La Teoria della scelta razionale. Applicazioni e problematiche

Stefano Bracaletti

(Università del Piemonte orientale)
stefano.bracaletti@hotmail.it

 
 
VASARELY

Abstract: Rational choice theory represents the basic model used by economic theory – in its neoclassical form – to account for human behavior and it has recently found some applications in sociology. Rational choice theory “translates” the naïf language of beliefs and actions in the language of choices under constraints. It explains human action in terms of some minimal elements:  the choice of the best way to attain a specific result, given the beliefs and the desires of actors (information and preferences) given a set of possible choices and given, eventually, a principle – usually utility maximization – that enables the actor to pick up, among various alternatives, the actually preferred one. The essay, after a short exposition of rational choice theory and of its philosophical premises, focuses on awkward aspects of the model connected in particular to axioms used in  economic theory of rational consumer behavior and to preferences formation. It also discusses the limits of rational choice theory as a model of human behavior applied to empirical social research in sociology.

 

Keywords: Rational Choice; Limits of Rationality; Non-Rational Preference Formation; Rational Choice and Empirical Research.

 

  1. Introduzione

Caratteristica dell’agire umano è indubbiamente la razionalità e la sua base più strettamente comportamentale, l’azione intenzionale/consapevole. La filosofia, le scienze sociali e l’economia hanno cercato, ognuna con i propri strumenti, di precisare il concetto di razionalità e, in particolare nel caso della teoria economica, di renderlo operativo. Uno dei risultati più interessanti di questi tentativi è la teoria della scelta razionale (TSR). Essa rappresenta il modello di comportamento umano alla base della teoria economica nella sua versione neoclassica e recentemente ha trovato un campo di diffusione anche nella sociologia. Nella TSR, l’attore è visto come un’unità strutturata di preferenze che attraverso una serie di passaggi portano a delle scelte. Il suo antenato filosofico è il soggetto monologico della tradizione cartesiana. Questo soggetto ha una rappresentazione mentale chiara e distinta dei propri obiettivi che gli permette di effettuare un calcolo dei mezzi migliori per raggiungerli. Egli agisce quindi sempre sulla base di un rapporto razionale con la realtà. La sua esemplificazione più concreta è il modello del consumatore razionale della teoria microeconomica contemporanea che – dati una serie di assiomi che definiscono la sua razionalità minima – confronta, sulla base del proprio vincolo di bilancio, panieri di beni alternativi e sceglie quello che gli procura il maggior benessere, cioè che massimizza la sua utilità. Nel caso del comportamento del consumatore vi è un’assunzione ancora più forte: è sufficiente che le preferenze ubbidiscano agli assiomi perché si verifichi la scelta e in particolare la scelta ottima. È evidente che questo modello rimanda un’immagine lineare dell’attore, concepito come entità priva di conflitti e contraddizioni.

In questo lavoro, dopo un breve accenno ai presupposti filosofici della TSR e un’esposizione essenziale del modello che ne sta alla base[1], cerchiamo di metterne in luce i punti critici. Questi punti critici si manifestano su diversi livelli. Come abbiamo precisato, il riferimento privilegiato della TSR è l’analisi del comportamento economico, e in particolare la teoria del comportamento del consumatore. La critica di primo livello è allora centrata proprio sugli assiomi definiti dagli economisti per spiegare questo comportamento in maniera deduttiva (se il comportamento rispetta gli assiomi si ha la scelta ottima). Si tratta per così dire di una critica “interna” al modello stesso. Il secondo livello riguarda, da un lato, quei comportamenti che si sottraggono allo schema dell’attore intenzionale – in quanto i loro esiti non possono essere il risultato di un agire finalistico – dall’altro il concetto di Akrasia – cioè la debolezza della volontà – ovvero l’incapacità di agire in base a quella che il nostro giudizio ritiene essere la scelta più utile. Il terzo livello riguarda un aspetto cruciale del modello TSR, cioè le preferenze. Nella teoria economica, non viene indagato come queste preferenze si formino – dando inoltre per scontato che esse rimangano stabili nel tempo – se in modo razionale o se invece attraverso meccanismi non razionali che influiscono sulla scelta degli obiettivi. La presenza di questi meccanismi rende problematica una spiegazione basata sui principi della TSR. Il problema delle preferenze entra in gioco in modo ancora più significativo nell’applicazione del modello TSR alla ricerca empirica, dove la TSR stessa è vista in sostanza come applicazione al comportamento umano del modello a leggi di copertura delle scienze naturali. Qui si richiederebbe la possibilità di definire con chiarezza un insieme di preferenze stabili a partire dalle quali spiegare il comportamento. Ma questo risulta estremamente problematico. Emerge qui una difficoltà teorica più generale: come modello per la ricerca empirica la TSR dovrebbe definire un livello stabile del comportamento individuale ma questo livello risulta troppo astratto e quindi scarsamente esplicativo. Il collegamento che deve essere fatto di volta in volta a contenuti fattuali e contestuali per fornire una spiegazione sensata, sembra rendere ridondante il ricorso a schemi generali di spiegazione.
 
 

  1. Presupposti filosofici della teoria della scelta razionale. Tratti generali di una teoria dell’azione intenzionale

La filosofia analitica (cfr. Anscombe 1957, Taylor 1964, Von Wright 1971), attraverso una serrata critica della psicologia comportamentista, ha messo in luce in maniera convincente che nell’azione umana è immancabilmente presente un elemento finalistico determinato dall’intenzione del soggetto. L’azione è sempre “l’azione di qualcuno” e come tale deve essere caratterizzata sempre attraverso una connotazione soggettiva in termini di finalità, desideri e intenzioni.

Per comprendere la grammatica logica dell’azione è necessario sostituire alla domanda di tipo causale (‘perché è avvenuto X’) e alla domanda essenzialista (‘che cosa è X’) una domanda di tipo semantico (‘cosa significa X per un determinato soggetto Y’). Il fatto che l’agire umano presenti un aspetto ineliminabilmente intenzionale, rende inadeguati i modelli nomologici. Questi ultimi possono essere applicabili solo in contesti nei quali il comportamento risulta strettamente determinato per esempio da parametri fisiologici oppure in contesti nei quali risulta soggetto ad imperativi economici ben definiti (Sparti 2002, 98-9).

Il punto centrale è allora l’analisi del concetto di intenzione. Per chiarirlo possiamo riferirci alla differenza tra due fatti estensionalmente equivalenti ma descritti in due modi differenti: sbattere le palpebre e strizzare l’occhio. Un altro esempio potrebbe essere il seguente: mentre scrivo al computer sto provocando in effetti dei processi fisici – spostamenti d’aria, aumento del tasso di rumore nell’ambiente circostante, consumo di corrente – tuttavia ciò che faccio deve essere descritto propriamente come “scrivere un saggio”. L’agire intenzionale, caratterizzato in questi termini, è dunque privo di qualsiasi fattore causale così come di qualsiasi elemento di necessità naturale. La sua spiegazione fa esclusivamente riferimento alla capacità dell’individuo di attribuire significato e di valutare situazioni. Un’azione è allora comprensibile se, osservandola, possiamo attribuire uno scopo al soggetto agente tra la possibile gamma di scopi che riconosciamo come suoi propri. La spiegazione intenzionale può allora essere considerata auto esplicativa perché viene spiegata senza riferirsi ad elementi esterni all’azione stessa. Il paradigma intenzionalista nasce in effetti per definire il rapporto tra le condizioni esterne (la cui unica considerazione per spiegare l’azione darebbe luogo a una forma di determinismo strutturale) e le azioni individuali.

