cinetiche ed energetiche dei flussi frasali che il dispositivo speculativo a sua volta aziona. L’accusa qui è chiara: la filosofia, da essere ricerca e critica incessante dei presupposti imposti, viene sin dall’inizio crepata e rimodellata per fingere di cercare e trovare ciò che ha da sempre prodotto e imposto a ogni suo passaggio, frase e transazione – ovvero, la certezza dell’incessante ritorno su di sé del «soggetto polimorfo»:

La prima frase è stata concatenata con la seguente e le altre conformemente a questa regola. Ma quest’ultima è allora soltanto presupposta, e non è generata. Se non la si applica sin dall’inizio, non è necessario che la si trovi alla fine, e, se non è alla fine, non sarà stata generata, non era quindi la regola che si cercava.[54]

La preferenza lyotardiana del far giocare Kant contro Hegel permea in modo profondo il capitolo del Dissidio intitolato Il risultato, capitolo che contiene la Notizia Hegel e che si concentra sul modo in cui il «nome “Auschwitz”» sia l’indialettizzabile, il non superabile, quella posizione impossibile da inverare che secondo Lyotrard bloccherebbe e spaccherebbe il meccanismo dialettico-speculativo nel suo insieme. Di nuovo, è facile intuire come nel libro si stia giocando una partita doppia: da un lato contro Hegel e, al contempo, in linea ma anche contro Adorno. La verità è che Lyotard sta cercando di combattere un unico nemico, la trasformazione e permutazione della morte del finito nell’infinito (del dialettico-speculativo); un unico intollerabile limite, la morte in se stessa del finito, intesa però qui come momento filosofico dell’intrascendibile e che ho emblematizzato nel titolo di questo saggio usando una prosopopea lyotardiana, la «testa di Medusa dentro». La tesi di Lyotard è che «“Auschwitz”» sia tritolo filosofico per la dialettica hegeliana, poiché la morte e il negativo che il nome metonimico Auschwitz comporta sono «qualcosa di peggiore della morte».[55] Seguendo lo schema processuale del genere dialettico-speculativo, il referente della frase-Auschwitz dovrebbe diventare, attraverso le «permutazioni» del Selbst, il destinatore e destinatario di quella successiva, dovrebbe cioè per Lyotard «nominarsi». Ma è proprio la possibilità di dialettizzare la morte, rendendola quindi «“bella morte”, quella magica» come la chiama Lyotard, ciò di cui sia il nome che l’esperienza-Auschwitz ne dichiarano l’impossibilità, ciò di cui ne dichiarano «la morte».[56] Nel dispositivo frasale, l’indialettizzazione della morte procurata nei campi di sterminio nazisti, l’impossibilità di rilevare anche il lato peggiore del negativo avviene perché ciò che dovrebbe risultare nella frase che prende la frase-Auschwitz come referente, non riesce a produrre un «noi», a ricavare un Selbst dall’esperienza dei campi di sterminio. I silenzi dei sopravvissuti alla Shoah assumono qui tutto il loro carattere filosofico e Lyotard li interpreta proprio in questo senso, sommandolo anche a quello con cui i sopravvissuti delegittimano i negazionisti come loro interlocutori ragionevoli.[57]

Nel capitolo chiamato Il risultato, il problema della formazione di una comunità dei sopravvissuti e il loro silenzio delegittimante non sono il vero motivo filosofico dell’arresto del meccanismo dialettico-speculativo. La frase «“dopo Auschwitz”» gira a vuoto in Lyotard poiché essa non produce, nel momento stesso in cui essa avviene, «nessun Selbst in grado di nominarsi nominando “Auschwitz”».[58] L’assenza della costituzione di un noi che dovrebbe rilevare i campi di sterminio risiede nel rapporto totalmente asimmetrico e impossibile tra chi enuncia la prescrizione di morire, i nazisti, e chi è chiamato ad attuare questo obbligo, gli ebrei fatti prigionieri. Questo passaggio dell’economia frasale lyotardiana è assolutamente fondamentale ed è pertanto opportuno inserire qui una breve spiegazione sulla produzione legittimante del soggetti delle frasi normative. O, detto in altri termini, la produzione di ciò che può essere inteso come un noi fra l’obbligante e l’obbligato. In generale e nei casi tradizionali, quelli cioè accettati come legittimi in materia di rappresentanza politica, il passaggio sull’abisso dell’incommensurabilità fra obbligante e obbligato (il loro dissidio), viene pontato grazie alle frasi normative che autorizzano e legittimano l’obbligo emesso dal «destinatore della normativa» nei confronti del «destinatario della prescrittiva». Le normative sono le frasi di convalida in ambito di politica deliberativa e Lyotard  le esemplifica in questo modo: «È una norma per y che “è obbligatorio per x compiere l’azione α»; oppure: «Noi promulghiamo come norma che è un obbligo per noi compiere l’azione α».[59] Nelle democrazie rappresentative questo passaggio sull’eterogeneo viene reso possibile grazie al pronome “noi” che non solo collega destinatore e destinatario ma rende virtualmente universale e inclusiva la stessa prescrizione: il “noi” del legislatore è lo stesso “noi” di quello dei cittadini o del popolo. La frase normativa che convalida l’obbligo enunciato nella prescrittiva riposa sulla «commutabilité» (il «noi omogeneo») fra obbligante e obbligato. Il «pontaggio» della normativa, letto attraverso il dispositivo frasale, lavora per neutralizzare due problemi, due «eterogeneità» in Lyotard. Il primo problema è quello del pronome noi che da una frase all’altra, dalla normativa alla prescrittiva, cambia posizione nell’universo di frase quando, da destinatore della prima, esso diventa destinatario della seconda. Il noi, o il nome proprio che può variamente prendere, in pratica somma degli io che normano a dei tu che subiscono ed è per questo motivo che un obbligo, per essere efficace, per diventare norma, necessita di almeno due frasi: è necessaria una normativa per legittimare una prescrittiva. E questo è il «pontaggio» della prima «eterogeneità». Il secondo problema riguarda il modo di irrigidire la risposta dell’obbligato in un’unica e possibile forma, cioè di pre-giudicare il concatenamento che deve seguire alla prescrittiva. Ed è questo specifico pre-giudicare quello che trasforma la ricezione libera di una prescrittiva in un ordine indiscutibile. In entrambi i casi, nel primo «pontaggio» come nel secondo, la libertà di delegittimare sia l’universalità del destinatore della normativa che l’unicità della risposta all’obbligo prescritto al destinatario vengono oscurati e obliati dal loro condividere il medesimo pronome identificativo. Come per esempio nel caso del «Noi italiani»:

Ma non è legittimo – è anzi illusorio, nel senso kantiano di una illusione trascendentale – presupporre da una parte un soggetto-sostanza, che sarebbe anche un “soggetto dell’enunciazione”, quando nella prescrittiva non è il destinatore, e dall’altra la permanenza di un sé, quando da una frase all’altra tale “soggetto” salta da una situazione d’istanza all’altra. Il suo nome proprio permette di situarlo in un mondo di nomi, ma non in un concatenamento di frasi a regime eterogeneo, i cui universi, come le tensioni che si esercitano su di essi, sono incommensurabili. Il noi sarebbe il veicolo di questa illusione trascendentale, a metà strada tra il designatore rigido (costante) che è il nome e il designatore “attuale” che è il pronome singolare. Non è sorprendente che, nell’“attualità” dell’obbligo, il noi che si suppone unire l’obbligato e il legislatore sia minacciato di fissione.[60]

Anche in questo caso è fondamentale la funzione commutativa del nome proprio, un nome proprio collettivo in questo caso, il «Noi italiani». Nella fattispecie dell’obbligo estremo contenuto in un ordine di morire, ciò che permette di trasformare la morte, da fine inaggirabile del finito, in «bella morte o «morte magica» è, da una parte, la fusione del nome proprio in quello collettivo e, in seguito, la sua reiterazione ogniqualvolta questo nome collettivo venga evocato. Si accetta l’ordine di morire o si accetta come legittima tale opzione (dalla famiglia, alla patria, esercito o fede) perché in tal modo, morendo, il destinatario dell’ordine di morire sopravvive per sempre dato che entra a far parte dell’autorità destinatrice per cui si è sacrificato. La decisione individuale di compiere un sacrificio esiziale si accontenta di scomparire nella certezza della propria iterabilità comunitaria – l’io del presente che accetta di scomparire per sempre nel noi del futuro. Tutto questo tradotto nelle dinamiche del dispositivo frasale significa che il nome proprio del sacrificante si installa e si fonde nel nome proprio collettivo per cui esso muore: «egli sfugge alla morte con l’unico mezzo conosciuto, la perpetuazione del nome proprio. (…) Tale è la “bella morte” ateniese, lo scambio del finito con l’infinito, dell’eschaton contro il telos, il Muori per non morire».[61] Concludendo, il meccanismo dialettico-speculativo può quindi azionarsi perché se anche l’io della seconda frase scompare, esso rinasce toujours déjà per via della sua fusione nel “noi” specifico della terza frase, la frase che prende la precendente come referente.

Tornando alla lotta fra dispositivo frasale e dispositivo speculativo, secondo Lyotard la dialettica hegeliana ad Auschwitz si incepperebbe perché questa commutazione o «enchaînement légitimant» del sacrificante nel noi dell’obbligante non può avvenire: «fra l’SS e l’ebreo non c’è neppure dissidio».[62] È su questa breve tesi che Lyotard fonda tutta la struttura antihegeliana del Dissidio. Il Selbst «polimorfo» nei campi di sterminio non produce nessun risultato dialettico perché lì ciò che viene a mancare, nell’esperienza del negativo, è proprio quel “noi” che dovrebbe rilevare tale esperienza – Lyotard parla di «disautorizzazione» e «dispersione» come conseguenze della «para-esperienza» Auschwitz. Cerchiamo di capire meglio. La fusione in un “noi” specifico, anche in caso di morte, si produce in chi decede poiché questi viene investito da una frase di obbligo, ne è il destinatario, e quindi tale posizione di ricezione lascia sempre aperta la possibilità di una commutazione fra legislatore e obbligato. E, in questo senso, c’è sempre la possibilità che l’obbligo possa investire anche il legislatore perché egli non si pone al di fuori della norma che promulga. Il punto focale in Lyotard è che non c’è spazio neanche per il dissidio nei campi di sterminio perché nei lager «ciò che ordina la morte è esentato dall’obbligo, e ciò che la subisce è esentato dalla legittimazione».[63] Lo abbiamo già visto nella «belle mort», l’obbligo di morire sacrificandosi pone il destinatario che muore come destinatore delle frasi future grazie alla fusione nel nome collettivo dell’obbligante. È con questa fusione che il destinatario morto torna a essere il primo destinatore vivo negli obblighi successive. Sì, è vero, d’ora in avanti il sacrificato sarà destinatore solo in modalità indiretta ma ciò non toglie che la «concatenazione legittimante» sarà da qui in poi sempre possibile. La «concatenazione legittimante», l’«enchaînement légitimant» è al cuore dell’incantesimo presupposto dalla «mort magique». All’opposto, nel nome del legislatore SS non vi è nessuno spazio simmetrico o anche asimmetrico per l’ebreo deportato, non vi è nessun elemento comune fra loro, che sia questo arcipelago, idioma, genere o tribunale. Auschwitz nel Dissidio è solo il nome proprio per questo campo devastante in cui due frasi accadono senza spartire nulla l’una dell’altra. Il nome proprio collettivo del nazismo ha eliminato ab initio qualunque possibile commutazione a partire da se stesso perché, nel suo «“terrore” senza tribunale», ha pre-giudicato tutti gli altri nomi possibili come impuri, li ha già da sempre esclusi da ciò che rende la purezza ariana l’estrinsecazione storica di un privilegio innegoziabile. La mancanza perfino di dissidio fra nazisti ed ebrei avviene perché «la délégitimation est complète»:

