Un singolare plurale: il processo di soggettivazione tra intrapsichico e interpsichico

Maria Grazia Minetti

 

Desidero anzitutto precisare che quando parlo di soggettività, riferendomi soprattutto al suo farsi processo di soggettivazione, mi riferisco sia a una pluralità delle persone psichiche, col suo portato di molteplicità delle identificazioni (livello intrasoggettivo) sia alla inscindibile alterità che il desiderio inconscio apporta (livello intersoggettivo) così come è stato teorizzato prima di tutto da Freud.  Il soggetto della psicoanalisi è il soggetto dell’inconscio, per cui la formazione dell’apparato psichico è soggetta a un processo che in realtà non ha mai fine, a un lavoro psichico costante. Freud non a caso usa il concetto di lavoro sia nella formazione del sogno che del sintomo, sia nel concetto di elaborazione del lutto, lavoro psichico che è presente anche nei processi di identificazione. Se già nella prima topica Freud aveva indicato una divisione del soggetto interna all’apparato psichico tra conscio e inconscio, determinante i conflitti fra l’ambiente da un lato e i bisogni e i desideri del soggetto dall’altro, è con la seconda topica che il concetto di soggetto acquista complessità e  importanza.  Infatti le scoperte legate ai processi di identificazione e idealizzazione , di scissione all’interno dell’Io , e all’impasto e disimpasto delle pulsioni di vita e di morte, hanno promosso l’Io a soggetto, a patto però di non vedervi una “natura”o essenza, ma una “funzione” che l’Io assume: come fine a se stesso e come oggetto dell’altro, distinguendo così all’interno dell’Io una parte soggetto e una parte oggetto. Infatti il soggetto da un lato è fine a se stesso ma strutturalmente diviso al suo interno  e d’altro lato ciascun soggetto è parte di una catena intersoggettiva, di cui come dice Kaës[1] “è membro e, insieme, e indissociabilmente, anello, servitore, beneficiario ed erede” e aggiunge : “L’inconscio, oggetto elettivo della psicoanalisi, non coincide strettamente nei suoi processi, nei suoi contenuti e nelle sue manifestazioni, con i limiti e la logica interna dell’apparato psichico del soggetto considerato isolatamente” [2]

L’idea centrale è che tale soggetto “individuale” si costruisce nella pluralità dei legami e delle alleanze nelle quali si forma, cioè negli insiemi organizzati da processi e formazioni psichiche comuni a più soggetti e di cui egli è parte costituita e costituente. È dunque di un soggetto “singolare plurale” che si tratta; un soggetto non solo diviso in sé stesso, ma anche in conflitto o in accordo con la “necessità di essere fine a sé stesso”, come dice Freud (1914), e le esigenze di lavoro psichico che gli impone il fatto di essere soggetto del legame, da cui deriva, che eredita, del quale beneficia e del quale serve gli interessi. Non è un caso che in più di un‘occasione Freud citi l’aforisma che Goethe pone in bocca a Faust quando istruisce il suo allievo : “ciò che hai ereditato dai Padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”.

Forse, sostiene Kaës, sarebbe meglio parlare di “un plurale singolare”, poiché accediamo all’Io (Je) che ci singolarizza attraverso un lungo processo di integrazione della pluralità, e questo processo resta sempre incompiuto. E sarà proprio tale incompiutezza una delle ricchezze della nostra vita psichica, anche perché, come diceva Artaud, è appunto a questa pluralità che dobbiamo il fatto di provare “gli innumerevoli stati dell’essere”. Ma per provarli è necessario che il nostro rapporto a noi stessi, agli altri ed ai gruppi  che li contengono si singolarizzi. Infatti una parte della nostra capacità di simbolizzare e creare attiene appunto a questa tensione irrisolta, ma sufficientemente accettabile tra singolare e plurale.

Nella prospettiva psicoanalitica è dunque necessario abbandonare l’illusione della centralità e unicità del soggetto.