Insieme all’aspetto teleologico intrinseco alla grammatica logica dell’azione, il paradigma intenzionalista insiste sull’importanza delle credenze. Così, se scopro che x va a correre tutte le sere dopo il lavoro non posso spiegare questo fatto semplicemente asserendo che questa pratica è salutare ma devo necessariamente riconnettere questo aspetto, accettabile a livello di senso comune, a una credenza di x: egli ritiene che fare jogging sia salutare e desidera compiere azioni che siano benefiche per la sua salute. La credenza indica quindi uno stato che si contrappone al dubbio ma che si colloca a un livello inferiore rispetto alla certezza. Essa si riferisce all’elemento cognitivo di valutazione della situazione grazie alle informazioni acquisite. In forma proposizionale abbiamo allora l’enunciato: “x crede che p”. Il desiderio indica invece l’elemento volizionale che determina la disponibilità ad agire e ne può costituire la forza trainante. Il soggetto che agisce combina il desiderio (fare qualcosa di positivo per la propria salute) con la credenza che, agendo in un certo modo, il desiderio sarà effettivamente realizzato, credenza che assolve anche la funzione di determinare il modo migliore di realizzare il desiderio. È questo stretto connubio tra desiderio, o comunque una disposizione favorevole, e la connessa credenza che pone il concetto di intenzione al centro dell’analisi dell’azione. Questi due elementi rappresentano insieme la condizione soggettiva dell’azione, che possiamo anche definire ragione (Sparti 2002, 105-6). Si osservi poi che non è necessario dimostrare che il soggetto agente sia consapevole delle sue intenzioni ma semplicemente che sussistevano delle ragioni per agire. In questo senso possiamo dire che le intenzioni offrono allo stesso tempo sia una ragione per l’azione che la possibilità di spiegarla.
 
 

  1. La teoria della scelta razionale. Caratteri generali.

Quelli appena esposti sono i tratti generali di cui deve necessariamente dar conto una teoria dell’azione intenzionale.

La teoria della scelta razionale traduce il linguaggio intuitivo delle azioni e delle ragioni, usato nella filosofia analitica, nel linguaggio delle scelte sotto vincoli. Essa spiega l’agire umano sulla base di elementi minimi: la scelta dei mezzi migliori a disposizione date le credenze e i desideri degli attori (nei termini non “coscienzialisti” e formalizzati della teoria stessa: le informazioni e le preferenze dell’attore), dato un universo di scelte possibili (feasible set) e dato, inoltre, un criterio che permette all’attore di scegliere tra varie alternative (criterio che di solito è la massimizzazione dell’utilità) quella effettivamente preferita.

Nella TSR l’attore è visto come un “fascio di preferenze ordinate” e come capace di accedere a informazioni sufficientemente complete e accurate.Non necessariamente le preferenze dell’attore devono essere egoistiche. Quest’ultimo può avere anche una forma di preferenza altruistica per la solidarietà, ma farà sempre inevitabilmente la scelta che massimizza l’utilità attesa rispetto alle varie preferenze sui vari corsi d’azione. Essa può essere definita come la somma delle utilità di ciascun possibile esito di un corso d’azione. In termini più formali la TSR può essere riassunta come segue:

1) un postulato di razionalità individuale centrata sull’auto-interesse.

2) un insieme di vincoli e opportunità determinate dalla situazione.

3) un ordinamento di preferenze coerente con l’obiettivo di soddisfare i desideri dell’attore.

4) la possibilità di collegare la razionalità individuale a) con l’ambiente esterno, tramite un insieme di credenze (informazioni) da cui derivano possibili azioni alternative; b) gli esiti correlati a queste azioni alternative c) una regola di decisione che, attraverso un calcolo massimizzante, rende possibile determinare l’esito della scelta.

Sullo sfondo dei requisiti sopraelencati vi è evidentemente l’assunto tacito che l’attore sia effettivamente in grado di valutare i propri mezzi in rapporto ai fini che si è proposto, sappia inoltre confrontare tra loro questi fini e sia in grado di agire in vista di essi, cosi che essi siano effettivamente “causa” dell’azione (sussista, cioè, un collegamento effettivo tra i fini e l’azione). La definizione esclude comportamenti istintivi, convenzionali o consuetudinari.

L’assunto fondamentale alla base della TSR è dunque che ogni comportamento umano abbia come obiettivo la massimizzazione di un interesse tramite il tentativo di fare la scelta migliore dati determinati vincoli esterni. Tratto caratteristico della razionalità umana stessa è dunque “massimizzare ciò che desideriamo e minimizzare ciò che non vogliamo”. Si assume inoltre che l’individuo disponga di un certo numero di corsi d’azione possibili e sia in grado di valutare le possibili conseguenze delle varie alternative. Per far questo l’individuo deve quindi possedere, come nello schema generale d’azione visto prima, un certo insieme di credenze, da intendersi come semplici informazioni sui mezzi per realizzare le proprie preferenze e non, in senso antropologico, come identificazione in determinati valori culturali come ad esempio la giustizia o la solidarietà.

Come avviene dunque il confronto tra corsi d’azione possibili? È il concetto di utilità che risolve questo problema. Tramite esso l’attore è in grado di valutare su una base comune in termini di costi e benefici le varie opzioni. Ad ognuna di esse viene attribuito un certo valore su una scala di utilità. Proprio perché, come sopra specificato, quest’ultima esprime semplicemente l’aspetto economico del rapporto costi benefici, ossia una valutazione di ciò che è più o meno vantaggioso, la misura/rappresentazione dell’utilità che ne deriva non esprime ciò a cui attribuiamo valore soggettivamente, ossia non ha un significato psicologico. Una volta ordinate in questo modo le varie opzioni, l’individuo dovrebbe essere in grado di scegliere l’azione che «massimizza la migliore conseguenza possibile» (Sparti 2002, 115-8).

Riassumendo: l’individuo viene considerato come un’unità massimizzatrice dell’utilità rispetto ad un ordine di preferenze. La massimizzazione si fonda sul calcolo della probabile utilità attribuita all’esito di ogni corso d’azione. L’individuo agisce come se attribuisse un determinato valore ai risultati delle proprie azioni ordinandoli su una scala, in modo da poter mettere a confronto varie azioni possibili e scegliere quella che, valutati appunto i suddetti risultati e i costi implicati, presenta la maggior probabilità di successo.

