Dall’onnipotenza al contatto: due letture femminili del riconoscimento hegeliano

 Alessandra Campo

Abstract: This article deals with the concepts of recognition in the work of philosopher Judith Butler and psychoanalyst Jessica Benjamin. They both offer interpretations of the famous fourth section of Hegel’s Phenomenology of Spirit, and although these two readings raise questions on the same topics, they make use of different conceptual frameworks and achieve heterogeneous results. In particular, this article shows the incapacity of their positions to fully convey, within the notion of recognition, the articulation of an intersubjective/horizontal dimension and an infrasubjective/vertical one. Like those philosophers identified with “negative thought”, Butler and Benjamin draw almost exclusively on a Kleinian-Lacanian psychoanalysis and rely on a radical deconstructionism, which, on the one hand prevents Butler from formulating a well-grounded ethics of recognition and on the other prevents Benjamin from taking into account the vertical relation that everyone has with inner alterity, that is the emotional body.

 

 

Premessa

Judith Butler e Jessica Benjamin rappresentano senz’altro due tra le voci femminili più rilevanti all’interno dell’attuale dibattito sul riconoscimento, soprattutto in ambito psicoanalitico. In particolare, ciò che le accomuna è la rilettura della psicoanalisi alla luce della teoria hegeliana del riconoscimento, sebbene, con riferimento alla prima, occorra precisare che si tratta della psicoanalisi di stampo kleiniano-lacaniano, mentre, nei riguardi della seconda, è piuttosto l’impostazione intersoggettiva[1] a farla da padrona. Per comprendere le loro posizioni è perciò opportuno, in via preliminare, offrire un quadro generale che descriva gli sviluppi interni alla psicoanalisi e al femminismo, cornici teoriche cui entrambe appartengono, pur con significative differenze. Questo quadro generale tenderà a privilegiare la prospettiva intersoggettiva, soprattutto così come viene presentata da Benjamin nei suoi lavori, ma lo farà soltanto per agevolare una descrizione sommaria della strada che la psicoanalisi ha preso dopo Freud. È opportuno precisarlo dal momento che, nelle conclusioni del presente articolo, si tenterà, per così dire, una manovra all’indietro tale che, se il passaggio dalla psicoanalisi classica a quella relazionale può essere sintetizzato nella formula “dalla pulsione alla relazione”, il ritorno da questa ad alcuni concetti fondamentali della prima trova invece espressione nella seguente: “dalla relazione alla pulsione”.

1)      Femminismo e psicoanalisi: la scoperta dell’altro-da-sé

La visione intersoggettiva è il risultato di un lungo processo iniziato quando, già al tempo di Freud[2], la psicoanalisi spostò il proprio obiettivo concentrandosi sempre più sulle fasi precoci dello sviluppo della prima e della seconda infanzia. Questo spostamento ha avuto importanti ripercussioni in quanto, attribuendo alla diade madre-bambino «un’importanza che rivaleggia con quella del triangolo edipico»[3], fino ad allora dominante, ha stimolato, conseguentemente, una nuova interpretazione dello sviluppo dell’individuo. Secondo Benjamin, in particolare, lo spostamento dall’edipico al pre-edipico, e cioè dal padre alla madre, ha cambiato l’intero edificio della psicoanalisi in quanto la psiche, dapprima concepita come «un campo di battaglia fra pulsioni e difese»[4] (si pensi all’immagine vulgata del soggetto umano come un sistema a energia monodica proposta da Freud), è diventata ora un dramma interiore riguardante l’io e gli oggetti. Da qui a interessarsi alla relazione fra il Sé e l’Altro, centrale nella prospettiva intersoggettiva, il passo fu breve. Se, infatti, gli oggetti non sono che rappresentazioni mentali degli altri, la concentrazione sulle relazioni fra l’io e i suoi oggetti interni ha inevitabilmente condotto a prestare maggiore attenzione al sé e alla sua relazione con l’altro[5].

Negli ultimi venticinque anni si è assistito a un vertiginoso aumento di studi sulle fasi precoci dello sviluppo del sé e, in particolar modo, su come tale sviluppo sia fortemente influenzato dalla relazione con l’altro. Lo spostamento d’interesse ha coinvolto varie correnti psicoanalitiche tra le quali alcune hanno privilegiato la relazione interna con l’oggetto e altre quella esterna, cioè con un oggetto reale. Seppur con le dovute differenze fra scuola inglese e statunitense, si può affermare che questa distinzione è alla base di due orientamenti interni alla psicoanalisi: la prospettiva intrapsichica e quella intersoggettiva. Mentre la prima concepisce la persona come un’unità separata con una complessa struttura interna, la seconda descrive le capacità che derivano dall’interazione fra il sé e gli altri, un’interazione reale che ha luogo tra due soggetti reali. In questo modo, anche quando descrive soltanto il sé, la teoria intersoggettiva ne vede la solitudine come un momento particolare nell’ambito delle relazioni, e non come una condizione originaria dell’individuo[6]. Scrive Benjamin: «L’area cruciale che scopriamo con la teoria intrapsichica è l’inconscio, l’elemento cruciale che esploriamo con la teoria intersoggettiva è la rappresentazione del sé e dell’altro come esseri distinti, ma in relazione tra loro»[7]. La distinzione fondamentale fra i due approcci consiste infatti nel modo di concepire l’altro e la relazione con esso[8]. La prospettiva intrapsichica, pur riconoscendo il contributo dell’oggetto al soggetto, non ha mai confrontato quest’ultimo con l’altro esterno, cioè con qualcosa di esterno alle sue proiezioni e identificazioni e, in questo modo, ha lasciato che la trama proiettivo-introiettiva del soggetto prevalesse sulla relazione esterna con l’altro fuori di lui. Conseguentemente, secondo alcuni, non è stata capace di produrre una critica del sé indipendente perché chiuso in se stesso. Dal canto suo, la teoria intersoggettiva, alla cui elaborazione e diffusione hanno contribuito tanto la psicoanalisi quanto il femminismo, emerge, invece, da una nuova attenzione alla madre nel pensiero psicoanalitico che, attraverso una lunga serie di passaggi interni alla teoria, ha consentito di fuggire definitivamente il cosiddetto mito della mente isolata e delle relazioni esclusivamente fantasmatiche con gli oggetti-altri. «L’idea che il dialogo Sé-Altro sia il fondamento dello sviluppo psichico -scrive Benjamin- è cresciuta in parallelo con la rivalutazione della diade materna primaria e delle sue possibilità affettive e comunicative»[9]. Tuttavia, precisa Benjamin, riconoscere il sé intersoggettivo non significa negare l’importanza dell’intrapsichico. La visione intersoggettiva, in realtà, seppur distinta da quella intrapsichica, non può infatti, secondo Benjamin, farne a meno: ciascuna concentra l’attenzione su aspetti egualmente importanti, sebbene diversi, della vita psichica. Pertanto, in virtù di questa profonda interdipendenza, Benjamin si impegna a cogliere entrambe le realtà: «senza l’inconscio -scrive- la teoria intersoggettiva si fa unidimensionale, perché solo sullo sfondo dello spazio privato della mente, l’altro campeggia in rilievo»[10].

Si può ben comprendere come il ruolo del femminismo, ai fini di questa rivalutazione, sia stato fondamentale. La psicoanalisi classica, più che non rappresentare l’attività della madre nel produrre e sostenere la vita, si è limitata, precisa Benjamin, a darla per scontata. La sua accentuazione del ruolo paterno insieme col postulato che definisce la femminilità soltanto come altro rispetto alla mascolinità sono stati di fatto all’origine di una concezione, durata a lungo, che riconduceva il ruolo della madre quasi esclusivamente alla capacità, meccanica, di ridurre la tensione incontinente del bambino attraverso la soddisfazione dei suoi bisogni. In tal modo, la madre appariva come un oggetto del bambino e la loro relazione pareva basarsi esclusivamente su una pulsione orale e su una dipendenza fisiologica, cioè su un bisogno a-specifico di qualcuno che consentisse di scaricare la tensione. Per Benjamin però la descrizione freudiana della femminilità (ereditata in seguito dai lacaniani) va inserita nel contesto della cultura patriarcale e fatta al contempo dipendere da una specifica costellazione psichica che è quella del maschietto in posizione edipica[11]. La prospettiva delle relazioni oggettuali e il femminismo a questa ispirato hanno invece rivalutato il ruolo della madre, facendo luce su nuovi aspetti della relazione madre-bambino che mostrano come entrambi siano due soggetti autonomi capaci di rispondere in modo personale. Per Benjamin è significativo che questa concezione dell’intersoggettività sia scaturita dall’attenzione alla diade psicoanalitica e a quella composta da madre-bambino e cioè da quella rinnovata attenzione al dialogo tra sé e altro che ha consentito di reintegrare soggettività e relazionalità tanto nel rapporto paziente-analista, quanto in quello bambino-genitore.

Se tuttavia è indubbio che il femminismo abbia contribuito quanto la psicoanalisi a questo progetto intersoggettivo, pure è opportuno sottolineare con Benjamin che questo contributo è stato offerto solo da un certo femminismo e da una certa psicoanalisi: più precisamente dal femminismo e dalla psicoanalisi ispirate alla scuola delle relazioni oggettuali. In L’ombra dell’altro Benjamin si propone, come in precedenza, di lavorare nello spazio definito dagli interessi, in parte coincidenti, della psicoanalisi e del femminismo, ma più che negli altri suoi lavori si dedica qui a un confronto con le questioni sollevate dagli sviluppi post-moderni della teoria femminista, che mettono in rilievo «il problema della differenza, la posizione del soggetto e la costruzione della conoscenza»[12]. L’interrogativo centrale della teoria intersoggettiva riguarda la questione di come e se il sé possa realmente arrivare a una relazione con l’altro esterno senza assimilarlo o esserne assimilato per identificazione, e tale interrogativo può essere considerato, a parere di Benjamin, un ulteriore aspetto del problema, affrontato in molti scritti femministi, relativo alla posizione da cui è possibile rispettare la differenza, o meglio, la molteplicità delle differenze. Benjamin osserva come tale dibattito sia andato di pari passo con il dibattito sulla questione del soggetto che, rileva la psicoanalista, «ha dato origine ad alcune obiezioni proprio alla nozione di riconoscimento»[13] così preziosa per la teoria dell’intersoggettività. Ecco perché, nel terzo capitolo del suo L’ombra dell’altro, l’autrice decide di affrontare queste obiezioni. Da questo confronto dipendono infatti le sorti di una teoria intersoggettiva fondata su basi solide tanto in psicoanalisi quanto in filosofia. Proprio la forma della sfida alla nozione filosofica di soggettività era stata d’altronde ciò che aveva consentito a Benjamin di distinguere tra due correnti interne al femminismo: una francese, post-strutturalista e decostruzionista di stampo lacaniano,  e una d’ispirazione francofortese, che assume invece come principale riferimento la scuola delle relazioni oggettuali. Rimando alle prime pagine del capitolo “L’ombra dell’altro soggetto” per il quadro storico-filosofico all’interno del quale queste due correnti hanno preso forma e sono venute distinguendosi[14]. Ciò che qui ci interessa è come al primo gruppo di femministe “appartenga” Judith Butler e come invece del secondo faccia parte Jessica Benjamin; e come, caratteristica della prima tendenza sia la decostruzione del soggetto che così diviene scisso, disperso o decentrato, laddove, centrale  per le femministe relazionali, è la questione del riconoscimento dell’altro concreto. Tale precisazione si rivela importante soprattutto se si considera come questa diversa provenienza, che si ripercuote anche nella scelta di diversi ambiti di ricerca, sia ciò che principalmente ci permette di spiegare le ragioni del loro disaccordo.

Un dialogo tra Jessica Benjamin e Judith Butler esiste ed è sostenuto da entrambe nei loro rispettivi lavori. In particolare, è nel capitolo sesto di La Disfatta del genere e nei capitoli secondo e terzo di L’ombra dell’altro che le due autrici si riferiscono esplicitamente l’una all’altra. Alla Benjamin Butler attribuisce i meriti di aver tentato di elaborare un tipo di “psicoanalisi non-eterosessista” e di aver dato avvio alla più importante discussione su genere e sessualità oggi a nostra disposizione, all’incrocio tra filosofia e psicoanalisi, mentre, nei capitoli sovramenzionati, la psicoanalista americana s’impegna a confutare alcune posizioni della prima, di cui pure apprezza la tenacia e l’impegno, in nome dell’ideale del riconoscimento reciproco. Per motivi di spazio ed esigenze di semplificazione individueremo dapprima il rapporto che ciascuna intrattiene col “padre del riconoscimento” sottolineandone, se necessario, eventuali fraintendimenti e nelle conclusioni, dopo un rapido excursus sui nuclei tematici rispetto ai quali le due autrici dissentono, cercheremo di articolare una critica incrociata che, assumendo su di sé le ragioni di entrambe, riesca nondimeno a creare uno spazio terzo che però avrà meno il carattere di un luogo intersoggettivo di quanto sulla base di queste premesse si è potuto credere.

2)      Riconoscere Judith Butler

Pensatrice di spicco all’interno dell’attuale dibattito filosofico internazionale, Judith Butler,  insegnante nel Dipartimento di Retorica e Letterature comparate alla University of California di Berkeley e professoressa alla European Graduate School, è una delle teoriche più discusse in ragione delle sue riflessioni sul potere, la sessualità e l’identità. Il suo ambito di ricerca e di scrittura s’inquadra nell’orizzonte del post-strutturalismo decostruzionista e del femminismo postmoderno o lacaniano, sebbene qualsiasi definizione si tenti di assegnarle, seppure corretta, risulti pur sempre riduttiva e imprecisa. Per questa ragione allora è più proficuo individuare i nuclei tematici affrontati dalla filosofa californiana la quale, negli ormai otto libri tradotti in italiano[15], si è impegnata ad analizzare la relazione dinamica tra i concetti di identità, sessualità, autorità e potere. Irraggiungibile però sarebbe un pensiero così eclettico senza, per un verso, il costante riferimento a Michel Foucault -sia per quel che riguarda gli studi sul potere e sulla soggettivazione, sia per quel che concerne quelli intorno alla cura di sé[16]– e, per l’altro, al decostruzionismo[17] di Derrida che, per parte sua, rende possibile un dialogo radicale con un ampio ventaglio di autori e paradigmi altrimenti difficile. Obiettivo dell’intera produzione della pensatrice è infatti la critica al soggetto politico moderno e alle categorie che rendono possibile la sua definizione. Tale critica, seppur sociale, non può tuttavia prescindere da una critica al soggetto filosofico e psicoanalitico, da come cioè viene pensato, strutturato e reso possibile l’Io. Ciò accade perché vi è una dimensione intersoggettiva e relazionale che presiede ai processi di soggettivazione e cui è necessario guardare in una nuova luce[18]. Per questo motivo le sue analisi delle forme della soggettivazione foucaultianamente intese non sono considerate solo nella dimensione genealogica o storico-strutturale, venendo piuttosto declinate anche secondo una prospettiva ontologico-relazionale in virtù della quale le norme che precedono la nostra soggettivazione sono sempre mediate da una relazione umana. E la relazione umana è per Judith Butler una relazione di desiderio.