Ora, il deportato non può dare una vita che non ha il diritto di avere. Il sacrificio non è fatto per lui, come l’accesso a un nome collettivo immortale. La sua morte è legittima perché la sua vita è illegittima. Occorre uccidere il nome individuale (ecco la ragione del numero di matricola), insieme al nome collettivo (ebreo), in modo che non rimanga alcun portatore di questo nome capace di  riprendere su di sé e eternare la morte del deportato. Occorre quindi uccidere questa morte, ed è questo che è peggiore della morte. Perché se la morte può essere annientata, è perché non c’è niente da far morire. Neanche il nome di ebreo.[64]

La Shoah, questo avvenimento storico mostruoso, in Lyotard epitoma sia «l’esplosione» della legittimazione della prescrittiva che, parimenti, la «finzione» di ogni «concatenamento legittimante» nel normare una prescrizione. Ciò che per Lyotard esplode nei campi di sterminio è il “noi” del soggetto dialettico-speculativo dell’umanità occidentale.[65] La Shoah non produce alcun risultato razional-speculativo ma soltanto un «sentimento» che nasce dalla giustapposizione di due frasi che, in verità, sono due silenzi visto che la frase-SS non riconosce neanche ciò che stermina e, simmetricamente, la frase-deportato muore non sacrificandosi a nulla. Ecco di nuovo il dispiegarsi del cuore antihegeliano del Dissidio: «fra l’SS e l’ebreo non c’è neppure dissidio, perché non c’è idioma comune (quello di un tribunale) in cui un danno potrebbe almeno venir formulato, magari anche al posto di un torto».[66] È chiaro quindi come la cifra portante della critica lyotardiana a Hegel risieda tutta nella sua incontrollabile abilità di fare e disfare incessantemente le soglie e i confini delle istanze, nella sua libertà illegittima di spostare a proprio piacimento i margini e i valichi presenti nei generi di discorso. Nel fatto che il genere dialettico-speculativo sia capace di generare dentro di sé, già da sempre, i presupposti filosofici per rilevare, pontare e superare con distacco razionale anche e soprattutto quella devastante mancanza di dissidio tra la frase-SS e la frase-deportato. L’obiezione avanzata contro Hegel nel Dissidio, anche se non formulata espressamente da Lyotard, è di aver messo appunto un dispositivo frasale capace di ricavare risultati razional-speculativi anche da avvenimenti storici nei quali la delegittimazione di chi subisce un torto è pressoché totale. Proprio ciò che Lyotard più rispetta in Kant – l’attenzione per l’eterogeneità delle facoltà e dei regimi di frase – è quello che maggiormente non sopporta in Hegel, la libertà di valicare qualunque abisso e incommensurabilità attraverso il pontage dialettico-speculativo, la libertà di valicare anche l’Abgrund più inimmaginabile e mostruoso.[67] Quello che però preme sottolineare qui è il fatto che, se per Lyotard Hegel è riuscito a sconfiggere solo illusoriamente la morte con la sua «sofistica razionale», la conseguenza filosofica da trarne non è necessariamente l’installazione, all’interno della agonistica frasale, della paralisi prodotta da un finito di per sé indialettizzabile. Installazione o incorporazione di una sorta di «testa di Medusa» che paralizzerebbe ogni articolazione politica ed «enchaînement légitimant» degni di questo nome.[68] E questo perché lo scioglimento di un’illusione trascendentale che permette di superare surrettiziamente una impasse non comporta necessariamente la riproposizione di questa come limite invalicabile. La «testa di Medusa dentro» è la morte intesa come morte del finito nel presente vivente che, tradotta in ambito ontologico, cioè in discorso dell’essere e della sostanza prima, spezza la continuità di quella «rappresentazione permanente» il cui contenuto salvifico abbiamo già visto operare in Kant. E, inoltre, va comunque registrato come l’incorporazione della morte indialettizzabile spacchi in toto lo stesso dispositivo frasale del Dissidio, nel senso che l’asimmetria assoluta fra SS ed ebreo, la delegittimazione totale che Auschiwitz presuppone in Lyotard, l’impossibilità quindi di qualsiasi permutazione istanziale per ricavare un “noi” speculativo, è come se tutto quello che  nel Dissidio viene messo in campo contro Hegel assumesse, a ben guardare, un valore distruttivo anche e soprattutto per i concetti base del libro: se non c’è nessuna lite, torto o neanche un dissidio fra SS e l’ebreo, se nulla più fuziona quando l’indialettizzabile entra in scena, allora gira a vuoto anche lo stesso dispositivo frasale. Un dispositivo costruito proprio per difendere il sentimento di un torto che, per farsi riconoscere come reale da chi l’ha perpetrato, deve accettare di esser ridotto a mera lite e, quindi, acconsentire alla delegittimazione proprio di ciò su cui il torto subito verte.

La questione dell’indialettizzabile ruota qui sulla vertigine filosofica che riguarda la possibilità del senso della morte dell’individuale, del finito.[69] Intesa in questo senso, la «testa di Medusa dentro» ricorre ossessivamente in tutto Le différend dato che Lyotard dissemina compulsivamente nel proprio libro la possibilità della sparizione della sostanza attraverso le insistenti domande sull’«Accade?» (Arrive-t-il?) e sul «C’è» (Il y a).[70] La tesi che Lyotard sembra seguire in tutto il libro è che l’esperienza del soggetto sia un infinito pontage tra questi buchi e abissi ontologici che vengono ogni volta riempiti e pontati, da un parte, attraverso le permanenze rigide dei nomi del soggetto e, in modo analogo, dal pre-giudicare inteso come salvaguardia della continuità rappresentazionale. In questo senso, assunto il dissidio fra destinatore della «frase-materia» e quello della «frase-forma» come evidenziato della prima Notizia Kant, per Lyotard risulta impossibile non pre-giudicare in qualche modo la risposta all’«Accade?», dal momento che è impossibile non «presentare» in qualche modo «la presentazione» – la Darstellung per lui è sempre una Vorstellung. Quello nel Dissidio di Lyotard è un costruttivismo che si rivolta continuamente e permanentemente contro se stesso, contro il proprio inevitabile pontaggio frasale perché la filosofia lyotardiana è conscia di cosa comporti politicamente l’atto stesso del pontare sulla «frase-materia»: la presentazione è sempre negazione e repressione che l’attualità comporta nei confronti dei possibili esclusi e rimossi. Il concetto di différend è la rivolta di questi esclusi verso il realismo giuridico-filosofico che un determinato possibile, divenuto intanto l’unico attuale, erige continuamente per screditare, deligittimare e quindi obliare l’emergenza e il ritorno dei possibili rimossi. Queste possibilità rimosse non hanno altri strumenti che il sentimento del dissidio e il silenzio del rifiuto – ecco la politica della delegittimazione lyotardiana nel Dissidio. L’agonismo frasale lyotardiano è un costruttivismo che non avanza mai neanche di un millimetro tutto preso, com’è in effetti, dal dissidio fra l’attualità e la possibilità, il dissidio primordiale che è la sede originaria delle infinite politiche lyotardiane di delegittimazione. E questo dissidio fra l’attualità e la possibilità, che ritorna sempre in ogni specifico pre-giudicare storico che giudica le scelte dei nomi, è anche l’origine primigenia della «politica della resistenza» che sostanzia l’atomismo agonistico. Una «politica della resistenza», sempre attuata dalle minoranze che subiscono torti, è poi l’unica specie di politica che Lyotard sembra approvare. Almeno nel Dissidio, dato che negli anni successivi egli dichiarerà il venir meno anche della fiducia nella politica, intesa questa come resistenza delegittimante.[71]

Lo scarto che dal moderno al postmoderno Il dissidio mette in scena è quello di provare a concepire una socializzazione già da sempre socializzata ma che diventa conscia di tale autoproduzione: se c’è sempre una frase ab initio, questo significa che nel postmoderno l’orizzonte naturale di sfondo è quello dell’autoproduzione del moderno, e non più quello che nella modernità viene assunto come stato iniziale naturale. Il passaggio al postmoderno, ma abbiamo visto come questo termine venga rifiutato da Lyotard nel Dissidio, meglio, la torsione contemporanea attesta invece come non si possa più assumere un inizio e origine neutrale per i processi sociali, dato che questo cosiddetto stadio naturale è già da sempre sociale e quindi politico, è già da sempre frasato. L’ipotesi di Lyotard, che condividiamo, lascia però poi tale spazio iniziale alquanto vuoto nel Dissidio. E questo perché per lui riempirlo in un modo specifico significherebbe da un lato commettere un torto a tutte le altre ipotesi originarie scartate e, come se ciò non bastasse, il riempimento comporterebbe l’accettazione di una prima frase – per questo la politica per lui è soltanto funzionalità dei processi di delegittimazione.[72] D’altro canto, presentare nel luogo dell’origine le uniche figure che per Lyotard sarebbero degne di svolgere questo ruolo, Freud a Marx, avrebbe come diretta contropartita la positivizzazione di quel destinatore primo e sconosciuto della materia come visto nella frasatura della Critica della ragion pura. Significherebbe, insomma, porre sia l’astrazione reale dei rapporti sociali di produzione che una soggettività Kampflatz fra processi primari e secondari come contenuti legittimi della prima frase. Proprio quella «frase-materia» di cui il soggetto nel Dissidio non comprende nulla. Lyotard non riesce a compiere questo passaggio perché è incapace di trasformare sia Marx sia Freud in pensatori compatibili con l’ontologia del suo atomismo agonistico di natura frasale.[73] Infine, questa doppia presupposizione Marx-Freud da un lato scardinerebbe in modo irrimediabile la definizione di filosofia che Lyotard elabora nel Dissidio – «il discorso filosofico ha per regola di scoprire la propria regola: il suo a priori è la posta del suo gioco».[74] Dall’altro, se fossero assunti come prima frase, Marx e Freud detronizzerebbero Levinas e il relativo divieto in Lyotard di legittimare filosoficamente una comunità composta da alter ego interscambiabili.[75]

Proprio in virtù di tutto ciò, nel Dissidio lyotardiano la forza critica della filosofia è sì presente, ma in una modalità unidimensionale. Il termine ideologia o egemonia, per esempio, compaiono a stento nel libro, e sempre in modo generale, equivoco o mai definito. E, per una filosofia critica del linguaggio come è quella di Lyotard, il limitarsi a uno scontro frontale di frase contro frase senza poter mai contare su un’analisi degli apparati ideologici, l’accontentarsi cioè di una sorta di autonomia del frasale senza collegare l’origine economica e sovrastrutturale a ciò che ha permesso alle singole frasi di emergere o scomparire, tutto questo è per chi scrive un debito filosofico troppo caro da pagare per rimanere fedeli all’etico levinasiano. Resta comunque il fatto che Il dissidio, il testo più complesso mai scritto da Lyotard, presenti la maggiore apertura radiale da lui concessa al politico e, in conclusione, tale decisione teorica deve essere valorizzata il più possibile.


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Autunno 2012, Cape Town
Centre for Rhetoric Studies
University of Cape Town
sergio.alloggio@uct.ac.za


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L’autore riconosce il supporto ricevuto dal Research Committee della University of Cape Town (URC Accredited Incentive Award).


