L’accumulazione originaria: genesi del modo di produzione capitalistico tra storia e struttura


Sebastiano Taccola

Normal School of Pisa
sebastiano.taccola@sns.it

 
 
 
Abstract: This paper proposes a re-examination of the Marxian primitive accumulation. In the first two parts, I will sum up the Marxian exposition of the primitive accumulation as a diachronic process, which is capable to explain the historical genesis of the capitalist mode of production, especially as it took place in England (through the Enclosures Acts, the clearing of the estates, and so on). Then, I will focus on the permanence of this kind of accumulation, on the one hand (part three), as a lever that drives the capitalistic accumulation on a global scale, and on the other hand (part four), as a synchronic process that plays a crucial role in the reproduction of the concept of «capital». This last point, in my opinion, represents the core of an interpretation of primitive accumulation founded on that inner genesis of categories, which is immanent to the Marxian critique of political economy and its method of presentation.
 
Keywords: primitive accumulation; critique of political economy; history; structure; Capital
 
 
 

«il capitale viene al mondo grondante sangue e sudiciume
dalla testa ai piedi, da tutti i pori». (Marx 2011)
 
«Il ‘moderno’: l’epoca dell’inferno. Le pene dell’inferno sono
ciò che più di nuovo di volta in volta si dà in questo ambito.
Non si tratta del fatto che accada ‘sempre lo stesso’, ancora
meno si può qui parlare di eterno ritorno. Si tratta, piuttosto,
del fatto che il volto del mondo non muta mai proprio in ciò che
costituisce il nuovo, che il nuovo, anzi, resta sotto ogni
riguardo sempre lo stesso. – In questo consiste l’eternità
dell’inferno. Determinare la totalità dei tratti, in cui il
‘moderno’ si configura, significherebbe rappresentare l’inferno».
(Benjamin 2002)
 
«We’re all Frankies
We’re all lying in hell».
(Suicide, Frankie Teardrop).

 
 
1.
 
Chiunque abbia anche solo un minimo di familiarità con i testi di Marx avrà ben presente quella loro peculiarità di stile che, contaminando la prosa del trattato filosofico o economico con immagini dal gusto letterario, riesce a sedurre il lettore, spesso anche attraverso una pungente ironia antiborghese, in cui è percepibile l’influenza di modelli elevati, come Shakespeare, Goethe e, soprattutto, Heine[1]. Una straordinaria esemplificazione di questo stile la possiamo trovare proprio nella prima pagina del capitolo del primo libro del Capitale che qui ci proponiamo di analizzare – il capitolo ventiquattresimo intitolato La cosiddetta accumulazione originaria:
 

Nell’economia politica quest’accumulazione originaria gioca all’incirca lo stesso ruolo del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in un’età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però, la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane col sudore della sua fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. (Marx 2011, 787)

L’accumulazione originaria è dunque l’antefatto che ha contribuito al costituirsi dei rapporti sociali borghesi. Marx intende smascherare – a questo è indirizzata la sua ironia – l’assurda visione apologetica e idilliaca proposta dall’economia politica, la quale fa, sostanzialmente, degli attuali borghesi dei virtuosi, e dei proletari (o, più genericamente, dei poveri) degli oziosi scialacquatori. Contro l’economia politica Marx vuole mostrare che le vie attraverso le quali si sono costituiti i rapporti sociali presenti si basano su metodi che «sono tutto quel che si vuole fuorché idilliaci» (Marx 2011, 788). Esiste, dunque, un’accumulazione originaria che precede l’accumulazione sans phrase e che si distingue da questa in quanto «non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico» (Marx 2011, 787).

L’economia politica naturalizza ed eternizza i rapporti sociali borghesi, estendendo all’indietro, fino agli albori della società, l’esistenza delle loro categorie costitutive; ma, avverte Marx, merce, denaro, mezzi di produzione e di sussistenza non sono da considerare sempre e comunque sub specie capitalistica; occorre che essi si trasformino in capitale. Il presupposto necessario di questa trasformazione è che il processo di separazione tra il lavoratore e le sue condizioni di lavoro sia giunto a compimento, cioè, che si sia storicamente realizzata la figura del lavoratore libero venditore di merce forza-lavoro (le free hands di cui parla James Steuart). Questa considerazione permette a Marx di dare una definizione più precisa di «accumulazione originaria» in quanto processo di separazione che genera i rapporti capitalistici[2]:
 

Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, il processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in lavoratori salariati. Dunque, la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione di produttore e mezzi di produzione. Esso si manifesta come originaria perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione corrispondente. (Marx 2011, 788-789)

In questo senso Marx evidenzia il carattere propriamente diacronico dell’accumulazione originaria in quanto storia – «scritta a caratteri di sangue e fuoco» (Marx 2011, 789) – dell’espropriazione dei lavoratori e della costituzione di quei rapporti sociali storicamente specifici che garantiscono l’accumulazione dei capitalisti attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro venduta loro dai lavoratori liberi. È a questo punto che il lavoratore, invece di essere asservito ai rapporti di dipendenza personali propri di forme sociali pre-capitalistiche (come la schiavitù o la servitù feudale), è asservito (in maniera mascherata e non più immediata) al capitale.
 
 
2.
 
Il caso storicamente più esemplificativo in questa direzione è quello dell’Inghilterra. Nei paragrafi centrali di questo capitolo, infatti, Marx osserva le strategie attraverso le quali, sul territorio inglese, si sono progressivamente superati i rapporti feudali e si è creata quella massa di proletari eslege che, una volta espropriati e messi in fuga dalle campagne verso la città, saranno costretti a cadere vittime del vampiro capitalistico. Queste strategie, operanti su più piani, possono essere così sintetizzate:

 

    a) ridefinizione dei rapporti di proprietà della terra: un processo, che attraverso il furto dei beni ecclesiastici e di quelli statali, l’espropriazione delle terre in mano agli yeoman
    (i piccoli contadini indipendenti) e la privatizzazione di quelle comuni a colpi di
    Enclosures Acts, ha generato la moderna proprietà privata;
    b) ridefinizione dei rapporti di proprietà dei mezzi di produzione: attraverso il fenomeno del
    clearing of the estates, i piccoli contadini o i clan rurali vengono messi in fuga dalle terre privatizzate e sono costretti a lasciarvi i propri strumenti di lavoro che, a questo punto, diventano di proprietà del padrone della terra (così nasce il fittavolo capitalista);
    c) il disciplinamento degli espropriati, i quali, attraverso una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio (residuo ultimo del pauperismo), vengono costretti a lavorare per un basso salario e a conformarsi alle leggi coercitive del mercato capitalistico;
    d) la creazione forzata, perpetrata con la distruzione dell’industria domestica rurale, di un mercato interno che, andando di pari passo con la brutale azione coloniale che si sviluppa a partire dal XVI secolo[3] e servendosi di strumenti quali il debito pubblico e il sistema protezionistico, pone le basi fondamentali per l’instaurazione su scala processuale, sistematica e globale delle dinamiche capitalistiche;
    e) la trasformazione del capitale denaro accumulato durante il Medioevo come capitale usurario e capitale commerciale in capitale industriale grazie alla distruzione dei vincoli feudali e alla progressiva appropriazione dei mezzi di produzione da parte della nascente borghesia capitalistica cittadina.

Un mezzo fondamentale per la realizzazione di queste strategie è la «violenza (Gewalt[4] dello Stato. «Violenza» che, nella trattazione marxiana, diventa una categoria di articolazione nevralgica per rileggere in chiave critica l’intera storia dell’Europa moderna e per presentare una controstoria della genesi degli attuali rapporti economici:
 

I diversi momenti dell’accumulazione originaria si ripartiscono, più o meno, in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del XVII secolo quei diversi momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale […]. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica. (Marx 2011, 825-826)

Una potenza economica che, a colpi di frusta e di leggi, realizza «quest’opera d’arte della storia moderna» (Marx 2011, 835), che consiste, da un lato, nell’instaurazione dell’individualismo proprietario come canone antropologico[5], e, dall’altro, nel «parto delle ‘eterne leggi di natura’ del modo di produzione capitalistico» (Marx 2011, 834).
 
 
3.
 
Queste sono, per sommi capi, le caratteristiche fondamentali dell’accumulazione originaria in quanto leva per la costituzione, sul piano diacronico, dei rapporti sociali capitalistici per come sono sorti dalla dissoluzione della precedente società feudale. Seguendo questa via, è possibile identificare i processi attraverso i quali il capitale sorge storicamente nelle diverse aree geografiche (Marx si sofferma a titolo esemplificativo, come già notato, sull’Inghilterra), mettere in luce le differenze specifiche tra il modo di produzione capitalistico e quelli che lo hanno preceduto, e, pertanto, aprire l’orizzonte per l’elaborazione di una preistoria della società capitalistica.