Se alla tradizione hegeliana che associa il desiderio al riconoscimento, si accosta l’eredità spinoziana per cui ogni essere umano è desiderio di esistere e perseverare nel proprio essere (conatus) e, a questa, la militanza femminista nei luoghi in cui il desiderio si nasconde, otteniamo il distillato più puro dell’impegno butleriano. Complessivamente l’opera di Butler è paragonabile a un movimento di discesa e risalita che invade l’apollineo giorno con le viscere della notte più nera. Il suo coraggio e la sua volontà di vedere (e vedersi) l’hanno infatti accompagnata fin nei più bui sotterranei a incontrare le esistenze che vi dimorano: esistenze sospese, nascoste e rifiutate che non possono essere esibite alla candida luce del giorno, una luce fatta di norme e categorie la cui forza è quella della distinzione. La genealogia foucaultiana le ha insegnato che quella luce si alimenta di una profonda oscurità e collima con essa, in quanto i dispositivi che la riflettono funzionano sulla base del distacco da e dell’allontanamento di qualcun’altro: quei dispositivi sono cioè circoli chiusi di sapere-potere che si arrogano il diritto di tracciare un confine tra dentro e fuori, o meglio, sono essi stessi quel confine e dipendono da quel fuori. A tal proposito si crede necessario che ci sia qualcuno da respingere per respingere, qualcuno da rifiutare per rifiutare. E poi, soprattutto, si crede necessario che ci sia uno spazio o un luogo dove sistemare questi respinti e questi rifiutati prima di allontanarli. Ma non è così. Butler con tutti i suoi lavori non smette di mostrarci, seguendo in questo la preziosissima lezione di Foucault, che in realtà c’è solo un impulso, un desiderio di respingere e rifiutare: c’è solo una paura. Quel qualcuno e quello spazio vengono dopo, anzi sono inaugurati dal gesto che organizza la paura per un non troppo strano caso di circolarità performativa: paura (dell’altro, di sé) – desiderio di sconfiggerla – azione (esclusione) – realtà/oggetto (esclusi) – paura (di nuovo) – desiderio di sconfiggerla e così via…si spera non all’infinito.

È a questo punto che subentra Hegel, il quale sulla paura, anzi sul terrore che la presenza dell’altro incute nel sé, ha scritto “qualcosa” nella sua Fenomenologia. Butler lo incontra, come ci racconta ella stessa, quasi per necessità. Assorbita dalla riflessione filosofica e politica sulle condizioni e i destini della subordinazione e dell’esclusione scrive: «avevo proprio la sensazione di trovarmi all’interno del termine che stavo analizzando»[19].

3)      Una lettura post-hegeliana del riconoscimento

Quella di Butler è però una lettura post-hegeliana del riconoscimento ed è tale perché essenzialmente post-strutturalista. Dagli scritti iniziali di politica sovversiva del genere sino alle riflessioni pacifiste dell’ultima produzione è sì possibile reperire una profonda continuità derivante dalle ascendenze hegeliane presenti nella sua concezione della soggettività, ma queste ascendenze sono puntualmente filtrate dal massiccio uso del metodo genealogico di Foucault e dal ricorso alla psicoanalisi lacaniana. Invero, è proprio in virtù di un recupero della teoria hegeliana del riconoscimento che Butler negli anni ‘90 contesta il cosiddetto “binarismo sessuale”[20], così come, è in virtù di una rielaborazione della stessa teoria che, in testi successivi al 2000, tematizza la possibilità di un’etica non-violenta[21]. Ma, a uno sguardo attento, entrambe queste operazioni risulterebbero impossibili senza la mediazione del post-strutturalismo decostruzionista, una mediazione che è, del resto, anche ciò che consente a Butler di collocarsi, come sottolinea A. Cavarero nella prefazione al testo Soggetti di desiderio, tra coloro che rifiutano, perché non convinti del tutto, l’interpretazione vulgata di Hegel secondo la quale l’intera Fenomenologia culminerebbe in un trionfo della totalità, che è trionfo dell’unità rispetto al molteplice, dell’universale rispetto al particolare, dell’identità sulle singole differenze[22]. L’impegno di Butler è in questo senso originale nella misura in cui, pur appartenendo a un corrente filosofico-culturale che difficilmente guarda a Hegel come a una fonte d’ispirazione (e ciò proprio in virtù del carattere totalitario e assolutizzante che attribuisce alla sua filosofia e che mal si combina con l’elogio della dispersione, il culto del frammento e la destrutturazione perpetuata del reale in cui tale corrente grossomodo si risolve), riesce comunque a trovare un metodo, nel senso proprio di via, per dialogare col “padre”, un metodo che anzi rinviene, proprio nelle pagine della Fenomenologia, le primigenie forme di quella dispersione, frammento e destrutturazione, le loro, in altri termini, condizioni di possibilità.

Quando Butler decide di analizzare la Fenomenologia nei suoi anni giovanili decide infatti di farlo secondo un doppio registro: da un lato, ricostruisce puntualmente l’itinerario del soggetto che nel corso delle sue avventure con l’alterità cerca appunto di inglobarla nel suo processo di auto-riflessione mirante al raggiungimento dell’integrità ontologica; dall’altro, soffermandosi su alcune figure che segnano il viaggio del soggetto romantico hegeliano, come ad esempio l’incontro fra le due autocoscienze e la figura della coscienza infelice, vi rintraccia un’alterità capace di volta in volta di resistere all’incorporazione o all’assoggettamento. A parere di Butler (e vien da dire quasi solo suo), questa irriducibile alterità di cui il soggetto fa esperienza, lungi dal lasciarsi risolvere nel soggetto stesso, ne mina piuttosto il sogno di autonomia e trasparenza[23]. Il rapporto della filosofa queer con Hegel è quindi ambivalente[24] perché, se da un lato ne rifiuta il teorema del riconoscimento in quanto fondantesi su una reciprocità simmetrica tra l’io e il tu che si incontrano, dall’altro, nell’interpretarlo, com’ella stessa scrive, “fedelmente”, affiora, malgrado ciò, come il riconoscimento sia il nome da dare al processo irreversibile attraverso il quale si diventa continuamente altro da ciò che si è. Invero, se si dovesse seguire alla lettera la Fenomenologia dello Spirito, se ne dedurrebbe, scrive Butler «che l’io è costantemente trasformato dagli incontri a cui è sottoposto»[25] e ciò perché qualunque io emerge nella Fenomenologia, si rivela sempre come la rimozione temporale del suo precedente aspetto: esso si trasforma durante l’incontro con l’alterità, ma non per far ritorno a se stesso, quanto piuttosto per diventare il sé che non è mai stato. In altri termini, essere se stessi comporta continuamente il distacco da ciò che si è e il non godere della prerogativa dell’auto-identità (o certezza di se stesso, come Hegel la chiama). Per questo motivo la lotta hegeliana per il riconoscimento non è per Butler finalizzata a produrre l’identità e perciò l’unità, o per lo meno, non consiste semplicemente in un atto reciproco in virtù del quale io riconosco che l’altro è strutturato al mio stesso modo. Al contrario, in questa lotta che si annuncia come lo sforzo di entrambe le figure di annichilirsi a vicenda, “l’altro ci altera” evidenziando come nostra condizione ontologica quella di esseri per cui «lo stare dentro di sé si rivela impossibile»[26].

4)      L’ec-stasi della Fenomenologia

Andare oltre Hegel significa perciò concepire l’incontro iniziale con l’altro nei termini di un fallimento del progetto narcisistico alla base di quella che è una cattiva reciprocità, una reciprocità sorretta da una somiglianza, una reciprocità come identità[27]. Per la filosofa statunitense, l’incontro con l’alterità è infatti irriducibile a qualsivoglia principio di identità e il riconoscimento dell’altro non è riconoscimento dell’assoluta somiglianza che ci lega. Questa è solo la stanza luminosa e piena di specchi in cui avviene il riconoscimento di Hegel: una stanza «in cui non c’è nessuna opacità, nessun attrito che offuschi le finestre o attenui la (troppa) luce»[28]; o meglio, questi attriti, se ci sono, sono ben presto soffocati o oscurati da una nuova luminosità. Butler insiste invece sulle zone d’ombra, sugli scarti e sugli spossessamenti più che sulle ri-appropriazioni, e perciò la sua lettura si configura come una lettura post-hegeliana del riconoscimento. Secondo l’autrice infatti «è proprio la mia opacità a me stesso a generare la capacità di attribuire un certo tipo di riconoscimento agli altri»[29].

Nel proporre la sua interpretazione, che risente notevolmente degli influssi della cultura francese del secondo Novecento, Butler muove dall’osservazione di come «l’altro hegeliano si trovi sempre fuori, all’esterno. O comunque è inizialmente esterno, e solo in un secondo momento viene riconosciuto come costituivo del soggetto»[30]. Questa scena iniziale, più o meno comunemente accettata, ha indotto, secondo Butler, alcuni critici e studiosi[31] a concludere che il soggetto hegeliano compia una «grossolana e indiscriminata assimilazione di ciò che è esterno, riducendolo a una serie di aspetti interni»[32]. Altre letture invece[33], tra cui la sua, hanno piuttosto sostenuto come la relazione con l’altro sia «eminentemente ek-statica»[34], il che equivale a dire che l’io trova ripetutamente se stesso al di fuori di sé senza che nulla possa mettere fine «all’impulso ripetuto e continuo di quest’esteriorità»[35] che è paradossalmente la sua. Quando Hegel introduce la nozione di riconoscimento nella sua Fenomenologia, egli -sostiene Butler- narra il primario incontro con l’altro in termini di perdita di sé. Infatti, scrive Hegel «l’autocoscienza, (…) è uscita fuori di sé (…) ritrovandosi come un’altra essenza, ha perduto se stessa»[36] e ciò che vuole suggerire con quest’espressione è che qualunque sia la coscienza, qualunque sia il sé -scrive Butler- «esso troverà se stesso, solo e comunque, in quanto riflesso di sé in un altro»[37]. Il riconoscimento ha inizio perciò con l’intuizione di essere perduti nell’altro, spossessati da un’alterità che in parte riflette ciò che siamo e, in questo senso, rappresenta, una forma più evoluta di desiderio: non più una semplice distruzione dell’alterità, ma l’inquietante dinamica in cui si cerca di trovare se stessi nell’altro, solamente per scoprire che tale rispecchiamento è il segno della propria espropriazione e perdita [38].

In altre parole, per la filosofa americana, la nozione ek-statica del sé offertaci da Hegel implica che per essere se stessi è necessario passare attraverso la perdita di sé, dopo di che, non ci sarà mai più restituito ciò che eravamo. “Ek-stasi” vuol dire letteralmente “esistenza fuori di sé” e per Butler questa è la radice di quell’originaria esposizione agli altri che ci spossessa e non ci restituisce mai un solo io, mai il nostro io. In un certo senso, scrive, «io sono sempre altra rispetto a me stessa e non si dà alcun momento finale in cui possa ritornare me stessa»[39]. Non c’è ritorno, non c’è possesso ma sempre e solo un’apertura e uno smarrimento: estroflessi ed espropriati, costretti ad oscillare tra una perdita, un recupero e una nuova perdita, veniamo costantemente trasformati dai nostri incontri con l’altro che non hanno né inizio né fine perché noi siamo originariamente e irrimediabilmente consegnati agli altri, costitutivamente alterati fin da quel primo incontro con l’altro che è la nostra nascita. Questa è per Butler la vera scena inaugurale del soggetto, una scena tragica e dalle tinte fortemente post-strutturaliste che lo vede fin da subito agito da e riflesso in un’alterità che gli è estranea e che tuttavia lo determina. Tale relazione con l’Altro, seppur radicale e costitutiva rispetto al soggetto, è nondimeno profondamente ambivalente. Il prezzo che si paga per la conoscenza di sé è infatti la perdita di sé ed è l’altro a offrire l’opportunità sia di assicurare che di minare tale conoscenza. Ecco il rischio, ecco la vulnerabilità, ecco il declino di ogni luminoso sogno di onnipotenza. Siamo esseri ontologicamente bisognosi e persi gli uni negli altri e il riconoscimento è l’atto che testimonia questo ritorno al sé ripetutamente negato: non c’è nessun io primigenio cui tornare, nessuna auto-referenzialità da recuperare. L’unico ritorno probabile è un ritorno con l’altro dal quale è impossibile affrancarsi perché è proprio tale relazionalità a costituire il sé. Non si dà identità propria né assoluta coerenza con noi stessi perché l’altro, sia in qualità di mediatore di norme, sia come elemento di espropriazione della mia “auto-affezione”, mi costituisce e mi consegna a un’esteriorità che impedisce al mio sé di essere trasparente a se stesso.

5)      …e la “perdita” di Hegel

Il carattere post-hegeliano della lettura di Butler può forse ora esplicitarsi più agevolmente: esso consiste, come abbiamo accennato, nella ripresa e nell’isolamento di alcune figure e momenti della Fenomenologia a discapito di altri. Butler seleziona cioè i momenti di disillusione, delusione e disfatta, in quanto mostrano, e non solo al protagonista della Fenomenologia, come ogni sogno di trasparenza a se stesso, ogni progetto di auto-fondazione riflessiva e di assoluta autonomia non siano nient’altro che l’oggetto di un desiderio. Il “post” sembrerebbe quindi alludere alla necessità di superare e andare oltre colui che pure ha per primo messo a tema il riconoscimento: di fatto, Hegel non è riuscito a svilupparne un concetto autentico (o sarebbe meglio dire “puro”) in quanto alla tensione ha preferito la quiete della negazione assoluta. Sebbene infatti il riconoscimento emerga come verità dell’autocoscienza, è noto come questa verità venga poi ripetutamente distorta e sacrificata e come, d’altro canto, se l’altra autocoscienza non viene uccisa, sia solo per una sorta di “tornaconto personale”, solo cioè per poter portare avanti il proprio desiderio individuale di affermazione sull’intera realtà. Se questo tuttavia è vero, l’atteggiamento di chi, per costruire la propria argomentazione, privilegia e isola i momenti di spossessamento ed espropriazione, “dimenticando” quelli di sintesi e ricomposizione (presenti in ugual misura nelle pagine hegeliane), potrebbe in prima battuta assumere i contorni di una proiezione idealizzante che traspone nell’hegeliano il suo “post”, da stabilire poi se in modo cosciente, e dunque anche interessato, oppure no. Se così non fosse e posto che la luminosità accecante del Concetto viene più volte da Butler riconosciuta e rifiutata, perché restare legati a Hegel? Perché, cioè, arrivare a parlare, con riferimento alla quarta sezione, e non solo a quella, di “ontologia relazionale” e di “filosofia ek-statica”, laddove è piuttosto facile appurare che il rapporto da Hegel intrattenuto con la questione dell’alterità non è affatto riducibile al senso racchiuso in queste espressioni? Questo rapporto è infatti di gran lunga più complesso di quanto non emerga dalla lettura che Butler ne propone e forse, in questo senso, sarebbe più onesto limitarsi a riconoscere ad Hegel, come per esempio fa Benjamin, la mera paternità del termine “riconoscimento” senza pretendere di trovarvi in nuce la propria concezione filosofica[40]. Di fatto, questo tentativo sembra essere più l’oggetto di un desiderio (personale) e il risultato di una “certa moda” francese che non una pretesa avanzata con argomenti filologici e di storia delle idee.

Secondo l’interpretazione che Butler fornisce della teoria del riconoscimento, ogni essere umano viene dunque all’esistenza non come individuo padrone di sé, ma come soggetto caratterizzato da un coinvolgimento ek-statico con l’altro. Ogni soggetto esiste cioè fuori di sé, perché la realtà della sua identità dipende dal riconoscimento degli altri soggetti. Sebbene per Butler affermare questo significhi semplicemente, e forse in modo funzionale alla sua argomentazione, spostare l’attenzione su altre caratteristiche che strutturano l’incontro con l’altro, e non già negare una certa tendenza hegeliana a risolvere le forme dell’altro in aspetti immanenti al soggetto stesso e al suo progetto di autosufficienza, la sua lettura della sezione quarta risulta nondimeno fuorviante e parziale. Non è possibile infatti, almeno a parere di chi scrive, rilevare quella tendenza e, al contempo, metterla da parte a vantaggio di altri momenti che, per Hegel in primis, sono in sé inessenziali. Non si può cioè tributare ad Hegel la scoperta del carattere ek-statico della nostra esistenza perché, se di ek-stasi si vuole parlare con riferimento alla Fenomenologia, occorre semmai ricercarla in quelle luminose pagine conclusive in cui il singolo si scopre e si ricongiunge con l’Assoluto. E lì l’ek-stasi ha più il carattere di una gloriosa ricomposizione del molteplice in unità, peraltro al limite del religioso, che non quello di una dislocazione espropriante. In effetti, concetti come “espropriazione”, “perdita”, “spossessamento” e “vulnerabilità” sono quanto di più lontano dalla sensibilità hegeliana, una sensibilità che, nonostante vada necessariamente contestualizzata, resta comunque altra rispetto a quella della giovane filosofa che lo legge. Nei paragrafi successivi cercheremo pertanto di comprendere e dare un senso alla scelta operata da Butler, una scelta che, se per un verso è funzionale alla sua argomentazione, per altro, come vedremo, la indebolisce notevolmente.