* La prima parte di questo saggio è apparsa sulla rivista on-line «Consecutio Temporum», 2012, no. 3,  http://www.consecutio.org/category/numero-3/

[1] Di Hannah Arendt (1906-1975), che si interessa sempre più a Kant negli ultimi anni della propria parabola filosofica, si veda il libro postumo Lectures on Kant’s Political Philosophy, ed. Ronald Beiner, Chicago, University of Chicago Press 1982; ed. it. Ead., Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, trad. it. di P.P. Portinaro, il melangolo, Genova 1990. Arendt intendeva concludere il suo La vita della mente proprio sulla Critica del giudizio e sul ruolo del giudicare (judging), dopo aver cioè dedicato le prime due parti dell’opera al pensare (thinking) e al volere (willing). Per una prima breve comparazione analitica delle posizioni di Arendt e Lyotard su Kant e il giudicare si veda David Ingram, “The Postmodern Kantism of Arendt and Lyotard”, in Andrew Benjamin (ed. by), Judging Lyotard, London-New York, Routledge 1992, pp. 119-44. Antimo Negri nella prima parte del suo La comunità estetica in Kant, Adriatica, Bari 1968², fornisce sia un’agile mappatura dei vari indirizzi storiografici novecenteschi riguardanti la Kritik der Urteilskraft («notoriamente una delle più oscure opera di Kant», p. 10), che alcune considerazioni sull’«oblio degli scritti storico-politici di Kant» (p. 36); in particolare si veda l’Introduzione e il primo capitolo, “L’atteggiamento di fronte al problema di Kant”. Per una breve analisi con materiale storiografico più aggiornato si veda di Giacomo Fronzi, “Kant e la questione della comunità estetica”, in «Idee», 2008, vol. 67, pp. 129-50, http://siba-ese.unisalento.it/index.php/idee/article/view/3524/2921

[2] D, p. 88.

[3] D, p. 89. Poco più in là: «Eppure, il dissidio con l’in sé non arriva sino al punto di assumere il suo non-senso (…). Ciò che viene assunto è il suo silenzio, ma il suo silenzio come frase impressionante, che colpisce [affectante], quindi già come segno». Qui, e nei §§159-160, c’è già tutta la base per l’affascinante lettura che Lyotard sviluppa sul popolo ebraico e sul relativo dissidio con Yahweh nel testo del 1988 Heidegger e “gli ebrei”, cit.

[4] D, pp. 89-90.

[5] D, pp. 90-1.

[6] Questa lettura squisitamente agonistica della soggettività trascendentale kantiana sembra richiamare la seconda topica freudiana, il modo in cui le istanze Es, Ego e Super-Io non fanno che scontrarsi per cercare di egemonizzare il soggetto. La sublimazione, la rimozione, la condensazione, i lapsus, il feticismo, i contenuti latenti ecc. ecc., non sarebbero in questo senso, allora, i modi lyotardiani «di avanzarsi rimostranze, lagnanze reciproche» delle tre istanze fra loro, il modo di trasformare il senso della frase-inconscio (almeno, quel che se ne può comprendere) nel senso della frase Super-Io e così via? Forse, volendosi spingere in questa metaforica bellica, le varie patologie non sarebbero che vittorie temporanee di un’istanza sulle altre due, il farle prigioniere? L’analista come peacemaker o negoziatore esterno e i farmaci come sue teste di cuoio interne? Comunque l’ultimo Freud, quello del Jenseits, imbriglierà nella sua seconda teoria delle pulsioni la tripartizione condominiale di Es, Ego, e Super-Io a due soli principi sovradeterminanti e contrastanti, la pulsione di vita e quella di morte. Ma forse, seguendo qui una traccia derridiana presente nel testo del 1980 La carte postale, queste due pulsioni contrastanti sarebbero soltanto i volti diacronoci di un unico principio generale che non fa che rallentare (Lebenstrieb) e accelerare (Todestrieb).

[7] D, p. 155.

[8] James Hatley ha dedicato alla derivazione levinasiana in Lyotard della frasatura dell’etico un suo articolo, “Lyotard, Levinas, and the Phrasing of the Ethical”, in Hugh J. Silverman (ed.), Lyotard. Philosophy, Politics, and the Sublime, New York-London, Routledge 2001, pp. 75-83. Sull’ambivalente curvatura levinasiana della nozione kantiana del rispetto in Lyotard si vedano in particolare le pp. 79-80 e 82-3, in cui si chiarisce il modo in cui Lyotard traduca il sentimento kantiano del rispetto in un’«impasse».

[9] D, pp. 156-7.

[10] D, p. 157. Sarebbe interessante approfondire fino a che punto questa produzione del soggetto etico possa incrociarsi con quella althusseriana del soggetto come effetto dell’interpellation ideologica originaria. Scrive Lyotard: «La libertà è dedotta proprio all’interno della frase d’obbligo come l’implicazione immediata di un destinatore a partire da quell’effetto che è il sentimento dello spossessamento provato dal destinatario. Non si sa di chi sia la libertà. Si sa soltanto che essa non fa che annunciarsi al destinatario della legge, attraverso il sentimento di obbligo. […] La libertà è dedotta negativamente: ci vuole una potenza d’effetto [une puissance d’effet] che non sia la causalità come spiegazione dell’esperienza perché il sentimento di obbligo abbia luogo, dato che l’esperienza non obbliga». Ibidem, corsivi miei.

[11] D, p. 158, i corsivi sono miei.

[12] Sull’importante ruolo giocato nel Dissidio dalla nozione lyotardiana di passage nell’interpretazione di Kant si veda l’articolo di Robert Havery, “Telltale at the Passages”, in «French Yale Studies», 2001, n. 99, pp. 101-16.

[13] Questa radice positivista è proprio tra le accuse maggiori che Adorno riserva a Kant e, per una veloce ricognizione delle obiezioni adorniane, si veda l’articolo di Mariannina Failla, “Due lezioni di Adorno sulla Critica della ragion pura”, in «Idee», 2005, n. 57, pp. 73-81, http://siba-ese.unisalento.it/index.php/idee/article/view/3386/2791

[14] D, p. 159.

[15] D, p. 160.

[16] D, pp. 160-1.

[17] Scrive James Williams, Lyotard & the Political, Routledge, New York London 2000, p. 95: «non vi è una vera apertura a ogni tipo di evento nella filosofia del dissidio; vi è una gerarchia nella quale il politico riguarda solo i dissidi associati al sentimento del sublime. […] [La filosofia del dissidio] ha nel proprio cuore una tristezza potente racchiusa nel sentimento del sublime, nel quale cioè il piacere di rappresentare un’ingiustizia è incatenato al dolore del sentimento che non è possibile alcuna risoluzione».

[18] Nell’intervista già citata del 1988 con W. van Rejen e D. Veerman, e in cui è praticamente in stato di grazia, Lyotard esprime chiaramente questo «principio»: «non vi è una ragione, ci sono solo ragioni. Mi baso sull’esempio, modello se posso affermarlo, di Kant. Seguo la linea del pensiero kantiano e anche, in larga misura, quella del pensiero wittgensteiniano. Trovare o provare a elaborare le regole che rendono per esempio il discorso di conoscenza possibile, regole che sappiamo appartenere a un regime generale dove sono in gioco verità e falsità, non è la stessa cosa che provare a elaborare le regole di un discorso, per esempio l’etica, nel cui regime sono in gioco bene o male, giustizia o ingiustizia; non è la stessa cosa per il discorso dell’estetica, il cui campo di gioco è definito dalla questione del bello o del brutto (o, perlomeno, della mancanza di brutto). Queste regole sono del tutto diverse. “Del tutto diverse” significa che i presupposti necessari che vengono accettati come prerequisiti per una partecipazione riuscita in un campo o nell’altro, le loro condizioni a priori – voglio dire le condizioni a priori di ciò che chiamo in senso molto generale frasi (potremmo anche chiamarle atti di linguaggio, sebbene questa caratterizzazione mi sembra produrre anche più confusione che frasi) – non sono le stesse. Questo è quanto mostra Kant quando passa dalla prima alla seconda Critica. Per come Kant pone la questione, è chiaro che nel suo uso teorico o teoretico la ragione è del tutto differente dalla ragione nel suo uso pratico. (…) Riflettendo attraverso questo aspetto del pensiero di Kant (si può trovare un’analogia con l’opera matura di Wittgenstein), è facile mostrare come non sia mai un problema di un’unica e massiccia ragione – questa è pura ideologia. Al contrario, il problema è quello delle razionalità plurali che rispettivamente sono, quantomeno, teoretiche, pratiche, estetiche. Queste razionalità sono profondamente eterogenee, “autonome” come dice Kant». Si veda W. van Rejen and D. Veerman, “An Interview with Jean-François Lyotard”, cit., pp. 278-9. Sul ruolo giocato dalla Kant e Wittgenstein nell’elaborazione del concetto lyotardiano di différend si veda Bill Readings, Introducing Lyotard. Art and Politics, London-New York, Routledge 1991, pp. 105-19.

[19] Si veda Richard Rorty, Consequenze del pragmatismo, trad. it. di F. Elefante, Feltrinelli, Milano 1986, in particolare gli articoli “La filosofia come genere di scrittura: saggio su Derrida” e “La filosofia oggi in America”;  Id., Verità e progresso. Scritti filosofici vol. 3, trad. it. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 2003, si veda sia l’Introduzione che l’importante saggio “La storiografia della filosofia e i suoi quattro generi”.

[20] Ciò che viene tematizzato ne La condizione postmoderna, pubblicato quattro anni prima del Dissidio, è la delegittimazione fondamentalmente delle due grandi narrazioni speculative ed emancipative, il loro tentativo cioè di voler far dimenticare l’incommensurabilità dei generi. Tale tematizzazione è sì posta al centro di questo famosissimo pamphlet ma, per la verità, essa non viene spiegata nei suoi presupposti filosofici. Il dissidio si addossa proprio tale compito, di fornire in altre parole la spiegazione filosofica della delegittimazione delle grand récits: «credo che la base filosofica de La condizione postmoderna verrà trovata, direttamente o indirettamente, nel Dissidio. Ho lavorato a questo libro per molto tempo, molto lentamente, iniziandolo immediatamente dopo la pubblicazione di Economia libidinale (mi ha quindi impegnato per ben dieci anni), riprendendo lì i testi filosofici della grande tradizione che consideravo indispensabili. Questi testi non appaiono che in modo davvero limitato ne La condizione postmoderna», da “An Interview with Jean-François Lyotard”, cit., p. 278. Sul carattere di «dignità» e «onore» come aspetti fondamentali del filosofare nel Lyotard maturo, e con particolare riferimento al Dissidio, ha scritto al meglio Rodolphe Gasché nel suo articolo “Saving the Honor of Thinking: On Jean-François Lyotard”, in «Parallax», 2000, vol. 6, n. 4, pp. 127-45.

[21] Scrive Negri nel suo La comunità estetica di Kant, cit.: «Ma il respiro pratico-politico di questi scritti sembra racchiudersi, in tutta quanta la sua chiarezza e potenza, nella Kritik der Urteilskraft, la cui centralità nel criticismo è un acquisto deciso della storiografia kantiana» (p. 37). E, poco più in là, Negri aggiunge che «il problema estetico diventa, in ultimo, problema umano, politico. Si tratta di vedere come è possibile fondare la comunità estetica attraverso un principio che sembra metterla violentemente in crisi: la soggettività del giudizio estetico»; di conseguenza «qui il problema non è il pactum sociale bello e fatto, ma il pactum unionis civilis. E così nella K. d. U. il problema non è la comunità estetica perfettamente realizzata, ma il processo di costituzione della comunità stessa» (p. 38 e pp. 40-1).