Il carattere antidiluviano dell’accumulazione originaria è, da un certo punto di vista, innegabile, ma allo stesso tempo non è il solo. Limitarsi semplicemente a esso significa anche rimuovere la natura propriamente processuale dell’accumulazione originaria, riducendola così a un semplice fenomeno occorso una sola volta, a una preistoria del capitale limitata a una specifica epoca (come se l’origine del capitalismo fosse identificabile con una data storica)[6]. E inoltre, per questa via, si rischierebbe di ricadere in quelle vecchie interpretazioni che hanno attribuito a Marx una visione della storia riducibile a una mappatura ossificata, a una semplice successione meccanica di modi di produzione fondata, in primis, su un concetto astratto (nel senso più deteriore del termine) di progresso[7].

L’accumulazione originaria, allora, è anche (e soprattutto) parte del sistema capitalistico, un suo momento fondamentale che si realizza in sincronia con le spinte propulsive che guidano la sua evoluzione. Infatti, come Marx aveva intuito sin dai tempi dei Grundrisse, il capitale, per veicolare continuamente la sua riproduzione, necessita contemporaneamente della riproduzione di quelle condizioni che aprono per esso nuovi margini spazio-temporali di accumulazione. Una volta presupposta la separazione fondamentale tra il lavoratore e i mezzi di produzione «il processo di produzione può soltanto produrla di nuovo, riprodurla, e riprodurla su scala maggiore» (Marx 1970, II, 83). Da una simile prospettiva si può vedere la tendenza alla costruzione di un mercato mondiale come immanente al capitale, il quale appunto «per sua essenza è cosmopolita» (Marx 1979, 482).

È su questo lato permanente dell’accumulazione originaria che molti studiosi marxisti, riconoscendo un antecedente originario in Rosa Luxemburg[8], ritengono sia il caso di soffermarsi per capire le strutture fondamentali di fenomeni quali l’imperialismo, il sottosviluppo, gli equilibri geo-politici, le temporalità riproduttive e strutturalmente conflittuali della società capitalistica. Tra questi vale forse la pena di menzionare almeno David Harvey, il quale, volendo fugare gli equivoci ed eliminare alla radice il carattere preistorico dell’accumulazione originaria, ha preferito parlare di accumulation by dispossession per proporre un’interpretazione critica di casi recenti come quello della privatizzazione dei beni comuni o della creazione di spazi inediti (anche immateriali) che garantiscono nuove possibilità per la realizzazione del profitto capitalistico. È all’interno dell’accumulazione per spossessamento che, secondo Harvey, rientrano fenomeni globali come la gentrificazione degli spazi urbani, la mercificazione di beni e prodotti fino ad ora fuori dalle dinamiche capitalistiche, la privatizzazione di zone di proprietà comune nei paesi non capitalistici, le esternalizzazioni concesse ad aziende private di servizi precedentemente erogati dallo Stato. Riconoscendo il ruolo cruciale che questi processi hanno nella riproduzione e nell’allargamento dei rapporti sociali capitalistici su scala globale, Harvey ha messo in evidenza anche le potenzialità politiche che si possono aprire articolando produttivamente le conflittualità socio-politiche che si realizzano di volta in volta su piani solo apparentemente indipendenti o residuali[9].