Nella TSR le scelte dell’attore non sono considerate casuali ma frutto di un ordinamento. L’attore è allora visto come un’unità strutturata di preferenze che attraverso dei passaggi che fra poco esamineremo, portano a delle scelte. La TSR pone al centro del suo interesse i risultati osservabili di queste scelte senza porsi il problema della loro provenienza cioè di come si siano formate le preferenze e di cosa significhino per l’individuo che le possiede. Poiché parte dal presupposto di razionalità dell’attore la TSR postula una “coincidenza stretta” tra preferenze e scelte, ovvero se un’opzione è preferita deve anche essere scelta. Come già osservato, questo aspetto rimanda necessariamente un’immagine lineare dell’attore, concepito come entità priva di conflitti e contraddizioni. Egli inoltre rimane fedele alle proprie preferenze, in altre parole esse risultano stabili nel tempo.

Come abbiamo anticipato, il modello paradigmatico della TSR è rappresentato dalla teoria microeconomica del consumatore. In questo modello le preferenze sono coerenti se rispettano i seguenti criteri: riflessività, completezza, transitività, continuità. A queste quattro proprietà deve essere in realtà aggiunta un’altra proprietà e cioè la non-sazietà. Questa espressione sta a significare che il consumatore preferisce sempre un paniere di beni in cui uno di questi è presente in quantità maggiore, cioè, semplicemente, preferisce sempre consumare di più che consumare di meno. Semplificando, la riflessività significa che un paniere di beni è buono almeno quanto un paniere identico, cioè, per esempio, che non ho ragioni, tra due confezioni perfettamente identiche dello stesso prodotto, di preferirne una all’altra. La completezza significa, invece, che il consumatore è sempre in grado di scegliere un paniere di beni piuttosto che un altro. La transitività significa che se il paniere A è preferito al paniere B e il paniere B è preferito al paniere C, il paniere A sarà preferito al paniere C. La proprietà della continuità afferma, infine, che nell’esame dei singoli beni devono essere considerate variazioni quantitative piccole a piacere, così che esse consentano di identificare infiniti distinti panieri.

All’interno della teoria economica questi quattro assiomi servono a definire il comportamento del consumatore perfettamente razionale.  Anche qui semplificando, possiamo dire che se le preferenze rispettano questi assiomi è possibile, dato il vincolo finanziario del consumatore, individuare, attraverso la tecnica delle curve d’indifferenza – che rappresentano l’insieme degli infiniti punti ciascuno dei quali indica panieri diversi per proporzioni quantitative dei beni, ma uguali per utilità – un unico punto di equilibrio, cioè un punto di scelta ottima del consumatore stesso. Da questo livello individuale si può passare poi a quello aggregato.
 
 

  1. Limiti della razionalità 1. Violazione degli assiomi della teoria del comportamento del consumatore

Abbiamo esemplificato la TSR attraverso la teoria economica del consumatore proprio perché nelle critiche agli assiomi appena elencati emergono implicitamente i limiti del modello di attore che la TSR sottende. Così, più dettagliatamente, la proprietà della continuità è violata dalle cosiddette preferenze lessicografiche. Per capire questo concetto – che significa più o meno “ordinate come le parole in un dizionario” – si immagini un individuo costretto alla dialisi che sia anche appassionato di musica. Le ore di dialisi devono essere presenti in quantità fissa, poniamo due ore, e solo dopo che ha soddisfatto questo bisogno fondamentale egli può passare all’ascolto di musica. Le due ore di dialisi sono il punto di discontinuità. È chiaro infatti che non è possibile compensare la diminuzione delle ore di dialisi con l’aumento dell’ascolto di musica. Le combinazioni che contengono meno ore di dialisi, pur aumentando l’ascolto di musica, sono strettamente peggiori (l’individuo muore!). Le combinazioni che, a parità di ore di dialisi, contengono più ore di musica sono strettamente migliori. Non esiste una combinazione generica per cui il consumatore è indifferente tra dialisi e musica[2]. Il concetto di preferenze lessicografiche, quindi, mette in luce due limiti del comportamento razionale: le preferenze possono essere dei vincoli piuttosto che dei criteri di scelta, e possono esserci beni o attività non comparabili secondo criteri strettamente economici. Questo significa che le persone possiedono effettivamente una gerarchia di valori.

Per quanto riguarda l’assioma di completezza, è stato messo in luce il fatto che in molte situazioni gli individui non sono capaci di definire una stabile relazione di preferenza. Ciò può avvenire a causa di una forma di insicurezza, a causa di problemi legati alla loro personalità, a causa della presenza di desideri ambivalenti e di una riluttanza fobica a prendere decisioni. Si prenda poi l’assioma di transitività e si consideri il seguente esempio. Un individuo si confronta con tre beni x, y e z. x si colloca, nel suo ordine di preferenza, in una posizione leggermente più elevata rispetto a y. Questa differenza non è però così netta da essere percepita (e quindi “registrata”) in modo chiaro e diretto. L’individuo afferma quindi di essere indifferente tra x e y. Lo stesso discorso vale per y e z. Quando, tuttavia, egli giunge a confrontare x e z si verifica una sorta di “effetto cumulativo”, per cui egli riesce a percepire la sua preferenza per z rispetto a x e dichiara di preferire effettivamente z a x. Abbiamo allora una situazione in cui il consumatore è indifferente tra x e y e tra y e z, ma è falso che egli è indifferente tra x e z. In questo modo l’assioma di transitività è contraddetto. Ciò significa che possono esserci delle soglie di percezione. Alcuni panieri possono quindi essere ordinati secondo una relazione di preferenza solo se tra essi sussistono differenze sufficientemente elevate (Ferrari-Romano 1999, 8).

L’assioma di transitività, inoltre, vale solo per relazioni di preferenza coerenti e stabili. Ma proprio sulla stabilità e coerenza delle preferenze ci sono state delle smentite empiriche. In un esperimento sono stati mostrati a degli studenti dei ritratti di potenziali mogli, chiedendo loro di definire un ordine di preferenza. Il 22,8 per cento degli studenti, riguardando gli stessi ritratti una settimana dopo, mostrava un ordine di preferenza diverso.

Per quanto riguarda, infine, l’assioma di non-sazietà, il concetto che “più è meglio” (cioè che una maggior quantità di qualsiasi bene reca maggiore soddisfazione) è valido solo entro un certo limite cioè per quantità “ragionevoli”. Possono esserci beni che, con l’aumento della loro disponibilità, causano una diminuzione della soddisfazione ad essi associata, che può addirittura raggiungere valori negativi. L’assioma di non-sazietà, inoltre, è apparentemente semplice e sembra avere un carattere esclusivamente formale e tecnico (insieme agli altri assiomi serve, come abbiamo sottolineato, per costruire in modo chiaro e univoco le curve di indifferenza). Esso nasconde però una visione ben precisa dell’essere umano, che viene interpretato come egoista ed edonista. Il suo fine sarebbe esclusivamente quello di aumentare senza limiti la propria soddisfazione e il proprio benessere nel totale disinteresse per gli altri. Questo, tra l’altro, come ha sottolineato l’economista indiano A. Sen, è un grosso limite di tutta la teoria economica. Nella realtà, egli sostiene, gli esseri umani agiscono spessissimo spinti da obblighi e simpatia. Sulla base di un sentimento di obbligo un individuo può accettare un benessere minore rispetto a quello che otterrebbe compiendo un’altra azione per lui effettivamente possibile. La simpatia, inoltre, ci fa percepire il nostro benessere come dipendente da quello degli altri (Ferrari-Romano 1999, 21).
 