6)      Una teoria foucaultiana del riconoscimento

La luminosità della stanza hegeliana riflette la più grande luce dell’idealismo tedesco cui, dopotutto, Hegel appartiene e questa luce è di volta in volta la luce della chiusura, della sintesi e della necessità dialettica che s’impone. Il sistema si chiude perché il desiderio è soddisfatto, ed è anzi postulato in linea di principio come soddisfacibile, altrimenti chissà se il filosofo di Stoccarda sarebbe partito per quel lungo viaggio ottocentesco. Il movimento a un certo punto si arresta e, per quanto le interpretazioni della fine della storia in Hegel siano assai controverse, l’esigenza che una “fine” vi sia anima nondimeno il passaggio da una figura all’altra della Fenomenologia e questo sempre e di nuovo. E, difatti, ciò che per Butler emerge come nostra condizione ontologica fondamentale, in Hegel è piuttosto una figura, una funzione. E se anche si volesse concedere qualcosa all’interpretazione che la filosofa californiana offre del riconoscimento in termini di irreversibile processo in cui si perde sempre una parte di sé, non si può tuttavia dimenticare che tale processo per Hegel ha una fine. C’è un momento in cui l’individuo è pienamente riconosciuto, in cui la singola autocoscienza diviene Spirito. Ogni ek-stasi è seguita da un’interiorizzazione incorporante: il soggetto ek-statico è cioè transitorio, inessenziale perché la perdita è continuamente risarcita e il possesso assicurato. L’ek-stasi in Hegel prefigura soltanto ciò che consente di diventare un nuovo soggetto acquisendo una nuova identità. Essa coincide essenzialmente col negativo e col momento antitetico dell’oggettività. Diversamente, se questo processo non avesse fine e se questa fine non venisse esplicitamente tematizzata come necessaria, Butler avrebbe ragione nel sostenere quanto afferma. Ma purtroppo la nozione ek-statica del sé che Hegel ci offre ci è subito sottratta: la perdita è una perdita e come tale va superata. Dal punto di vista del soggetto che cerca se stesso per auto-fondarsi la relazionalità non è la verità e l’altro, seppur fondamentale, è un ulteriore figura esterna che necessita di essere ridotta ad aspetto interno. C’è una necessità in Hegel che impone che la relazione si sdoppi nei due momenti del dominio e della sottomissione e che l’altro divenga la mia coscienza. Quelli esaltati da Butler, quindi, coincidono tutt’al più con passaggi e momenti e forse solo il suo desiderio e la sua sensibilità le hanno permesso di elevare a condizione ontologica quella che è al massimo una funzione, uno strumento del dispiegarsi, che è insieme un farsi, del Geist hegeliano, il quale alla fine, riesce a realizzare il suo desiderio.

Ciò che caratterizza il recupero butleriano della teoria del riconoscimento è però, fin dall’inizio, una particolare attenzione alla possibilità che il soggetto ha di intervenire sulle norme stesse che rendono possibile il riconoscimento e quindi la sua stessa esistenza ek-statica. In Butler la dipendenza del soggettivo dal sociale non implica infatti la passività del soggetto rispetto alla normatività della società di cui fa parte ma, al contrario, comporta la possibilità, per il soggetto, di intervenire sulle stesse norme che hanno permesso il suo emergere da una rete di relazioni. Questo vale tanto per la possibilità di “dislocare” le norme dell’identità sessuale in un mondo sociale dominato dall’eterosessualità obbligatoria, quanto per la facoltà di scegliere una condotta non-violenta in una società politica in cui le relazioni internazionali sono dominate da logiche di guerra, quanto, infine, per il rapporto dialettico tra soggetto e potere, un rapporto in cui il soggetto viene a configurarsi come un’escrescenza della logica e di qualsivoglia discorso. Ed è proprio a questo tipo di argomentazioni che è funzionale la lettura ek-statica della Fenomenologia. Se infatti, si privilegiasse soltanto quella tradizionale e vulgata, non si riuscirebbe a dar conto delle possibilità che il soggetto ha di trasformare le condizioni del suo assoggettamento in premesse per la sua libera soggettivazione. Se cioè non si focalizzasse l’attenzione su un’alterità capace di resistere all’incorporazione e all’assoggettamento, come sarebbe possibile delineare lo spazio per l’agency del soggetto?

Ogni lettura è un’interpretazione e ogni interpretazione, per quanto cerchi di sospendere il proprio punto di vista e i propri interessi, resta nondimeno ad essi collegata. In tal senso quella di Butler è una lettura foucaultiana del riconoscimento e, con quest’espressione, si vuole rendere quella commistione di hegeliano e post-hegeliano che caratterizza la sua singolare concezione. Il sottolineare con forza il momento della perdita, dell’espropriazione e della dislocazione sono funzionali in particolare a quell’ideale di riconoscimento critico che per Butler deve guidare la “rivolta” dei soggetti, i quali devono impegnarsi a riappropriarsi e a risignificare le catene e le trame di riconoscimento a cui sono, fin dalla nascita, legati e che li identificano prima e al di là della loro volontà-coscienza. Occorre infatti riconoscere il legame per arrivare a negarlo (criticarlo). Detto altrimenti, privilegiare lo scacco, l’apertura e lo spossessamento sono gesti che immediatamente fanno luce sulla possibilità, per il soggetto, di divenire tale, pur nella consapevolezza, che per Butler non si deve mai abbandonare, di appartenere a un contesto relazionale, di essere esposti costitutivamente gli uni degli altri e di essere per questo chiamati ad interpretare le nostre azioni come risposte alla presenza dell’altro. Su quest’ultimo assunto si fonda, del resto, la stessa nozione butleriana di responsabilità etica.

In aggiunta va poi sottolineato che senza questa possibilità di agire retroattivamente, a livello psichico, sul proprio passato fino a diventarne testimoni e “padroni”, la stessa psicoanalisi, con cui Butler, come si è detto, non smette di dialogare, non avrebbe, del resto, ragion d’essere. In Critica della violenza etica la filosofa di Berkeley torna sulla psicoanalisi confrontandosi con autori come Winnicott, Laplanche e Bollas che più di altri hanno insistito sul ruolo del transfert e del controtransfert nella pratica clinica. E ancora torna sulla psicoanalisi in La disfatta del genere, confrontandosi con Jessica Benjamin, autrice che opera, come lei, una rilettura della psicoanalisi alla luce della teoria hegeliana del riconoscimento. La psicoanalisi, riletta attraverso questi autori, appare all’ultima Butler come quella tecnologia del sé che insiste non solo sulla natura relazionale dell’ego e sulle valenze trasformative della narrazione, ma anche sulla mancanza di autotrasparenza del soggetto. Questa opacità del soggetto a se stesso, questa sua incapacità di dare conto totalmente di sé, sebbene possa apparire come uno scacco alla nozione di responsabilità (se non ho scelto di essere quello che sono, potrei pensare di non essere pienamente responsabile delle mie azioni), è per Butler, al contrario, la sola e autentica condizione di possibilità per il cambiamento. D’altronde, come le insegna Lévinas, la responsabilità non è relativa a un atto compiuto, ma deriva dall’essere «soggetti all’appello inatteso dell’altro» e quindi, paradossalmente, in presenza di un altro io divento responsabile addirittura di quel passato di cui non so dare conto. Ma proprio perché sono stato forgiato da relazioni di cui non sono padrone, che hanno strutturato la mia personalità già da prima che io fossi pienamente soggetto, ho la possibilità di ritematizzare queste relazioni, di rielaborarle emotivamente e di divenire un soggetto diverso. Tuttavia, questa ritematizzazione e questa trasformazione, precisa l’autrice, sono possibili soltanto in una relazione transferale, con l’analista o comunque con un altro che, con la sua presenza benevola, si faccia pubblico testimone di cambiamenti che non potrei fare in solitudine. Solo all’interno di nuove relazioni di riconoscimento posso infatti ridislocare le mie matrici psicologiche, ad esempio assumendo la responsabilità della violenza che altri hanno compiuto su di me scegliendo di non riprodurla a mia volta su altri[41]. In che senso allora il carattere ek-statico e foucaultiano della sua teoria del riconoscimento finisce con l’indebolire quanto pure si prefigge di rendere possibile, ovvero una soggettivazione libera e un’etica pacifista radicale?

7)      La vulnerabilità dell’etica del riconoscimento è la vulnerabilità del soggetto butleriano

Anche quando utilizza un approccio psicoanalitico per indagare la struttura del soggetto o per riflettere sull’attualità, Butler si richiama quindi a una psicoanalisi che assomiglia molto a una teoria del riconoscimento e, fino ai suoi ultimi testi, è evidente quanto, nel farlo, resti legata all’eredità di Foucault, e quindi a un’idea di filosofia come pratica di pensiero al tempo stesso descrittiva e decostruttiva che non le consente di dichiarare fino in fondo lo statuto normativo della sua teoria del riconoscimento. Da un lato Butler sembra volersi limitare a narrare una presunta genesi della soggettività attraverso un sincretismo di metodo genealogico (Foucault), psicoanalisi (Lacan, Winnicott ecc.) e teoria del riconoscimento (Hegel), ma, da un altro, attraverso la descrizione della vulnerabilità umana propone un’etica pacifista radicale. In altri termini, Butler sembra operare un salto logico dal piano descrittivo al piano normativo che rende legittima la seguente domanda: come può il fatto della fragilità dell’essere umano, della sua esposizione alla violenza dell’altro, fondare il valore dell’etica della responsabilità e della non-violenza? Invero, dalla consapevolezza della vulnerabilità mia e dell’altro potrei anche trarre l’indicazione che, qualora, attraverso un oculato calcolo di forze, io possa prevedere di farla franca, mi converrà esercitare impunemente violenza sull’altro, e trarre da questa violenza un riconoscimento della mia potenza. Non potrebbe essere considerata anche questa un’azione responsabile, che risponde cioè alla presenza dell’altro? Come Butler sa bene, in senso descrittivo il misconoscimento è una possibilità iscritta in ogni relazione di riconoscimento. In una relazione di riconoscimento-misconoscimento che cosa dovrebbe allora convincermi che l’etica della non-violenza è una risorsa di senso più ricca dell’esercizio della violenza? Una risposta potrebbe essere depositata in un sentimento di gratitudine derivabile dal fatto stesso di essere in vita: costitutivamente esposto alla violenza dell’altro, il neonato è diventato adulto perché qualcuno se ne è preso cura, perché qualcuno ha permesso l’emergere della sua soggettività. Ma perché un bambino diventato adulto, solo per il fatto di essere stato (sufficientemente) curato ed amato, dovrebbe prendersi cura degli altri ed essere capace di amore? Perché dovrebbe agire seguendo un ideale di gratitudine? Non potrebbe invece sviluppare una personalità egoista, viziata e prepotente?

A questi interrogativi si potrebbe rispondere osservando che, oltre a un indebito passaggio dal piano descrittivo a quello normativo (spiegabile in parte con una certa ostilità post-strutturalista e post-moderna nei confronti di ogni pretesa normatività)[42], vi è nella proposta di Butler una declinazione del concetto di responsabilità in un senso quasi completamente orizzontale: essa cioè viene a coincidere con un non meglio identificato comportamento che valga come risposta alla presenza dell’altro, laddove una nozione più concreta e verticale di responsabilità dovrebbe legarsi a quello che, per restare all’eredità spinoziana alla Bulter pure così cara, è il concetto di amor sui. Detto altrimenti, la responsabilità deve in primo luogo essere responsabilità nei confronti di se stessi, dei propri desideri e delle proprie pulsioni e a questo genere di responsabilità, per così dire, primaria, sembravano peraltro alludere alcuni passaggi dei suoi primi lavori in cui era tematizzata la soggettivazione da un punto di vista psichico. In secondo luogo, sebbene estremamente caro alla tradizione francese (cui Butler non smette mai di ispirarsi), il concetto di gratitudine non è particolarmente efficace a sostenere un’etica del riconoscimento che si voglia normativa e radicale. E non lo è sia perché è un sentimento, e come tale variabile e soggettivo, sia perché, nonostante il suo scaturire da un contesto di cure “sufficientemente buono” possa sembrare naturale, si dimentica troppo facilmente che la natura, soprattutto quella pulsionale, è cifrata da un’ambivalenza insopprimibile e che quindi non c’è nulla di scontato. Con riferimento a quest’ultimo aspetto è perciò necessario, almeno a parere di chi scrive, prendere sul serio quell’ambivalenza e i fenomeni di onnipotenza e distruttività, e per farlo occorre prendere sul serio la psicoanalisi, in particolare quella che s’impegna a descrivere e a rendere conto di quella originaria ambivalenza. In altri termini, come è possibile mettere in campo una nozione forte e solida di responsabilità etica se forti e solidi non sono, in primo luogo, le strategie e i modelli filosofico-psicoanalitici utilizzati per descrivere il processo di soggettivazione?

Nelle conclusioni di questo articolo affronteremo meglio quest’ultima questione. Per ora limitiamoci ad analizzare più da vicino il problema: è come se Butler sostenesse che ogni essere umano dipende dal riconoscimento dell’altro ed è vulnerabile al misconoscimento dell’altro (constatazione di un fatto), e che quindi ogni essere umano deve rispondere alla propria condizione facendosi carico della vulnerabilità propria e altrui, scegliendo di riconoscere l’altro piuttosto che misconoscerlo (prescrizione di una norma). Ma Butler non indica sotto quale condizione normativa dal fatto della vulnerabilità dell’umano sia possibile far discendere il dovere del riconoscimento: Butler non rivela il principio normativo non negoziabile implicito nella sua etica non-violenta (Lévinas, invece, lo dichiara apertamente: per lui si tratta del comandamento “Non uccidere!” pronunciato dall’Altro in senso assoluto, cioè da Dio). L’argomentazione di Butler manca, insomma, della premessa maggiore e si risolve in un appello, seppur accorato e intenso: la sua validità dipende da una condizione normativa che la filosofa non esplicita, e che forse avrebbe potuto esplicitare se si fosse soffermata maggiormente sia su altri psicoanalisti, sia sulle riflessioni di Adorno, che pure sceglie spesso come interlocutore, intorno all’idea di umanità. Di fatto, un’ipotesi normativa potrebbe, seguendo il filosofo francofortese, essere la seguente: dalla vulnerabilità dell’umano discende il valore del riconoscimento se e solo se al sentimento di appartenenza all’umano si associa il dovere morale della giustizia. L’aporia di Bulter potrebbe pertanto essere corretta come segue: se e solo se un essere umano vuole far salvo il senso di giustizia implicito nel suo sentimento di appartenenza al genere umano, allora dal fatto della dipendenza e vulnerabilità che caratterizzano la condizione umana ella/egli trarrà la conseguenza normativa del dovere del riconoscimento. Ma, a ben guardare, anche l’esplicitazione del senso di giustizia contenuto nel più grande sentimento di appartenenza al genere umano è un traguardo che non può prescindere dalla presa in considerazione di modelli psicoanalitici di sviluppo, individuale e sociale, in grado di descrivere quel più primitivo sentimento di appartenenza a se stessi che si genera a contatto con un altro concreto fuori di noi. Solo in questo contesto e in questa duplice relazione verticale e orizzontale può infatti incarnarsi e trovare così fondamento una nozione di giustizia e responsabilità che sia solida e riconosciuta emotivamente dal soggetto. Vale a dire che, allo stato attuale delle conoscenze di cui disponiamo, ogni discorso, persino normativo, non può prescindere da quel laboratorio di concetti e strumenti così indispensabili per comprendere l’umano che è la psicoanalisi e, torniamo a ripetere, soprattutto quella psicoanalisi che si fa carico dell’ambivalenza pulsionale, dei conflitti che sorgono tanto sull’asse verticale della personalità che su quello orizzontale.