Scrive Kaës: “Soggetto qualifica la singola organizzazione della realtà psichica”. Esso “è assoggettato all’ordine dell’inconscio e all’ordine della realtà esterna, specialmente all’ordine della realtà inconscia inter e transpsichica ” (1993, 123). La “soggettività si crea mediante un duplice processo psichico: uno opera in ciascun soggetto secondo le sue determinanti interne, l’altro si sviluppa a partire dallo spazio psichico intersoggettivo. […] Il problema sta nel capire come questi due processi si articolano l’uno nell’altro e come la soggettivazione implica i concetti di soggetto, di assoggettamento e di intersoggettività” (2007, 249/250).

Per comprendere meglio la complessità di un simile processo, è neccessario prendere in considerazione una teoria che elabori questa doppia  strutturazione degli oggetti psichici: una che lavori all’interno e l’altra che agisca al confine tra io/altro, interno/esterno, cioè in quel luogo dove si vengono a costruire interazioni complesse, alleanze inconsce atte a garantire la sopravvivenza intersoggettiva .

Al fine di rendere conto di una così complessa elaborazione risultano fondamentali il concetto di Contratto narcisistico elaborato da Piera Aulagnier (1975) ed il già citato concetto di Alleanze e patti inconsci elaborato da Renè  Kaës (2009).

 

  Il contratto narcisistico

Ogni nuovo nato viene al mondo portatore della missione di dover assicurare la continuità della generazione secondo un particolare contratto  tra il soggetto, la sua famiglia e l’insieme sociale di cui la famiglia fa parte. Esso assegna a ciascun soggetto, un posto nella società,  secondo un discorso conforme al mito fondatore del gruppo, e che include gli ideali, i valori, la trasmissione della cultura che gli  “garantisce la verità sul passato  e come corollario, la credenza della possibile verità delle previsioni del futuro” (Aulagnier,1975, p.211). Ogni soggetto, per certi versi, deve riprendere questo discorso per suo conto, ma è fondamentale, per la realizzazione del suo proprio fine, che l’insieme (la catena generazionale) lo possa narcisisticamente investire come portatore d’avvenire per l’insieme stesso e in primo luogo per i genitori. Il contratto narcisistico, quindi, deve assicurare un’origine, stabilire una continuità, assicurare al bambino, come contropartita del suo investimento di gruppo, “il diritto di occupare un posto indipendente dal verdetto genitoriale” (Aulagnier ibid.p.214)  per proiettarsi nella dimensione storica e relativizzare il sapere materno e paterno. In tal modo il soggetto, potrà proiettare al di fuori della famiglia degli ideali identificatori e spostare nel futuro le realizzazioni dei suoi desideri.

Il contratto narcisistico può conoscere dei fallimenti e trasformarsi in un “patto” alienante e distruttivo, sia se la madre e il padre rifiutano l’investimento sull’insieme, rifiuto che in modo eclatante è rappresentato dalla chiusura in se stesse di alcune famiglie psicotiche per evitare ogni confronto con il discorso degli altri e mantenere il loro equilibrio precario.  In tal caso il soggetto può incontrare serie difficoltà nel suo cammino “verso l’ottenimento di quella parte di autonomia necessaria alle funzioni dell’Io”. Ma può fallire anche se l’ordine culturale nel suo insieme è carente, o perché  emarginante nei confronti della famiglia  o  perché dubita sui suoi valori , è incerto su ciò che c’è da trasmettere, non ci sono più parole di certezza e il legame con il sapere e i contributi delle generazioni precedenti viene fortemente messo in scacco, a favore di una spontaneità che sollecita il sentimento infantile di onnipotenza.

Dobbiamo tener presente che l’ordine culturale, il sistema simbolico, è ciò in cui il bambino è immerso fin dall’inizio poiché esso costituisce la langue del suo porta-parola, così come P. Aulagnier definisce la  funzione attribuita alla madre  nella strutturazione della psiche, nel doppio senso letterale e simbolico: come voce che culla, predice, commenta, portatrice di significazione, e come “delegato, rappresentante di un ordine esterno di cui il suo discorso enuncia all’infans le leggi e le esigenze” (1975, p.156). Nel momento inaugurale della sua vita psichica l’infans si incontra con una doppia alterità: quella dell’adulto e quella dell’inconscio dell’adulto, incontro in cui la madre offre e impone, suo malgrado, un senso che è in anticipo sulla possibilità di comprensione del bambino ma necessario alla sua sopravvivenza. Si tratta della cosiddetta “violenza dell’interpretazione”, violenza dovuta alla differenza che separa la psiche dell’adulto in cui la rimozione è già avvenuta –  almeno in teoria – e si è già costituito un Io e la psiche dell’infans ancora in formazione.

