Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia

Oscar Oddi

 

preveCostanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Petite Plaisance, 2013.

 

La quarantennale, prolifica, produzione saggistica (per lo più ignorata e silenziata, quando non diffamata, dal circuito culturale-accademico mainstream, specie da quello egemonizzato dalla “sinistra”, compresa quella sedicente “radicale”e/o “antagonista” che dir si voglia, in tutte le sue più disparate e residuali diramazioni) di Costanzo Preve trova una sorta di sistematizzazione nella sua ultima fatica Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico–sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, pp. 538, € 30,00. Opera vasta e profonda, rappresenta  la “summa” (parziale e provvisoria, poiché la riflessione filosofica non conosce una “fine”) di decenni di incessante attività di studio che, attraverso un percorso accidentato, controverso e contradditorio (come sono tutti i percorsi che cercano di aprire nuovi sentieri), ha portato al risultato che il lettore ha ora davanti. Non si è di fronte all’ennesimo manuale di storia della filosofia, nemmeno di una sua versione “critica”, ma ad una rilettura radicale del pensiero filosofico occidentale attraverso il metodo dell’ontologia dell’essere sociale. Tale termine non è solo il titolo dell’ultima opera di Georgy Lukács (recentemente ripubblicata, meritoriamente, in quattro volumi, compresi i Prolegomeni, dalle edizioni PGreco di Milano), la cui lezione rimane un punto di partenza e fonte di ispirazione critica, ma definisce una precisa «scelta filosofica e metodologica generale». Per comprendere quindi l’essenza del discorso di Preve, allievo critico di Hegel e di Marx, come da sua autodefinizione, è necessario preliminarmente capire il significato e la collocazione che egli dà di questa categoria. Ontologia indica l’unità delle categorie del pensiero e dell’essere, unità che Preve ritiene essere il presupposto fondante integrale del pensiero greco classico. Dopo la “rottura” kantiana di questa unità (di cui più oltre si analizzeranno le ragioni), essa verrà ristabilita attraverso Fichte, Hegel e Marx. Il significato di essere sociale è ricavato per contrasto, nel senso che gli aspetti ritenuti fondamentali che lo caratterizzano vengono fatti emergere attraverso la contrapposizione di questa categoria a tre visioni: la prima è quella storicistica e sociologistica, considerata nichilistica e relativistica, poiché ignora che il presupposto ontologico dell’essere sociale è l’essere naturale dell’uomo, cioè l’uomo come ente naturale generico (Gattungswesen), profilo storico-antropologico che lo rapporta con il genere in quanto tale (Gattung) in base a una relazione definibile come “conformità al genere” (Gattungsmässigkeit). Solo il punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale è dunque ritenuto all’altezza di fronteggiare le due su citate patologie complementari dello storicismo (che riduce integralmente la natura umana alla storia, con conseguente eliminazione del concetto stesso di natura umana) e del sociologismo (forma “applicata” di storicismo che aspetta la salvezza dall’azione di un soggetto definito in modo esclusivamente sociologico), entrambe impotenti di fronte alle smentite della storia, e questo perché l’ontologia dell’essere sociale non nega affatto la crucialità decisiva della storia, e neppure nega l’indispensabile ruolo dei soggetti sociali organizzati, ma innesta questi due fattori “materiali” dentro una “forma” in assenza della quale tali due fattori non trovano alcun fondamento. Questa forma essenziale è appunto il “genere”, che ha come specificazione antropologica e storica l’ente naturale generico nel suo rapporto contradditorio con la propria conformità o meno al genere stesso. La seconda è quella del “materialismo dialettico” (Diamat), che negava la specificità ontologica dell’essere sociale mediante la sacralizzazione di presunte, e inesistenti, leggi dialettiche unificate della natura e della storia. La terza è l’autorappresentazione apologetica che il pensiero borghese fa della propria nascita storica. Si è dunque dinanzi a un tentativo di ricostruzione dialettica e ontologico-sociale  di tutta la storia del pensiero occidentale (dai presocratici fino a Lukács), che, chiarisce Preve, vuol dire ricostruzione storico–genetica, perché non basta aprioristicamente enunciare l‘unità ontologica delle categorie del pensiero e dell’essere se non si riesce poi a fornire la genesi storica e sociale di questa unità. Solo il metodo dialettico della genesi sociale delle categorie dà plausibilità alla teoria dell’unità ontologica delle categorie dell’essere e del pensiero, che Preve ritiene l‘unica alternativa alla mera elencazione dossografica con cui sono redatti i manuali di storia della filosofia (quella che, ci rammenta, Hegel definiva “la dossografia della filastrocca di opinioni casuali”).  