A mio modesto avviPer poter completare la sua argomentazione etica, Butler dovrebbe quindi, da un lato, assumere uno stile argomentativo più “analitico” e, dall’altro, trascendere l’orizzonte lacaniano per rivolgersi ad autori che, da sempre impegnati nella descrizione di processi psichici più concreti e materiali, riescano a compensare l’enfasi da lei posta quasi esclusivamente su dinamiche de-strutturanti di carattere per lo più linguistico e simbolico. Se infatti il soggetto cui si mette capo è un soggetto irrimediabilmente scisso, espropriato e perso (e solo e soltanto tale), come può poi l’etica, che su questo modello di soggettività si fonda, essere concreta e solida? Più che alle pratiche discorsive occorrerebbe guardare al corpo per capire cos’è il soggetto, e non al corpo-tavoletta-di-segni o a quello della performance drag queen, quanto piuttosto al corpo emozionale, quell’impasto di energia, sensazioni e impulsi cui la nostra mente deve costantemente dare senso e significato. Questa e solo questa è la pratica narrante, ovvero la pratica narrante di un corpo e questo e solo questo è il simbolico, ovvero la capacità di distanziarsi da un marasma corporeo-emozionale che pure abita il fondo di ogni nostro pensiero. Ma il suo modo di filosofare, che resta fedele al metodo della genealogia foucaultiana e legato alla filosofia della decostruzione, per il momento sembra averle impedito l’accesso a queste possibilità del pensiero e, aggiungerei, delle pratiche di vita.

8)      Il riconoscimento reciproco di Jessica Benjamin

Jessica Benjamin, psicoanalista e saggista statunitense, lavora a New York ed è professoressa di psicoterapia e psicoanalisi alla New York University. Dai suoi lavori, tradotti in italiano[43], emerge chiaramente come tutta la sua riflessione sia attraversata «dal problema della nostra relazione con la coscienza indipendente dell’altro, una mente che è nella sua essenza, come la nostra e tuttavia diversa, impenetrabile, tanto che sfugge al nostro controllo»[44]. Proprio su tale relazione dialettica si fonda la sua concezione dell’intersoggettività, espressa dalla formula «dove erano gli oggetti devono subentrare i soggetti»[45].

L’ideale del “riconoscimento reciproco” comprende, per Benjamin, varie esperienze descritte nella ricerca sull’interazione madre-bambino: sintonia emotiva, influenza reciproca, reciprocità affettiva, condivisione di stati d’animo. Il riconoscimento, infatti, per quanto centrale nell’esperienza umana, risulta difficile da cogliere attraverso un unico significato: esso ci appare in così diverse sembianze che raramente siamo capaci di afferrarlo attraverso un unico concetto. «Ci sono innumerevoli quasi-sinonimi di questo termine: riconoscere significa confermare, convalidare, rendersi conto, sapere, accettare, capire, sentirsi empatici, registrare mentalmente, tollerare, apprezzare, vedere, identificarsi con, trovare familiare…amare»[46]. Ma a dispetto di una polisemia insopprimibile ciò che conta, afferma Benjamin, è che questa categoria si rivela estremamente efficace per comprendere le esperienze precoci di relazione, mostrandoci come quei primi scambi avvengano tra partecipanti attivi e creativi, soggetti reali capaci di influenzarsi vicendevolmente. Invero, se la visione ortodossa (freudiana) che descrive lo sviluppo psichico come una «successione di forme organizzative del rapporto monologico tra pulsioni libidiche e capacità dell’io»[47], non è più sostenibile, in quanto lo sviluppo del sé e il processo di socializzazione dipendono in modo determinante da esperienze che il bambino fa nella relazione affettiva con i suoi primi partner (adulti significativi) e se, d’altro canto, accettiamo l’idea che i bambini non cominciano la vita come parte di un’unità indifferenziata dalla quale piano piano si separano fino a conseguire uno stato di assoluta autonomia e indipendenza, segue necessariamente che la questione principale non è più o non è solo come ci sciogliamo dall’unione, ma anche come ci colleghiamo ad altri e li riconosciamo. Vale a dire che, una volta d’accordo sul fatto che lo sviluppo non consiste in una progressiva e unilaterale differenziazione e che l’altro ha un ruolo fondamentale tutt’altro che strumentale, la questione diventa: come è possibile pensare allo sviluppo in un linguaggio che non sia quello della separazione? Alla risposta a questa domanda, che è una risposta in termini di riconoscimento reciproco, hanno contribuito notevolmente, a parere di Benjamin, gli studi sul narcisismo e sui disturbi di personalità intrapresi da Winnicott ed egregiamente proseguiti da Heinz Kohut.

Ad ogni modo, ciò che qui interessa comprendere è come l’intersoggettività sia la teoria per quella specifica capacità che è il riconoscimento.: una capacità consistente essenzialmente nel distinguere tra usare gli altri come oggetti propri e riconoscere l’altro come soggetto esterno (altro concreto). “Inter-soggettività” letteralmente significa “fra soggetti” ed è per questo che il cuore di questa teoria è la relazione dalla quale non si può prescindere. Se difatti il processo di differenziazione consiste in un equilibrio costante tra affermazione e riconoscimento, tra padronanza ed espressione del sé e se i partner della relazione sono due soggetti attivi, la questione centrale diventa: come posso riconoscermi riconoscendo l’altro dal quale non posso separarmi? Detto altrimenti, se il legame non è simbiotico e se lo sviluppo non consiste in una progressiva separazione, occorre disporsi a pensare a uno sviluppo (affermazione) nel legame (riconoscimento). Ma tutto questo conduce a un paradosso, o a una tensione per dirla con Butler, che ora dobbiamo illustrare e col quale dobbiamo costantemente misuraci.

9)      Il paradosso del riconoscimento

Il paradosso nasce dal fatto che un simile riconoscimento può venire solo da un altro da noi, che a nostra volta riconosciamo, e che quindi, di conseguenza, non è possibile pensare a un’affermazione (riconoscimento) di sé che non sia al contempo un riconoscimento (affermazione) dell’altro. In ogni fase dello sviluppo il conflitto centrale tra questi due momenti contraddittori si ripropone in base al nuovo livello in cui il bambino sperimenta la propria indipendenza e separatezza dall’altro e dalla risoluzione di questo conflitto dipende un sano sviluppo del sé e delle sue capacità di relazione[48]. Il riconoscimento reciproco, centrale nella visione intersoggettiva, diventa gradualmente, almeno seguendo lo sviluppo del bambino, un vero e proprio obiettivo e il fatto che la differenziazione consista, come abbiamo visto, in un equilibrio paradossale tra affermazione di sé e riconoscimento dell’altro è ciò che ci consente di spiegare come il riconoscimento possa diventare una lotta per il controllo dell’altro. In realtà, osserva Benjamin, fu Hegel il primo a mostrare come dal riconoscimento reciproco possa scaturire una lotta per farsi riconoscere da un altro, con ciò trovando conferma a noi stessi, e come questa lotta sia il nucleo delle relazioni di dominio, soprattutto quando la tensione del paradosso non viene preservata. Hegel ha cioè formulato a livello filosofico ciò che oggi è discutibile sulla base di quanto sappiamo sullo sviluppo psicologico del neonato.

Prima che la psicologia moderna iniziasse a esplorare lo sviluppo del sé, il conflitto tra affermazione e riconoscimento, tra autonomia e dipendenza, osserva Benjamin, fu messo in luce da Hegel nella sua dissertazione sulla lotta tra le due autocoscienze che raggiunge il culmine nel rapporto padrone-schiavo. Hegel ha analizzato il nucleo centrale di questo problema mostrando come il desiderio di indipendenza del sé si scontri sempre con il bisogno di riconoscimento del sé da parte di un altro e come questa tensione generi una lotta per la vita e per la morte che vede le due autocoscienze fronteggiarsi al fine di imporre il proprio desiderio su quello dell’altra. In un primo momento entrambe cercano di negare l’altra in quanto si sentono minacciate nel loro senso di assolutezza, ma subito dopo entrambe realizzano che tale negazione (o distruzione) è impossibile. Se si distrugge l’altro, se l’altro muore, non ci sarà nessuno a riconoscere il sé, così come, se l’altro mi nega il riconoscimento, i miei atti risulteranno privi di significato. Impasse. Anche per Benjamin che legge Hegel, tutto nasce da un momento di riconoscimento reciproco: ciascuno esiste solo in quanto esiste per l’altro, e cioè solo in quanto riconosciuto, e ciascuno ha bisogno dell’occasione di agire e influenzare l’altro per affermare la propria esistenza. «Per Hegel però -scrive Benjamin- è semplicemente un dato di fatto che questa reciprocità, la tensione tra affermazione del sé e riconoscimento dell’altro, deve venir meno»[49]. Quella che sembra essere (ed è) una situazione senza via d’uscita, che ci costringe ad accettare la dipendenza dall’altro e la sua indipendenza da noi, rappresenta per Hegel solo un ostacolo che, come tale, deve essere rimosso e superato. Invero, nonostante l’incontro fra le due autocoscienze mostri un sé che ha un bisogno paradossale dell’altro (pur cercando di porsi rispetto a quest’ultimo come un’entità assoluta e indipendente)[50], questo bisogno viene nondimeno negato, cancellato, in quanto il sé postulato da Hegel non ha –sottolinea Benjamin- nessun bisogno intrinseco dell’altro. L’altro è cioè usato solo come strumento di rassicurazione della propria assolutezza.

Nella scena hegeliana il soggetto sperimenta in primo luogo se stesso come assoluto e solo in un secondo momento cerca conferma di quest’esperienza nell’altro. Ma se ciò che si cerca di confermare è il proprio senso di assolutezza, difficilmente la conferma avrà luogo per mezzo del riconoscimento reciproco (e relativo) della propria diversità e limitatezza; piuttosto essa consisterà nella negazione di tutto ciò che minaccia quella sensazione di essere uno e solo. Come ci insegna tutta la psicoanalisi però, questa sensazione è dannatamente illusoria e fuorviante. Soli e assoluti infatti non siamo mai, ma per Hegel, così come per alcuni esponenti della psicoanalisi classica, rileva Benjamin, il sé prende effettivamente le mosse, senza peraltro abbandonarlo, da uno stato di onnipotenza che si vuole affermare nell’incontro con l’altro. La triste scoperta di non poter soddisfare questo desiderio, dal momento che per affermare se stesso il sé deve riconoscere l’altro (e riconoscere l’altro significherebbe negare e/o compromettere la propria assolutezza), è la scintilla che fa scoppiare il conflitto. Per dirla con Hegel, «la coscienza di sé vuole essere assoluta. Vuole essere riconosciuta dall’altro per collocarsi nel mondo e fare di se stessa il mondo intero. L’io vuole dare prova di sé a spese dell’altro; vuole credersi unico»[51] e perciò cerca di rinnegare la dipendenza nella quale è venuto a trovarsi. Poiché però il fare dell’una implica sempre il fare dell’altra, un fare identico prodotto da una simmetria reciproca, ciascun sé avanza la stessa pretesa e la lotta per farsi riconoscere sarà perciò all’ultimo sangue, oltre che costantemente alimentata dal desiderio di ritornare al proprio stato di originaria onnipotenza mantenendo il controllo sull’altro-da-sé. Questa pretesa di assolutezza è per Benjamin, la base del dominio e del rapporto padrone-schiavo.

10)  Dalla “dialettica del controllo” alla “logica del paradosso”

Secondo la psicoanalista americana, infatti, il dominio nasce dal tentativo di negare la dipendenza  negando l’altro, avvertito come minaccia per il nostro sé (onnipotente). Ma negare la soggettività all’altro, misconoscerla e rifiutarla, sono azioni che realizzano una libertà, per così dire, negativa, una libertà intesa cioè come rifiuto del legame e del riconoscimento reciproco e che, per questo motivo, «porta in sé il seme del dominio»[52]. “Libertà” significa qui fuggire l’altro oppure sottometterlo e “autonomia”, misconoscere la dipendenza. Questi sono, osserva Benjamin, gli ideali di libertà e potere forgiati da un soggetto chiuso in se stesso nel vuoto creato dall’assenza di tensione, un soggetto che, davanti al paradosso fondamentale per cui, nel momento stesso in cui realizziamo la nostra indipendenza dipendiamo da un altro che deve riconoscerla, rinuncia alla conoscenza di sé piuttosto che affrontare «la complessità della vita fuori dal suo paradiso privato»[53]. Per il soggetto onnipotente il paradosso del riconoscimento è quindi insostenibile. La coscienza è letteralmente fuori di sé[54] e cerca di annientare l’altro nell’illusione di riuscire a rimuovere in questo modo la sua dipendenza da lui. Ma “indipendenza” non vuol dire assenza di legami e “autonomia” non significa trincerarsi nella solitudine del proprio io. Difatti, come abbiamo visto, questo tentativo, sebbene impavidamente intrapreso, è fatalmente destinato ogni volta a fallire in quanto la morte dell’altro determinerebbe l’impossibilità di essere riconosciuti, e cioè la nostra morte (sociale). Per la coscienza hegeliana tutto questo è però insopportabile: quella del riconoscimento è una verità troppo amara. Scoprire infatti che si esiste solo riflessi nell’altro fuori di noi e comprendere, in seguito alla lotta, come questo riflesso testimoni un profondo legame che non si può recidere, è una realtà inaccettabile. Benjamin tuttavia sostiene che sia inaccettabile solo per un certo ideale del sé.

È il soggetto hegeliano, così come il sé proposto da Freud (almeno secondo l’interpretazione di Benjamin), che non vuole e non può riconoscere l’altro: in quanto prigioniero del suo senso di onnipotenza egli è incapace di vedere nell’altro una persona uguale a sé. Se il solo obiettivo del soggetto è essere sicuro di sé e affermare la propria assolutezza, la reciprocità implicita nel concetto di riconoscimento costituisce ovviamente un problema. I momenti di reciprocità, seppur inevitabili, si rivelano cioè inessenziali, e appaiono nella loro natura di “momenti”. Per Hegel la reciprocità non è la verità. La tensione tra affermazione di sé e riconoscimento dell’altro non può mantenersi, dovendosi piuttosto sciogliersi in forza di una necessità dialettica che la sovrasta. La necessità dell’Aufhebung hegeliana comporta sempre che la tensione tra fattori interni racchiuda in sé i germi della propria distruzione e del passaggio (Aufhebung) a un’altra forma. La lotta, infatti, non culmina nella sopravvivenza dell’uno per l’altro, e cioè in un riconoscimento reciproco; è invece il più forte che fa del più debole il suo schiavo. Secondo Benjamin il crollo della tensione avviene quando uno dei due cede, e per paura, si sottomette. La rinuncia all’onnipotenza avviene cioè soltanto quando non si ha altra scelta (si teme di non essere riconosciuti/si teme di morire davvero) e la dipendenza diviene così sinonimo di resa. Scrive Benjamin: «quando il soggetto abbandona il progetto di indipendenza o di controllo totale, lo fa controvoglia, con un desiderio persistente, per quanto inconscio, di soddisfare la vecchia fantasia di onnipotenza. Ma questo è assai diverso dall’apprezzamento reale dell’altro come individuo a pieno titolo»[55]. I limiti della concezione hegeliana del riconoscimento consistono dunque, da un lato, nell’assunto filosofico per cui l’autorealizzazione e l’autonomia sono prerogative esclusive del singolo individuo il quale, per raggiungerle, deve spezzare ogni legame e rimuovere la dipendenza e, dall’altro, in quella “filosofia della coscienza” che legittima la riduzione di tutte le differenze esterne in aspetti interni del sé. Di fatto, osserva Benjamin, la filosofia del soggetto che si prefigge di raggiungere una completa identità col mondo fuori di sé coincide con la filosofia di un soggetto chiuso, monadico e interessato solo a se stesso, capace di concepire la relazione con l’altro soltanto in termini di interiorizzazione o incorporazione. Per la psicoanalista americana, il bisogno di scorgere nell’intera realtà (e cioè negli altri) solo un riflesso del proprio sé è il seme del dominio e la complementare reazione di chi cede davanti a quest’imponente sogno imperialista, la base della sottomissione[56]. Il dominio rappresenta in questo senso la forma pura dell’affermazione (riconosco solo il mio sé) mentre la sottomissione la forma pura del riconoscimento (riconosco solo l’altro). Questa relazione reversibile non può mai approdare a una dimensione reciproca e paritaria di riconoscimento, ma può solo scivolare da un polo all’altro in quanto l’irrealtà dell’altro impedisce di bloccare l’alternanza continua di ruoli tra loro complementari. Davanti alla rivalsa dell’uno (dominio), l’altro non può che capitolare (sottomissione). La relazione di dominio è quindi una forma alienata di differenziazione che presuppone un crollo originario del riconoscimento e un soggetto già prigioniero dell’onnipotenza. Non c’è confine tra il sé e l’altro e le posizioni possono per questo continuamente invertirsi.