[22] La facoltà del giudizio in Kant è quella che discerne e decide quale materiale debba essere sussunto sotto regole determinate senza avere essa stessa delle categorie oggettive per farlo – se le avesse, il giudizio sarebbe l’intelletto. Non per niente nella prima Critica Kant dipinge la strutturale indeterminatezza della facoltà del giudizio come «ingegno naturale» e «talento particolare, che non può essere insegnato, ma solo esercitato». Il giudizio (riflettente) è la facoltà raminga del soggetto kantiano, che però svolge il lavoro più duro e sottile dell’interiorità trascendentale, quello cioè di decidere senza presupposti dove indirizzare ogni volta la particolare singolarità esperienziale incontrata. L’unico presupposto trascendentale operante nel giudizio kantiano è che il particolare giudicato possa essere comunque sussumibile: il principio della conformità allo scopo è il presupposto imposto che permette a Kant di rendere innanzitutto praticabile il dissidio fra «frase-materia» e «frase-forma» della prima Critica, legittimare cioè non solo la conoscenza possibile ma anche quella particolare, e poi, in modo quasi silente, la conformità allo scopo gli serve, per quanto riguarda la facoltà del giudizio, per poter pontare trascendentalmente la Critica della ragion pura con la Critica della facoltà di giudizio. Su queste tematiche si veda l’articolo Gabriele Gava, “La contingenza della natura tra la Critica della ragion pura e la Critica della facoltà di giudizio” in Claudio La Rocca (a cura di), Leggere Kant. Dimensioni della filosofia critica, ETS, Pisa 2007, pp. 169-201, articolo che analizza come il funzionamento delle idee della ragione della Critica della ragion pura venga sviluppato fino a divenire lo scheletro trascendentale stesso della Critica della facoltà di giudizio e, per far questo, Gava tematizza i «presupposti necessari» delle facoltà della ragione e del giudizio.

[23] D, p. 167.

[24] Si veda Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 345, e D, p. 170.

[25] Ibidem.

[26] Scrive Gava: «È infatti una caratteristica propria del principio a priori della facoltà di giudizio quella di essere un principio indeterminato. È per tale motivo che esso sarà caratterizzato come soggettivo. Esso infatti ci assicura della nostra necessità di ricercare nella natura una conformità rispetto alla forma della nostra conoscenza; non ci dice però quando e in che modo tale conformità debba essere rintracciata». Id., “La contingenza della natura tra la Critica della ragion pura e la Critica della facoltà di giudizio”, art. cit., p. 173.

[27] D, p. 171.

[28] Ibidem, il corsivo è nostro.

[29] Ibid., corsivo nostro.

[30] D, p. 172.

[31] Le ultime righe della terza Notizia Kant, insieme alle prime del paragrafo immediatamente successivo, sono una profonda e feroce autocritica de La condizione postmoderna, come anche del relativo tentativo di fondare un genere di discorso sul «lutto dell’essere» (comprese le varianti più o meno nobili di questo lavoro filosofico del lutto come, ad esempio, Bataille e Heidegger): «noi “ci” raccontiamo, con amarezza o esultanza che sia, il gran racconto della fine dei grandi racconti? Non basta forse che il pensiero pensi secondo la fine di una storia perché resti moderno? Oppure la post-modernità è un’occupazione come quella del vecchietto che fruga nella pattumiera della finalità per trovare dei rottami, che brandisce gli inconsci, i lapsus, i bordi, i confini, i gulag, le paratassi, i non-sensi, i paradossi, e ne fa la sua gloria di novità, la sua promessa di cambiamento? Ma anche questo è uno scopo per l’umanità. Un genere. (Scadente pastiche di Nietzsche. Perché?)». D, p. 173. Su Heidegger e Bataille, sempre nella stessa ottica ma questa volta in modo esplicito, si veda D, §§173 e 202.

[32] Antimo Negri nel suo articolo “Kant e la Rivoluzione francese” discute l’Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico del 1784 e fa il punto sui motivi che guidano questa specifica «transazione»: «È perché (…) al filosofo interessa la difesa del trascendentale (…) che nell’Idea si insiste sulla necessità di guardare allo svolgimento delle disposizioni naturali non nell’individuo, ma nella specie. All’“età finale”, all’età dello svolgimento perfetto guarda Kant soprattutto, per non vedere gli sforzi della storia senza meta, le disposizioni naturali smarrirsi inutilmente, i principi pratici ottundersi nel breve giro del loro operare empirico. (…) L’ordine trascendentale deve costituire una meta almeno nell’idea dell’uomo: lo svolgimento perfetto delle disposizioni naturali è avvertito come un’istanza per chi guarda, con occhio smagato, al di là delle coloriture fantastiche e delle velleità immaginifiche, alla realtà umana e al suo sviluppo: non altrimenti, Kant guarderà alla Rivoluzione, non con l’occhio dello storico entusiasta, ma con quello dello storico-filosofo, e, cioè, con quello che non consente la descrizione a sé stante di una porzione della storia, dacché vuole trascinarla oltre la fenomenologia particolaristica e comprenderla, per giustificarla, nell’ambito, più vasto, della filosofia della storia». Negri, La comunità estetica di Kant, cit., pp. 169-70.

[33] D, p. 205.

[34] D, p. 206. Riflettendo sulla nota al §65 della Critica della facoltà di giudizio, ecco quello che registra Negri per quanto riguarda l’articolazione kantiana di questa specifica «transazione»: «[Kant], ora, si interessa delle cose come esseri organizzati in quanto fini della natura. Il discorso che sta conducendo (…), Kant lo sente difficoltoso e poco esemplificato. L’idea delle cose naturali come esseri finalisticamente organizzati non gli sembra potersi accompagnare, e chiarirsi, con una analogia, un’immagine capace di rendere più accessibile l’arduo concetto. “Rigorosamente parlando”, – scrive Kant – “l’organizzazione della natura non ha dunque alcuna analogia con qualche causalità che noi conosciamo”. La perfezione interna della natura può trovare una misura soltanto in se stessa. Può essere, tuttavia misura analogica per un altro tipo di organizzazione, umana, sociale. Ma non si tratta, aggiunge subito Kant, di un’organizzazione reale, bensì soltanto ideale. (…) Ma ciò che conta, qui è l’affermazione che la riunione (Verbindung) che si può dar lume mediante un’analogia con le cose-fini della natura, si trova, secondo Kant, “più nell’idea che nella realtà” (meh in der Idee als in der Wirklichkeit)». Negri, La comunità estetica di Kant, cit., pp. 171-2.

[35] Qui rimando ad articoli che presentano un retroterra filosofico: Rodolphe Gasché, “The Sublime, Ontologically Speaking”, in «Yale French Studies», no. 99, 2001, pp. 117-128; James Williams, Lyotard & the Political, cit., il capitolo sesto, “The Sublime and Politics”, analizza l’uso della nozione di sublime nell’opera lyotardiana successiva al Dissidio; Serge Trottein, “Lyotard: Before and After the Sublime”, in Hugh J. Silverman (ed.), Lyotard: Philosophy, Politics, and the Sublime, Routledge, New York-London 2002, pp. 192-200; Wayne Froman, “The Suspence”, in H. J. Silverman, Lyotard, cit., pp. 213-221; Hugh J. Silverman, “Lyotard and the Events of the Postmodern Sublime”, in Id. (ed.), Lyotard, cit., pp. 222-229; Diarmuid Costello, “Lyotard’s Modernism”, in «Parallax», 2000, vol 6, no. 4, pp. 76-87.

[36] Tutto il lavoro di Negri nel suo La comunità estetica di Kant tende a valorizzare, nella «filosofia organicistica di Kant», il ruolo libertario e «creatore» del giudizio riflettente della terza Critica. Negri curva tutta la contingenza del giudizio riflettente, il suo operare sul particolare senza regole universali, sul nesso cittadino-Stato: «dato il particolare, nasce il problema della sua sussunzione (…). Dato il giudizio individuale, nasce il problema della sua universalità; dato l’individuo, il problema dello Stato» (p. 51). E in questa tensione reciproca o «i due tempi della speculazione kantiana», come li chiama Negri, il filosofo di Könisberg riesce per l’autore a tenersi a distanza sia dal romanticismo anarcoide che dalla statualità idealistica, dato che il Kant negriano li farebbe sempre giocare dialetticamente uno contro l’altro: «da una parte si afferma la storicità del concetto, dall’altra la necessità del concetto» (p. 65). Anche in Negri però il cuore della Critica della facoltà di giudizio risiede nel senso comune (Gemeinsinn), nella sua deduzione ai limiti del legittimabile: «l’entusiasmo speculativo della K. d. U. non può spiegarsi che sulla base di una certezza: la solidità teoretica della principio apriori scoperto. Ma è solidità teoretica degna di un principio apriori? Veramente, la necessità (Notwendigkeit) del senso comune (Gemeinsinn) non è puramente dedotta, ma soltanto avvertita come necessaria. Tra la necessità legittimante e l’avvertimento della necessità, ora, c’è questa netta differenza: che l’una si deve giustificare al di là di ogni prova e di ogni riferimento al caso concreto: l’esistenza del principio deve essere necessariamente, “senza poterla tuttavia né scorgere né dimostrare” (ohne dass wir sie doch enzusehen und zu beweisen vermochten); l’avvertimento, invece, più che una condizione, è una conclusione. E, per Kant, nelle Beobachtungen come nella K. d. U., la necessità del senso comune si presenta davvero come conclusione: e conclusione di un discorso solo apparentemente condotto secondo un procedimento puro, ma in realtà fondato sull’osservazione psicologica. Quale è, infatti, il discorso che fa Kant? Le conoscenze e i giudizi, egli sostiene, debbono essere comunicabili, se non fossero tali, sarebbero un puro gioco, proprio come vogliono gli scettici. Ma, perché le conoscenze e i giudizi siano comunicabili, è necessario che sia comunicabile lo stato d’animo ad essi corrispondente. La conclusione del discorso è questa: se le conoscenze debbono condividersi, deve essere condiviso universalmente anche lo stato d’animo: ed uno stato d’animo necessariamente da condividersi è, appunto, il Gemeinsinn. Deve esserci il sentimento (Beobachtungen); deve esserci il senso comune (K. d. U.); il ricorrere, in due testi così distanti nel tempo e nell’impostazione, dello stesso verbo müssen è significativo, almeno per ciò che concerne la possibilità di constatare il persistere del procedimento, per via di osservazioni psicologiche, del discorso kantiano: né importa se Kant insista che l’esserci del senso comune a presupposto della validità universale del sentimento non ha bisogno di appoggiarsi a osservazioni psicologiche» (pp. 74-5).

[37] D, p. 212.