In questi processi, manifestazioni particolari e sempre attuali dell’accumulazione originaria, economia e politica si intrecciano l’una con l’altra e si condizionano reciprocamente[10]. Non sembra cadere, dunque, in alcuna contraddizione Marx quando, a distanza di poche pagine, parla della Gewalt sia come di una «forza extraeconomica» (Marx 2011, 812) che come di una «potenza economica» (Marx 2011, 826). Proprio perché non è riducibile a una corrispondenza lineare e meccanica, il rapporto tra piano economico e piano politico è dialettico: l’uno non può sussistere senza l’altro all’interno di quella totalità che anima le dinamiche costitutive della società capitalistica. Una totalità che, in quanto «sintesi di molte determinazioni» (Marx 1970, I, 27), non può essere considerata come un semplice prodotto del pensiero, ma come un concreto reale identificabile con  la processualità riproduttiva di un modo di produzione storicamente specifico che, secondo coordinate spazio-temporali plurali, ha la tendenza a diffondersi su scala mondiale. Tenere conto di questa pluralità di spazi e di tempi è importante per capire il motivo per cui nel modo di produzione capitalistico persista una non-contemporaneità (ad es., seguendo Samir Amin, il sottosviluppo) che coesiste con una contemporaneità (identificabile con i punti alti dello sviluppo) e che tende a riaffiorare in superficie[11]; il capitale, dal canto suo, mira a sincronizzare queste temporalità discordi attraverso la violenza (extra-economica ed economica) dello Stato. In questo senso, tenendo conto della molteplicità degli elementi in gioco, si può comprendere nel momento sincronico la tendenza del processo capitalistico a produrre i propri presupposti, cioè a riformare sub propria specie ciò che esso pone e si trova di fronte come altro da sé.

I tempi della società capitalistica risultano, dunque, costitutivamente conflittuali: alla temporalità del capitale si oppongono le controtemporalità (spesso poste dal capitale stesso nella sua spirale evolutiva[12]) che contrastano immediatamente le sue dinamiche accumulative e che, dagli strati di tempo più bassi, tendono a riaffiorare in superficie[13]. In un orizzonte simile, vengono a cadere quelle naturalizzazioni eternizzanti implicite nell’ideologia del progresso che anima le opere degli economisti politici; la società borghese non appare più come un oggetto di analisi statico e pacificato, ma come un organismo in movimento la cui fisiologia è comprensibile sulla base degli antagonismi, delle contraddizioni e delle aporie che in esso si presentano[14].

È questo uno degli obiettivi della marxiana critica dell’economia politica: ripensare la temporalità nei termini di una conflittualità multitemporale dei processi globali (economici, sociali e politici) che si danno nella società capitalistica. L’«accumulazione originaria», se interpretata in questa prospettiva, si rivela una categoria in grado di sviscerare, mostrandone la scansione, queste temporalità costitutive e conflittuali che giocano la loro partita su un mercato che ormai si è fatto mondiale. Si pensi, in tal senso, a come si è evoluta l’estrazione del plusvalore nelle varie aree geografiche: l’investimento nel settore tecnologico con conseguente aumento del plusvalore relativo che si è registrato in Occidente si produce contemporaneamente all’estrazione coatta del plusvalore assoluto, che vede riproporsi in paesi come la Cina o l’India giornate lavorative che arrivano a superare le dodici ore. Fenomeni simili, del resto, sono perfettamente inquadrabili in quella cornice su cui Marx, come testimonia quanto scritto in una lettera a Engels, sta riflettendo a fine anni Cinquanta, al tempo del primo tentativo di stesura del Capitale:
 

Il vero compito della società borghese è la costruzione di un mercato mondiale, almeno nelle sue grandi linee, e di una produzione che poggi sulle sue basi. Siccome il mondo è rotondo, sembra che questo compito sia stato portato a termine con la colonizzazione della California e dell’Australia e con l’apertura della Cina e del Giappone. (Marx ed Engels 1973, 376-377)[15]

Orizzonti geografici diversi significano anche temporalità diverse. Temporalità diverse che devono essere sincronizzate con i tempi dell’incremento della produzione e della realizzazione del plusvalore che innervano il mercato mondiale[16].

Ed è forse all’interno di questa larga campitura teorica che è il caso di contestualizzare anche le riflessioni dell’ultimo Marx: dagli Ethnological Notebooks fino alla Prefazione (scritta assieme ad Engels) all’edizione russa del 1882 del Manifesto, passando per la lettera (e per le sue fondamentali bozze preparatorie) a Vera Zasulič. In questi testi emergono, oltre che delle interessanti valutazioni politiche relative alle condizioni di possibilità di una rivoluzione comunista, anche alcune considerazioni sui limiti di quella tradizione storico-filosofica sostanzialmente eurocentrica ai cui margini restano culture e forme sociali non occidentali, così come una critica esplicita di ogni elaborazione fondata su un’idea di progresso lineare, teleologico e deterministicamente prevedibile[17]. È interessante, a questo riguardo, ricordare una lettera scritta da Marx alla redazione del giornale russo Otiecestvennye Zapisky nel Novembre del 1877. Qui, in poche righe, l’autore del Capitale si fa critico di quanti vogliono leggere nelle pagine dell’accumulazione originaria una sorta di filosofia della storia in grado di prevedere il futuro di tutti i paesi secondo un piano evolutivo prestabilito:
 