Su queste basi, sostiene Benjamin, quella del riconoscimento potrebbe essere a buon diritto chiamata una dialettica del controllo poiché, quando il sé controlla completamente l’altro, l’altro cessa di esistere e, viceversa, se è l’altro a controllare completamente il sé, allora è il sé che cessa di esistere. Condizione di una vera esistenza indipendente è solo il riconoscimento dell’altro, della sua diversità, della sua autonomia e infine del bisogno che abbiamo della sua presenza concreta. Detto altrimenti, dobbiamo accettare la dipendenza da un altro indipendente che a sua volta dipende da noi perché solo in questo modo è possibile uscire dallo stato di grazia illusoria che porta in grembo il seme del dominio; è necessario cioè accettare la realtà e confrontarsi con la differenza, senza cercare di incorporarla. L’ideale del riconoscimento reciproco proposto da Benjamin prevede un soggetto in grado di accettare il presupposto che gli altri siano separati ma, ciononostante, capaci di con-dividere esperienze simili. Questa è la strada di uno sviluppo autentico del sé e della vera indipendenza: una strada che implica il mantenimento della tensione tra gli impulsi contradditori dell’affermazione del proprio sé e del riconoscimento dell’altro e che ci obbliga a pensare secondo la logica del paradosso. Il processo di differenziazione è un movimento che «scorre da soggetto a soggetto, dal sé all’altro e viceversa»[57] e solo comprendendo la natura paradossale di questo movimento possiamo «allargare il quadro dello sviluppo umano includendovi non solo la separazione ma anche l’incontro delle menti: un quadro in cui il volo dell’uccello va sempre in due direzioni»[58].

Fortunatamente questo è possibile, perché la realtà non è governata da un’oscura necessità dialettica e il paradosso del riconoscimento non conosce un’unica soluzione, per quanto complementare essa sia (il dominio e la sottomissione). La vera via d’uscita dalla morsa della complementarietà reversibile e del dualismo degli opposti che seguono il crollo del riconoscimento, e che per Benjamin costituiscono i segni distintivi del dominio, è l’intersoggettività. L’ambito intersoggettivo, lo spazio in cui avviene il riconoscimento reciproco tra soggetti è, infatti, il solo che possa competere con la relazione reversibile di dominio messa in moto dal rifiuto del riconoscimento dell’altro. La prospettiva intersoggettiva, afferma Benjamin, riguarda il modo in cui è possibile creare una terza posizione in grado di spezzare le complementarietà reversibili e mantenere in tensione le polarità su cui esse si fondano. La polarizzazione degli opposti, che abbiamo visto essere necessaria alla riflessione hegeliana, nasce infatti, secondo la psicoanalista, dalla difficoltà di mantenere la contraddizione, dalla difficoltà, si potrebbe dire, a gestire una certa ambivalenza. Il crollo dell’interezza, che è un crollo del paradosso, dà luogo a due figure contrapposte, il padrone e lo schiavo, che incarnano ciascuna un solo versante della tensione. In termini psicoanalitici questo crollo dell’interezza si chiama scissione[59]. Nella scissione i due ruoli sono rappresentati come tendenze opposte e distinte, disponibili al soggetto l’una in alternativa all’altra; il soggetto è in grado cioè di sostenere solo un ruolo alla volta, proiettando sull’altro il ruolo opposto. Ciò vuol dire che il sé e l’altro non sono rappresentati come due entità parimenti equilibrate, ma piuttosto scisse in due parti distinte. La visione intersoggetiva sostiene invece che la tensione è costituiva dell’identità di ciascuno e che la psiche è inevitabilmente formata da un desiderio di onnipotenza e uno di contatto. Nello stesso individuo coesistono cioè impulsi contraddittori e il presupposto di uno sviluppo equilibrato del sé risiede proprio nella capacità di non lasciare che uno solo prevalga. La complessità è necessaria alla vita psichica, ma allora, come è possibile evitare la scissione e il crollo del riconoscimento? La questione del riconoscimento, sostiene Benjamin, sarà sempre la questione se ci sarà pace o guerra, una lotta per trionfare e per distruggere, oppure una negoziazione della differenza e questo in quanto l’interrogativo centrale è sempre quello intorno alla possibilità di relazionarsi con un soggetto senza assimilarlo al sé per identificazione. Secondo la psicoanalista di New York la possibilità di evitare il crollo e la conseguente scissione è assicurata dalla nozione winnicottiana di distruzione e così, nello sviluppo, la prima via d’uscita dall’incorporazione proiettivo-introiettiva, osserva, finisce col passare per il termine opposto al riconoscimento, ma solo per garantirlo più efficacemente.

11)  Quando la distruzione è alla base della sopravvivenza

Il problema del riconoscimento dell’altro fu affrontato direttamente da Winnicott quando, preoccupato dalle ragioni per cui una persona possa sentirsi irreale e sperimentare un profondo senso di vuoto, s’interessò al problema del falso sé. I suoi studi[60] sul perché la sensazione di irrealtà si accompagni così spesso a una sensazione di morte e di angoscia lo portarono a concludere come il riconoscimento di una realtà esterna che non sia il frutto di una propria proiezione sia fondamentale al fine di sentirsi autentici. Nell’esperienza del venire a contatto con gli altri, e con le loro menti, risiede, per Winnicott, l’unica possibilità di sviluppare un senso di sé che sia autentico, laddove autenticità è sempre sinonimo di realtà (degli altri). La possibilità che questo contatto avvenga è legata alla capacità dell’altro di sopravvivere ai nostri tentativi di distruggerlo. Infatti, afferma Benjamin, su questo punto profondamente d’accordo con lo psicoanalista inglese, «solo l’esteriorità dell’altro che sopravvive alla distruzione consente una rappresentazione dell’altro come non controllabile e non minaccioso nello stesso tempo»[61]. La rappresentazione dell’altro come non controllabile e minaccioso è, di fatto, ciò che determina la chiusura, l’isolamento e l’innalzamento di insormontabili barriere. Comprendere come l’assenza di controllo e la dipendenza non siano una fonte di minaccia al proprio sé si rivela perciò di estrema importanza al fine di sviluppare un sé i cui confini con l’altro rimangano permeabili. Con-fine, infatti, non significa barriera ma indica piuttosto un finire-insieme che è quasi un con-fondersi. L’altro è contiguo e la linea che ci separa è la linea che ci unisce. La prossimità non è dunque per Benjamin, sinonimo di fusione e pericolo ma indica una mescolanza di unione e separatezza, di distanza e contatto che non deve essere né violata, né soppressa. L’essere se stessi in un estraneo è un equilibrio che si raggiunge solo a patto che entrambi i partner della relazione s’impegnino in un riconoscimento reciproco delle loro individualità.

Nel saggio “L’uso di un oggetto[62], che per molti versi, scrive Benjamin, «è una ripresa in chiave moderna delle riflessioni di Hegel sul tema del riconoscimento»[63], Winnicott avanza l’ipotesi che, per essere in grado di usare l’oggetto, dobbiamo prima essere in grado di distruggerlo. Winnicott afferma che dapprima un oggetto si relaziona a, è parte della mente del soggetto e non è necessariamente sperimentato come reale, esterno e indipendente. Ma poi arriva un momento nello sviluppo del bambino in cui questo genere di relazione deve lasciare spazio all’«apprezzamento dell’oggetto come entità esterna»[64] e non semplicemente come qualcosa che sta nella nostra mente. È un momento assai delicato in quanto il rischio di non riuscire a usare l’oggetto è quello di rimanere prigionieri della propria gabbia mentale di onnipotenza e insieme quello di non riuscire a stabilire una relazione autentica e reale con l’altro concreto fuori di noi; una relazione che vada oltre l’interiorizzazione. Dalla riuscita di quest’operazione dipendono poi anche le sorti della nostra capacità di amare l’altro, le sorti di quell’amore oggettuale[65] che segna l’ingresso della realtà nel mondo del bambino non più intessuto di trame fantastiche. Quando Winnicott sostiene che per arrivare a “usare l’oggetto” dobbiamo prima essere in grado di distruggerlo, la distruzione di cui parla, precisa Benjamin, non è una distruzione reale, o meglio, Winnicott spiega che il riconoscimento dell’altro implica un processo paradossale in cui l’oggetto viene sempre distrutto in fantasia. Per quanto apparentemente difficile da comprendere, ciò che Winnicott intende dire è che l’oggetto deve essere distrutto dentro, per capire che è sopravvissuto fuori, libero dal nostro controllo mentale.

Questo rapporto tra distruzione e sopravvivenza, nota la psicoanalista, è una riformulazione e una soluzione del paradosso di Hegel: una riformulazione nella misura in cui abbiamo visto come il tentativo di negare l’altro e di distruggerlo sia intrapreso da entrambe le autocoscienze anche nella lotta per il riconoscimento hegeliana, ma una soluzione in quanto tale distruzione deve avvenire nella fantasia e non tradursi in distruzione effettiva. Per quanto il rapporto padrone-schiavo sia il risultato e, anzi, la forma evoluta, del desiderio di annientare l’altro (durante la lotta si comprende infatti che la vita di ciascuna autocoscienza è essenziale alla vita dell’altra) e per quanto il dominio e la servitù rappresentino una forma di relazione che ha scampato la morte, in realtà il dominio, seguendo la lettura winnicottiana, appare piuttosto come una condizione di morte-in-vita. Quando Winnicott distingue tra distruzione reale e distruzione effettiva con quest’ultimo termine non intende riferirsi soltanto alla morte concreta, quanto invece a tutte quelle forme di relazione con l’altro che hanno la forma del controllo assoluto che nega l’identità e volontà altrui. Se è vero che il paradosso del riconoscimento apre una “lotta per il controllo”, da questo non segue necessariamente che la relazione debba essere intesa in termini di maggiore o minore controllo sull’altro. Al contrario il termine controllo si rivela completamente inadeguato per descrivere il tipo di relazione che Winnicott ha in mente[66]. Se io distruggo l’altro completamente (sottomettendolo alla mia volontà), egli cessa di esistere per me e se l’altro distrugge completamente me (dominandomi come se fossi un oggetto), io non esisto più, ovvero, smetto di essere un individuo autonomo. Ma per scoprire tutto questo, per verificare che l’altro esiste (fuori della mia mente) devo cercare di esercitare il controllo, cercare di negare l’indipendenza dell’altro desiderando di essere assoluto e completamente solo: soltanto così, aprendo gli occhi, posso scoprire che l’altro è ancora lì. La distruzione è necessaria, un vero e proprio sforzo per differenziarsi ma, se le cose vanno bene, la essa sfocia nella sopravvivenza dell’altro.

Il senso della sopravvivenza, di cui parla Winnicott, sta proprio in questa capacità di resistere alle frustrazioni, alla paura, e alle aggressioni che la progressiva separazione comporta. Se la psiche è strutturata da una tensione inevitabile, altrettanto lo sarà la nostra relazione con l’altro. Ci sarà sempre un tentativo di affermare la propria onnipotenza e un altro di stabilire un contatto, sempre un’aggressione e subito dopo una riconciliazione. L’opposto del crollo, sostiene Benjamin, è la riparazione della distruzione, ma non nel senso di una falsa unità o di una riconciliazione forzata contro la quale si scatenerebbe di nuovo l’aggressività. Benjamin non si stanca mai di affermare che la dimensione più autentica è quella della dialettica e della tensione tra crollo e riparazione e che accettarla è una condizione del riconoscimento e non una sua invalidazione. Non bisogna aver paura di distruggere, né di aggredire perché altrimenti la strada tracciata sarà sempre e solo quella di una riconciliazione motivata dalla paura e di una forma cristallizzata di complementarietà che non si arrischia a negoziare la differenza. «L’esperienza del crollo (anzi) può retroattivamente illuminare l’aspetto creativo e differenziante della distruzione, che ha l’effetto (preziosissimo) di collocare l’altro in uno spazio esterno alla riconciliazione forzata»[67]. La sopravvivenza dell’altro è dunque ciò che permette di passare da una lotta per il controllo e dal terreno della rivalsa e della ritorsione a quello del rispetto reciproco e della condivisione. Una buona ragione per farlo, e su questo Benjamin mi sembra molto vicina a Judith Butler, è che in cambio del sacrificio della nostra onnipotenza, in cambio dell’abbandono del nostro Eden di beata ignoranza e in cambio di tutti i miti consolatori che ci proteggono illudendoci, ciò che riceviamo è l’altro, la realtà. «Tu sei ciò che ricevo in cambio di questa perdita e di questo dolore» scrive Butler; un senso rinnovato del legame con l’altro è ciò che si guadagna accettando l’indipendenza dell’altro, secondo la psicoanalista di New York. La vera grazia è quella che proviamo a contatto con l’altro senza il cui contributo non riusciremo neppure a sviluppare un senso di sé discreto. Il vero significato della distruzione è dunque che il soggetto può impegnarsi quanto vuole in un conflitto all’ultimo sangue con l’altro, «può scagliarsi contro le barriere dell’alterità allo scopo di sentire lo shock dell’esterno nuovo e freddo»[68] ma solo per poi risvegliarsi nel caldo piacere che il fatto che ci sia l’altro all’esterno ci fa sentire.


12)  “Dalla pulsione alla relazione” e “dalla relazione alla pulsione”

Come accennato nella premessa, in quest’ultimo paragrafo cercheremo di operare una manovra all’indietro rispetto a quella che descrive il percorso che la psicoanalisi ha intrapreso dopo Freud e che si è illustrato in apertura al presente articolo. Tale manovra trova espressione nella formula “dalla relazione alla pulsione”, esprimendo a sua volta il tentativo, che pure qui non può essere supportato da un numero sufficiente di riferimenti teorici e clinici, di ritornare ad alcuni concetti cardine della psicoanalisi freudiana, nella convinzione che solo così sia possibile sostentare i più recenti e relazionali modelli psicologici di sviluppo, smussandone i contorni se troppo netti ed evidenziandone, qualora presenti, limiti e svantaggi. Questo recupero permette inoltre di allestire la scena per un incontro e un dialogo tra la prospettiva intrapsichica e quella intersoggettiva e ciò nella misura in cui, almeno a parere di chi scrive, le due concezioni non possono e non devono escludersi. Ciascuna infatti fornisce un apporto fondamentale alla comprensione dei processi psichici e, eccezion fatta per le frange più estreme di ognuna, non si tratta neppure di due visioni così inconciliabili e lontane come spesso si è voluto credere e far credere. Contrapporle, da un lato, come prospettive monadiche reciprocamente escludentesi e incapaci di collaborare tra loro, sottolineando, dall’altro, solo ciò che le distanzia, in questo assumendo di volta in volta il punto di vista di ciascuna come “migliore” e più attendibile, è invero un atteggiamento pericoloso e fazioso che, prima e più che infliggere colpi all’ego trincerato di ciascuna, danneggia la comprensione della psiche umana per chi vuole studiarla e conoscerla e nuoce altresì gravemente alla clinica e alla cura dei pazienti.