[38] Ibidem. Lyotard riflette specificatamente sul Gemeinsinn kantiano in un suo articolo del 1987: “Sensus communis”, in «Le Cahier du Collège international de philosophie”, 1987, vol. 3, pp. 67-87; ed. it. “Sensus communis”, in J.-F. Lyotard, Anima minima. Sul bello e il sublime, trad. it. di F. Sossi, Pratiche, Parma 1995. Questo articolo successivo al Dissidio mette bene in evidenza le difficoltà della Critica della facoltà del giudizio nel maneggiare un concetto estetico alquanto scivoloso come quello di Gemeinsinn. La sottolineatura lyotardiana è tutta sull’universalità minimale del «sensus communis»: ogni persona, a prescindere dal grado di cultura raggiunto, produce un barlume di giudizio (estetico) anche e prima di accedere alla chiara formulazione o sintesi concettuale di ciò che giudica – per questo ciò che è comunitario è il senso, il sentimento che non deve niente a regole concettuali (intelletto) o leggi ideali (ragione). L’articolo lyotardiano tende verso la massima declinazione trascendentale possibile di questa minimale Öffentlichkeit sentimentale, declinazione che senza dubbio la Kritik der Urteilskfrat permettere di presupporre. Nella lettura lyotardiana la legittimazione del «sensus communis» avviene internamente come «eufonia» fra le facoltà e, esternamente, come unanimità «richiesta e promessa», cioè come un fare spazio, il più universale possibile, per il giudizio estetico di ogni altra persona. Ma il principio kantiano del Gemeinsinn in Lyotard viene piegato fine a diventare esclusivamente un rapporto d’affinità fra le facoltà che, nell’impossibilità di esser sussunto dal cognitivo e dall’etico, diviene quindi «index sui»: il gusto deriva da un giudizio di piacere/dispiacere che non ha nulla a che fare con intelligenza o volontà e, essendo singolare ed individuale, il giudizio di gusto «richiede, attende e domanda» una condivisione che non può essere fondata concettualmente. Nel giudizio di gusto è l’«eufonia» delle facoltà che produce il «sensus communis» che, a sua volta, diviene il collante di una destinazione idealmente universale. E l’accordo trascendentale fra le facoltà deve sempre essere presupposto in Kant perché è esso ciò che rende la conoscenza anche solo possibile. La questione è che in questo articolo di Lyotard l’«eufonia» non procede più neanche dall’Ich denke – anche in questo articolo l’antropocentrismo è l’orizzonte filosofico da evitare. Ma questo genere di meccanismo lo abbiamo già visto operare nel Dissidio: l’agonistica delle facoltà trascendentali è per Lyotard ciò che produce e tiene in piedi il soggetto kantiano e, quindi, anche la sua successiva interpretazione eufonica del Gemeinsinn non può che discende da quella. Williams nel suo Lyotard & the Political, cit., è tra i pochi commentatori ad aver ben compreso che la lettura lyotardiana del Gemeinsinn riguarda la sempre «possibile confusione fra un’interpretazione trascendentale e una antropologica del sensus communis» (p. 106). Questo perché nel Dissidio il Gemeinsinn è per Williams è «solo una condizione necessaria per produrre giudizi sul bello che riguardano l’impiego sovrasensibile e armonioso di intelletto, giudizio e ragione» (p. 107). Gava in una nota alle pp. 177-8 del suo articolo “La contingenza della natura”, cit., scrive che «l’assenza, nel Kant della prima Critica, della necessità di un principio trascendentale come guida per l’esperienza concreta è rintracciabile seguendo la linea del “buon senso” e del “senso comune”. Se il Kant della Critica della ragion pura ci dirà che il buon senso (gemeiner o gesunder Verstand) ha un’importanza fondamentale per l’uso delle regole in concreto, tale buon senso è facilmente riconducibile all’intelletto comune che deve essere abbandonato una volta che si cominci a parlare di scienza. È solo al senso comune (Gemeinsinn) che verrà riconosciuto un particolare statuto trascendentale che lo spinge all’universalità. In questo passaggio si può ritrovare un altro indizio della nuova necessità di un principio trascendentale per l’esperienza concreta, prima non tematizzato».

[39] D, p. 210. In Au juste, un libro che riporta una lunga intervista del 1979, Lyotard cerca di spostare l’asse sublime del giudicare estetico senza regole razionali nell’ambito dell’etico, spingendo per questo motivo agli estremi l’assenza kantiana di regole razionali nel giudizio estetico e, inoltre, sfruttando al contempo anche una visione completamente prudenziale dell’etica aristotelica. Negri conclude il suo studio sulla Comunità estetica in Kant, cit., rivelando molti tentennamenti nell’argomentare kantiano: «il dilemma (…) si ripresenta in tutta la sua drammaticità: se il giudizio è fatto sentimentale, è individuale; se è fatto conoscitivo, è universale (…). Ed è il dilemma che, non c’è dubbio, freme sotto il discorso kantiano (…). Il giudizio estetico rischia di imbattersi o nella particolarità sentimentale o nell’universalità intellettualistica. Kant vuole evitare l’uno e l’altro scoglio, e le possibilità del suo successo teoretico sono soltanto nell’aspettativa che l’attitudine soggettiva (l’armonia dell’immaginazione e dell’intelletto) sia universalmente comunicabile oltre ogni processo di intellettualizzazione del giudizio medesimo, oltre ogni violento attentato, nell’ambito della costruzione del giudizio di gusto, della legalità dell’intelletto alla libertà dell’immaginazione ed oltre ogni debordare in senso anarchico della libertà dell’immaginazione ai danni della legalità dell’intelletto. L’aspettativa è condensata, per dir così, in un discorso che risente profondamente della fatica del pensiero per giungere ad una sua giustificazione: sostenuta, questa, sul motivo che, quando noi sentiamo il libero gioco delle facoltà a proposito di una rappresentazione data, ci troviamo in condizioni soggettive che precedono la conoscenza propriamente detta e che, tuttavia, di questa non infrangono perentoriamente la legge dell’universalità. (…) Il Gemüthszustand è, in altri termini, nell’aspettativa teoretica di Kant, esso stesso, Gemeinsinn. E questo si presenta come un’attitudine soggettiva (di ogni soggetto) anteriore alla conoscenza particolare, determinata: uno stato d’animo che, pur non intellettualizzandosi, resta un atto di coscienza, un sentimento attivo, una realtà originale dello spirito umano che bisogna cercare al di là dell’attività intellettuale, nonché oltre la dispersione dei sentimenti particolari e passivi, delle sensazioni, delle impressioni e delle passioni. (…) La dottrina kantiana del giudizio estetico, quando insiste, in sede di esposizione, sulle proprietà del bello, cerca di isolarlo in una purezza che solo il sentimento puro può cogliere. (…) Perciò, la bellezza pura resta una ipotesi; e resta una ipotesi altresì il Gemeinsinn (…) giacché, storicamente, il sentimento è relativo, non esiste, cioè, sentimento comune» (pp. 140-1). Qui posso solo abbozzare un’ipotesi storiografica che andrebbe approfondita in modo puntuale: l’origine del concetto lyotardiano di différend risiede nel Gemeinsinn kantiano.

[40] Su queste tematiche Lyotard ha poi pubblicato un breve libro che raccoglie conferenze e relazioni tenute fra il 1981 e 1983 e che, tranne che per due capitoli, ripete letteralmente le Notizie Kant del Dissidio. Si veda J.-F. Lyotard, L’enthousiasme. La critique kantienne de l’histoire, Galilée, Paris 1986; ed. it. Id., L’entusiasmo. La critica kantiana della storia, trad. it. di F. Mariani Zini, Guerini e Associati, Milano 1989. Per segno, storia, antropologia e progresso in Kant si veda Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia, Quodlibet, Macerata 2006, specialmente le pp. 81-7.

[41] D, p. 225. Lyotard termina pessimisticamente Il dissidio sulla convinzione che l’umanità (occidentale) non sia neanche più in grado di elevarsi a quel sentimento del sublime capovolto che egli chiama «tristezza», intesa questa come scarto stridente di ciò che l’umano non riesce neanche più a raggiungere. Infine, nel tratteggiare la scomparsa di ciò che dovrebbe causare la tristezza sublime, le ultime pagine del libro assumono tutto l’aspetto di un kantismo rovesciato dal forte sapore platonico-heideggeriano: «Ma che garanzia abbiamo che gli umani diverranno più colti di quanto non siano? Se la cultura (dello spirito, almeno) esige un lavoro e quindi prendere tempo, se il genere economico impone la sua posta, guadagnar tempo, alla maggior parte dei regimi di frasi e dei generi di discorso, la cultura, consumatrice di tempo, dovrebbe essere eliminata. Ne deriva che gli umani non proveranno neppur più tristezza di fronte all’incommensurabilità delle realtà rispetto alle Idee, poiché perderanno la loro capacità nelle Idee. Diverranno sempre più competenti nelle strategie degli scambi, ma niente di più. La parola cultura significa già la messa in circolazione di informazioni piuttosto che il lavoro da fare per arrivare a presentare ciò che all’occorrenza non è presentabile». D, p. 226.