 

  1. Limiti della razionalità 2. By-products, akrasia e meccanismi non razionali di formazione delle preferenze

Quelli appena visti sono i limiti, per così dire, interni al modello nella sua versione più formalizzata. È necessario ora analizzare alcuni aspetti di portata più ampia che ne evidenziano difficoltà più generali. Queste difficoltà, messe in luce in particolare nei lavori di Jon Elster, forniscono un quadro esaustivo dei limiti del concetto di agire intenzionale-razionale. Come già anticipato si tratta 1) del concetto di effetti secondari (by-products), 2) del concetto di akrasia, e soprattutto 3) di quelli che possono essere definiti meccanismi non razionali di formazione delle preferenze.
 
 
5.1 Effetti secondari (by-products)
 
Il concetto di effetti secondari (by-product), si riferisce a quegli obiettivi, in particolare stati mentali, che possono essere solo il risultato di azioni intraprese per altri scopi e quindi si sottraggono per eccellenza allo schema dell’attore intenzionale. L’esempio più significativo è quello della spontaneità: come è facile rendersi conto, non si può volere essere spontanei. I tentativi per raggiungere quest’obiettivo, vanno oltre il segno o lo mancano. Lo stesso si può dire del sonno. Qualsiasi tentativo cosciente di vincere l’insonnia “svuotando” la mente o cercando di allontanare i pensieri negativi è destinato al fallimento. Si può avere successo solo facendo altro e rinunciando all’idea di volersi addormentare. Ed ancora il “vuoto mentale”, così come viene perseguito nel buddismo Zen e in generale nella meditazione, presenta gli stessi problemi (cfr. Elster 1989, 59-70).

È possibile identificare dinamiche simili su diversi piani del comportamento e in diverse sfere esistenziali. Così, «posso volere la conoscenza, ma non (posso volere) la saggezza; andare a letto, ma non dormire; mangiare, ma non aver fame; la sottomissione, ma non l’umiltà; la diligenza, ma non la virtù; la spacconata o la bravata, ma non il coraggio; la lussuria, ma non l’amore; la compassione, ma non la simpatia; i complimenti, ma non l’ammirazione; la religiosità, ma non la fede; leggere ma non comprendere»[3].

Nell’elenco precedente figurano esempi attinenti alla dimensione etica. È proprio questo ambito nel quale sembra presentarsi più spesso la dinamica tipica di stati mentali, e più in generale di attitudini comportamentali (con le relative scelte che ne derivano), che non possono essere indotti in maniera intenzionale. A questo proposito tuttavia Elster richiama Pascal e Aristotele i quali hanno autorevolmente sostenuto, rispettivamente, che la credenza religiosa e la bontà etica possono non essere qualità innate o, appunto, effetti secondari. Ci si può infatti comportare come se si credesse e alla fine si arriverà a credere veramente. Ci si può comportare come se si fosse virtuosi e lo si diventerà veramente. Si possono cioè porre la fede e la virtù come obiettivi di azioni intenzionali. D’altra parte, se certo non si può decidere di essere felici o di innamorarsi ci si può in molti modi predisporre alla felicità e all’innamoramento, ad esempio attraverso strategie tratte dalla psicologia cognitiva. Questa interpretazione, almeno per quanto riguarda gli ambiti intesi da Pascal e Aristotele, non è, secondo Elster, completamente convincente. Oltre al rischio (presente d’altra parte in tutte le situazioni che richiedono il seguire un insieme ben determinato di regole) che l’eccessiva autodisciplina porti alla rigidità del carattere, vi possono essere – in qualsiasi situazione simile a quella del pascaliano fare come se si credesse – alcuni problemi non facilmente aggirabili. Infatti, poiché questo meccanismo si gioca sulla capacità da parte di una fede indotta progressivamente dall’abitudine di sconfiggere l’intelletto, può esserci un punto di passaggio in cui la fede non è ancora abbastanza forte per sostenere in modo autonomo il comportamento religioso e l’intelletto non è più abbastanza forte per controllarlo. Inoltre si pone il problema dell’auto-cancellazione. Perché io possa avere una fede definitivamente salda devo riuscire a dimenticare la decisione di aver deciso di credere. È chiaro che quest’aspetto può porre difficoltà insormontabili (Elster 1989, 73).
 
 
5.2 Akrasia
 
Ulteriori situazioni nelle quali il rapporto decisione-azione-obiettivi sfugge ai criteri lineari del modello classico della razionalità sono quelle che rientrano nel concetto di akrasia, ovvero debolezza della volontà. Come già precisato, con akrasia si intende l’incapacità di agire in base a quella che il nostro giudizio ritiene essere la scelta più utile. So che una certa azione x è per me più utile dell’azione y; adotto fermamente la risoluzione di fare x, ma quando arriva il momento concreto di agire metto in atto y.

Il concetto di debolezza della volontà non consiste nella semplice svalutazione del futuro, cioè detto più semplicemente, nel non preoccuparsi per esso: non risparmiare, non pensare alla salute e così via. In questo caso, anche se si possono mettere in atto comportamenti autolesionistici non si è costretti a subire la frustrazione di fare quello che non si voleva fare. L’akrasia implica invece l’incapacità strutturale di vincolarsi alle proprie passate decisioni. Il meccanismo alla sua base è una sopravvalutazione di uno stato piacere (o di assenza di dolore, di tensione) attuale rispetto a una ricompensa futura. Un esempio che fa ben comprendere questa dinamica è quello di una persona che, ereditata una grossa somma, decide di usarla nel seguente modo: spendere metà il primo anno, dandosi ai bagordi, e investire poi l’altra metà. Giunta, però, alla fine del primo anno, ridivide la somma nello stesso modo, così alla fine del secondo e così via finché non rimane più nulla. Un esempio più comune è quello di chi prende appuntamento con il dentista per una visita di controllo: il fastidio che proverà, qualora venissero riscontrate una o due carie, è senz’altro poca cosa rispetto ai vantaggi a lungo termine, tuttavia il giorno prima egli sposta l’appuntamento un po’ più in là. Quando arriva il giorno del nuovo appuntamento fa la stessa cosa… e così via per un lasso di tempo più o meno lungo (finché presumibilmente o rinuncia all’idea di farsi controllare i denti o il dentista lo invita a rivolgersi a qualcun altro!). È chiaro che questo tipo di comportamento presuppone una struttura psicologica diversa rispetto alla semplice “determinazione” (o sarebbe meglio dire: “non-determinazione”) di non andare mai dal dentista o di spendere tutto senza pensarci (Elster 1993, 60-1).