Chiarito, in linea generale, il “metodo” del discorso di Preve, si cercherà di illuminarlo meglio nella sua applicazione al corpus del pensiero occidentale. Nell’impossibilità di dar conto di tutta l’opera (sarebbe, nell’inevitabile approssimazione e riduzione schematica, fargli un torto, data la sua imponenza e ricchezza, mai come in questo caso è così appropriato il rimandare il lettore al testo) si tenterà di esplicitarne il senso più profondo rintracciandone alcuni snodi fondamentali, concentrando l’attenzione su determinate questioni riguardanti alcuni filosofi, arrivando fino all’analisi svolta su Marx. Aristotele è certo il primo di questi, vista l’importanza crescente che ha assunto nella riflessione di Preve. Infatti, lo Stagirita è visto come colui che per primo espone una formulazione sistematica e soddisfacente dell’ontologia dell’essere sociale, che è tale solo se fondata senza mediazioni o priva  di «trasfigurazioni metaforiche indirette sull’essere sociale stesso». Ciò non succede ancora nei presocratici (classificazione che Preve contesta alla radice ritenendo il pensiero greco che va da Talete ad Aristotele stesso, il primo periodo unitario di esso, sorto dall’esigenza sociale di porre un freno all’illimitatezza delle ricchezze che provoca la crisi delle forme di convivenza precedenti) e nemmeno in Platone, che è sì quello che più vi si avvicina ma che deve necessariamente pensare con modalità idealistico–bimondano (lo sdoppiamento dei mondi) la sua critica radicale della società mercantile di Atene, dove il denaro vale più del merito, inteso come virtù. La posizione di Platone rappresenta la «premessa logica necessaria dell’ontologia dell’essere sociale», ma ancora non lo è, poiché essa deve presupporre la critica aristotelica a Platone stesso. Solo questa critica, contestando il «raddoppiamento bimondano della monomondanità sociale e politica dell’uomo (quindi anche metafisico–ontologica)  può dar luogo ad una vera e propria ontologia dell’essere sociale». L’autonomia piena del mondo umano caratterizza l’intera filosofia di Aristotele, che ha come base della sua ontologia dell’essere sociale la natura umana in quanto «categoria normativa dell’ordine sociale». Preve mostra come a questo principio Aristotele arrivi più che con la critica al platonico sdoppiamento dei mondi, con il rifiuto della realtà dei Principi di Platone, cioè la Diade come processo necessario di rottura dell’Uno, con conseguente passaggio della qualità alla quantità, e dunque al valore della misurabilità, tanto che Platone stesso afferma che con la Diade sorge anche il contrasto tra il grande e il piccolo. Dalla quantità, prodotta dalla Diade, nasce per Platone l’illimitato. Aristotele respinge tale teoria conflittuale, potenzialmente distruttiva e votata al disordine, e ripristina l’ordine, appunto con la sua teoria della natura umana, che «non è un fondamento dialetticamente contraddittorio e conflittuale, ma è il principio di ordine (taxis) del mondo (cosmos)». Preve critica tre interpretazioni rispetto a quella aristotelica che ritiene la corretta interpretazione ontologica della natura umana: quella dello storicismo marxista, che nega l’attinenza ontologico-sociale della categoria di natura umana (in compagnia di altre scuole marxiste, come il materialismo sovietico di Stalin, le correnti anti hegeliane di Galvano Della Volpe e del suo allievo Colletti in Italia, Louis Althusser in Francia, su cui Preve di recente ha pubblicato un bilancio critico nel libro Lettera sull’Umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia, 2012, pp. 264); quella post–moderna (Gianni Vattimo etc.), che teme la normatività della natura umana sfoci nell’ideologia della messa a norma dei comportamenti umani che si allontanerebbero dalla sola norma accettata socialmente (pericolo che Preve non nega essere avvenuto e dunque che possa riemergere, ma solo nel caso di confusione tra livello ideologico e livello