Il capitolo sull’accumulazione originaria vuole solo tracciare la via attraverso la quale, nell’Europa occidentale [corsivo mio], l’ordinamento capitalistico è uscito dal seno dell’ordinamento economico feudale. Esso espone quindi il movimento storico che, separando i produttori dai loro mezzi di produzione, trasforma i primi in salariati (proletari nel senso moderno della parola), e i detentori dei mezzi di produzione in capitalisti. (Marx ed Engels 1971, 156-157)

 
 
4.
 
Il ruolo sistematico e strutturale dell’accumulazione originaria, per come è stato appena messo in evidenza, rappresenta un perno di articolazione fondamentale per spiegare alcuni fenomeni economici, sociali e politici del capitalismo. Qualora, però, volessimo rimanere nei più ristretti confini della marxiana critica dell’economia politica, è necessario fare un ulteriore passo concettuale, e andare più a fondo. Se il progetto di questa critica è da intendersi, secondo le parole dello stesso Marx, come «la critica delle categorie economiche o, if you like, il sistema dell’economia borghese esposto criticamente», come «esposizione del sistema e critica dello stesso per mezzo dell’esposizione» (Marx ed Engels 1971, 20), allora è chiaro che la nostra interpretazione dell’accumulazione originaria non può ancora dirsi compiuta, dal momento che essa non è ancora stata spiegata sulla base della genesi interna delle categorie. Per spiegarci meglio: l’oggetto del Capitale di Marx non è il capitalismo (configurazione storica particolare del capitale), ma il capitale come astrazione determinata, la cui critica si identifica con un’esposizione logicamente guidata dall’«esatta intuizione e deduzione» (Marx 1970, II, 81) dei rapporti sociali, i quali si presentano in una forma feticizzata, da un lato, nella società, dall’altro, nelle opere degli economisti politici. La critica dell’economia politica, dunque, per come è presentata da Marx nel suo articolato intreccio tra «modo della ricerca (Forschungsweise)» e «modo dell’esposizione (Darstellungsweise[18], deve essere interpretata come un sistema (con le sue proprie leggi strutturali), la cui validità sincronica si relaziona al dato che si costituisce diacronicamente. Un simile modello scientifico non è statico; anzi, come messo in rilievo da Cesare Luporini (Luporini 1966), la costruzione genetico-formale del Capitale sarebbe impossibile senza l’inserimento di dati genetico-storici in momenti particolari dell’esposizione. L’«accumulazione originaria», come categoria specifica del sistema della critica, possiede una natura ibrida che la pone a cavallo tra il momento genetico-storico e quello genetico-formale. Nel primo caso, infatti, essa spiega le condizioni della genesi storica del rapporto di capitale, nel secondo essa s’identifica con quella «separazione fra le condizioni del lavoro da una parte ed i produttori dall’altra, che costituisce la nozione [Begriff] di capitale» (Marx 1968, 299). L’«accumulazione originaria» è, allora, la categoria lungo la quale si definiscono le coordinate della riproduzione stessa del concetto di «capitale». In questo senso si può spiegare la sua collocazione alla chiusura di quella circolarità espositiva che contraddistingue il primo libro del Capitale: essa è la condizione necessaria perché «merce» e «denaro» (le due categorie che danno il titolo alla prima sezione dell’opera) possano essere assunte nella loro forma capitalistica.