Un’“estensione”, per così dire, del concetto di akrasia nel senso di incapacità di mantenere fede alle proprie decisioni passate, è il meccanismo del cambiamento endogeno delle preferenze. Esso, semplificando molto, si riferisce alla possibilità di descrivere formalmente un processo psicologico in cui un individuo, senza influenze esterne o cambiamento dei vincoli strutturali, ma attraverso una successione di scelte libere, che rappresentano ognuna un piccolo cambiamento dei suoi gusti, si ritrova alla fine in una situazione peggiore rispetto a quella iniziale. L’esempio suggestivo portato da Elster è una novella di H. K. Andersen, nella quale un contadino va al mercato per vendere o scambiare il suo cavallo. Lungo la strada baratta quest’ultimo con una mucca, poi la mucca con una pecora, questa con un’oca, l’oca con una gallina e la gallina, infine, con un sacco di mele marce. Egli si sarebbe rifiutato di scambiare direttamente il cavallo con le mele marce, tuttavia, da ogni scambio egli acquista una nuova inaspettata propensione verso qualcosa che non è – ed è questo l’aspetto più importante – troppo lontano, come sua valutazione soggettiva, da ciò che ha in quel momento. È come se egli vivesse attimo per attimo. Questa “progressione” può essere formalizzata nel seguente modo: una persona adegua in modo inconsapevole le proprie preferenze in modo da desiderare con maggiore intensità i beni di cui in quel momento dispone in minore quantità. Egli presenta la seguente successione di panieri di consumo, tutti composti da 2 beni: (½, 3/2), (¾, ½), (¼, ¾), (⅜, ¼). In un dato momento egli sta consumando il paniere n e nel momento successivo gli viene offerta la possibilità di scegliere tra un paniere uguale ad n ed un altro paniere n+1. Siccome egli preferisce sempre un paniere in cui ci sia una quantità maggiore del bene di cui è in difetto, opterà sempre per n+1. La sequenza, tuttavia, come si può facilmente verificare, converge verso lo zero. I singoli graduali miglioramenti portano alla rovina (Elster 1993, 114).
 
 
5.3 Meccanismi non razionali di formazione delle preferenze
 
Abbiamo osservato che, nella teoria economica, per definire la scelta e quindi l’azione basta la fedeltà agli assiomi che rappresenta tuttavia un criterio formale. Non viene indagato come queste preferenze si siano formate (dando per scontato che esse rimangano stabili nel tempo) Ciò però potrebbe essere avvenuto attraverso meccanismi psicologici non razionali che influiscono sulla scelta degli obiettivi. La presenza di questi meccanismi, come si è osservato in apertura, rende problematica una spiegazione basata sui principi della TSR.

Tra questi spicca il meccanismo delle preferenze adattive. Le preferenze adattive sono esemplificate dalla famosa favola della volpe e l’uva acerba di Esopo, riproposta in rima da La Fontaine, nella quale una volpe affamata, non riuscendo a raggiungere un grappolo su un ramo troppo alto, si convince che è acerbo ed evita così di rammaricarsi. Possiamo allora parlare di preferenze adattive ogni volta che cambiamo giudizio (in genere lo trasformiamo da positivo in negativo) su qualcosa che non possiamo avere. Esse rientrano nel più generale fenomeno della riduzione della dissonanza cognitiva, concetto in uso nella psicologia cognitivista che sta a indicare il contrasto, in un individuo, tra diverse credenze, opinioni o concetti, oppure tra questi e il comportamento o l’ambiente in cui l’individuo agisce. La dissonanza cognitiva può essere ridotta attraverso un cambiamento delle credenze, del proprio comportamento o dell’ambiente stesso. Essa può essere ridotta anche attraverso una ristrutturazione cognitiva che integra l’elemento dissonante con gli altri elementi. A volte, tuttavia, gli ostacoli che si oppongono a questo processo di riduzione possono essere troppo grandi, oppure un cambiamento può risolvere dei conflitti ma crearne altri.

Il corrispettivo “negativo” delle preferenze adattive sono le preferenze controadattive. Si manifestano quando si desidera (avere, fare) sempre qualcosa di diverso da ciò che si ha o si sta facendo in un determinato momento. Questa situazione è ben riassunta dal detto: “L’erba del vicino è sempre più verde”. Si possono immaginare innumerevoli esempi: se sono al cinema penso quello a che ho perso non andando allo stadio, e quindi vorrei essere allo stadio, e viceversa se intraprendo un ciclo di studi sono ossessionato da ciò che avrei potuto fare intraprendendone un altro e viceversa, ecc. È evidentemente all’opera un aspetto compulsivo, e infatti le preferenze controadattive esprimono la differenza tra desideri e impulsi.

Le preferenze possono anche cambiare endogenamente se viene sviluppata una forma di dipendenza da certi beni. Questi beni sono allora consumati in modo coatto. Abbiamo allora le preferenze dipendenti dall’assuefazione. Gli aspetti più importanti che le caratterizzano e le distinguono dalle preferenze adattive, sono la possibile presenza di un Io diviso, con una parte che lotta contro l’assuefazione e l’altra che vi si abbandona e vi si trova a proprio agio. Questo non avviene mai nelle preferenze adattive nelle quali non esiste una sindrome da privazione che può essere invece molto forte nell’assuefazione. L’oggetto dell’assuefazione, inoltre, è più importante rispetto alla tendenza, che si rivela nelle preferenze adattive, della mente umana ad adattarsi a ciò che si trova a portata di mano. Vi è, infine, una dinamica dell’assuefazione per cui il bisogno dell’oggetto diviene sempre più forte (Elster 1989, 133-145).

Quelli appena esaminati sono casi in cui sono chiaramente all’opera meccanismi non razionali di formazione delle preferenze che incidono necessariamente sulla razionalità delle scelte. Vi sono anche altri casi più sfumati, esaminati da Elster, in cui le preferenze possono formarsi in modo apparentemente razionale ma che contengono la possibilità di un effetto negativo sulla personalità e quindi su future scelte ed azioni. Si tratta delle preferenze che mutano attraverso l’apprendimento; delle preferenze indotte dall’impegno preventivo; delle preferenze formate attraverso il mutamento preventivo degli attributi di valore; delle preferenze dipendenti dallo stato e dalla possibilità.

Le preferenze che mutano attraverso l’apprendimento definiscono quei casi in cui è possibile cambiare opinione su un certo oggetto, o su una certa situazione, sperimentandola. È sotto questo aspetto che quest’ultimo concetto si differenzia dalle preferenze adattive. Tuttavia, poiché il processo di apprendimento richiede tempo, c’è il rischio che subentri una forma di preferenza adattiva indotta da abitudine o rassegnazione. Inoltre, nella vita reale, il concetto di preferenze formate attraverso l’apprendimento (ossia di preferenze informate) potrebbe richiedere cambiamenti eccessivi o troppo frequenti per sperimentare le opzioni effettivamente in gioco – senza, tuttavia, impegnarsi in nessuna di esse in modo definitivo – così da indebolire il carattere. Ciò potrebbe avere un’influenza negativa su scelte future.