filosofico-veritativo del pensiero); infine quella cristiana, che accetta la teoria aristotelica della natura umana, aggiornata storicamente alla luce delle attuali conoscenze biologiche ed etologiche, ma la “sviluppa” innestandola sulla «philosophia perennis del cristianesimo». Pur con tutti i suoi limiti storici, Preve ritiene quella di Aristotele già una vera e propria ontologia dell’essere sociale, che gli consente di concepire un umanesimo fondato sulla natura umana come rinuncia all’illimitatezza dell’arricchimento crematistico (Preve considera Aristotele il fondatore della “filosofia dell’economia”), e dunque un precursore di Hegel e di Marx. Prima però di vedere come, alla luce di tale visione, questi ultimi vegano interpretati è necessario passare per Spinoza e per Kant. Il filosofo olandese, appartenente alla piccola borghesia commerciale ebraica, permette a Preve di precisare che il metodo della deduzione storico-sociale delle categorie del pensiero, pur essendo il migliore per orientarsi, non è applicabile per tutti i pensatori della storia della filosofia. Spinoza ne è la dimostrazione, viene infatti definito «un dono che la filosofia ha fatto ai mortali». Il suo pensare non è né organico né omogeneo alla riproduzione del capitalismo olandese in cui si trovò a vivere. Egli, ci dice Preve, rappresenta «il vero principio essenziale di ogni filosofare moderno» (principio dell’immanenza assoluta e della separazione della religione dal potere politico cui si aggiunge il principio della democrazia diretta dei produttori sul loro prodotto), poiché restaura il principio ellenico dell’identità ontologica tra le categorie dell’essere e del pensiero, utilizzando, inevitabilmente, la terminologia filosofica imperante nel suo tempo, quella cartesiana. Se così è non può che rappresentare anche il principio essenziale della successiva filosofia politica di Marx. Almeno su questo Preve concorda con Toni Negri, da cui però si allontana immediatamente visto che quest’ultimo espelle Hegel e la dialettica. Piuttosto sul punto è il Lukács dell’Ontologia dell’essere sociale che per Preve centra il nocciolo della modernità spinoziana, laddove afferma come Spinoza apporti una correzione all’antropologia filosofica greca, non essendo più il dominio dell’uomo sui propri affetti quello della ragione sugli istinti (che può essere ancora reificato in un fatto trascendente, come farà il cristianesimo), ma quello degli affetti più forti su quelli più deboli, che Lukács definisce «il compimento della autocostituzione processuale, terreno–immanente, dell’uomo». Partendo da tale acquisizione, e unendo tra loro Hegel, Marx e Spinoza, Preve espone il suo punto di vista, ovvero che Spinoza è così importante nella filosofia moderna che o si è spinoziani o non si è affatto filosofi, ma che, partendo da lui, è legittimo pensare come soggetto (una costituzione processuale della soggettività, quindi non una autoposizione destoricizzata, desocializzata e formalistica come in Cartesio) quel che Spinoza ha pensato come sostanza (identità ontologica tra Dio e Natura), in questo modo si ha «il concetto per pensare il compimento della autocostituzione processuale, terreno–immanente, dell’uomo; ed è questo il tratto caratteristico della filosofia di Marx, che non è uno strutturalismo epistemologico, un materialismo dialettico o uno storicismo assoluto, ma è un umanesimo rivoluzionario a base dialettica». Così come Spinoza rappresenta il caso che consiglia moderazione nell’applicazione del metodo della deduzione storico–sociale delle categorie del pensiero, Kant probabilmente ne è l’esempio più importante della sua correttezza. Il criticismo kantiano, infatti, permetteva alla borghesia di chiarire, innanzi tutto a sé stessa, che la propria “scienza” (Wissenschaft), interpretata come autoconsapevolezza del proprio ruolo “noumenico” nel mondo fisico dei “fenomeni”, non era più dipendente da un fattore esterno (la metafisica della religione) ma era fondato su sé stesso, ovvero sulla propria immanente autoriflessione intellettuale. Kant fu quindi contemporaneamente un grande filosofo indipendente e “gratuito” (le grandi opere filosofiche, sottolinea Preve, si scrivono gratuitamente), e un ideologo organico alla prospettiva borghese del mondo, che non può essere una ontologia dell’essere sociale ma una metafisica a base gnoseologica. Kant effettua una separazione ontologica e gnoseologica delle categorie