Nella relazione col neonato, soprattutto nelle cure corporee, si mobilitano nella madre e negli adulti che se ne prendono cura moti  pulsionali inconsci che sappiamo essere molto complessi, connessi alla propria sessualità infantile: si tratta della “seduzione originaria” di cui parla Laplanche, intendendo con ciò  “quella situazione fondamentale in cui l’adulto propone al bambino tanto dei significanti non verbali quanto verbali, perfino comportamentali, impregnati di significazioni inconsce” (Laplanche 1987,p.124). Messaggi che vengono perciò definiti enigmatici, di cui l’adulto non è consapevole e che vanno a impiantarsi nell’inconscio del bambino, mettendo in moto un lavoro incessante di “traduzione” psichica, che stimola la costruzione di rappresentazioni e l’attività fantasmatica del bambino: il bisogno continuo di appellarsi a una causalità e costruire una propria storia, in altre parole cercare un senso “mettere in senso”  in particolare le interrogazioni sulle origini.

Già Freud aveva attribuito alla madre la funzione di “prima seduttrice” come componente inevitabile del suo prendersi cura: questa riserverebbe al bambino “sentimenti che derivano dalla vita sessuale di lei, lo accarezza, lo bacia, lo culla: lo prende con evidente chiarezza come sostituto di un oggetto sessuale in piena regola” (1905, 528), e ancora: “l’amore della madre per l’infante che essa allatta e cura è qualcosa di molto più profondo della sua successiva affezione per il bambino che sta crescendo. La sua natura è quella di un rapporto d’amore totalmente soddisfacente (…) ciò si deve, e non in minima parte, alla possibilità di soddisfare senza rimorso anche moti di desidero da lungo tempo rimossi, che si devono definire perversi” (1910, 237-238). Senza rimorso, non solo perché si tratta di desideri  rimossi, ma perché a livello di realtà le cure sono funzionali e necessarie alla sopravvivenza dell’infans.  Aspetto, quest’ultimo, sottolineato da P. Aulagnier (1975, 121): “ (…) l’attributo funzionale affiancato a tutto ciò che nel contatto corporeo partecipa di un piacere la cui causa deve essere ignorata (…) in sostanza tutto ciò che nelle cure materne parla il linguaggio della libido e dell’amore deve restare rimosso, e sarà accettato dalla madre solo ciò che del suo desiderio libidico ha potuto trasformarsi in dicibile e lecito”, mentre dal canto suo il bambino interpreterà inevitabilmente ogni soddisfazione e ogni mancanza di soddisfazione  come “effetto di un desiderio e questo non può che immaginarlo come desiderio di un Altro” (1975, p. 115)

E’ all’interno di questo scambio diseguale fra un inconscio formato dell’adulto e quello in formazione  del bambino che l’infiltrazione di desideri inconsci dei genitori può diventare massiccia e intrusiva. In questo caso i messaggi  “enigmatici”  irrompono nella psiche senza possibilità di traduzione, la traduzione non può avere luogo come accade nelle psicosi.

Se a livello inconscio la madre e il padre non si riconosceranno reciprocamente genitori di quel figlio/figlia, e se le spinte differenzianti derivanti da una riuscita rimozione dei propri desideri edipici non sono sufficienti, cioè se il desiderio del figlio come questo bambino, come soggetto e non solo come oggetto (parte di sé) , non ha spazio, allora potrà accadere che i desideri libidici soggettivi del bambino saranno denegati ed evitati, e con essi tutto ciò che potrebbe provare, ispirare o rappresentare, perché la sua alterità verrà negata. La funzione materna e paterna di aiutare il bambino nella difficile oscillazione fra essere quello che vogliono i genitori ed essere se stesso, rimanendo desiderabile e amato, è destinata al fallimento, perché il bambino viene rinchiuso nell’oggetto seduttore materno, ne è parte integrante, come un organo e non più solo come complemento narcisistico (è, così, un “oggetto-non oggetto”), la funzione paterna separativa e simbolica è rigettata (sia dalla madre che dal padre), pertanto il conflitto fra desiderio di autonomia e desiderio di appartenenza fusionale non potrà avere alcuno spazio.