Prima però di costruire questo spazio terzo tra prospettiva intra- e inter psichica e in modo funzionale alla stessa possibilità di delinearlo efficacemente, prenderemo in esame i limiti delle due teorie del riconoscimento qui presentate. Nel farlo individueremo dapprima i nuclei tematici sui quali, nello specifico, le due autrici dissentono e, successivamente, a partire dall’illustrazione delle loro posizioni, tenteremo di metterle, per così dire, in contatto. Ciò che ci abiliterà a costruire questa relazione è, d’altronde, ciò che ci permetterà in seguito di configurare uno spazio di reciproco riconoscimento tra psicoanalisi classica e scuola intersoggettiva, spazio col quale concluderemo il nostro lavoro.


12a) Dalla pulsione alla relazione

Il dialogo sostenuto da Butler e Benjamin nei loro rispettivi lavori verte essenzialmente intorno a 8 nuclei teorici o concetti fondamentali che sono: il concetto di identificazione; la costellazione psichica di riferimento (pre-edipica , edipica o post-edipica) e la collocazione, in essa, del desiderio; le modalità che consentono l’emergenza dello spazio terzo del riconoscimento intersoggettivo; la nozione di soggettività; la concezione dell’iperinclusività sostenuta da Benjamin; la natura relazionale del; il rapporto tra esclusione e inclusione; e il ruolo della negazione e della distruzione. Non potendo, per motivi di spazio, addentrarci troppo nel merito della discussione, siamo costretti a limitarci a una sommaria esposizione dei loro punti di vista, in grado comunque di far emergere i tratti caratteristici di ciascuna visione. È opportuno però notare che, dalla definizione di questi concetti e dalla risoluzione di queste problematiche, emerge quasi naturalmente l’appartenenza all’una o all’altra prospettiva e, per quanto la concezione di Butler non possa definirsi a rigore intrapsichica, essa ci si avvicina nondimeno in maniera assai più consistente di quanto non faccia quella di Benjamin e di quanto la stessa Butler non riconosca. Si tratta per l’appunto di questioni fondamentali rispetto alle quali, offrire il proprio punto di vista testimonia al contempo la scelta di scuola sostenuta.

Ciò che rende possibile il dialogo tra Jessica Benjamin e Judith Butler è il reciproco interesse per l’ambito di ricerca in cui si iscrive il lavoro dell’altra. Così come la Benjamin, ponendo alla base della relazione terapeutica una norma filosofica, si trova infatti a confrontarsi con il linguaggio e i concetti specifici della filosofia, la Butler, dal canto suo, si rapporta con buona parte della tradizione psicoanalitica europea. Ciò che però interessa esistenzialmente e drammaticamente quest’ultima è lo smantellamento di ogni tentativo di restaurazione del soggetto forte e auto-centrato che si costituisce escludendo gli altri ed è per questo, forse, che la filosofa californiana mantiene, più o meno consapevolmente, un atteggiamento nel complesso troppo ostile e ostinato che le impedisce di sospendere, anche solo per qualche istante, il carattere radicale e destrutturante della sua critica filosofica, in questo modo non lasciando spazio al riconoscimento dell’altro (Benjamin) e del valore della sua proposta. In effetti, sebbene nella sua etica altruistica e non violenta Butler faccia quasi sempre riferimento all’Altro, è come se poi questo riferirsi restasse privo di un sostegno teorico (o  psicoanalitico) che concretamente lo sorregga assicurando, in termini politici, la salvaguardia e il riconoscimento dell’alterità, pur così intensamente caldeggiati. Secondo Benjamin nelle argomentazioni e nei modi di dire della filosofa californiana l’altro non c’è. Al suo posto subentrano processi spersonalizzati e spersonalizzanti che, seppur funzionali alla battaglia di Butler e nel suo contesto giustificati, non colgono come ci sia un dietro quei processi e come ci sia l’altro dietro il sé. Essi non vi riescono perché, precisa Benjamin, la nozione filosofica di “soggetto” è assai diversa da quella psicologica di “sé”. Quest’eterogeneità, che a prima vista potrebbe apparire soltanto come la causa di un misconoscimento perpetuato e dunque come un ostacolo da rimuovere, è in realtà ciò che consente al sé psicologico di resistere agli innumerevoli attacchi che gli vengono rivolti e, in questo modo, di neutralizzare la stessa visione post-strutturalista e lacaniana del soggetto come un’entità da sempre scissa e alienata perché effetto di processi senza volto e senza nome. Questa resistenza e neutralizzazione sono possibili in quanto, ciò a cui la teoria delle relazioni oggettuali si riferisce, è piuttosto un sé che scinde, cioè che opera una scissione.

«La nozione di scissione come un costante processo attivo di difesa psichica operato dal sé –scrive Bnejamin- pone la questione del soggetto in modo diverso rispetto alla nozione di un soggetto scisso o di un’identità costituita da discorso, linguaggio, pratiche normative o altre strutture che fanno del soggetto un effetto»[69]. Secondo la scuola delle relazioni oggettuali, infatti, il sé è costantemente e dinamicamente impegnato in atti di incorporazione e proiezione in cui vengono scisse parti del sé e dell’altro, ed è proprio in questo senso che, per esempio, si può affermare che è il sé a creare attivamente l’“abietto” all’interno della dicotomia tra parte del sé e non parte del sé ripudiata. La scissione, in questo senso, non è solo difensiva ma anche organizzante e, a differenza della nozione di soggetto scisso, non richiede di postulare una pre-esistente unità che la scissione poi distruggerebbe. Se inoltre, come fa Butler, si rifiuta l’idea di colui che agisce dietro l’atto, di un agente o un sé che precede l’atto –continua Benjamin– «crollano le relazioni psicologiche che costituiscono il sé»[70] e che sono distinguibili dalle posizioni epistemologiche e politiche che costituiscono il soggetto della conoscenza, della storia e del discorso. Per questo motivo, affermare che siamo esseri relazionali non può e non deve significare esclusivamente che siamo de-centrati e spossessati dagli effetti di una relazione al di fuori della quale è impossibile pensarci. Essere relazionali significa anche essere formati e costituiti dal rapporto con un altro diverso dal sé e parlare di “costituzione” non equivale di necessità alla descrizione di un progetto di autofondatezza che esclude il diverso. La relazione è intersoggettiva, cioè tra due soggetti, ed è reciproca e la “soggettivazione” (o individuazione psichica) è un processo che, se contribuisce alla strutturazione di un “sé”, nondimeno giunge a descriverlo al massimo come “ciò che si emoziona nelle emozioni” o come “l’identificante dietro le identificazioni” e dunque nient’affatto come una costruzione monologica e dalle facoltà illimitate. Sottolineare unicamente la “disgregazione ontologica” e fondare su questa la nozione psicoanalitica di “scissione”, è quindi sì funzionale alla critica di ogni pretesa del soggetto auto-fondato, ma non coglie l’aspetto organizzante e costituivo della relazionalità. Di fatto, anche la prospettiva intersoggettiva della scuola oggettuale riesce nell’intento di destituire il soggetto chiuso, monadico e monologico, ma a questa impresa affianca sempre anche una concezione della relazione tra sé e altro che va oltre il mistero e l’irrimediabilmente perso. E questo andare oltre, bisogna precisarlo, non significa fissare dei significati e stabilire delle norme finalizzate al “possesso” dell’altro, bensì descrivere fenomenicamente quanto si osserva sul piano clinico-terapeutico, ossia una relazione capace di creare uno spazio intersoggettivo di riconoscimento tra due soggetti.

Stando all’impostazione evidenziata da Benjamin, Butler rimane talvolta imprigionata nella morsa dell’intrapsichico lacaniano e, almeno sul piano teorico, e la sua proposta manca per questo di una pars costruens la cui messa a punto dovrebbe, come si è detto, prendere le mosse da un’altra psicoanalisi. Di fatto, ciò che Butler vorrebbe veder realizzato in ambito etico e politico trova un sostegno “solo” nell’ek-stasi e nella perdita che, pur essendo per la californiana esperienze fondamentali e rivelatrici della nostra condizione ontologica, tuttavia non sono sufficienti, da sole, ad articolare una proposta che sia in grado di fondare adeguatamente un’ontologia dell’interdipendenza e a sostenere un’etica del riconoscimento che si vuole peraltro radicale. Enfatizzare la perdita, la scissione e la disgregazione significa infatti sottolineare solo uno dei due momenti che compongono la nostra relazione con l’altro. E questo procedere unidirezionale è, secondo Benjamin, proprio ciò che è reso possibile dal vuoto lasciato dall’assenza dell’altro concreto. Questo vuoto è d’altronde il risultato della svolta linguistico-strutturale che, se da un lato, ha permesso un radicale smantellamento del soggetto cartesiano pre-fondato e sicuro di sé, dall’altro è anche ciò che ha consentito di situare (a partire da Lacan) il soggetto nel linguaggio, respingendo in questo modo la nozione di identità o unità dell’io e mettendo in campo un soggetto essenzialmente scisso e alienato, anzi creato dalla scissione e dall’alienazione. Eppure, contrariamente a quanto ritiene Butler, la vulnerabilità e l’originaria interdipendenza sono proprio ciò che la proposta di Benjamin vuole salvaguardare. Il riconoscimento reciproco dell’altro concreto è però in questo senso il solo atteggiamento fedele e capace di proteggere la nostra fragilità in quanto, finché ogni relazione verrà interpretata unicamente attraverso il linguaggio dello scarto e dell’espropriazione e ogni affermazione sarà compresa solo come negazione di qualcosa che così si esclude, saremo sempre anche esposti al rischio dell’onnipotenza e dell’atteggiamento distruttivo che tenta di annientare l’altro percepito come una minaccia. E questo rischio è, paradossalmente, proprio ciò che Butler vuole debellare.

In altri termini, per riuscire nel suo intento, Butler dovrebbe criticare proprio ciò di cui si serve nelle sue argomentazioni, ossia la concezione post-strutturalista lacaniana del soggetto: è opinione di chi scrive, infatti, che sia proprio quella descrizione dei processi di soggettivazione a minare dall’interno il progetto etico-filosofico dell’agguerrita californiana. Sebbene nei suoi scritti Bulter s’impegni di fatto ad assicurare uno spazio per l’agency del soggetto, tale operazione è nondimeno sabotata dalle stesse strategie impiegate per configurarlo. Senza il riferimento alla concretezza materiale e corporea, tanto dell’altro-fuori-di-noi che dell’altro che è in noi, è assai difficile, come stiamo per vedere, articolare il riconoscimento nel rispetto della polisemia che lo descrive come un processo svolgentesi sia su un piano orizzontale e intersoggettivo, che su uno verticale e intrapsichico. La pulsione, per così dire, distruttiva che spinge Butler a criticare pervicacemente ogni forma e dispositivo di sapere-potere se, per un verso, è ciò che rende la sua filosofia così appassionata e capace di vedere ciò che non è immediatamente visibile, per l’altro le preclude, forse, di dare espressione anche alla pulsione di vita che, da Freud in poi, è sempre stata sinonimo di Eros e dunque di relazionalità. Relazionarsi infatti non vuol dire soltanto perdersi ed espropriarsi ma anche ritrovarsi, riconoscersi e amarsi ed è da questa ambivalenza, che però è anche una co-presenza di aspetti, che Butler dovrebbe ragionevolmente partire. Sicuramente una critica che vorrebbe la filosofa di Berkeley capace di solidità, concretezza e sistematicità può risultare paradossale, in quanto è difficile immaginare una pensatrice del negativo, teorica kleiniano-lacaniana dello scarto e della perdita, che sia contemporaneamente capace di colmare il vuoto e articolare una proposta “positiva”; ciononostante, pensare a una pienezza che non sia totalitaria, a un’identificazione non alienante e a una nozione di soggetto che, pur essendo da sempre fuori-di-sé trovi comunque la strada per individuarsi e diventare-sé è un compito che, seppur difficile, non è impossibile. E, del resto, questo è lo stesso compito che il giovane Hegel si prefiggeva nei suoi scritti, prima cioè che il fascino di una certa Logica lo attraesse irrimediabilmente verso una filosofia della coscienza e della negazione assoluta. Ed è altresì l’obiettivo della teoria del riconoscimento di Jessica Benjamin, la quale, proprio adottando la logica del paradosso e della simultaneità, e dunque una logica per nulla simmetrica e identitaria, è in grado di “proporre” e “costruire”, dimostrando così che le due cose non si escludono reciprocamente.


12b) Dalla relazione alla pulsione

Ad ogni modo anche la proposta di Benjamin presenta dei limiti che, a dispetto di quanto si è potuto finora immaginare, sono assai simili a quelli evidenziati nei riguardi della proposta di Butler. Ciò che accomuna le due teorie del riconoscimento è infatti l’assenza della dimensione verticale cui pure rimanda la polisemia di questo concetto; ciò che manca è cioè la messa a tema del rapporto con quell’altro-di-sé che è il corpo emozionale[71]. Tale assenza si spiega sulla base del fatto che nessuna delle due autrici prende sufficientemente in considerazione quello che invece oggi sembra essere al centro di ogni indagine psicologica e non, ovvero il rapporto tra la mente che conosce il corpo che sente. Questa relazione, individuale e verticale, è sì mediata dalla presenza di un altro concreto fuori di noi, la cui presenza e funzione per lo sviluppo del sé è descritta in maniera “sufficientemente buona” da Benjamin, ma nondimeno avviene appunto “verticalmente” e ci riguarda per così dire, dall’interno. Per far luce su quest’altro asse della personalità è indispensabile far ricorso ad altre teorie psicoanalitiche e, contemporaneamente, recuperare i due concetti fondamentali della psicoanalisi: il concetto di “pulsione” e quello di “inconscio”. Entrambi infatti consentono di far luce sul rapporto mente-corpo perché propriamente lo descrivono, lo indicano, essendone, in certo senso, simboli e ambasciatori. Senza questa operazione è del resto assai difficile sviluppare un concetto pieno di riconoscimento capace di articolare un nesso tra individualizzazione e socializzazione, tra Sé e Altro,  che sia il più possibile simmetrico, così come è impossibile proporre dei modelli di soggettività e intersoggettività soddisfacenti.

Con riferimento a Butler abbiamo più volte ripetuto quali siano i limiti della sua concezione e avevamo rimandato a questa sede l’esplicitazione di quale tipo di psicoanalisi fosse necessaria a sostenerla più efficacemente. Ora, ciò che paradossalmente viene fuori, è che si tratta della stessa psicoanalisi cui dovrebbe guardare anche Benjamin (e anche Honneth a ben guardare!). Sebbene quest’ultima non si faccia problemi ad ammettere il carattere complementare dell’approccio intra- e inter- soggettivo, in quanto il primo mette capo all’inconscio e il secondo alla relazione, entrambe dimensioni imprescindibili per lo studio e la cura della psiche, ella si limita poi a criticare taluni sviluppi della psicoanalisi classica e dell’approccio intrapsichico senza integrarne i principali apporti nella sua concezione intersoggettiva. Quest’integrazione è però necessaria perché, nonostante lo sviluppo individuale avvenga sempre in presenza di un altro-da-noi che, riconoscendoci, ci permette di divenire soggetti capaci a nostra volta di riconoscimento, è nondimeno in virtù di un’elaborazione verticale del rapporto con l’altro-di-sé, e quindi di un riconoscersi, che si diviene tali. E tale riconoscersi ha sempre a che fare con le capacità della propria mente di rapportarsi al proprio corpo. Non si tratta cioè, solo di reciproco riconoscimento tra due soggetti già formati secondo le modalità del riconoscere l’altro ed essere da questi riconosciuto, ma anche e soprattutto del contemporaneo riconoscersi come abitati da un’alterità interna con la quale dobbiamo fare i conti sin dai primi istanti di vita. In un certo senso si potrebbe affermare che quanto Benjamin s’impegna a dimostrare circa il funzionamento corretto della relazione orizzontale andrebbe applicato e trasferito anche alla relazione verticale e questo proprio perché, ad incontrarsi e a entrare in relazione, sono sempre due singolari rapporti mente-corpo, ognuno individuato, per riprendere un concetto spinoziano, da una certa proporzione aurea. È solo cioè sulla base del modello con cui la mente-corpo dell’adulto si rapporta a quella del bambino che, quest’ultimo, si rapporta alla propria, imparando così a gestire quella dualità, ambivalente e conflittuale, che sente appartenergli e costituirlo fin dalla nascita.