[42] In questo senso collego le interpretazioni di Hegel avanzate sia da Roberto Finelli nel suo Un parricidio mancato, cit., che da Lucio Colletti nei suoi due volumi Il marxismo e Hegel, Laterza, Roma-Bari 1969. Le ragioni di fondo di questi due autori su come giudicare Hegel e Marx, e la profonda relazione di questo a quello, sono naturalmente antitetiche, inconciliabili e sarebbe pertanto impossibile far combaciare, per esempio, gli evidenti limiti positivistici di Colletti, limiti, come la Widerspiegelungstheorie o l’interpretazione della negazione e contraddizione in Hegel, agli innovativi elementi psicoanalitici che Finelli innesta in Hegel. Qui provo ad avvicinare soltanto gli aspetti comuni fra Colletti e Finelli nelle loro critiche al pre-giudicare hegeliano; ciò che desidero evidenziare è infatti la loro comune sottolineatura dell’azionarsi di tendenze idealistiche nella dialettica speculativa hegeliana. Se in Finelli abbiamo l’analisi di come Hegel rovini il meglio della propria filosofia nell’idealità del momento speculativo finale, in Colletti si assiste alla critica dell’idealità nello stadio hegeliano dell’inizio. Non posso addentrarmi nel Zurück auf Kant di Colletti, simile a quello di Lyotard, e come in sede epistemologica Colletti vada quindi contro Hegel – vecchia accusa questa in ambito marxista; accenno qui solo come in Colletti la scelta di privilegiare Kant si giochi tutta sul modo in cui questo pensatore rispetti il reale (la ratio essendi del Gegestand) senza degradarlo a una posizione logica e negativa (la ratio cognoscendi dell’Objekt), obiezione che invece Colletti rivolge alla «negromanzia hegeliana» – non posso addentrarmi in questo articolo nelle argomentazioni di Colletti che, comunque, andrebbero tutte fatte giocare con(tro) quelle lyotardiane, in un pressante corpo a corpo per evidenziare sia reciproci rimandi che relative contraddizioni e, forse, anche delle inaspettate alleanze fra loro. Tornando alla critica di Colletti a Hegel: «dietro al corso del reale, sarà necessario presupporre un’altra e più profonda mediazione: con all’origine ciò che in quello è risultato, e con risultato ciò che là figura all’origine», Colletti, Il marxismo e Hegel, cit., p. 14. Inoltre, continua Colletti: «il sensibile, il determinato, che prima si presentava come ciò su cui si elevava il pensiero e quindi come un fondamento, ora – una volta, cioè, compiuta l’ipostasi, una volta che sotto e dietro ad esso è stato pre-supposto o interpolato l’infinito, l’astratto, come sua vera natura – appare solo più come una “scorza”» (p. 18); «la concezione negativa del sensibile (…) deve poi presupporre già implicito nel pensiero il contenuto prima trasceso: per modo che, negato il sensibile in ciò che ha di specifico, è costretta a presupporre il sapere come già formato, a precludersi quindi la possibilità di intenderne la genesi; assunto il sapere come già costituito, ne deve accogliere il contenuto dogmaticamente, senza cioè controllarne dond’esso provenga» (p. 33). Conclude quindi il Colletti: «il finito “vero”, quindi, non è il finito che è fuori dell’infinito, ma il finito interno ad esso, il finito così com’è nell’“Idea”. “Reali” non sono le cose esterne al pensiero, ma le cose “pensate” cioè le cose che non sono più cose ma semplici “oggetti logici” o momenti ideali. La negazione, l’“annientamento” della materia è proprio in questo passaggio da “fuori” a “dentro”» e, poco più in là, «il reale diventa ideale, l’ideale reale» (p. 180 e 182). La questione del pre-giudicare in Colletti si fa comunque più chiara: «se infatti la conoscenza deve nascere dalla sintesi o dall’incontro dei due – pensiero ed essere – e questi però sono identici tra loro, cioè uniti da sempre, ciò non può significare altro se non che il loro incontro è avvenuto ab eterno e che la conoscenza è già compiuta dall’inizio dei tempi. Il sapere si è prodotto prima di noi e alle nostre spalle. Troviamo, nascendo, che il sapere ci è dato, così come nell’altro caso troviamo che ci è dato un modo da apprendere. Da chi questo sapere è dato? La risposta essoterica è che per lo più esso è dato dal parroco. Nel caso di filosofi particolarmente sfortunati, a volte dal padre. (…) L’altra risposta invece – quella esoterica – è l’innatismo. (…) L’innatismo, cioè la presupposizione delle idee – che in Hegel, naturalmente, sono l’Idea. (…) In altre parole, la mediazione, cioè la cultura, la filosofia, hanno soltanto il compito di esplicitare l’implicito. (…) Voler però risalire oltre il concetto stesso o il sapere, cioè porsi il problema della loro origine, sarebbe assurdo, giacché il Concetto non è mai nato. Delle due, quindi, l’una: o si presuppone il mondo, oppure si deve assumere come presupposto il sapere stesso. La filosofia di Hegel, che comincia senza presupposti (esterni), comincia, in realtà, presupponendo se stessa, cioè il sapere, l’Idea, il Logos o Dio» (pp. 247-9). In Colletti questo paradosso della «gnoseologia critica» è risolvibile ed è sciolto solo all’interno del materialismo storico, grazie cioè alla nozione marxiana dei rapporti sociali di produzione. Si confronti, su questo problema capital, l’importante penultimo capitolo di Hegel e il marxismo intitolato, appunto, “Il concetto di «rapporti sociali di produzione»”, pp. 357-402. Da Finelli, Un parricidio mancato, cit., quoto qui solo dei passaggi critici sull’idealismo di Hegel, nel senso che per evidenti limiti di spazio non posso entrare nella complessa e inedita articolazione fra hegelismo e psicoanalisi che il suo testo presenta: «la circolarità fra principio e risultato è in Hegel profondamente intrecciata – col rischio di vedere radicalmente annullata la portata della sua innovazione epistemologica – nella circolarità conclusa e metafisica di un Soggetto la cui identità è data dal suo solo pensiero, di un Assoluto cioè univocamente teoretico il cui fine è di condurre la sua vita da un’esistere immediato e privo di coscienza a un’esistere del tutto attraversato e illuminato dalla luce della consapevolezza» (p. 31). Sempre da Finelli: «ora il passaggio decisivo della filosofia hegeliana, e che le assegna la sua caratteristica più propriamente idealistica, è che questo nesso pratico-teorico a un certo punto si scioglie nel verso del solo teoretico-speculativo. Che cioè il pensiero venga proposto da Hegel come il fattore supremo di unificazione della realtà e che nella soggettività conoscente venga ritrovata la forma di vita più elevata e universale. […] La torsione hegeliana da una concezione circolare e storico-esperienziale a quella meramente autoriflessiva della soggettività s’avvale infatti, non a caso, di un uso della negazione-contraddizione basato su un’illegittima e regressiva ontologizzazione e reificazione del linguaggio» (p. 116 e 118). Finelli è risoluto nello spiegare come le grandi articolazioni hegeliane della negazione, intesa come «rimozione-proiezione» progressiva nell’altro da sé e che egli analizza come elementi vitali della dialettica hegeliana, oltre che come anticipazioni delle dinamiche psicoanalitiche, vengano però poi sussunte dalla «sovradeterminazione» speculativa: «il significato più proprio dell’idealismo di Hegel sta sì nel derivare la realtà dall’Idea, ma non nel senso creazionistico dell’espressione: bensì nel senso che dalle varie modalità di concepire sé e l’altro da sé che attraversa il percorso formatore di una soggettività derivano di necessità modalità oggettive di organizzazione e di codificazione della realtà sterna. (…) L’eccesso idealistico della filosofia di Hegel, il suo riduzionismo di ciò che è nel soggettivo, non sta dunque in una concezione teologica e neoplatonica dell’Idea, ma in un’estremizzazione teoreticista della soggettività, nella credenza cioè che un soggetto possa raggiungere attraverso il pensiero una condizione di totale trasparenza e possesso di se stesso: che cioè l’“Io penso” kantiano, l’autocoscienza trascendentale in cui soggetto e oggetto coincidono, possa ancora costituire il vertice e il fondamento dell’identità del soggetto. Per la permanenza in questo mito razionalistico della trasparenza, la teoria circolare del soggetto, di un soggetto che non è presupposto ma posto e che si produce attraverso la mediazione con l’alterità, torna a irrigidirsi e a puntualizzarsi in una teoria della soggettività come identità e della soggettività come identità e dell’esaustivo e speculare rispecchiamento del soggetto nell’oggetto: dove la destinazione teorico-contemplativa del soggetto in questione prevale sull’efficacia e la validità di senso di ogni istanza pratico-trasformativa» (pp. 133-4).

[43] Sul kantismo in Lyotard si vedano gli articoli di Michel Deguy, “Dialogues and Différend” in «Yale French Studies», 2001, n. 99 “Jean-François Lyotard: Time and Judgment”, pp. 93-101, in particolare le pp. 97-100. Per Deguy Lyotard sarebbe addirittura «il più kantiano dei filosofi francesi. Ogni suo libro ritorna a Kant o è totalmente dedicato alla sua opera. Per recuperare le sue forze, l’Anteo filosofico del terreno trascendentale. Per andare di nuovo d’avanti al tribunale critico delle capacità (facoltà). Per riaffilare le grandi distinzioni, la lama del rigore. (…) Jean-François Lyotard è esperto in kantismo ed è qui che forse ha scoperto l’essenza del différend» (p. 97); Richard Beardsworth, “On the Critical ‘Post’: Lyotard’s Agitated Judgment”, in A. Benjamin (ed.), Judging Lyotard, cit., pp. 43-80; J. Williams, Lyotard & the Political, cit., pp. 102-18; Wilhel S. Wurzer, “Lyotard, Kant, and the In-finite”, in H. J. Silverman (ed.), Lyotard, cit., pp. 201-12; Richard Brons, “Postmodern Thinking of Trascendence”, in H. J. Silverman (ed.), Lyotard, cit., pp. 179- 91.

[44] Louis Althusser, in una delle interviste inserite nel suo Sulla filosofia, a cura di Aldo Pardi, Unicopli, Milano 2001, pp. 57-9, chiarisce che: «ogni filosofia porta al suo interno lo spettro del suo contrario: l’idealismo lo spettro del materialismo e viceversa. […] Quando una filosofia vuole occupare la posizione del suo avversario, è indispensabile alla sua causa “battere” almeno una parte delle “truppe” avversarie, cioè aggredirne gli argomenti filosofici. Se si vuol vincere il nemico, occorre innanzitutto conoscerlo, impadronirsi prima di tutto dei suoi argomenti, poiché è grazie a loro che saranno ottenute le grandi vittorie, e in seguito delle sue armi, delle sue truppe e del suo territorio. […] Ogni filosofia deve portare nel suo seno il nemico battuto, per potersi costruire come filosofia nuova. In questo modo, installandosi in anticipo nel dispositivo nemico e lavorandoselo, modificandolo di conseguenza, può rispondere in anticipo a tutti gli attacchi e le obiezioni per poter realizzare l’impresa di assorbimento e di dominazione del suo avversario».

[45] D, p. 121.

[46] D, p. 122. La letteratura secondaria sul ruolo giocato dal linguaggio in Hegel è un continente storiografico in sé e qui si rimanda brevemente a un articolo di Eleonora Caramelli, “Destino e rappresentazione. Il linguaggio tragico nella Fenomenologia dello spirito di Hegel”, in «Annali del Dipartimento di Filosofia», Università di Firenze, 2010, XVI, pp. 55-82, http://academicpublishingplatforms.com/downloads/pdfs/adf/volume2/201201030918_ADF_Vol16_2010_3.pdf, articolo che dà notizia dei maggiori studi internazionali sul tema e che affronta, brevemente, la linguisticità anche nel’Enciclopedia e nella Scienza della logica. In particolare, rimandiamo qui al §4, ‘La Zweizüngigkeit del linguaggio tragico’.

[47] D, p. 123.

[48] D, p. 125.

[49] In questo senso, la Notizia Aristotele lavora sulle diverse ritmicità e modulazioni croniche rinvenibili nello Stagirita per quanto riguarda il concetto di tempo; e specialmente quando Aristotele necessita la sostanza metafisica per non cadere nel vuoto, in quelle crepature dell’essere che abbiamo già messo in evidenza in Kant, ovvero nel suo tentennamento sulla «rappresentazione permanente» della prima Critica. Scavando in questa densa Notice, è come se Lyotard stesse cercando di cogliere il pre-giudicare aristotelico a cavallo fra il principio di non contraddizione e le confutazioni sofisitiche vertenti sui «panacronismi». Lyotard osserva la costituzione in Aristotele di una linea confutativa che basa la propria forza critica su «due operatori che regolano il tempo nell’argomentazione: to proteron e to hama, l’anteriormente e il simultaneamente», D, p. 99. Quando però si tratta di capire l’origine di questi «operatori», che nella Fisica di Aristotele ordinano il cronismo dei presupposti, non è possibile ricavare per Lyotard un loro statuto che non sia già stato frasato: «se ci si chiede: anteriore o posteriore a che?, se si cerca un’origine per la localizzazione, la risposta (…) consiste nel dire che la comparazione si fa in modo immanente: anteriore a ciò che è posteriore, e viceversa. L’operatore costitutivo della serie degli stati del referente opera in seno a questa serie. (…) [L]a nozione stessa di uno stato puntuale del referente (…) implica già la possibilità di altri stati che sono stati e saranno i suoi [corsivi nostri]. Non soltanto il prima e il dopo che si implicano in modo immanente, ma anche il prima/dopo e l’ora, senza mai uscire dall’universo presentato dalla frase che si riferisce al mobile» e, quindi, chiosa Lyotard: «ancora una volta, si tratta di punti di riferimento all’interno dell’universo presentato dalla frase, quindi di situazione, non di presentazione». D, p. 100-1. La Notizia Aristotele si focalizza quindi sul tentennamento dello Stagirita sul risolvere o meno questo problema delegando all’«ora», all’istantaneità del momento del presente, la funzione diacronica discriminante. Questa «direzione fenomenologica» presenta diversi problemi che Aristotele non risolve perché secondo Lyotard egli, «ignorando tutto di una filosofia del soggetto», decide di dirigersi verso un’altra caratterizzazione dell’«ora». In pratica l’“altro Aristotele” lyotardiano della Fisica risolve l’enigma costitutivo del tempo negando all’avvenimento fondante del presente qualsiasi forma che, per essere colta filosoficamente, non sia già stata frasata – in perfetto allineamento qui con il modo in cui il dispositivo frasale lavora sulla Critica della ragion pura nella Notizia Kant 1. L’“altro” Aristotele del Dissidio è in perfetta sintonia con Lyotard, in pratica è Lyotard: «C’è C’è, una frase presa come occorrenza, come che cosa che per la verità non è l’ora ma ora. Ma una volta che l’occorrenza è colta nell’universo di un’altra frase (to logo) che si riferisce ad essa come a un’entità (to einai), ora diviene l’ora, e non può essere colto come che cosa, come la volta in cui accade: subisce l’inevitabile alterazione della diacronia e rientra nel regime delle frasi. Aristotele distingue così il tempo che negli universi presentati dalle frasi situa le istanze costituenti questo universo le une in rapporto alle altre (il prima/dopo, l’ora) [cioè quella che abbiamo visto essere la frase-forma del soggetto kantiano/destinatario della Notizia Kant 1] e l’avvenimento-presentazione (o occorrenza che come tale è assoluto (ora) [ovvero, l’inconcepibile frase-materia del destinatore sconosciuto della Notizia Kant 1]. Quando si mette quest’ultimo in frase, lo si pone tra le relazioni degli universi di frase. La presentazione è allora presentata. Per cogliere la presentazione che una frase comporta, ci vuole un’altra frase, in cui questa presentazione è presentata. La “presente” presentazione non può essere messa in frase ora, ma soltanto come situazione di allora. Aristotele rompe la connessione tra gli operatori diacronici che operano negli universi di frase e l’occorrenza della frase (o l’occorrenza-frase). La presentazione “attuale” è impresentabile, l’avvenimento si oblia come tale in quanto si conserva (il dopo), si anticipa (il prima) o si “mantiene” (l’ora)». D, 102.