Coloro che, come David Harvey ad esempio, considerano l’accumulazione originaria non solo come un processo continuo all’interno dell’accumulazione capitalistica, ma anche come una tecnica coscientemente impiegata dalla borghesia nella ridefinizione dei rapporti di classe a suo vantaggio, rischiano di trascurare il ruolo fondamentale da essa giocato nella riproduzione del feticcio capitalistico. Il fondamento del carattere di feticcio del capitale, infatti, trova la sua prima condizione nel fatto che esista da una parte il capitalista (personificazione del capitale) e dall’altra il lavoratore, che vende la propria forza-lavoro in cambio di un salario. Nel salario «un rapporto di assoluta dipendenza economica (del salario dal capitale, dell’operaio dal capitalista) non solo si maschera, ma necessariamente si realizza nella forma giuridica contrattuale di compravendita di equivalenti» (Luporini 1978, 39). È su questo particolare rapporto di produzione che si erge, come scrive Marx, «tutto il misticismo del mondo delle merci, tutti i sortilegi e le magie che cingono di nebbie i prodotti del lavoro» (Marx 2011, 87). «Il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame le Terre, come caratteri sociali e insieme come pure e semplici cose» (Marx 1968, 949) è fondato su un continuo processo di separazione, che sempre si ripresenta lungo le linee fondamentali di costituzione dei rapporti sociali. Marx, procedendo in questa direzione, è riuscito a demistificare alla radice la natura dei rapporti borghesi, a mostrare la scissione reale che costantemente li anima – quella scissione che, pur intravista da alcuni economisti politici come Adam Ferguson, era stata trattata solo in maniera moralistica, secondo le movenze teoriche tipiche dell’altra faccia della medaglia dell’apologetica borghese, la coscienza infelice.

La riproduzione «su scala maggiore» (Marx 1970, II, 83) della separazione tra i lavoratori e le condizioni di produzione rappresenta allora una linea di tensione continua lungo la quale si costituisce anche la dinamica del conflitto di classe. Il capitale necessita di questa riproduzione, ha bisogno di tenere i lavoratori lontani dalle loro condizioni di produzione, ha bisogno di rinnovare quelle sue “eterne leggi di natura”, la cui genesi è poi rimossa nel risultato (assunto come fatto isolato) di un rapporto sociale che assume la forma di un rapporto tra cose. Ed è così che l’accumulazione originaria è «il presupposto del capitale e il risultato della sua riproduzione» (Bonefeld 2001, 2)[19].

È questa una differenza specifica essenziale per distinguere l’economia politica dalla sua critica: a differenza della prima, la critica dell’economia politica «non lavora al servizio di una realtà già data; essa non fa che esprimerne l’arcano» (Horkheimer 2014, 162) e contribuisce alla sua rimozione con un atteggiamento spregiudicato diretto alla trasformazione della totalità sociale. Si tratta di una critica in grado di abbattere quel velo feticistico, che rimuove le forme di sfruttamento su cui si fonda la riproduzione stessa del capitale reificandole nella forma illusoria di un contratto giuridico tra individui solo apparentemente liberi e uguali. L’apparato critico di Marx è in grado di guidarci in questo percorso di risalita dal risultato alla genesi. È lungo il percorso di questa anamnesi della genesi (per dirla con Adorno[20]) che l’accumulazione originaria, come abbiamo visto, può giocare un ruolo critico essenziale. Essa, infatti, getta una luce sulla costituzione stessa, sempre rinnovantesi, dei fondamenti dei rapporti sociali sub specie capitalistica. Il destino, poi, di questa perpetua riproduzione dei presupposti, che continuamente torna a pesare sulle spalle dei lavoratori come una fatica di Sisifo, rappresenta una partita tutta da giocare sul terreno della lotta di classe.
 
 
 