Le preferenze indotte dall’impegno preventivo presentano, rispetto alle preferenze adattive, un elemento di consapevolezza. Si riferiscono alla riduzione volontaria dell’insieme delle opzioni a disposizione, in modo che certe scelte non siano più possibili. Questo concetto è espresso dalla metafora del “farsi legare”, e dal famoso episodio di Ulisse e le sirene. L’aspetto negativo consiste nel fatto che le strategie messe in atto per restringere l’insieme di possibilità possono portare ad un’eccessiva rigidità del carattere. Anche in questo caso c’è il rischio di un influsso negativo su scelte ed azioni future.

Come si è visto, le preferenze adattive comportano una svalutazione di ciò che non si può avere. Le preferenze formate attraverso il mutamento preventivo degli attributi di valore indicano, invece, una valutazione positiva (non su base razionale) di un’opzione rispetto ad un’altra per favorire la scelta e ridurre la tensione. Si cerca uno schema complessivo in cui un’opzione — non importa per quali ragioni – risulta superiore ad un’altra. Possiamo chiarire questa situazione attraverso il seguente esempio: devo scegliere se accettare un nuovo lavoro che implica il trasferimento in una piccola città (io che amo le metropoli). Non riesco a decidere solo sulla base delle attrattive del nuovo lavoro, cioè fattori razionali e obiettivi, ad esempio stipendio e possibilità di carriera. Faccio allora entrare in gioco fattori esterni secondari e parzialmente ipotetici come i ritmi meno stressanti della città di provincia, l’aria più pulita, la vicinanza della campagna e così via. Costruisco così uno schema mentale complessivo, grazie al quale la scelta del trasferimento si rivela più facile. È evidente tuttavia che, in questo modo, il rischio di una valutazione non obiettiva della situazione si rivela maggiore (Elster 1989, 145-152).

Nella teoria economica le preferenze sono determinate, in modo intuitivo, dalle scelte passate e dalle scelte attuali. Elster ipotizza, invece, che esse possano essere determinate dall’intero insieme di opzioni disponibili, usando l’espressione preferenze dipendenti dallo stato e dalla possibilità. Le mie preferenze in fatto di libri, per esempio, possono essere determinate dai libri letti in passato e dal libro che sto leggendo ma anche dai libri sugli scaffali della mia biblioteca. Il fatto di sapere di poter scegliere certi libri può determinare una preferenza per quei libri che altrimenti non si sarebbe formata in modo diretto. In sostanza le preferenze dipendenti dallo stato e dalla possibilità sono il contrario delle preferenze adattive. Il semplice fatto di sapere di poter avere una cosa mi crea una preferenza per essa, indipendentemente da considerazioni razionali di alcun tipo.

Da ultimo abbiamo il classico meccanismo della razionalizzazione, definibile anche percezione adattiva. Attraverso di essa non “ristrutturo” le mie preferenze e le mie aspirazioni ma cerco di dare una spiegazione razionale al fatto che, nonostante i miei sforzi, esse non si sono realizzate. Davanti ad una mancata promozione, per esempio, posso pensare: “non vale la pena avere tutte quelle responsabilità” (preferenza adattiva), oppure “i miei superiori mi temono” o “quel posto l’ha avuto una persona raccomandata” (razionalizzazione). È chiaro che queste interpretazioni possono avvicinarsi alla verità ma anche distorcerla. Il meccanismo di razionalizzazione può contenere una forma di alterazione dei fatti e di illusione. I motivi che hanno determinato proprio quel corso di eventi potrebbero essere diversi da quelli che ho addotto. Più ci si allontana da un esame almeno parzialmente obiettivo di una situazione, più rischia di prevalere un meccanismo di whishful thinking, per il quale consideriamo vero o possibile solo ciò che torna a nostro vantaggio (Elster 1989, 152-160).

La discussione precedente ha evidenziato alcuni meccanismi strettamente cognitivi che ridimensionano la portata esplicativa del modello dell’attore intenzionale razionale. Una critica più radicale si delinea se accettiamo il fatto che nell’agire ci poniamo non solo la domanda “cosa vogliamo”, ma anche “chi siamo”. In questo caso è necessario introdurre nel modello astratto della TSR la possibilità per l’attore di riconsiderare il proprio ordine di preferenze ponendosi la domanda su quali preferenze egli dovrebbe o vorrebbe avere (e quindi contemporaneamente la possibilità di cambiare le preferenze). È questo il concetto di metapreferenze: le preferenze sono qualcosa di scelto razionalmente tramite le metapreferenze. Queste ultime costituiscono un livello di secondo ordine che ci permette di valutare la razionalità o l’irrazionalità delle preferenze, così che queste possano diventare qualcosa di scelto consapevolmente. Esse si identificano non in processi di scelta ma in una forma di autoconsapevolezza legata a un “progetto” di identità personale. Tramite la semplice preferenza l’attore compie una valutazione “debole” su vantaggi e svantaggi di un certo corso d’azione e sui mezzi opportuni in vista di determinati fini. Nella cornice del suo progetto di identità personale, l’individuo compie invece quelle che possiamo definire valutazioni forti. Se accettiamo come sensata la domanda “quale tipo di vita vogliamo vivere allora siamo in grado di ordinare le preferenze secondo il nostro programma di identità personale. Scelgo di fare una certa cosa perché essa non ha rilevanza non secondo un calcolo costi-benefici ma all’interno del mio modello di vita e di identità personale. Ecco allora che viene a cadere la coincidenza necessaria tra preferenze e scelte e quindi anche il postulato della transitività delle preferenze. Posso allora rinunciare a qualcosa che secondo una valutazione “debole” costi-benefici è al primo posto nel mio ordine di preferenze, ad esempio un certo prodotto, perché secondo una valutazione forte, il suo acquisto mi pone in contrasto con i valori etici che ho scelto e che mi caratterizzano come persona (come caratterizzanti la mia identità personale). In questa prospettiva, a differenza che nella TSR la scelta non può essere disgiunta dall’ identità personale. Non è quindi il risultato che risulta di rilevanza decisiva ma la qualità della preferenza. Dare priorità esplicativa al concetto di identità, presupposto quindi prima della scelta permette tra l’altro di evitare le indebite generalizzazioni e astrazioni nelle quali può cadere un approccio individualista (Sparti 2002, 127-8).
 
 

  1. Teoria della scelta razionale e ricerca empirica

Questo problema, connesso come ora vedremo all’importanza che la TSR dà alle preferenze dell’attore e quindi al tentativo di esplicitarle identificarle chiaramente, emerge in particola modo nell’uso del modello TSR nel campo della ricerca empirica.