dell’essere e del pensiero (operazione storicamente epocale) e può farla perché dal punto di vista storico era arrivato il momento in cui era possibile apertamente delegittimare, non tanto la pretesa della metafisica di presentarsi come scienza, quanto quella della religione di dettare come norme i propri valori etico e politici alla nuova società civile borghese–capitalistica. Così le categorie dell’essere sono definite non conoscibili, e quelle del pensiero, le sole conoscibili per il soggetto, si identificano pienamente e simbolicamente con le categorie del nuovo “essere”, che non è più Dio ma, appunto, la società borghese–capitalistica. Tutto il neokantismo odierno (che non a caso  domina nei dipartimenti di filosofia delle università occidentali) ha il compito sociale di impedire la critica alla metafisica realizzata nella prossimità della produzione capitalistica (basata per Preve dall’inscindibile nesso di alienazione e sfruttamento) proprio argomentando che la sola critica sensata alla metafisica è quella effettuata all’ormai irrilevante aldilà trascendente. Certo, chiosa Preve, è molto più semplice sparare sul Papa, i mullah etc. che non «criticare il capitale finanziario, le transnazionali e le forze armate dell’impero americano». Si giunge così  alle pagine, quanto mai determinanti, dedicate a Hegel e Marx, non prima però di un “passaggio” decisivo per Fichte (Preve li definisce i tre grandi dell’idealismo tedesco). La sua definizione della realtà è per Preve effettuata in termini di sviluppo dialettico tra i due opposti in essenziale correlazione dell’Io e del Non– Io, sicché la stessa dialettica può definirsi come l’unificazione sintetica dell’opposizione che si crea mediante la determinazione reciproca risultante dal processo stesso. Questo dimostra, per Preve, come sia del tutto inutile parlare di dialettica “idealista” o “materialista”, essendo essa sempre e solo una; è l’operazione teorica che rappresenta il tessuto della scienza filosofica, che, diversamente dalla logica formale, si fonda sulla connessione organica tra forma e contenuto e tra soggetto e oggetto. In Marx l’Io sarà ridefinito come soggetto rivoluzionario anti– capitalistico, e il Non–Io come l’unità di alienazione e sfruttamento nella produzione capitalistica, ma, dice Preve, la «grammatica teorica resta a tutti gli effetti quella di Fichte». In lui Preve vede riaffiorare la radice comunitaria propria di ogni vera filosofia, facendogli assurgere così il ruolo di primo teorico moderno del comunitarismo. Ora si può aprire il discorso su Hegel, dove Preve sottolinea immediatamente che le ragioni dell’avversione cui è stato, ed è, oggetto rappresentano dei fatti sociali e non un argomento di chiarimento da seminario universitario. Hegel esprime l’esigenza di una sovranità della scienza filosofica della verità,  nei confronti sia delle certezze ed esattezze della scienza della natura (Galileo e Newton), sia rispetto alla tradizione religiosa, sia, sopra ogni altra cosa, rispetto al mercato capitalistico con i suoi automatismi economici (non si può pretendere, ci avverte Preve, di rinvenire in Hegel una teoria dei modi di produzione o una critica dell’economia politica; per quelle ci vuole Marx, pur con tutti i problemi e antinomie che il suo pensiero presenta, ma di certo non è nemmeno un apologeta indiretto del primato della norma della riproduzione economica su tutti gli altri ambiti del legame sociale comunitario. Definendo l’economia politica come “sapere dell’intelletto” e non della ragione, Hegel si riallaccia ad Aristotele ed alla sua critica alla assolutizzazione della crematistica). E’ questo per Preve il nocciolo del “problema” Hegel. Il filosofo di Stoccarda si situa dentro il passaggio fichtiano dall’epoca della compiuta peccaminosità (del regno animale dello spirito, per usare il suo linguaggio) all’epoca del ristabilimento della scienza filosofica della verità come unico fondamento possibile per una nuova comunità politico–sociale (questa impostazione è proposta da Preve nella consapevolezza del fatto che Hegel preferisse Schelling a Fichte, preferenza che Preve critica fortemente esprimendo un giudizio molto severo sulla filosofia, ed anche sulla persona, di Schelling). Sono queste le ragioni da cui derivano i “fraintendimenti” di Hegel, su cui Preve si sofferma analiticamente mostrandone tutti i risvolti e le specifiche motivazioni. Per Preve il punto di vista storico