Note
 
[1] Per un’analisi del rapporto tra Marx e la letteratura, e per l’influenza (non esteriore) avuta da questa nel suo itinerario teorico-politico si rimanda a Prawer (1978).
[2] Tra le pubblicazioni più recenti, si può qui ricordare Basso (2012, 121-125), che ha fatto notare la centralità dello Scheidungsprozess nell’anatomia marxiana del modo di produzione capitalistico.
[3] Del colonialismo Marx parla anche nel capitolo venticinquesimo (La teoria moderna del colonialismo), una sorta di appendice del capitolo sull’accumulazione originaria. È interessante notare che, per Marx, l’analisi di fenomeni storicamente rilevanti come il colonialismo non può sussistere senza una teoria sincronica e sistematica della società capitalistica; cioè, senza prima aver compreso le situazioni strutturali per cui «il capitale non è una cosa [Sache], ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose [Sache]» (Marx 2011, 842-843).
[4] L’ampio spettro semantico evocato dalla parola tedesca Gewalt è difficilmente restituibile in italiano. Il suo significato, infatti, abbraccia contemporaneamente «forza», «potenza», «violenza», ed è dunque di volta in volta traducibile, a seconda del contesto, con uno di questi termini. Questo ha portato alcuni autori a parlare di un’intrinseca ambiguità del termine Gewalt. Proprio in questo senso si è espresso, ad esempio, Balibar: «In German (the language in which Marx, Engels and the first Marxists wrote), the word Gewalt has a more extensive meaning than its ‘equivalents’ in other European languages: violence or violenza and puovoir, potere, power […]. Seen in this way, ‘from the outside’, the term Gewalt thus contains and intrinsic ambiguity: it refers, at the same time, to the negation of law or justice and to their realisation or the assumption of responsibility for them by an institution (generally the state)» (Balibar 2009, 101). Tomba, commentando questo passo di Balibar (e suggerendo una prospettiva che si condivide anche in questo contributo), ha scritto: «Dividing Gewalt into ‘power’ and ‘violence’, one must not think of two sides of violence, the institutional and the anti-institutional, because much apparently extralegal violence ends up written into the institutional record. Furthermore, a great deal of state violence, which is denounced as illegitimate, is of rather vital importance for maintaining the state machinery. In this ambivalence is hidden the violent character of law, that violence that funds the state and preserves it» (Tomba 2009, 127).
[5] Scrive Marx in queste pagine che «nel secolo XIX si è perduta naturalmente perfino la memoria della connessione fra agricoltura e proprietà comune» (Marx 2011, 802).
[6] Per un tentativo di svincolare il problema dell’origine storica del capitalismo da quanto era emerso nel dibattito sull’annosa questione della transizione dal modo di produzione feudale a quello capitalistico si veda: Meiksins Wood (2002).
[7] Un’interpretazione “vecchia”, si fa per dire, visto che ancora oggi è assai diffusa anche tra coloro in cui meno ci aspetteremmo di trovarla. A titolo esemplificativo, si veda questo passo tratto da un’opera di Immanuel Wallerstein, uno studioso non certo impermeabile alle influenze marxiste: «Marx, volendo distinguersi dagli altri socialisti che condannava come ‘utopisti’, affermava di essere in favore del ‘socialismo scientifico’. I suoi scritti posero l’accento sui modi in cui il capitalismo era ‘progressivo’. L’idea secondo cui il socialismo sarebbe arrivato prima nei paesi più ‘avanzati’ suggeriva un processo attraverso cui il socialismo sarebbe derivato da (e come reazione a) un’ulteriore avanzata del capitalismo. La rivoluzione socialista avrebbe dunque emulato e avrebbe seguito la ‘rivoluzione borghese’» (Wallerstein 2012, 82). A questo riguardo, si può osservare in prima battuta che una simile visione non regge più di fronte all’esame filologico dei testi emersi con la MEGA2, la nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels (si vedano a tal proposito Anderson 2010; Pradella 2015). Anche a prescindere, però, dai nuovi materiali presenti nella MEGA2, ha sostanzialmente ragione Cazzaniga quando scrive: «letture di Marx come cantore di ‘magnifiche sorti e progressive’ risultano assai di scarsa consistenza filologica in un confronto anche superficiale con i testi»; in Marx, continua Cazzaniga, è evidente sin dall’Einleitung del 1857 «il rifiuto di un concetto astratto di progresso che finisce per porsi come sviluppo necessario e insieme come giustificazione del caso. Si ripropone insomma un tentativo di lettura della storia europea moderna in cui la possibilità di capire il rapporto col passato, e le sue diverse forme di persistenza nel presente, non diventa mai lettura obbligata di questo rapporto» (Cazzaniga 1987, 61-62). Su questa stessa questione, si veda anche, tra gli altri: Cazzaniga (1981, in particolare 1-104); Schmidt (1972); Luporini (1972); Mazzone (1987).