In questo ambito l’approccio di coloro che hanno aderito al programma della teoria della scelta razionale è stato quello neopositivista di una scienza unificata, espresso nel modello delle leggi di copertura di Hempel-Oppenheim. La spiegazione dei fenomeni sociali dovrebbe basarsi su asserzioni generali dalle quali è possibile derivare altre asserzioni passibili di essere confermate o non confermate dall’osservazione empirica. Nel caso della teoria della scelta razionale, questa generalità è fornita dalla teoria dell’utilità precedentemente accennata insieme a un’assunzione più o meno implicita di universalità delle preferenze. Tuttavia, uno dei problemi maggiori del programma di ricerca della teoria della scelta razionale – rilevato ad esempio da Kelle e Lüdemann (1998, 113), in particolare nel caso della sua applicazione alla ricerca empirica – è stato proprio riuscire a definire asserzioni esplicative che siano allo stesso tempo generali e dotate di contenuto. L’aspetto più delicato sono proprio le preferenze degli attori. Esse sono ovviamente una componente fondamentale dell’azione ma sono difficili da mettere in luce. A questo proposito K. D. Opp, che concretamente ritiene possibile mettere in luce le preferenze tramite questionari, fa osservare che i teorici della teoria della scelta razionale usano varie strategie che, secondo loro, servono ad evitare di svolgere la ricerca empirica sulle preferenze. Una di queste consiste, ad esempio, nel testare solo le implicazioni comportamentali del modello. Se è possibile costruire un modello che predice lo sviluppo di una certa azione collettiva secondo un determinato schema, una corrispondenza tra il comportamento degli attori e questo schema può essere considerato come una conferma. Cercare di mettere in luce le preferenze è quindi superfluo. Già Sen (1973), tuttavia, ha fatto osservare che, se è pur vero che il metodo dei questionari presenta dei limiti perché, in effetti, le preferenze espresse possono non essere quelle effettive, difficoltà altrettanto serie presenta l’assunzione che il comportamento sia una fonte reale d’informazione. È questa, secondo Sen, un’assunzione estremamente limitante per la ricerca empirica.

Un’altra strategia è rappresentata dall’inferire direttamente le preferenze dalle azioni. L’idea alla base di questa procedura consiste nel considerare le preferenze come rivelate dal comportamento che gli attori mettono in pratica. I problemi che tuttavia essa presenta sono molteplici: 1) passare dai comportamenti alle preferenze non è una deduzione logica, non ci sono, cioè, regole logiche che la rendono possibile; 2) si potrebbe passare dal comportamento a una preferenza se si riuscisse ad applicare una teoria in grado di mostrare che, se gli individui si impegnano in determinate azioni, allora essi hanno determinate preferenze. Questa teoria però non esiste. Se, invece, si usasse il senso comune, assumendo che alla base di determinati comportamenti vi siano determinate preferenze, si rischierebbe la totale arbitrarietà. Infatti, preferenze diverse possono essere egualmente rilevanti per mettere in atto un certo comportamento. Sembra evidente, quindi, che inferire le preferenze dalle azioni non può sostituire l’indagine sulle preferenze stesse tramite questionari accurati (Opp 1998, 225). Un’ulteriore strategia è quella di assumere che la realtà sia percepita correttamente. Ma anche questo può essere fallace (Opp 1998, 225).

La difficoltà maggiore tuttavia, e veniamo al punto che più interessa in questa sede, è rappresentata dall’assunzione di universalità delle preferenze. Questo aspetto è sottoposto ad un’attenta analisi da H. P. Blossfeld e G. Prein. In effetti, l’approccio più diffuso della teoria della scelta razionale spiega l’azione partendo dall’idea di preferenze stabili e universali. Se si accetta questa ipotesi, esse non sono importanti per spiegare il comportamento. L’unica variabile che ha valore esplicativo sono i vincoli che l’individuo deve fronteggiare. Sono esclusivamente questi ultimi che determinano i corsi d’azione alternativi. Da questo punto di vista, l’individuo è un’entità passiva che deve solo adattarsi di volta in volta al cambiamento dei vincoli imposto dall’esterno. È evidente però che, se non si è in grado di specificare i vincoli concreti e il loro cambiamento, e di converso le opportunità, il modello risulta vuoto. Ad esempio, la teoria economica della famiglia afferma che la preferenza per il matrimonio è la stessa per tutti gli individui, senza distinzione di luogo e tempo. Quindi le differenze nella scelta matrimoniale possono essere attribuite solo a differenze di opportunità. La teoria, tuttavia, non le specifica in concreto, quando invece questo aspetto è, in realtà, l’unico fondamentale. Essa afferma che la scelta se sposarsi o no, è collegata alle aspettative su quanto avverrà durante il matrimonio che riguardano: 1) i guadagni attesi, cioè la reciproca dipendenza delle utilità dei due partner; 2) la complementarità dei tratti e dei contributi alla reciproca utilità, cioè quanto un determinato tratto comportamentale o caratteriale di un partner ha un effetto positivo sul contributo marginale dell’altro partner; 3) la divisione del lavoro sulla quale si basa il matrimonio in riferimento al mercato del lavoro e all’economia domestica. Sono allora necessarie ipotesi aggiuntive sui vantaggi del matrimonio, vantaggi che però sono legati ad aspetti macro strutturali storicamente determinati (Blossfeld e Prein 1998, 8-10). Le ipotesi concrete sull’insieme dei vincoli e delle opportunità storicamente dati sono, quindi, necessarie per la ricerca empirica. Esse non possono essere prodotte dalla teoria generale, ma sono affidate alla capacità del ricercatore ed inoltre non è detto che siano le ragioni effettive di un certo comportamento. Così, considerando ancora l’esempio del matrimonio, ci si può chiedere perché la maggior parte delle coppie preferisce avere dei bambini all’interno del vincolo matrimoniale. Nel caso della Germania, citato da Blossfeld e Prein, il sistema fiscale presenta delle misure che ricompensano il non-lavoro o il lavoro part-time di un genitore. Vista l’insufficiente fornitura di asili nido, uno dei genitori ha vantaggi sostanziali a interrompere l’attività lavorativa quando nasce un figlio e a rientrare dopo un lungo periodo o, nel caso delle donne, non rientrare del tutto. Come guadagno economico concreto derivante dal matrimonio si configura la riduzione delle tasse e la maggiore sicurezza per il genitore che lascia il mercato del lavoro per un certo periodo. Inoltre, sempre per quanto riguarda la Germania, un’altra ragione potrebbe essere il fatto che la custodia del figlio è concessa solo al padre sposato, anche se, nel caso di coppie che riescono ad andare d’accordo anche nella separazione, questo potrebbe non essere un requisito necessario. Per quanto plausibili, però, queste ragioni, oltre a non poter essere suggerite direttamente dalla teoria, sono troppo circoscritte e non è detto che possano essere considerate decisive. Questo si comprende, osservano ancora Blossfeld e Prein, facendo un raffronto con la Svezia, paese che presenta un sistema di tassazione che non ricompensa particolarmente quelle situazioni matrimoniali nelle quali entrambi i coniugi lavorano e che ha servizi migliori per l’assistenza infantile. Nonostante ciò, anche in questo caso è molto comune, per le coppie, sposarsi con l’arrivo del primo figlio. Rimettendo in gioco, allora, la ricerca di ragioni di ordine più universale si potrebbe pensare che il matrimonio è in grado di fornire una reale intimità sul lungo periodo, un supporto emotivo, la memoria di un passato condiviso. Questi elementi però sfuggono a una forma precisa di quantificazione. Inoltre, possono essere ottenuti anche in unioni consensuali che durino sufficientemente a lungo. In questo senso allora le ipotesi rimangono sempre arbitrarie (Blossfeld e Prein 1998, 11).

