Leibniz: note sull’amicizia


Mariannina Failla

Università Roma Tre

mariannina.failla@uniroma3.it

 
 
 
Abstract: The article aims to describe the several meanings of friendship by Leibniz; starting from the convinction that the person is the root of friendship, Leibniz distinguishes between person and “brutus” while  laying the foundations for an interesting philosophy of mind.  Cognition (vision of universal), will and memory  continuously interact in that frame. Friendship also leads to a specific political vision of civil society, based on relations of reciprocity (legal category of equity). The legal meaning and moral aspects of friendship  emerge  from the analysis of the three types of law: private law, public law and universal law. The universal law expresses the charity/benevolence (also friendship and love)  of the wise man, considered by Leibniz human mirror of divine wisdom.  Thus the friendship unites the natural law  to  the teological horizon of divine perfection.
 
Keywords: friendship, love, harmony, joy, desire, equity, divine wisdom.
 
 
 
1. Premessa
 

Ne La Giustizia come carità del saggio (Hannover 1677-1678), Leibniz sostiene che la carità è l’habitus di amare tutti, un’universale benevolenza che si lascia graduare in base alle attitudini virtuose di chi la riceve[1]. La carità, come del resto la giustizia, non è un atto, ossia il culmine di una singola azione, bensì una forte inclinazione dell’animo che si può ricevere per dono naturale, per grazia divina o acquisire per assiduo esercizio. A questo punto Leibniz equipara la benevolenza all’amicizia affermando che l’amore, considerato espressione di benevolenza, corrisponde a ciò che gli Scolastici definiscono amore d’amicizia. Compito di queste note è indicare le implicazioni coscienziali, politiche, etico-giuridiche e lo sfondo metafisico-teologico del connubio fra amore e amicizia.

Procederei per gradi; legando l’amicizia all’amore Leibniz distingue preliminar­mente fra amore e appetitus:

 

Amiamo colui della cui felicità prendiamo piacere, il desiderio di unire a sé la cosa non è amore: liebe, das man vor Liebe fressen möchte, amare sì da voler divorare, come volgarmente si dice che amiamo i cibi di cui siamo ghiotti – questo non è amore. Altrimenti si dovrebbe dire anche che il lupo ama l’agnello. Pertanto l’amore sessuale è tutt’altro che amore vero. A parte ciò, molte celebri dimostrazioni, di grande importanza in teologia e in morale, possono dedursi da questa definizione dell’amore. (Leibniz 2003b, 307; trad. it. 1951, 100)

Insieme con altri passaggi presenti nel frammento coevo sulla vera pietà (1677-1678) – nel quale si continua a porre l’accento sul rapporto fra amore e benevolenza presente negli scritti sul diritto naturale[2] – la distinzione netta fra bramosia di possesso (das man vor Liebe fressen möchte) e amore (il piacere per la felicità dell’altro) può riecheggiare la concezione platonico-rinascimentale dell’amore e direi anche il suo legame con la bellezza e la giustizia divine – come in definitiva leggiamo ne El libro dell’amore di Marsilio Ficino[3]. Commentando il Simposio di Platone anche Ficino, inoltre, distingue fra la Venere celeste e la giovane Venere volgare, il desiderio della carne[4]. L’attenzione rivolta al desiderio annichilente da parte del giovane Leibniz è tuttavia dovuta al fatto che l’appetitus, assimilabile all’assoluta passività della materia, al non essere[5], si profila come un concetto di frontiera che stabilisce il limite fra il non-umano o il pre-umano (il bruto) e l’umano (la persona). La persona è chiunque abbia una volontà, cioè pensieri, affetti, piacere e dolore. Con questa frase secca e lapidaria Leibniz apre almeno due ambiti di riflessione: il primo consente di specificare meglio la differenza fra persone e bruti, ossia fra chi possiede e chi non possiede volontà e cognizione, fra chi partecipa e chi non partecipa al dolore e al piacere.