di Hegel coincide con l’assoluta rivendicazione del pensiero di giudicare le scissioni in cui si vive, per cui non esistono forze esterne che possano espropriare il diritto assoluto dell’uomo ad esprimere una valutazione concettuale del mondo visto come totalità espressiva. Per questo Hegel è il filosofo moderno della libertà assoluta incondizionata (da non confondere con l’arbitrio incondizionato delle opinioni a ruota libera). Con tale retroterra teorico alle spalle si introduce il tema Marx. Preve illustra come da un punto di vista storico–genetico il pensiero del Moro di Treviri deriva da un episodio tardoromantico di coscienza infelice dell’impossibile universalismo della borghesia tedesca. Da un punto di vista ontologico–sociale bisogna invece guardare l’autonomo processo di richiesta di riconoscimento (nel significato emerso nella figura servo–padrone della Fenomenologia dello Spirito di Hegel) delle nuove classi salariate emerse dallo sviluppo capitalistico. Non però nella forma “relativa” del riconoscimento all’interno del modo di produzione capitalistico (che politicamente può assumere varie forme, dal tradeunionismo sindacale inglese alla socialdemocrazia tedesca, dal socialismo francese al comunismo italiano 1945–1991) ma in quello “Assoluto” (che Marx ricava da una interpretazione per l’appunto “assoluta” della sopracitata figura hegeliana servo–signore). La filosofia di Marx è stata, per Preve, una filosofia dell’Assoluto, che implica la scomparsa di tutti e due i lati del processo di riconoscimento, poiché sia il lato “borghese” che quello “proletario” spariscono dentro una nuova entità socio–storica, cioè l’intera umanità emancipata divenuta pienamente “autocosciente”. Si tratta quindi di una scienza filosofica nel significato dato nella Fenomenologia dello Spirito e nella Scienza della Logica di Hegel (Preve rivendica, e non è il solo, i rapporti metodologici tra la Scienza della Logica, in particolare la dottrina dell’essenza, e il Capitale di Marx). Ciò vuol dire sapere assoluto che unisce l’elemento della concettualizzazione di un oggetto di conoscenza (per Marx il modo di produzione capitalistico) con l’elemento della sua valutazione etico-morale (alienazione, sfruttamento etc.). Marx pensava “necessario” che il capitale, nello sviluppo dialettico delle sue determinazioni, si rovesciasse ad un certo punto in comunismo. Preve, al di là del problema filologico (che comunque ha presente e di cui discorre) di quanto “necessitarismo” teleologico determinista sia presente in Marx, respinge la categoria di necessità assumendo quella di possibilità interpretata in modo aristotelico come essente-in-possibilità (dynameion). Preve quindi problematizza la scienza filosofica di Marx senza distruggerla dalle fondamenta gettando il bambino con l’acqua sporca del “necessitarismo”. In questo modo il comunismo è visto “solo” come una possibilità ontologica dell’umanità. Marx credette opportuno affiancare alla sua scienza filosofica del concetto di capitale una scienza dichiaratamente non filosofica, il cosidetto materialismo storico. La categoria scientifica di modo di produzione contraddistingue il materialismo storico di Marx (dal 1845 al 1883, anno della sua morte). Improprio per Preve sarebbe il chiamarlo concetto (Begriff), perché il concetto proprio della scienza filosofica «è un’unità indivisa di conoscenza e di valutazione etica, mentre la categoria scientifica di modo di produzione è pensata come categoria fondativa di una scienza non-filosofica». Preve la ritiene una categoria scientifica ancora insuperata, permettendo sul piano conoscitivo una storicizzazione determinata, e sul piano storico-politico una polemica ideologica (visto che i teorici della “naturalità” della produzione in generale, impediscono la conoscenza della storia passata, proponendo il processo di sfruttamento classista come la modalità “razionale” della generale riproduzione sociale). Consente, dunque, di pensare la storicità del capitalismo e l’illegittimità della sua pretesa, arrogante, di pensarsi come fine della storia (concetto che va espunto anche dalla teoria marxista che ne è stata pesantemente affetta, si veda la famigerata teoria dei “cinque stadi”, mentre Marx, pur oscillando, ha lasciato tracce di una visione multilineare e non necessitata della storia universale, come mostrano i quaderni antropologici ed etnologici e gli interessi verso le società impropriamente definite