In questa situazione  la strutturazione edipica così come la psicoanalisi l’ha teorizzata non potrà avvenire, ma al suo posto si aprirà la strada a  quello che Racamier (1995) definisce degli equivalenti d’incesto : oggetti concreti, spesso anche banali,  o attività condivise fra i membri di una famiglia o di una coppia, che hanno la caratteristica di non  simbolizzare ma di rimpiazzare l’incesto, costituendo un legame particolare, equivoco fra coloro che lo detengono.  L’incestualità non proibisce le pulsioni incestuose, ma colpisce l’Io; il suo proclama è: “rinuncia a pensare e rinuncia a sapere”. A differenza del Super-io, i divieti incestuali non instaurano una legge ma una tirannia.

L’oggetto incestuale  incarna un ideale assoluto: sarà figlio/a, amante, padre e madre.  Per questo motivo le sequenze genealogiche legate alle differenze generazionali saranno invertite fino ad arrivare alla decostruzione delle origini.[3]

Ma per comprendere meglio questo passaggio è necessario aprire una parentesi sul significato che la strutturazione edipica ha nella vita psichica del soggetto. Ritengo non sia un caso che Freud teorizzi  il complesso edipico solo nel 1922 (L’Io e L’es) pur avendolo scoperto nella clinica molto presto. Evidentemente  ha compreso che non può descrivere il complesso edipico sulla base della sola clinica, ha bisogno di comprendere il suo radicamento nella cultura prima di mettere in forma la sua teorizzazione. E’ quindi con  Il disagio della civiltà  –  o più propriamente della kultur – nel significato forte di cultura/civiltà (1929) – che tale radicamento trova  il suo pieno compimento.

Concordo con Green (1990) quando afferma che Freud non vuole introdurre l’Edipo nella teoria come “semplice vicissitudine dello sviluppo infantile: già in Totem e Tabù (1913)  Freud  ha cercato di  radicare il complesso di Edipo nel passato della specie umana, addirittura trasmesso ereditariamente. Il totemismo è l’insieme più ampio che dà nome all’identità personale e del gruppo, e può spiegare la trasmissione di un tabù “organizzatore dell’ordine psichico e dei rapporti intersoggettivi familiari e sociali” (Green, 1990, p.56) . Il fondamento del tabù è il desiderio inconscio nel suo incontro col divieto. Questo ci porta a comprendere che è il divieto che rende possibile il desiderio, è il conflitto tra desiderio e divieto che è generatore di pensiero: di quell’attività di metaforizzazione, simbolizzazione , “che installa il desiderio in un dispositivo di figurazioni” (P.L. Assoun, 1993, pag 30).  La lingua del desiderio sono i fantasmi, ed i fantasmi edipici sono l’incesto, il fantasma di castrazione come punizione del desiderio dell’uccisione del padre ed il fantasma della scena primaria; tali fantasmi sono rappresentabili e inconsci, universali e personali, intrapsichici e simbolizzabili.   Se per le ragioni che abbiamo cercato di spiegare il desiderio incestuoso non può essere rappresentato fantasmaticamente, allora ci sarà posto solo per l’incesto agito, o per quegli equivalenti d’incesto,  che abbiamo menzionato sopra.

Si potrebbero portare numerosi esempi di “incestualità”, incontrati nella clinica, in cui soprattutto le differenze di generazione sono rifiutate e negate,  ma vogliamo soffermarci su una questione in particolare che riguarda l’alleanza inconscia tra soggetto-famiglia e insieme socio-culturale. Numerosi sono i casi di pazienti nati da coppie non coppie, o perché separati fin dalla nascita del figlio/figlia, o subito dopo,  ma soprattutto inconsciamente non riconoscenti l’uno nell’altro la genitorialità di quel figlio, come se il figlio fosse generato da uno solo dei suoi genitori occupando un posto ambiguo di figlio-genitore del padre o della madre ecc. La cosa significativa è che questo disconoscimento della coppia genitoriale è spesso idealizzato, finanche coscientemente razionalizzato  dal genitore  o  dai genitori che lo mettono in atto, come se fosse un “diritto”. La conseguenza è che il bisogno per la psiche di potersi sentire fondato in un desiderio che lo consideri come soggetto e non come oggetto-clone del proprio genitore, viene negato, e non trova  così iscrizione simbolica nella cultura di appartenenza.