[8] Tra i tanti passi che, in questa direzione, potrebbero essere riportati dall’Accumulazione del capitale, credo che il seguente sia uno dei più rappresentativi: «In realtà, l’accumulazione capitalistica non solo non può, nel suo espandersi a balzi, contare sul semplice incremento naturale della popolazione lavoratrice, ma non può neppure attendere la lenta decomposizione naturale delle forme non-capitalistiche e il loro pacifico trapasso all’economia mercantile. Il capitale non conosce altra soluzione al problema che la violenza: metodo costante dell’accumulazione del capitale, come processo storico, non solo al suo primo nascere, ma anche oggi» (Luxemburg 1968, 366).
[9] Quello dell’accumulation by dispossession è un tema trasversale negli scritti di Harvey. Opere di riferimento possono essere le seguenti: Harvey (2003, 137-182; 2006; 2010, 289-313 e 2014, 53-61).
[10] Interessanti (e molto attuali) appaiono, in questa direzione, i due passi in cui Marx parla del debito pubblico e del protezionismo come di strategie economico-politiche perfettamente inquadrabili sotto la voce dell’accumulazione originaria: «il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usuraio. […] il debito pubblico ha fatto nascere la società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni genere, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna» (Marx 2011, 829). «Il sistema protezionistico è stato un mezzo artificiale per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione antico a quello moderno» (Marx 2011, 831).
[11] «Relations between the formations of the ‘developed’ or advanced world (the center), and those of the ‘underdeveloped’ world (the periphery) are affected by transfers of value, and these constitute the essence of the problem of accumulation on a world scale. Whenever the capitalist mode of production enters into relations with precapitalist modes of production, and subjects these to itself, transfers of value take place from the precapitalist to the capitalist formations, as a result of the mechanisms of primitive accumulation. These mechanisms do not belong only to the prehistory of capitalism; they are contemporary as well. It is these forms of primitive accumulation, modified but persistent, to the advantage of the center, that form the domain of the theory of accumulation on a world scale» (Amin 1974, 3).
[12] Harvey descrive l’evoluzione del capitale paragonandola a una spirale impazzita in Harvey (2017).
[13] Riprendo quest’immagine degli strati di tempo nello stesso senso in cui è utilizzata da Tomba (2011). Tomba, seguendo altri autori, come ad esempio Bensaïd (2007), considera la discordanza dei tempi un elemento fondamentale nella costruzione di una teoria marxiana della prassi politica.
[14] Questa «natura auto-contraddittoria del capitale» è ciò che caratterizza la fisiologia capitalistica e la categoria fondante sotto la quale si esplicitano, sul piano logico, le differenze specifiche tra il modo di produzione capitalistico e quelli che lo hanno preceduto. La contraddizione auto-moventesi e auto-superantesi costituisce una determinazione formale fondamentale del capitale (cfr. Marx 1970, II, 12-13; Calabi 1975).
[15] Il problema della progressiva creazione di un mercato mondiale è al centro degli interessi di Marx ed Engels già a partire dai primi anni Cinquanta. Si veda a tal proposito quanto Engels scrive a Marx il 21 Agosto 1852: «La California e l’Australia sono due casi che non erano previsti nel “Manifesto”: creazione di nuovi grandi mercati dal nulla. Vanno calcolati anche loro» (Marx ed Engels 1972, 122). Considerazioni simili appaiono anche nell’articolo di Marx Rivoluzione in Cina e in Europa del 20 Maggio 1853: «Malgrado la California, malgrado l’Australia, malgrado l’emigrazione in massa, a un certo punto, e senza nessun particolare incidente, è inevitabile che giunga l’ora in cui l’allargamento dei mercati non potrà tenere il passo con lo sviluppo delle manifatture inglesi, e questo squilibrio produrrà una nuova crisi con la stessa necessità che l’ha prodotta in anni precedenti. Se, per giunta, uno dei mercati più vasti si restringe, la crisi non potrà che risultarne accelerata» (Marx ed Engels 2008, 46).
[16] Sulla questione della molteplicità degli spazi e dei tempi immanente ai processi di accumulazione del capitale si vedano: Tomba e Vertova (2014); Vertova (2009).
[17] È forse in questo lato della riflessione marxiana che si possono ricercare, con la dovuta cautela e tenendo conto che persistono comunque delle ineliminabili differenze di fondo, dei margini di comparabilità con i postcolonial studies.
[18] «Certo il modo d’esposizione deve distinguersi formalmente dal modo di ricerca. La ricerca deve appropriarsi della materia nei particolari, deve analizzare le sue diverse forme di sviluppo e deve rintracciarne l’interno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento effettuale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce e se la vita della materia si rispecchia ora idealmente, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori» (Marx 2011, 21).
[19] Werner Bonefeld è un autore che è ritornato a più riprese e da punti di partenza diversi su un’interpretazione che potremmo definire sincronica dell’accumulazione originaria: Bonefeld (1988 e 2011).
[20] Per un approfondimento dell’impiego adorniano di questo concetto e del suo legame con la marxiana critica dell’economia politica si vedano: Redolfi Riva (2013) e Reichelt (2008).
 
 
 
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