primitive). Detto questo, per Preve sorgono determinati, e determinanti, problemi, discutendo i quali chiarisce definitivamente la sua personale lettura di Marx, che si possono sinteticamente riassumere in questo modo: la struttura del modo di produzione è costituita dal rapporto dialettico della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione, ma questo modello non garantisce la deduzione “scientifica” della transizione del passaggio “necessario” al comunismo che rimane solo una potenzialità ontologica possibile; Marx pensava che la classe operaia (ma poi, nei Grundrisse, il lavoratore operativo collettivo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali emanate dalla produzione capitalistica, chiamato general intellect, da cui sorge l’”epopea” (post) operaista, a dimostrare le oscillazioni di Marx sul punto) fosse il soggetto storico rivoluzionario, ma così non è e  questa constatazione, unita alla sofferta riflessione marxiana sul punto, fa intravedere a Preve  la parte “tragica” di Marx dove a fronte di una lettura del capitalismo come unità di alienazione e di valore, inesauribile fonte di ricchezze infinite, sfruttamento del lavoro vivo, degradazione sociale e antropologica della comunità umana, distruzione dell’equilibrio ecologico del pianeta, non è poi così certa l’esistenza di soggetti in grado di superarlo, perché la potenzialità ontologica può non approdare mai all’atto; il concetto di materialismo storico in Marx non ha, per Preve, nulla a che vedere con il concetto scientifico di “materia”, comunque la si definisca, ma è indice di “strutturalismo storico”, in cui la struttura occupa il posto della “materia” e la sovrastruttura quello della “forma”; che in una scienza filosofica della totalità espressiva (che esprime il concetto di negatività del capitalismo) vi è solo lo spazio logico per le determinazioni dialettiche della stessa totalità nel suo svolgersi logico, dunque non trova posto uno “spazio” per la sovrastruttura e la struttura, che invece è necessario in una scienza non-filosofica; la sovrastruttura però è solo l’insieme delle ideologie, forme di coscienza che è impossibile non possedere, mentre l’arte, la religione e la filosofia, non essendo ideologie, non fanno parte per Preve della sovrastruttura ma, sono «forme permanenti e trans-storiche dell’attività umana eterna di riproduzione ed interpretazione individuali e collettive del mondo, e quindi la migliore definizione possibile è stata data da Hegel in termini di “spirito assoluto”». Hanno infatti certo una storia (tanto che Hegel fornì tre modelli di storia dell’arte, della religione e della filosofia) ma non si riducono integralmente a storia, come invece fa, per sua natura, l’ideologia. Si è così cercato, attraverso un sentiero inevitabilmente parziale, di far emergere una sorta di filo rosso che si snoda dentro questa poderosa opera, scegliendo quegli autori e quei nodi teorici che si ritiene abbiano più influenzato la formazione del pensiero di Preve al fine di comprenderla al meglio. Come già detto all’inizio di queste note, non si è di fronte a un testo riassumibile in toto e si è scelta questa strada nella speranza di essere riusciti a darne il senso (ma al lettore si vuole infine ancora segnalare, tra le innumerevoli riflessioni e spunti di cui non è stato possibile nemmeno accennare, le interpretazioni di Nietzsche e Heidegger, fortemente originali sia rispetto a quelle più tradizionali che a quelle più eterodosse, il confronto con il marxismo successivo a Marx, compreso quello indipendente, la critica al post-moderno così come l’omaggio, per niente formale, a Lukács, presente nell’ultimo capitolo, in cui si instaura il corretto rapporto che si deve avere con i Maestri quando sono stati davvero all’altezza della maiuscola). L’obiettivo, ambizioso ma necessario, di Preve è l’invito a lavorare, tutti,  per un “riorientamento gestaltico” dell’intero pensiero filosofico occidentale, fuori da ortodossie (ed eresie) ormai defunte, unica possibilità per rimettere in campo (sulla base del lascito, rimeditato radicalmente, di Spinoza, Hegel e Marx) una teoria anticapitalista all’altezza dei nostri tempi, scevra delle criticità e incongruenze del passato, sostenuti da quella “passione durevole” (per citare ancora Lukács) che bisogna possedere per tentare di non soccombere all’odierno capitalismo totalitario.

 

 

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