Il secondo ambito concerne l’articolazione della volontà come dinamica pratico-cognitiva, basata sull’affettività e sulla memoria. L’analisi della persona, l’unica capace di amicizia, offre così gli elementi per un’interessante filosofia della mente nella quale sentimento, memoria, cognizione e volontà sono strettamente connessi.
 
 
2. Il bruto e la persona: l’amicizia è personale
 

Qualificando il bruto come essere incapace di agire e patire (di sentimento e ragione), Leibniz lo assimila agli animali, interpretati, in questa fase del suo pensiero, come “macchine senzienti” in grado solo di rispecchiare il mondo esterno, prive, come sono, di qualsiasi sensibilità interiore. La distinzione fra persona e bruto è volta a tracciare marginalità e confini, superati i quali non si può dare vita, sempre caratterizzata da un rapporto proporzionato di attività e passività e pertanto di piacere e dolore.
 

I bruti non provano piacere né dolore, non hanno ragione né senso. Infatti, allo stesso modo che la vita, cioè il moto vario e spontaneo, non esiste nelle piante e nei bruti se non apparentemente (crediamo, infatti, che si muovano spontaneamente solo perché non ne vediamo il motore); così pure apparente in essi è il senso, cioè l’azione sulla loro sensibilità. Nella bestia vi è sensibilità esterna, vale a dire rappresentazione e azione in presenza di uno stimolo. Ogni senziente, infatti, e rap­presenta l’oggetto come uno specchio, e agisce in guisa regolare e ordinata ad un fine, come un orologio. Ora, se qualcuno vedesse per la prima volta uno specchio senza che nessuno gli insegnasse che cos’è, credo che penserebbe trovarsi in lui una qualche cognizione (allo stesso modo che gli indiani consideravano sapienti e partecipi di segreti le lettere che gli Spagnoli si scambiavano). E in un orologio crederebbe trovarsi una volontà. Se nei bruti vi è piacere e dolore, certissimamente dimostrerò esservi anche la ragione, ma quale si trova negli infanti, non ancora risvegliata dall’esperienza, e tale che a suo tempo si mostrerà. Infatti, quand’anche tutti gli uomini fossero muti e sordi, tuttavia coi gesti e con la scoperta e l’uso, partecipato agli altri, di qualche notazione, potrebbero parlare. Infine noi torturiamo bestie innocenti nel modo più miserevole; se esse avessero senso questa sarebbe una inescusabile crudeltà. (Leibniz 2003b, 307-309; trad. it. 1951, 100-101)

Accomunando il mondo vegetale, quello animale (macchine programmate e funzionanti come orologi) a quello dei bruti, che rappresentano esseri privi di vera vita, incapaci di entrare in relazione con il mondo, Leibniz sembra riferirsi a quel tipo di assenza di vita non dovuta a morte fisica («morte senza mutamento in cadavere») di cui parla Spinoza nell’Etica (IV, sc. 39). È possibile, infatti, intendere la «morte senza mutamento in cadavere» anche come la condizione della bestia-automa deprivata della vita della mente e della virtù (Spinoza 2007a e 2007b)[6]. In linea con questa visione il bruto per Leibniz non può partecipare alla vita cognitivo-sentimentale che prepara la volontà ad agire.

L’assimilazione del bruto alla meccanica animale è problematica e al tempo stesso problematizzante; problematica poiché offre una concezione dell’animale sicuramente diversa da quella presente nella Monadologia. In essa fra l’animale e l’uomo si stabilisce una continuità vitale, testimoniata dalle attività percettive, appetitive e memorative. Famosi sono i passi in cui Leibniz accomuna la memoria animale e quella umana, definendole mimesis dei nessi razionali. Negli scritti giovanili sul diritto naturale le attività memorative e appetitive, invece, sono messe in relazione solo con la volontà della persona. Come i bruti, gli animali sono al massimo capaci di sensazioni esterne, privi di elaborazioni interne del dolore e del piacere, dunque orologi meccanici cui manca del tutto la dimensione sentimentale e cognitiva e con esse anche la benché minima possibilità di partecipare, sentire e vedere la complessa rete e l’intreccio dei diversi gradi di piacere e dolore, di azione e passione.