Rendere conto della complessità del vivente così descritta è altresì ciò che permette di conciliare le due prospettive che dominano il dibattito psicoanalitico in quanto, se è vero che la personalità si costituisce all’incrocio di due assi cartesiani, allora è indispensabile saper descrivere quanto avviene sull’uno e quanto sull’altro. L’integrazione di intra- e inter- psichico è ciò che consente di dar conto di quella complessità in termini esaustivi e di articolare un modello di soggettività sufficientemente forte e solido da poter essere poi posto alla base di un progetto politico e/o di rivendicazione e lotta sociale. A questo fine si rende però necessario accantonare ogni genere di pregiudizio e atteggiamento dogmatico impegnandosi, come accennato poco sopra, a dare importanza ai punti di contatto più che a quelli di divergenza tra le due concezioni. E questo è possibile perché, a ben guardare, l’intra non è così intra e l’inter non è così inter. Con questa sorta di slogan si vuole alludere sia alla circostanza per cui di relazione e alterità esterna si parla anche e già nella teoria freudiana (il cui soggetto non è dunque così monadico e isolato come si è creduto), sia a quella per cui, di contro, l’intersoggettività non si risolve in una teoria che descrive le relazioni a un livello meramente comportamentale ed esteriore, tralasciando cioè la cosiddetta a “psicologia del profondo”. La stessa Benjamin si fa infatti carico di indagare seriamente fenomeni come quello della distruttività e dell’onnipotenza, così radicalmente legati a quel fondo pulsionale e ambivalente su cui la psicoanalisi classica da sempre cerca di far luce.

Non possiamo qui argomentare in maniera completa come è da pensarsi quest’integrazione. Pertanto ciò con cui vogliamo chiudere questo articolo vuole essere solo l’indicazione di una strada ancora da percorrere, una strada che, se filosoficamente s’impegna a pensare il riconoscimento oltre Hegel e, in particolare, oltre la quarta sezione della Fenomenologia (in questo avvalendosi anche della ripresa e rielaborazione di alcuni preziosi concetti spinoziani), in ambito psicoanalitico vuole invece soffermarsi di più su quelle teorie del mentale e del soggetto che, a partire da alcune formulazioni contenute già nell’opera freudiana, tentano di lavorare contemporaneamente sul piano verticale e orizzontale (si pensi alla teoria del mentale di Bion e all’ipotesi psicoanalitica dell’eclissi del corpo di A. Ferrari). In aggiunta e a mo’ di suggestioni basti richiamare alla memoria come 1) già lo stesso concetto di pulsione fosse per Freud di natura relazionale, trattandosi appunto di una spinta diretta verso un oggetto, di come 2) anche l’inconscio sia capace di stringere alleanze (si veda in tal senso la descrizione dell’intersoggettività fornita da Käes) e di come 3) una più attenta considerazione del singolare rapporto mente/corpo consenta di rendere conto di quell’ambivalenza tra desiderio di onnipotenza e ricerca di contatto che contrassegna la nostra vita relazionale, con noi stessi e con gli altri. Distanza e avvicinamento, dominio e legame, sembrano cioè essere le due possibilità di esistenza che ci competono in quanto esseri radicalmente duali, costretti cioè da sempre a fare i conti con un’alterità insopprimibile dentro e fuori di noi. E a tale riguardo è assai interessante notare come l’onnipotenza descriva ben più facilmente il regno del mentale laddove il contatto sembra rientrare naturalmente nel (non)regno del corpo. È infatti quest’ultimo che, come giustamente osserva Butler, ci espone e ci apre originariamente agli altri rivelandoci al contempo chi siamo e quest’esposizione, apertura e rivelazione sono proprio ciò che la mente assai difficilmente accoglie di buon grado.

 

 


[1] La psicoanalisi intersoggettiva è quella psicoanalisi relazionale nella quale il concetto di intersoggettività occupa un posto importante se non centrale. Pur non costituendo una vera e propria scuola, si configura concretamente come una moderna corrente all’interno del più vasto pensiero psicoanalitico. Ad essa appartengono tutti quegli psicoanalisti da più parti definiti, a torto o a ragione, intersoggettivisti. La maggioranza di questi psicoanalisti lavorano negli Stati Uniti  ma ultimamente la loro influenza si sta facendo sentire sempre più in nuovi apporti alla riflessione psicoanalitica provenienti da altre parti del mondo. Benjamin assume il concetto di intersoggettività come spunto teorico per criticare la concezione esclusivamente intrapsichica dell’individuo in psicoanalisi. Con la coppia di termini inter– e intra-psichico si è soliti infatti indicare il luogo di una dinamica psichica che può essere all’interno del soggetto, tra due o più istanze psichiche (intra-psichico) o tra il soggetto e altri soggetti (inter-psichico). Questi termini sono, nel linguaggio psicoanalitico, sinonimi di intra-personale e inter-personale e intra-soggettivo e inter-soggettivo. «Colin Trevarthen -che per primo ha trasferito il termine dalla teoria di Habermas alla psicologia infantile- documentò un “periodo di intersoggettività primaria” in cui condividere con altri un’intenzione diventa effettivamente un’attività psicologica. Più recentemente Daniel Stern ha delineato lo sviluppo psicologico dell’intersoggettività nell’infanzia identificando nella relazionalità intersoggettiva una tappa cruciale per lo sviluppo del Sé quando il bambino è in grado di vivere esperienze soggettive (soprattutto emotive)». (J. Benjamin, The Bonds of Love, Pantheon, New York 1988; trad. It. Legami d’amore, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p.25). Dal momento che l’intersoggettività si riferisce sia a una capacità sia a una posizione teorica Benjamin decide di chiamare “riconoscimento” la capacità e “intersoggettività” la teoria.

[2] Benjamin ci invita a vedere in proposito le ricerche di Melanie Klein sulle fasi più precoci della relazione madre-bambino. Tali ricerche segnarono l’avvio, in Inghilterra, della scuola delle relazioni oggettuali. Secondo Klein, il mondo interno del bambino è abitato dalle pulsioni di vita e di morte, e popolato di oggetti: rappresentazioni interne sulle quali avviene l’investimento pulsionale. Tali rappresentazioni sono fantasmatiche, cioè preesistenti e indipendenti dalla percezione del mondo esterno, e servono ad orientare le pulsioni istintuali. Nei primi giorni di vita il bambino vive in simbiosi con la madre e non distingue il proprio corpo dal suo. Le relazioni oggettuali a questo livello sono esclusivamente intrapsichiche. Il bambino percepisce il seno materno come parziale rispetto a sé, cioè come un prolungamento di se stesso, e come parziale rispetto alla madre, un oggetto cioè dotato di caratteristiche proprie e onnipotenti. Il bambino vive la madre come “oggetto parziale” nella misura in cui, quando la madre soddisfa i suoi bisogni primari, quando è presente e lo allatta, ella è sentita come oggetto buono; è invece oggetto cattivo quando è assente e lo frustra nei suoi desideri. Il bambino proietta questi istinti sulla madre, a seconda che lo gratifichi o lo frustri e, in questa fase, non ci sono i sensi di colpa per le pulsioni aggressive contro la madre perché, per il bambino, la madre non è ancora riconosciuta come “oggetto totale”, cioè come colei che assomma aspetti frustranti e aspetti gratificanti.  Nel passaggio dalla fase schizo-paranoide a quella depressiva gli oggetti da parziali diventano totali, cioè separati e indipendenti dalla percezione che il bambino ha di sé. La madre buona e cattiva non sono più separate perché la madre, come “oggetto totale” somma e contiene insieme aspetti buoni e cattivi. La relazione oggettuale, quindi, è l’interazione tra le pulsioni e gli oggetti parziali e totali. Avviene principalmente a livello fantasmatico e anche nella vita adulta la relazione con gli oggetti totali sarà sempre condizionata dalla modalità con la quale si è vissuta la relazione con quelli parziali. Benjamin osserva come le innovazioni apportate al pensiero psicoanalitico dalla Klein scatenarono in breve tempo una disputa fra scuole di pensiero, rappresentata da due opposte fazioni: da un lato c’era Anna Freud che, oltre a “difendere” l’eredità paterna, contestava l’idea di una “analizzabilità” in senso adulto dei bambini molto piccoli; dall’altra parte c’era la Klein che, avendo “anticipato” le principali fasi e competenze dello sviluppo infantile, sosteneva una piena analizzabilità dei bambini e proseguiva per una visione nettamente relazionale della psicoanalisi. Seppur troppo enfatizzato dagli storici, questo dibattito portò ad una scissione netta nella scuola psicoanalitica. A seguire direttamente la Klein furono molti giovani studenti, ai quali era richiesto di scegliere come supervisore uno di orientamento kleiniano o freudiano. Indirettamente (grazie all’incontestabile forza delle sue teorie), il pensiero kleiniano influenzò molti altri autori, definiti dalla storia della psicologia come “Scuola di Mezzo” (Fairbairn, Winnicott, Balint), nel senso che non si schierarono né da una parte né dall’altra nella propria formazione, anche se è evidente l’eredità lasciata dalla Klein nella loro impostazione teorica, soprattutto metapsicologica. A parere di Benjamin, il grande merito di Melanie Klein sta nell’aver posto con forza l’accento sulla natura relazionale della pulsione: a suo avviso, Freud si era infatti concentrato di più sull’idea di una pulsione prettamente autoerotica, nella misura in cui l’individuo si “serviva” dell’ambiente per “ricevere” piacere o gratificazione. Per la Klein, invece, la pulsione senza oggetto non esiste, neppure il narcisismo ne è esente, dal momento che si tratta di una relazione con oggetti interiorizzati. Gli affetti primari dell’amore, dell’odio, dell’angoscia, sono perciò relazionali ab initio (Klein, 1952), poiché è la relazione, la presenza reale o fantasmatica di un oggetto, l’obiettivo principale della pulsione (anziché l’appagamento di per sé). Questa concettualizzazione fu preziosa per i futuri sviluppi della psicoanalisi che si spostò rapidamente da una concezione pulsionale ad una totalmente relazionale, a volte dimenticando completamente la pulsione così come era intesa anche dalla stessa Klein. L’eredità kleiniana è così osservabile nelle teorie di Fairbairn, Winnicott e altri nonché nelle teorie sistemiche, in quelle dell’attaccamento di John Bowlby e in altri approcci più o meno psicoanalitici che apparentemente scavalcarono l’intero impianto teorico di questa autrice. Spostando l’attenzione dalla pulsione essenzialmente come autoerotismo alla relazione oggettuale, Melanie Klein, osserva la psicoanalista americana, è riuscita a proporre un originale modello di mente, ben più complesso di quello freudiano, anche se sostanzialmente ad esso sovrapponibile. Relazionandosi con oggetti esterni, la mente si popola di oggetti (parziali o totali) di tutti i tipi, intesi come simboli dell’oggetto e delle sue qualità affettive. La mente, dunque, diventa un contenitore di oggetti simbolizzati che danno origine a pulsioni e sentimenti via via più complessi, e che spiegano l’origine del pensiero. Quest’ultimo aspetto è stato ampiamente e genialmente sviluppato da un allievo della Klein, Wilfred Bion, a tutt’oggi considerato uno dei più originali teorici della mente.

[3]J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 17.

[4] Ibidem.

[5] Dopo Freud la psicoanalisi ha preferito al termine “oggetto” il termine “relazione oggettuale” volendo sottolineare l’originarietà della relazione rispetto all’individuo considerato nel suo isolamento. La relazione è propriamente un’interrelazione nel senso che non si limita a indicare il modo in cui il soggetto costituisce i suoi oggetti, ma anche il modo in cui questi oggetti agiscono su di lui. Tale è, ad esempio, la posizione di Melanie Klein secondo la quale gli oggetti proiettati e introiettati esercitano un’azione persecutoria o rassicurante sul soggetto. Le relazioni oggettuali si riferiscono, in psicoanalisi, ai momenti evolutivi come la relazione oggettuale orale, anale, fallica; in psicopatologia alle forme di estraniazione come, ad esempio, la relazione oggettuale melanconica, maniacale ecc.

[6] Avremo modo di vedere come l’attribuzione del mito della mente isolata e dell’individuo atomico tanto alla concezione freudiana, quanto a quella della psicoanalisi classica sia in buona parte scorretta.

[7] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 25. A riguardo è doveroso precisare come anche nella psicoanalisi “classica” la relazione sia affrontata, sebbene venga intesa soprattutto come l’insieme dei legami che connettono l’individuo al gruppo al livello inconscio. Si veda in tal senso la nozione di intersoggettività e alleanze inconsce di Käes.

[8] J. Benjamin distingue a tal proposito fra altro astratto e altro concreto e cioè tra l’oggetto intrapsichico, l’altro interiore, e l’altro reale, oggetto di studio della prospettiva intersoggettiva.

[9] J. Benjamin, Shadow of the Other. Intersubjectivity and Gender in Psychoanalysis, Routledge, New York, 1998; trad. it. L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 13.

[10] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 25

[11] Questa costellazione appare essere segnata da una profonda scissione tra attività (mascolinità) e passività (femminilità). La più grande possibilità offerta dalla teoria intersoggettiva è proprio quella di ricomporre la scissione e trasformare la complementarietà reversibile in tensione dialettica.

[12] J. Benjamin, L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, cit., p. 10.

[13] Ivi, p. 110.

[14] J. Benjamin, L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, cit., pp. 110 e segg. Benjamin evidenzia come il pensiero femminista sia stato permeato dalla distinzione fra pensiero post-strutturalista e decostruzionista e teoria critica francofortese. Su questa base è, infatti, per Benjamin possibile distinguere rispettivamente tra un femminismo lacaniano e uno relazionale e cioè tra un pensiero femminista orientato alle posizioni di Lacan e nutrito dalla sua critica radicale ed essenzialista al soggetto e una teoria femminista delle relazioni oggettuali. Per quanto l’attacco alla nozione di soggetto centrato e autofondato non abbia lasciato insensibili neppure gli psicoanalisti relazionali, i quali si sono impegnati in un analoga sfida all’idea del sé unificato e del soggetto conoscente obiettivo della psicoanalisi classica, essa ha nondimeno generato fra le femministe francesi (tra cui Butler) un atteggiamento ostinato, e talvolta accanito, di critica radicale al soggetto e all’identità. Quest’attaccamento tenace (per dirla con Butler) alla decostruzione del soggetto che diviene così scisso, disperso e decentrato rischia, secondo Benjamin, di diventare sterile e rigido qualora non riesca a uscire dalle maglie della soggettività all’interno delle quali, seppure criticandole, sembra rimanere inesorabilmente legato. Vedremo meglio i limiti di questa impostazione quando, nelle conclusioni, metteremo a confronto il femminismo e la psicologia del sé di Benjamin con il femminismo e la critica radicale alla nozione di identità e soggettività (filosofica) di Butler.