Fin qui si sono considerate alcune implicazioni del processo di soggettivazione che riguardano il contratto narcisistico stipulato tra il soggetto e l’insieme dove l’Io può emergere, e che sostiene la funzione  identificatoria;  la funzione di porta-parola  svolta dalla madre, la quale accompagna le esperienze psichiche del neonato e la strutturazione della sua psiche mediante gli enunciati di divieto; la funzione strutturante dell’Edipo nel suo rapporto con la cultura per l’acquisizione delle differenze di sesso e di generazione.

Soprattutto le implicazioni nella vita psichica del singolo del confronto col mondo degli adulti, e il peso e l’importanza dell’inconscio degli adulti che amplia il concetto di inconscio individuale, e ci consentono di ampliare la ricerca nella direzione dei conflitti identificatori che il soggetto si trova a dover affrontare. In particolare dobbiamo a P.Aulagnier (1979)  l’aver sottolineato il conflitto fra identificante – identificato, perché prima che ci si possa identificare si è identificati (alludiamo ai desideri inconsci dei genitori e degli adulti che si prendono cura del bambino, in rapporto anche al tessuto simbolico – culturale che li informa) .

È  necessario, perciò, comprendere meglio come si strutturano  i legami inconsci intersoggettivi,  e tornare al concetto di alleanze inconsce. Questo è  un altro aspetto del processo di soggettivazione  che si costruisce nello spazio psichico proprio di ogni configurazione di legame quale che sia la sua configurazione : una famiglia, una coppia, un gruppo.

 

Le Alleanze inconsce

L’alleanza è nella definizione di Kaёs una formazione psichica intersoggettiva costruita dai soggetti del legame, “per rinforzare in ognuno di essi e stabilire alla base del legame fra loro gli investimenti narcisistici ed oggettuali di cui hanno bisogno, i processi , le funzioni e le strutture psichiche che sono loro necessarie”(2007, pp. 224-225). Tali alleanze fanno parte dell’inconscio di ogni soggetto, allo stesso titolo del legame col proprio corpo. Il lavoro richiesto alla psiche dalla sua dipendenza dal corpo (dalle pulsioni) è replicato perciò, secondo Kaёs dall’esistere di quest’altra dipendenza, che estende il concetto di inconscio. E’ importante sottolineare che, “il prefisso  inter indica che al là di una generica reciprocità simmetrica o asimmetrica, tra due e più soggetti, sono le differenze fra questi soggetti che rendono possibile l’emergere dei rispettivi  Io”,  il loro “diventare Io all’interno di un Noi”(2007, p.25).

Come il contratto narcisistico è la matrice comune della vita psichica dell’infans con sua madre :  la madre iscrive l’infans nel proprio narcisismo, lo fonda nella propria psiche e nello spazio psichico familiare, così le alleanze inconsce organizzano il legame intersoggettivo e l’inconscio dei suoi soggetti. L’alleanza è costruita in modo tale che il legame acquista per ciascuno dei soggetti un valore psichico decisivo.

Il pensiero di Kaёs sviluppa la nozione di contratto narcisistico in direzione dell’indagine clinica delle alleanze inconsce strutturanti e di quelle destrutturanti per la psiche individuale. Le alleanze strutturanti si fondano sulla rimozione, quali il patto tra fratelli, l’alleanza simbolica col Padre, il contratto narcisistico, il contratto di rinuncia reciproca alla realizzazione diretta delle mete pulsionali, che Freud pone alla base della civiltà.  Al contrario quelle destrutturanti che sono caratterizzate per i loro effetti patogeni,  si fondano sul diniego e il rigetto dei limiti, dei tabù, della realtà, dell’alterità, producono effetti perversi  e  impediscono l’iscrizione del soggetto nella catena generazionale e sono responsabili di deliri di autogenerazione, o di identificazioni alienanti a un gruppo, un’ideologia o un capo .

Le alleanze richiedono degli obblighi, degli assoggettamenti, conferiscono dei benefici e promettono dei piaceri, questi devono essere commisurati ai costi psichici che esigono dai  loro soggetti. Il punto di fondo, però, è che  le alleanze inconsce creano una parte dell’inconscio e della realtà psichica di ciascun soggetto.