Questi esempi mostrano chiaramente che la ricerca di schemi universali sembra poco produttiva dal punto di vista teorico. In generale, per quanto riguarda l’importanza preponderante dei vincoli e del loro mutamento, si può accettare l’assunzione che il comportamento cambia in seguito ad un mutamento dei vincoli e può essere effettivamente una strategia utile, dal punto di vista empirico, cercare inizialmente i mutamenti nei vincoli. Tuttavia, non deve diventare un’assunzione metodologica generale, ma deve essere verificata rispetto alla situazione concreta, valutando anche il possibile impatto delle preferenze sul comportamento. Infatti, possono esserci casi nei quali l’impatto di queste ultime è più significativo rispetto a quello dei vincoli. Per esempio, l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989 rappresentò il venir meno di un vincolo e la possibilità per i tedeschi dell’Est di recarsi a Berlino Ovest o di lasciare il proprio paese. Questi due fatti però non possono essere spiegati solo con il cambiamento di opportunità. Un fattore fondamentale era costituito anche dall’intenso desiderio di libertà di spostamenti maturato dai tedeschi dell’Est nel corso degli anni. È quindi importante verificare le assunzioni sulle preferenze (Opp 1998, 225).

Ancora riguardo alle preferenze ed all’assunzione della loro stabilità appena discussa, Opp osserva che vari studi longitudinali hanno mostrato che le preferenze non sono stabili nel tempo (i coefficienti di stabilità misurati attraverso programmi di equazioni strutturali, come il lisrel, non raggiungono mai l’unità) o perlomeno che la loro stabilità dipende dalla situazione. Assumerne la stabilità a priori potrebbe produrre spiegazioni non valide, qualora le preferenze effettivamente cambiassero (Opp 1998, 226). Sembra evidente, quindi, che tutte le strategie ad hoc per assicurare l’universalità del livello individuale ed espungere gli aspetti più marcatamente contingenti, in qualche modo falliscono. Tra l’altro, queste strategie, fissando delle specifiche restrizioni, mostrano tutte dei limiti se si aderisce ad una metodologia popperiana stretta. Secondo questa metodologia, le teorie devono essere testate il più severamente possibile, quindi non deve essere ammesso nessun limite ad hoc rispetto al modo in cui le assunzioni di un modello sono messe alla prova.
 
 

  1. Conclusioni. La razionalità come ideal-tipo in senso weberiano

Le difficoltà, sia filosofico-teoriche che di applicazione empirica della TSR, evidenziate nel corso del lavoro, non implicano il rinunciare al concetto di razionalità. LA TSR può essere reinterpretata secondo uno schema metodologico simile a quello ideal-tipico proposto da Max Weber all’inizio di Economia e società. Nella sua tipologia dell’azione sociale, Weber ritiene che, per spiegare il comportamento, si debba dare priorità all’ideal-tipo della razionalità assoluta, una razionalità, cioè, valida secondo criteri oggettivi e intersoggettivamente condivisibili. Se la spiegazione fallisce si deve passare all’ideal-tipo della razionalità soggettiva, poi all’ideal-tipo del comportamento non razionale intenzionale ed infine all’ideal-tipo del comportamento completamente determinato da fattori esterni. Nel caso del metodo ideal-tipico è quindi necessario essere consci, come Weber lo era perfettamente, del suo senso e dei limiti del suo impiego: esso rappresenta una semplice tassonomia euristica dove il contenuto di conoscenza emerge come residuo. Per questo motivo il metodo ideal-tipico è utile a un livello interpretativo, cioè per attribuire un significato a un soggetto agente, e per la classificazione, ma non per scoprire leggi generali (Mongin 1991, 13).

La TSR, allora, identifica un modello di razionalità “parziale”, che se correttamente applicato, deve riprendere questi postulati. Non si riesce mai a verificare il modello del comportamento ottimizzante nella sua purezza. Esso è tuttavia utile per analizzare – in quanto termine di paragone ideale – situazioni concrete. Gli altri tipi di comportamento possono essere spiegati per contrapposizione rispetto ad esso e il cambiamento delle preferenze in quanto spiegazione del comportamento può essere valido solo in ultima istanza[4].
 
 
Riferimenti bibliografici
 
Anscombe, E. (1957), Intention, Oxford: Basil Blackwell.
Barbera, F. (2004), Meccanismi sociali, Bologna: Il Mulino.
Blossfeld, H.P., Prein, G. eds.  (1998a), Rational Choice Theory and Large-Scale Data Analysis, Boulder: Westview Press.
Blossfeld, H. P., Prein, G. (1998), The Relationship Between Rational Choice Theory and Large-Scale Data Analysis – Past Developments and Future Perspectives, in Blossfeld–Prein (eds.) 1998a: 3-27.
Elster, J. (1993), Come si studia la società, Bologna: Il Mulino.
Elster, J. (1989), Uva acerba, Milano: Feltrinelli.
Elster, J. (1983), Ulisse e le Sirene, Bologna: Il Mulino.
Farber, L. (1976), Lying, Despair, Jealousy, Envy, Sex, Suicide, Drugs and the Good Life, New York: Basic Books.
Ferrari, L., Romano, D. (1999), Mente e denaro. Introduzione alla psicologia economica, Milano: Cortina.
Kelle, U., Lüdemann, C. (1998), Bridge Assumptions in Rational Choice Theory: Methodological Problems and Possible Solutions, in Blossfeld–Prein  (eds.) 1998a: 112-125.
Mongin, P. (1991), Rational Choice Theory Considered as Psychology and Moral Philosophy, «Philosophy of the Social Sciences», 21, 1: 5-37.
Opp, K.-D. (1998), Can and Should Rational Choice Theory be Tested by Survey Research? The Example of Explaining Collective Political Action, in Blossfeld–Prein (eds.) 1998a: 204-230.
Sen, A. (1973), Behavior and the concept of preference, «Economica», 40: 241-259.
Sparti, D. (2002), Epistemologia delle scienze sociali, Bologna: Il Mulino.
Taylor, C. (1964), The explanation of behaviour, London: Routledge.
Von Wright, G.H. (1971), Explanation and Understanding, London: Routledge.
 
 
Note al testo
 
[1] Per queste due parti ci siamo appoggiati in modo sostanziale all’esposizione di Sparti (2002), capitolo 3.
[2]  Esempio adattato da Schotter (1997, 40).
[3] Elster (1989, 6). Citazione da Farber (1976, 7).
[4] Questo è per esempio lo schema impiegato da un importante paradigma contemporaneo come quello della sociologia analitica. Cfr.  Barbera (2004, 95).

 

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