[15] J. Butler, Subjects of desire. Hegelian reflections in Twentieht-Century France, Columbia University Press, New York 1999; trad. it. Soggetti di desiderio, Laterza, Bari 2009. J. Butler Gender Trouble, Routledge, New York-London 1990; trad. it. Scambi di genere, Sansoni, Milano 2004. J. Butler Bodies that Matter, Routledge, NewYork-London 1993; trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Feltrinelli, Milano 1996. J. Butler, The psychic life of power, Stanford University Press, Stanford 1997; trad. it. La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento,  Meltemi, Roma 2005. J. Butler Antigone’s Claim: Kinship between Life and Death, Columbia University Press, New York, 2000; trad. it. La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003. J. Butler Precarious Life. The Power of Mourning and Violence, Verso, new York- London 2004; trad. it. Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004. J. Butler, Giving an Account of Oneself, Routledge, New York- London 2004; trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006.  J. Butler, Undoing Gender, Routledge, New York- London 2004; trad. it La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006.

[16] Butler si rivolge, infatti, sia ai primi lavori del filosofo francese che agli ultimi.

[17] Come metodo di critica filosofica e letteraria, la nozione di decostruzionismo può essere usata in riferimento alla ricezione americana di Jaques Derrida, in particolare attraverso la mediazione di Paul de Man.

[18] Secondo Olivia Guaraldo il tentativo butleriano è quello di dare forza teoretica e praticabilità etica alla critica post-strutturalista dell’umanesimo precisando, in costante polemica con i critici del relativismo morale, che post-strutturalismo non significa nichilismo morale. Invero, la sua sfida è proprio quella di contrastare filosoficamente il pregiudizio secondo cui, al fine di attribuire responsabilità in ambito etico, è necessario postulare un sé autonomo, razionale e in possesso di se stesso.

[19] J. Butler, La disfatta del genere, cit. p. 271

[20] Con questa espressione si fa generalmente riferimento alla dicotomia o opposizione tra i due sessi, il maschile e femminile, alla base della norma eterosessuale. Se il femminismo tradizionale vedeva la categoria “genere” come una costruzione culturale che aveva però le basi in un dato biologico essenziale (il sesso), il femminismo post-strutturalista, a partire dagli anni ’80, mette in dubbio anche la naturalità della categoria “sesso”. Per Butler il genere è un “performativo”, cioè un’idea che, perpetrata attraverso la ripetizione di atti, ha un effetto dissimulatorio, ovvero ci induce a pensare che le differenze sessuali siano un dato che affonda le sue radici nella biologia. Il genere è, in particolare, un’aspettativa che finisce per produrre proprio il fenomeno atteso (cioè la differenza sessuale). La studiosa in Scambi di genere (2004) mette a confronto le posizioni di diversi teorici del post-strutturalismo e della teoria femminista francese riguardo al binarismo sessuale. Secondo Luce Irigaray, per esempio, l’opposizione binaria è in realtà un artificio che ha lo scopo di rappresentare monologicamente l’unico vero “soggetto” dei sistemi di rappresentazione convenzionali occidentali, cioè il maschio. Il binarismo, per la psicoanalista e linguista belga, presenta apparentemente due soggetti contrapposti (il maschio e la femmina) ma ha, in realtà, l’intento di nascondere il “fallogocentrismo” soggiacente. Foucault, invece, include la dicotomia sessuale nell’insieme di costruzioni che hanno lo scopo di regolamentare la sessualità umana – per natura sovversiva – dandole una forma. Per Monique Wittig, ancora, il sesso è un attributo sempre femminile, in quanto il maschile nelle nostre società coincide con il neutro, con l’universale, e non ha quindi bisogno di essere specificato.
Inoltre, la teorica femminista vede il binarismo sessuale come una costruzione funzionale al mantenimento della norma eterosessuale. Il superamento della dicotomia di genere (attraverso la distruzione della categoria del sesso) rappresenta l’unica via possibile, secondo Wittig, mediante cui la donna può arrivare ad assumere il ruolo di soggetto in senso universale, e smettere quindi di ricoprire un ruolo puramente funzionale all’affermazione della categoria “uomo”.

[21] In particolare, la concezione butleriana del genere come performance deriva soprattutto da una rielaborazione delle teorizzazioni di Lacan e di Foucault. Prima di Gender Trouble, in Subjects of Desire (1987) che è il suo primo libro, nonché rielaborazione della sua tesi di dottorato, Butler si era soffermata sulle influenze di Hegel sulla filosofia francese del secondo Novecento. In Subjects of Desire sia l’affermazione lacaniana secondo cui la soggettività è resa possibile dalla “legge del padre”, sia la tesi foucaultiana secondo cui il soggetto è costitutivamente condizionato nel suo essere da dispositivi di potere, appaiono a Butler come riformulazioni della teoria della lotta per il riconoscimento tra signore e servo esposta da Hegel nella Fenomenologia dello spirito e commentata da Alexandre Kojève nelle sue celebri lezioni degli anni 1930.

[22] Il concetto hegeliano di riconoscimento è per Butler, al di là della filosofia del Soggetto e della necessità dell’Aufhebung, l’epifania di un’ontologia della perdita e della vulnerabilità e, anche nella “risoluzione finale” che vede il Soggetto raggiungere l’identità con il mondo intero, Butler scorge un elemento “positivo”, ovvero un momento di differenza. Se infatti, sostiene, ci si identifica con il mondo intero, nell’immanenza e molteplicità dei suoi aspetti, è difficile concluderne un trionfo in termini di autonomia e solitudine. «Il soggetto hegeliano –scrive– non è un soggetto identico a se stesso, che viaggia altezzoso da una posizione ontologica all’altra, egli è i suoi viaggi ed è in ogni luogo in cui viene a trovarsi» (J. Butler, Soggetti di desiderio, cit.,  p. 11). Pensare l’assoluto di Hegel, afferma, è un compito assai arduo ma attraverso una lettura scevra da pregiudizi storico-filosofici emerge, secondo Butler, un assoluto infinito e sistematico nel contempo, e pensarlo equivale a pensare «oltre le categorie spaziali, pensare l’essenza del tempo come divenire» (Ivi, p. 17).

[23] Che la minaccia si costituisca è innegabile, ma lo è anche il fatto che vi è sempre un tentativo di neutralizzarla.

[24] Per maggiori chiarimenti sul rapporto tra Hegel e Butler rinvio all’introduzione al testo: J. Butler, Soggetti di desiderio, cit., pp. 9 e segg.

[25] J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 41.

[26] Ivi, p. 42.

[27] La reciprocità è invece per Butler, così come per Benjamin, una tensione (etica) al rispetto dell’altro nella sua diversità e nel riconoscimento del suo valore come pari al mio, non in virtù di una somiglianza (perché in questo caso, ciò che si apprezzerebbe e riconoscerebbe, sarebbe solo un’estensione del proprio io) ma, piuttosto, sulla base di una diversità. L’impegno etico del riconoscimento si alimenta dello scarto, della differenza senza cercare di ridurla per incorporazione o assimilazione.

[28] J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 59.

[29] Ivi, p. 59.

[30] Ivi, p. 41.

[31] Vedremo come tra questi ci sia anche Jessica Benjamin.

[32] J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p. 41.

[33] Ibidem

[34] Ibidem.

[35] Ibidem

[36] G.W.F Hegel, Phaenomenologie des Geistes, in Werke, in 20 Banden, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, trad. it. Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2006, p. 275.

[37] Ivi, p. 277.

[38] Scrive Hegel: “l’esposizione del concetto di questa unità spirituale nella sua duplicazione ci presenta il  movimento  del riconoscimento”(Ivi, p. 275).

[39] J. Butler, Critica della violenza etica, cit., p.41. Si sa come invece in Hegel questo momento finale ci sia e come comporti non solo l’intera riduzione della storia del mondo a biografia dello Spirito ma anche la soddisfazione del desiderio e perciò una certa fine della storia.

[40] Tale scelta sarebbe peraltro ben  più in linea con gli esiti attuali del dibattito intorno al riconoscimento hegeliano, esiti che sembrano dirigersi verso un superamento della concezione del filosofo di Stoccarda.

[41] Queste riflessioni conducono ad esempio Butler, cittadina ebrea americana, a sostenere che sarebbe stato possibile rispondere alla tragedia dell’11 settembre 2001 non con l’odio reattivo verso quelli che appaiono come i nemici dell’Occidente, non con uno sfoggio della presunta potenza degli USA, ma elaborando attivamente il lutto della vulnerabilità statunitense, e interrogando se stessi e gli altri sulle motivazioni che possono aver condotto i propri “nemici” a un gesto tanto terribile.

[42] La normatività è infatti vista non solo come sinonimo di normalizzazione forzata ma anche come il luogo del potere, della discriminazione e della Legge e, in quanto tale, spesso fuggita.

[43] J. Benjamin, The Bonds of Love, Pantheon, New York 1988; trad. It. Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; J. Benjamin , Like subjects, Love Objects, Yale University Press, New York 1995; trad. It. Soggetti d’amore. Genere, identificazione, sviluppo emotivo, Cortina, Milano 1996; J. Benjamin, Shadow of the Other. Intersubjectivity and Gender in Psychoanalysis, Routledge, New York, 1998: trad. it. L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

[44] J. Benjamin L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, cit., p. 9.

[45] Ivi, p. 10.

[46] Ivi, p. 21.

[47] A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1992; trad. it. Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 120.

[48] La stessa idea, com’è noto, è espressa da Honneth, il quale sottolinea con forza che la nostra capacità di sviluppare forme positive di autorelazione pratica dipende da forme di reciproco riconoscimento.

[49] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 36.

[50] Il sé necessita infatti di essere riconosciuto e per farlo deve riconoscere a sua volta l’altro che ha davanti, deve essere cioè in grado di trovare se stesso in un altro.

[51] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 66.

[52] Ivi, p. 238.

[53] Ivi, p. 240.

[54] È interessante notare in proposito come il tedesco “ausser-sich” renda contemporaneamente tanto il senso dello stare fuori di sé proprio della dimensione ek-statica quanto quello che caratterizza il sentimento di rabbia o ira.

[55] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 65.

[56] Poco importa, in questa cornice, che poi il servo riscatti in seguito la sua libertà divenendo padrone di se stesso. Se infatti si prendono in considerazione le figure successive a quella del servo-signore, è facile osservare come il problema si ripresenti, seppur in forme diverse, sempre identico. E questo ripresentarsi continuo trova tregua solo nella filosofia dello Spirito assoluto in cui però, proprio l’assolutizzazione, della negazione prima e della coscienza poi, testimoniano di quel privilegio accordato, a partire dalla Scienza della Logica, alla filosofia della coscienza o, per dirla con Benjamin, dell’onnipotenza.

[57] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 41.

[58] Ibidem. Benjamin si riferisce qui ai celebri quadri di M.C. Escher.

[59] Il concetto di “scissione” è un concetto introdotto da Melanie Klein, secondo la quale l’oggetto verso cui convergono le pulsioni erotiche e distruttive è scisso in “oggetto buono” e in oggetto “ cattivo” e ciascuno subisce destini diversi nel gioco delle proiezioni e delle introiezioni. La scissione è un primitivo meccanismo di difesa contro l’angoscia e si riferisce, nella posizione schizoparanoidea, a oggetti parziali e, in quella depressiva, all’oggetto totale. Per effetto dell’introiezione degli oggetti, anche l’io viene scisso in “buono e cattivo”. Con le parole di Benjamin: «Il concetto psicoanalitico di scissione, come quello di repressione, viene usato in senso stretto, tecnico, ma anche in un’accezione più ampia metapsicologica e metaforica. Così come la repressione è diventata un paradigma per un processo culturale più vasto, la scissione potrebbe riferirsi non solo a processi psichici individuali, ma anche a quelli che vanno oltre l’individuo. Tecnicamente, il termine scissione si riferisce a una difesa contro l’aggressività, uno sforzo per proteggere l’oggetto “buono” espellendone i lati “cattivi” che lo hanno esposto all’aggressività. Ma, in senso lato, scissione indica qualunque rottura dell’intero in cui parti di sé o dell’altro vengono scisse e proiettate altrove. In entrambi gli usi indica una polarizzazione, in cui degli opposti -soprattutto buoni e cattivi- non si possono più integrare, in cui una parte è svalutata, l’altra idealizzata e ciascuna proiettata si oggetti diversi» (J. Benjamin,  L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, cit., p. 74 –corsivo nostro).

[60] Vale la pena ricordare come D.W.Winnicott fu soprattutto un grande clinico prima di diventare un teorico. Le sue osservazioni erano perciò sempre accompagnate dalla pratica e dal contatto diretto con i pazienti che soffrivano di quei disturbi.

[61] J. Benjamin, L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, cit., p. 127.

[62] D.W.Winnicott, Playing and Reality, Tavistock Publications, London 1971; trad. it. Gioco e realtà, Armando, Roma 1997, pp.139 e segg.

[63] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 41.

[64] Ivi, p. 42.

[65] Per quanto sulla differenza tra “amore identificatorio” e “amore oggettuale” si siano versati fiumi d’inchiostro, in questa sede ci limiteremo a distinguerli seguendo la proposta della Benjamin. L’amore oggettuale è l’amore maturo, l’amore per l’altro nella sua indipendenza e differenza da noi che vengono finalmente accettate; l’amore identificatorio, per quanto importante nelle fasi più precoci dell’infanzia, è invece un amore, come il termine suggerisce, per identificazione e cioè ancora parzialmente prigioniero del meccanismo proiettivo-introiettivo. È l’amore nella forma dell’essere simile a che primitivamente cerca di avvicinarsi all’altro sulla base di una somiglianza più o meno reale. Ad ogni modo, per Benjamin entrambi i tipi di amore sono essenziali alla formazione del sé e una loro separazione che sia radicale e definitiva è impossibile, oltre che nociva.

[66] Esso si rivela ben più adeguato per descrivere il processo di differenziazione così come è concepito da Margareth Mahler e, in generale, dalla Psicologia dell’Io. In quel modello, infatti, al riconoscimento si sostituisce l’idea di un controllo strumentale sull’altro che si fa funzionale ai bisogni dell’io che sopraggiungono nel processo di separazione- individuazione in cui l’enfasi è di gran lunga accentuata sul momento della separazione e dell’autonomia. Questo modello è carente sotto molteplici riguardi e soprattutto per l’incapacità di concepire l’unione come una condizione che possa coesistere (potenziando ed essendone potenziata) con il senso di separatezza. Ciò che contraddistingue maggiormente l’interpretazione intersoggettiva di quel processo è principalmente l’idea che identità e differenza esistono simultaneamente nel riconoscimento reciproco. Anzi, in ogni esperienza di similarità e partecipazione deve esserci una certa dose di differenza sufficiente a creare la sensazione di realtà, nella convinzione che un certo grado di imperfezione sancisca l’esistenza del mondo.

[67] J. Benjamin, L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, cit., p. 128.

[68] J. Benjamin, Legami d’amore, cit., p. 44. e continua «questa esperienza rafforza profondamente la sua capacità di vedere che quello che a lui sembra vero non è necessariamente reale» (ivi, p. 45). Senza ulteriori commenti emerge chiaramente come questa capacità sia il più delle volte una fonte d’aiuto più che di minaccia perché quando i confini tra interno ed esterno si alterano troppo, come è il caso del delirio paranoico tipico della malinconia, solo l’altro può aiutarci. In questo senso la teoria winnicottiana implica una revisione dell’idea psicoanalitica di realtà suggerendo un principio di realtà che è fonte positiva di piacere: il piacere di collegarsi alla realtà e di scoprire l’altro. La costante scoperta che l’altro è ci provoca gioia e insieme ci fa riconoscere il piacere della condivisione.

[69] J. Benjamin, L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, cit., p. 119.

[70] Ivi, p.117.

[71] Butler vi accenna in La vita psichica del potere ma non a sufficienza.

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