 

Le alleanze inconsce strutturanti

Riprendendo Totem e tabù,  l’Avvenire di un’illusione ed Il disagio della civiltà di Freud, Kaёs inserisce fra le alleanze inconsce strutturanti che si fondano sulla rimozione dei moti pulsionali inconsci, il patto tra fratelli e l’alleanza simbolica col padre,   alleanze che definiscono gli interdetti fondamentali : il divieto dell’incesto, del fratricidio e del parricidio. Kaёs sottolinea, inoltre, come il contratto di rinuncia reciproca alla realizzazione diretta delle mete pulsionali fondi il patto sociale, la convivenza nella comunità, e sia alla base del diritto e del superamento dell’arbitrio. Il diritto che fonda la comunità, infatti, esige che in cambio di protezione dobbiamo rinunciare ad alcuni soddisfacimenti. Le realizzazioni della cultura sono possibili solo a questa condizione e rappresentano le esigenze di lavoro psichico che la cultura richiede all’economia e alla dinamica pulsionale. Il lavoro della cultura e le sue acquisizioni sono quindi una vittoria sulle pulsioni omicide e sul narcisismo distruttivo, esso implica il processo di sublimazione nelle sue componenti sia individuali che collettive. Infatti la sublimazione delle mete pulsionali, tratto saliente dell’evoluzione psichica del singolo è anche il risultato del lavoro della Kultur  (Kulturarbait) e si articola coi processi di simbolizzazione.

 

Le alleanze alienanti , difensive e offensive

Le alleanze alienanti, difensive e offensive si organizzano in vista di una coalizione contro un altro allo scopo di distruggerlo o di dominarlo: una squadra di calcio, un commando, una gang si organizzano in base a questo tipo di alleanza. Queste alleanze si sviluppano anche come difesa da tutto ciò che è sentito come una minaccia al legame.

Si tratta di un patto denegativo che si basa su operazioni difensive di diniego, disconoscimento e rigetto dell’altro, dei limiti e  della realtà, creando così nel legame qualcosa di non trasformabile, delle zone di silenzio che mantengono i soggetti di un legame estranei alla propria storia e alla storia degli altri. Ogni soggetto dell’alleanza è così garantito di non sapere niente dei propri desideri dei propri affetti che siano di rabbia, di odio, o di abbandono, e ottiene una difesa contro un cambiamento che viene vissuto come catastrofico, di fronte a cui il gruppo rimane forte e saldo, cementato per così dire dal nemico esterno/interno. A volte questi patti alienanti, denegativi sono però l’unica difesa in situazioni estreme di violenza traumatica collettiva, insostenibili per la realtà psichica  che,  questa alleanza difensiva automatica rende banali e quasi accettabili (molto importante quanto dice di Silvia Amati Sas sull’analisi di persone che hanno subito tortura in regimi totalitari nel suo lavoro del 2010).

Essere nell’intersoggettività non implica solo che certe funzioni psichiche siano inibite o ridotte e che altre siano elettivamente mobilitate ed amplificate.  Si deve ammettere un’esigenza di non-lavoro psichico, degli abbandoni di pensiero, delle effrazioni dei limiti dell’Io (Moi), o di una parte della realtà psichica che specifica e differenzia ogni soggetto. È il caso dei gruppi settari o dei gruppi ideologici. Ed è per questa ragione che si deve ammettere che processi di auto-alienazione siano messi al servizio di alcune esigenze gruppali.

In un certo qual modo non possiamo scegliere di sottrarci a queste esigenze: dobbiamo sottometterci ad esse per entrare in un legame e per esistere come soggetti. Ma dobbiamo anche staccarcene, slegarci da esse ogni volta che queste esigenze e le alleanze che le suggellano servono la nostra auto-alienazione e l’alienazione che imponiamo agli altri, più spesso all’insaputa di ciascuno.

Divenire Io (Je), può essere vissuto come  un momento catastrofico: infatti alcune configurazioni familiari percepiscono talvolta il processo di soggettivazione dei membri che la compongono come una minaccia per l’identità comune.