[50] D, p. 127.

[51] Colletti, Hegel e il marxismo, cit., p. 198.

[52] Perché Lyotard non cita espressamente Hegel quando elabora la teoria della nominazione come negazione attiva vista nella prima parte di questo saggio. Perché Lyotard non rimanda a Hegel quando dipinge il «creux» del nome come abitato da «sciami» di nomi furiosi e vendicativi per essergli stata negata l’attualità? Una sbadataggine, una disattenzione, un atto mancato? Anche uno studente di filosofia al secondo anno sa bene che il principio spinoziano omnis determination est negation viene riproposto in modo chiaro da Hegel che, a dirla tutta, lo discute ampiamente nella Scienza della logica – il testo hegeliano analizzato proprio nella Notizia Hegel. Si veda Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni e revisione di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1924-1968, p. 108 per la citazione hegeliana diretta di Spinoza.

[53] D, pp. 127-8. Ecco l’originale di questo passo estremamente importante: «On ne peut évidemment pas objecter à la presupposition du Selbst qu’“en réalité il n’en est pas ainsi”. On peut lui objecter qu’elle est une règle d’un genre de discours, le genre métaphysique qui cherche à engendrer ses propres règles; mais que précisément cette règle ne peut pas s’engendrer à partir du discours. Que l’engendrement de la règle soit l’enjeu du discours (ou: qu’on phrase pour apprendre comment on peut phrase ce qu’on phrase), cela est la règle dans le genre philosophique. On “commence” toujours à phrase sans savoir si ce qu’on phrase est légitime. Car, tant que la règle est l’enjeu du discours, elle n’est pas sas règle, et le discours s’enchaîne comme il peut, il s’essaie. Et, quand elle est, “identifiée” comme la règle du genre auquel on s’essayat, l’enjeu de ce genre cesse d’être l’essai ou la critique. C’est ainsi que la règle “speculative”, celle du Resultat, la troisième, reste nécessairement presuppose». Lyotard, Le différend, cit., pp. 143-4.

[54] D, p. 128.

[55] Derrida nel suo articolo “Lyotard e noi”, originariamente scritto nel 1999 e a un anno dalla morte di Lyotard, ora in J. Derrida, Ogni volta unica, la fine del mondo, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2003, pp. 232-55, ha ben evidenziato il senso di questo «peggiore», di come esso derivi da Adorno e come in Lyotard diventi la cifra sia dell’arresto che abbandono dello speculativo. Per Derrida quest’«iperbole del peggio» e questo «pensiero del peggio» (p. 238) determinano, attraverso la curvatura frasale, la barriera antihegeliana eretta da Lyotard attraverso l’indialettizzabilità di Auschwitz: «c’è qualcosa di peggiore del male radicale, ma non c’è niente di peggio del peggio. Ci sarebbe dunque, in ogni caso, peggiore della morte, un’esperienza che, portando più lontano della morte e facendo più male di questa, sarebbe, da allora, sproporzionata a quella stessa esperienza che si concede troppo facilmente all’indomani della morte, cioè il lutto. (…) Dal momento in cui riceve un nome proprio, cioè un nome nazionale, ecco che il nome storico, diaspora, interrompe la dispersione assoluta. Gli ebrei della diaspora formano, o pensano ancora di formare, una comunità della diaspora, sono riuniti dal principio della dispersione, dall’esilio originario, dalla promessa dell’idea del ritorno, da Gerusalemme, se non da Israele, ecc. Mentre la dispersione delle frasi sarebbe un male peggiore del male perché ciò che mancherebbe loro per sempre – ed è la stessa affermazione de Il dissidio – è l’orizzonte stesso di un senso consensuale, di una traducibilità, un possibile “tradurre”. (pp. 238-9). Tutto l’articolo di Derrida, un’orazione funebre che presenta ogni elemento del genere retorico epideittico, e in cui egli celebra il «debito incalcolabile» che lo lega a Lyotard, è una gigantesca quanto sottilissima operazione di appropriazione di un filosofema (il n’y aura pas de deuil, ‘non ci sarà alcun lutto’) lanciato da Lyotard a Derrida nel 1990. Appropriandosi di tale filosofema, incorporandolo e quindi lasciandolo funzionare all’interno del proprio orizzonte decostruttivo (indeterminazione-iterabilità-indecibilità), Derrida a un tempo ventriloqua il dispositivo frasale lyotardiano applicandolo alla sua stessa frase e dopo, paragrafo dopo paragrafo, pagina dopo pagina, il filosofo di El-Biar conclude spiegando la ragione della mancanza filosofica del tema del lutto nel Dissidio. Naturalmente Derrida non può che comprendere e tradurre nei propri termini la questione del lutto nel libro di Lyotard, secondo cui cioè un concetto etico non può che rimanere strozzato nel passaggio al cognitivo – un classico topos derridiano, come abbiamo già avuto modo di vedere: «l’istituzionalizzazione del lutto non rischierebbe di suggellare l’oblio? Di proteggere non la memoria, ma dalla memoria?» (p. 234); «il lettore deve fare il lutto sulla sua voglia di sapere a chi è destinata questa frase e, soprattutto, sulla possibilità che lui, lei o noi, ne siamo i destinatari. La leggibilità comporta il lutto: una frase può essere leggibile, devo poterlo divenire fino a un certo punto, senza che il lettore, la lettrice e forse nessun luogo di lettura possa ritenersi in ultima istanza il destinatario. Indubbiamente il lutto apre la possibilità e la terribile condizione di ogni lettura» (p. 236). Conclude Derrida: «tutto avviene come se – questa è la mia ipotesi di lettura – il lutto supponesse o un litigio relativo a un danno, o un torto, cioè un dissidio. Senza litigio o dissidio, niente lutto. In un certo modo il “peggio della morte” e il non-lutto è che non ci sia nemmeno il dissidio» (pp. 253-4). La dispersione frasale lyotardiana, la necessità di un concatenamento e quindi il fatto che nel Dissidio dispersione significhi politica del concatenamento e del giudizio, in Derrida diventa, tramite l’appropriazione del filosofema lyotardiano il n’y aura pas de deuil, una furiosa riflessione della destinazione testamentaria del sopravvissuto: «ritengo che tutte le frasi siano virtualmente testamentarie (…). Questa frase (…) piuttosto ci dice qualcosa del testamento – e forse l’eredità più fedele comporta l’assenza di testamento» (p. 237). Comunque, fra Derrida e Lyotard la morte indialettizzabile marca il confine fra territori teorici diversi. Se in Lyotard la «testa di Medusa dentro» è ciò che spacca il meccanismo dialettico-speculativo di proliferazione del “noi”, e quindi la morte indialettizzabile viene letta all’interno di politiche epistemiche, in Derrida essa rimane prigioniera di un’interiorità etica scetticamente indecisa su come essa debba tradurre se stessa nel cognitivo: «la morte obbliga, e sarebbe quindi l’altro nome originale dell’obbligazione assoluta. L’impegno incondizionato non lega quindi a colui o a colei (a colui, non a delle “cose”) che, dopo l’evento della morte, diviene l’origine assente e, allo stesso tempo, la destinazione dell’obbligo assoluto, incondizionato, non negoziabile, al di là di ogni transazione. L’assenza senza ritorno aprirebbe allora all’incondizionato. Terrificante. Terrore. (…) L’incondizionato (…) significa la morte del morto, la morte senza lutto: non ci sarà alcun lutto. Non si hanno obblighi incondizionati che nei riguardi di un morto. Con un vivo si possono sempre negoziare delle condizioni. Alla morte si rompono le simmetrie: non si può più fingere, urge la verità. Ma si ha mai a che fare con il morto? Chi lo potrebbe giurare? La morte impossibile è forse che il vivente condiziona tutto?» (p. 240). Purtroppo qui non posso continuare quello che dovrebbe diventare un corpo a corpo critico fra Lyotard e Derrida sulle questioni del perdono, della materialità della testimonianza e della conseguente decostruzione del lutto – in questo senso le ultime pagine di “Lyotard e noi” andrebbero perlomeno accostate, e solo per iniziare, a Glas, a Ciò che resta del fuoco e a Perdonare di Derrida. Per poi discutere queste opere con le pagine in cui Lyotard riflette sullo statuto filosofico della negazione freudiana e dell’affetto inconscio, ovvero Discorso, figura, ma anche Heidegger e “gli ebrei” e Letture d’infanzia.

[56] I termini «bella morte» o «morte magica» (belle mort e mort magique) nel Dissidio riassumono le modalità speculativa in cui la fine del finito trova la propria posizione e giustificazione nell’infinito, nell’immortalità idealistica. Già nella Notizia Platone il dispostivo frasale analizza efficacemente il genere aristotelico della retorica epidittica e ciò che nella relativa permutazione istanziale rende le morti celebrate degli eroi un valore che legittima sia l’oratore che il suo pubblico. La belle mort, come è facile comprendere, epitoma per Lyotard il meccanismo di permutazione che permette al genere dialettico-speculativo di superare l’impasse assillante dello scetticismo – o, detto hegelianamente, la negatività radicale di un finito che non finisce di finire.

[57] Sulla lettura lyotardiana nel Dissidio del silenzio dei sopravvissuti della Shoah si veda Dorota Glowacka, “Lending an Ear to the Silence Phrase”, in Claire Nouvet, Zrinka Stahuljak, and Kent Still (eds.), Minima Memoria: In the Wake of Jean François Lyotard, Stanford, Stanford University Press 2007, pp. 49-66.

[58] D, p. 128.

[59] D, p. 129.

[60] D, pp. 130-1.

[61] D, p. 131-2.

[62] D, p. 138.

[63] D, p. 132.

[64] Ibidem.

[65] Per un approfondimento di queste tematiche lyotardiane si veda Debra B. Bergoffen, “Interrupting Lyotard: Whither the We?”, in H. J. Silverman (ed.), Lyotard, cit., pp. 127-39.

[66] D, p. 138.