Laing e Esterson hanno meglio di altri descritto ciò che accade con le famiglie che si sentono minacciate quando uno dei membri rompe con la cultura familiare o, più esattamente, con l’immagine di famiglia interna comune a tutti i membri della famiglia.  Il soggetto non può avere accesso alla propria singolarità senza una separazione accettabile ed una pluralità assimilabile. Evidentemente, in tal caso, nessun processo di soggettivazione è possibile, poiché minaccia di smembramento la famiglia intera così come ognuno dei suoi membri. È, in effetti, una minaccia per l’identità comune, ma anche per il divenire dell’identità del bambino o dell’adolescente. Il contratto narcisistico si è tramutato in patto leonino, alienante, mortifero.

Il movimento psichico da sostenere è quello della separazione e dell’appropriazione del proprio spazio psichico, il riconoscimento di ciò che si chiamava, un tempo, la propria “vocazione”; nozione assai complessa, che può anche servire ad evitare di riconoscere in sé la voce – e la via – che vi chiama a diventare Io (Je).

 

Conclusione

Per concludere, queste teorizzazioni come ci aiutano ad affrontare la sofferenza psichica che incontra il soggetto nel proprio processo, mai concluso di soggettivazione? Sofferenza prodotta dal conflitto fra essere un “ fine per se stesso e anello e servitore di una catena di cui è beneficiario ed erede” . Una sofferenza, cioè, prodotta dal fallimento del contratto narcisistico e da alleanze e patti inconsci alienanti e destrutturanti.  Sicuramente  tali sofferenze  ci aiutano a comprendere meglio i problemi con i quali, in quanto psicoanalisti, ci si trova a confrontarsi,  In particolare sono sempre più frequenti e pressanti quelli legati alle forme contemporanee della realtà sociale: la frammentazione dell’ideale dell’Io, la spinta sempre più massiccia all’indifferenziazione che rendono più fragile il progetto  identificatorio, l’estensione dell’uso difensivo del diniego piuttosto che della rimozione, e la spinta all’alienazione in parte subita e in parte desiderata, che fa emergere una precarietà dell’essere e della capacità di pensare .

Le trasformazioni prodotte nei sistemi di rappresentazione collettiva in seguito al congiungersi dello sviluppo delle tecnoscienze e dell’inarrestabile espansione della logica neoliberista di mercato, sostengono l’affermarsi di soggettività svincolate dal sapere trasmesso dalle generazioni precedenti, e  l’ancoramento all’aspirazione di una completezza narcisistica che rifiuta l’alterità, e il riconoscimento della dipendenza a costo di una profonda lacerazione dell’Io. Infatti  l’individualismo trionfante si correla al rigetto della coscienza morale e all’emergenza di psicopatie, in cui si privilegia l’agito, il corpo, la realtà concreta, mentre nasconde una fragile stima di sé, responsabile di intensi viraggi depressivi, e del ricorso ai medicamenti psicotropi, e a tutti quei comportamenti cosiddetti di addiction (disturbi alimentari, alcoolismo e gioco compulsivo ecc). Soluzioni sintomatiche legate all’impatto coi profondi mutamenti che hanno investito la natura stessa del legame sociale, le funzioni paterna e materna,  la famiglia  come sede della mediazione sociale, e le istituzioni, mettendo in scacco la capacità di pensarsi nella propria differenza e di fare esperienza dell’altro.  Non si tratta più solo della possibilità trasformativa che ogni cultura contiene in sé rispetto al sapere delle generazioni precedenti , del conflitto generazionale che è inevitabile e necessario, ma di un rigetto o  diniego dell’apporto delle generazioni precedenti, di una mutazione nel tessuto sociale e simbolico di cui per il momento non conosciamo appieno la portata.

E’ perciò prezioso per la psicoanalisi continuare a interrogarsi sui suoi strumenti teorici, secondo il metodo indicato da Freud, e rivendicare la propria specificità  di dire ciò che le scienze sociali non dicono, e dare voce all’inconscio che si cela nelle forme manifeste del vivere.

 

 

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[1 ] R.Kaës, Un singolare plurale-2007, Borla,p.61

[2] R.Kaёs,Il gruppo e il soggetto del gruppo,1993,Borla,p.117

[3] Per un approfondimento di questi temi vedi M.G.Minetti,2012, “Il posto del soggetto nella catena generazionale”

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