[67] Nella modulazione di questa preferenza è facile accostare qui la critica generale che Colletti muove a Hegel nel suo Il marxismo e Hegel. Al modo in cui il filosofo di Stoccarda intende e imbriglia sia la materia che gli eventi storici ingabbiandoli nell’orizzonte di una ragione che li ha compresi già da sempre. Un genere di sussunzione, questa, che per Colletti non avviene in Kant visto che nella filosofia kantiana la materia, invece, rimane sempre una determinazione reale, giammai logica.

[68] Per una buona panoramica del peso giocato dalla negazione indialettizzabile nella filosofia di Lyotard, come del relativo concetto di intraitable, il nome per cui différend sta nelle altre opera lyotardiane, si vedano i contributi di Miguel Abensour, “Sull’intrattabile”, e di Alain Badiou, “La tutela del mattino”, entrambi in Aa.Vv., Pensiero al presente. Omaggio a Jean-François Lyotard, a cura di Federica Sossi, Cronopio, Napoli 1999.

[69] Per una breve tematizzazione introduttiva del rapporto problematico fra individuo, specie umana e senso della morte si rinvia a un articolo di Enrico Berti, “La morte tra metafisica e marxismo”, in «Idee», 1991, vol. 16, pp. 43-52. http://siba-ese.unisalento.it/index.php/idee/article/view/2875/2348

[70] «L’occorrenza, la frase, come che cosa, che accade, non rientra affatto nel problema del tempo bensì in quello dell’essere/non essere. Questo problema è suscitato da un sentimento: può non accadere nulla. Il silenzio non come frase in attesa ma come non-frase, non che cosa. Questo sentimento è l’angoscia o lo stupore: c’è qualcosa piuttosto che niente. Non appena ciò è messo in frasi, l’occorrenza è concatenate, registrata e obliata nell’occorrenza di questa frase che, dichiarando il C’è, lega l’occorrenza comparandolo a con la sua assenza. […] Anche Lei fa l’ipotesi di una traccia? Di un silenzio o di un bianco che cancella l’avvenimento? […] L’Ereignis è effettivamente il lampo che fa apparire qualcosa (un universo di frase) ma che acceca e si acceca in ciò che illumina? Questo ritiro è esso stesso una frase? (…) O si tratta di un altro tipo di silenzio ancora? Di un altro tipo silenzio. Che non verte mai su una istanza in un universo di frase, ma sull’occorrenza di una frase. Non ci sarebbe più presentazione. – Ma Lei scrive: “È impossibile che non ci sia frase”! – È proprio questo: il sentimento che l’impossibile è possibile. Che la necessità è contingente. Che occorre concatenare, ma che non ci sarebbe di che concatenare. L’“e” senza presa. Quindi, non soltanto la contingenza del come del concatenamento, ma la vertigine dell’ultima frase. Assurdo, evidentemente. Ma il lampo ha luogo – lampeggia, esplode nel nulla della notte, della nuvola, del cielo blu». D, pp. 102-3.

[71] Nell’intervista del 1988 con van Reijen e Veerman, “An Interview with Jean-François Lyotard”, art. cit., p. 302, Lyotard afferma che: «l’intellettuale moderno era una figura dell’Illuminismo, e tutti gli intellettuali, a prescindere dalla parte per cui patteggiavano, (eccetto, naturalmente, i nazisti), fondavano la loro legittimità, la legittimità del discorso pubblico attraverso cui designavano la giusta causa e di cui si rendevano portavoce, nella grande metanarrazione dell’emancipazione.  Gli intellettuali avevano sempre però l’autorità per tale discorso in comune, e questo era fondato sull’idea generale di una storia che procede verso il proprio fine ‘naturale’, cioè l’emancipazione dell’umanità dalla povertà, ignoranza, pregiudizio e assenza di godimento. Attualmente non abbiamo il sostegno delle metanarrazioni emancipative. Quello che rimane è il minimo richiesto per ciò che chiamo una politica della resistenza. Cosa vuol dire resistenza? Quali sono i punti di resistenza? Da un lato sono quelli di cui stavo parlando mentre discutevo del rispetto per i diritti naturali, in altre parole quelle libertà dette elementari (e nostro dovere è intervenire quando sono a rischio); d’altro canto c’è però una resistenza che è forse più segreta e più specifica, e riguarda maggiormente e allo stesso tempo anche più la condizione politica contemporanea che, come dicevamo, viene investita nel campo culturale. Mi riferisco a una resistenza dentro e attraverso la scrittura come iscrizione che attende il non scrivibile. Il vero compito politico oggi, per lo meno per ciò che ha anche a che fare con il culturale (e non dovremmo davvero dimenticarci, anche se potremmo mantenere un silenzio prudente sull’argomento comunque molto importante, per quanto sia ‘anche solo’ capitale), è di far crescere la resistenza che la scrittura offre al pensiero costituito, a quello che è già passato, a quello che tutti pensano, a quello che ben conosciuto, all’ampiamente riconosciuto, a quello che è ‘leggibile’, a tutto ciò che può cambiare la sua forma». Gérard Sfez ha fatto il punto sull’«eclisse del politico» nel concetto di différend che avviene nel Lyotard successivo al Dissidio. Si veda G. Sfez, “The Writings of the Differend”, in  C. Nouvet, Z. Stahuljak, and K. Still (eds.), Minima Memoria, cit., pp. 86-105, in particolare le pp. 90-4. In un’altra intervista con Elizabeth Weber, datata 1991, Lyotard ammette che: «non voglio e non posso più investire politicamente sui conflitti contemporanei nella stessa misura in cui ho potuto investire sul dissidio marxista, per una ragione molto semplice: ora sappiamo (anche “la sinistra” lo sa, suo malgrado) che non esiste un’alternativa globale al capitalismo, e che quei conflitti dovranno essere regolati all’interno del sistema capitalista. Di conseguenza, più che la dimensione di un dissidio, essi hanno la dimensione della “lite”». Si veda Aa.Vv., Pensiero al presente, cit., pp. 33-4.

[72] «Se la politica fosse un genere e se tale genere pretendesse di assurgere a questo stato supremo, si farebbe presto a dimostrare la vanità della pretesa. Ma la politica è la minaccia del dissidio. Essa non è un genere, è la molteplicità dei fini, e la questione del concatenamento per eccellenza. Essa sprofonda nella vacuità in cui “accade che…”. Essa è, se si vuole, lo stato del linguaggio, ma non c’è un linguaggio. E la politica consiste nel fatto che il linguaggio non è un linguaggio ma delle frasi, o in quello che l’essere non è l’essere ma dei C’è. Essa è l’essere che non è, uno dei suoi nomi. […] Tutto è politica se politica è la possibilità del dissidio in occasione del minimo concatenamento. Ma la politica non è tutto se si crede con ciò che essa sia il genere che contiene tutti i generi. La politica non è un genere». D, pp. 175-6.

[73] Il penultimo blocco teorico del Dissidio è dedicato Marx, al modo in cui Lyotard piega nella propria agonistica frasale alcuni dei concetti chiave del filosofo di Treviri (lavoro, merci, denaro, valore di scambio eccetera). Il conflitto profondo tra i detentori dei mezzi di produzione, i capitalisti, e i venditori della propria forza lavoro, i proletari, è secondo Lyotard il più forte dissidio della società contemporanea: «ma il verdetto sempre pronunciato in favore del tempo guadagnato, se pone fine alle liti, può allo stesso tempo esasperare i dissidi». D, p. 223. La sussunzione del lavoro vivo in lavoro morto da parte del capitale nasconde solo malamente il torto che il genere economico compie quando fagocita le frasi che «non obbediscono alle regole dello scambio». Ecco come Lyotard, in pratica, traduce il libro I del Capitale: «Il lavoro è sottoposto alla regola dello scambio due volte. Le condizioni di lavoro nel sistema capitalista sono tutte il risultato dell’egemonia del genere economico, nel quale si tratta di guadagnar tempo. Per se stesso, il lavoro ignora questa posta. C’è un dissidio insolubile fra lavorare e guadagnar tempo. I sentimenti (tristezza, collera, odio, alienazione, frustrazione, umiliazione) che accompagnano tali condizioni di lavoro nascono da questo dissidio e lo segnalano. – La subordinazione del lavoro allo scambio si chiama anche salariato. Il genere economico presenta quest’ultimo come un contratto tra un venditore e un acquirente di “servizi”». D, p. 221. Queste pagine del Dissidio registrano il profondo tentennamento lyotardiano sulla filosofia di Marx: da una parte egli si chiede: «il marxismo [inteso «come sentimento del dissidio»] non ha finito il suo compito, ma come continua?» (p. 215), e, dall’altra, Lyotard interpreta tutta la filosofia di Marx secondo la griglia teorica della Notizia Kant 4, l’ultima, quella che termina con le analisi sull’entusiasmo e i segni di storia. In questo senso, il Marx lyotardiano diviene un’estensione del Kant storico-politico letto in chiave frasale: «Marx tenta di trovare l’idioma che la sofferenza dovuta al capitale reclama. Nella sofferenza e nella lotta di classe, che è un referente per frasi cognitive (quella dello storico, del sociologo, dell’economista), egli crede di avvertire la domanda del proletariato che è l’oggetto di un’Idea, un ideale della ragione, l’umanità lavoratrice emancipata. (…) Il comunismo (…), questa finalità è segnalata da segni di storia, l’entusiasmo che le lotte dei lavoratori possono suscitare. (…) Marx intende il sentimento di entusiasmo come una domanda proveniente da un sé (ideale, emancipato). Il referente dell’Idea di comunismo è tradotto in soggetto (destinatore) che prescrive il comunismo. L’essere comune vuole se stesso. Una cosa che può formularsi soltanto nel genere speculativo». D, pp. 215-6. Conseguentemente, Lyotard si spinge fino a obiettare a Marx la costruzione indebita dei pontaggi effettuati: «“Dar la parola” al proletariato significherà dotarlo di una realtà storico-politica. Marx costruisce l’Associazione internazionale dei lavoratori. Egli interpreta così quel segno che è l’entusiasmo suscitato dalla Comune come se esso segnalasse il progetto politico della classe reale e come se delineasse l’organizzazione di un partito reale. Abbiamo qui un secondo “passaggio” illusorio: il primo passa dal segno che è l’entusiasmo solidaristico all’ideale di un soggetto rivoluzionario, il proletariato; il secondo passa da questo ideale all’organizzazione politica reale della classe operaia reale». D, p. 216. Inoltre, è da quest’indebiti pontaggi marxiani che per Lyotard discendono tutti i conflitti di legittimità fra i vari movimenti operai e i rispettivi partiti comunisti. Ciò che comunque Lyotard non riesce a erigere attraverso il proprio dispositivo frasale è un fronte teorico in grado di contrastare «l’egemonia del genere economico», il genere che in ambito postmoderno ha sussunto tutti gli altri e vige incontrastato grazie al suo potere permutativo di natura irrefrenabile e onnipotente: «l’eterogeneità dei regimi di frase nonché dei generi di discorso (delle poste in gioco) trova un idioma universale, il genere economico, un criterio universale, la moneta del più forte, cioè quella più credibile, più capace di dar tempo, quindi di riceverne». D, p. 222.

[74] D, p. 86.

[75] Naturalmente il ruolo giocato da Marx e Freud in Lyotard è complesso e già da Discours, figure del 1971 entrambi figurano nella sua filosofia in modo non passeggero, rivestendo inoltre negli anni significati e ruoli differenti. Mi riservo di approfondire in modo organico e rigoroso la lettura lyotardiana di Marx e Freud in un articolo successivo.

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