Le parole di Leibniz sono però anche problematizzanti, perché in esse s’insinua il dubbio sull’effettiva totale assenza della vita sentimentale nell’animale: se loro non fossero delle vere e proprie macchine senzienti, il cui stesso movimento autonomo è solo apparente, noi a volte useremmo nei loro confronti «un’inescusabile crudeltà», scrive Leibniz con tono sommesso e meditabondo.

Stabilito che la condizione bruta costituisce il passaggio al non umano, Leibniz indirettamente ci dice che la condizione bestiale (e non propriamente animale) del bruto segna il punto zero non solo della vita della coscienza, ma anche della vita consociata. Senza la capacità di agire e patire non si dà né percezione di sé nella memoria (e quindi non si è in grado di sentire l’intimo carattere relazionale della vita intrapsichica) né intellezione della natura relazionale di ogni essere (ciò che potremmo chiamare relazionalità extrapsichica, mondana). Il bruto è così incapace di entrare in relazione con se stesso e con ogni altro ente del mondo, è uno specchio pavloviano degli stimoli esterni. La “persona” è, invece, in grado di avere sentimento e cognizione, dunque di sentire se stessa (relazionalità intrapsichica) e di cogliere le relazioni fra gli enti (relazionalità extra-psichica), anzi è proprio questa duplice relazionalità a costituirla come tale.

La natura essenzialmente relazionale della persona trova il suo apice nel concetto di armonia, facilmente rintracciabile nelle parole leibniziane dedicate alla cognizione e al suo sostrato sentimentale. Il pensiero è azione su se stessi in cui si dà coincidenza di agente e paziente e chiunque agisca su di sé possiede memoria: ci ricordiamo quando sentiamo di aver sentito, scrive schematicamente Leibniz. Pensare dunque non può prescindere dal sentire se stessi tramite la memoria del proprio flusso percettivo e sentimentale, ciò che ho chiamato “relazionalità intrapsichica”. La memoria ci fornisce, infatti, la capacità di legare le percezioni passate, presenti e future all’armonia e disarmonia della loro varietà, dunque a diversi gradi di presenza o assenza di un composito tessuto relazionale, da cui derivano piacere e dolore[7]. Essere bruti, per contro, significa vedersi negato qualunque tipo di partecipazione (intellettiva, sentimentale, memorativa) alla relazionalità, all’armonia di sé. Con un’eco agostiniana, attraverso la memoria la persona, tuttavia, non solo ricorda, ma pensa, ed è nel e con il pensiero che coglie l’armonia dei complessi rimandi fra gli enti intramondani. Inteso come azione su di sé tramite la memoria percettivo-sentimentale del piacere e dispiacere (armonia o disarmonia di sé con sé e di sé con gli altri) – il pensiero sbocca nel conato ad agire ossia nella volontà. Non si può volere alcunché e non si può agire senza la capacità di «intelligere» l’ordine armonioso del mondo e di se stessi, ossia senza la capacità di cogliere con la mente l’universale. «Conoscere a fondo» (Leibniz 2003b, 315-17; trad. it. 1951, 104)[8] è sapere ciò che la cosa può fare e subire sia nella sua singolarità sia nella relazione e connessione con altre. Leibniz stesso lo ricorda scrivendo: «Segue di qui che nessuno può conoscere a fondo una cosa singola se non sia al tempo stesso sapientissimo, se cioè non conosca l’universale. Al posto di conoscere a fondo (pernoscere), si potrebbe, in miglior latino dire intelligere, cioè “leggere nell’interno”» (Leibniz 2003b, 315-17; trad. it. 1951, 104). L’universale diventa allora sinonimo d’interconnessione e relazionalità fra gli enti e gli individui[9]. Proprio questo è ribadito nel frammento sulla vera pietà della fine degli anni ‘70 disquisendo sui concetti di perfezione e armonia. Partendo dal presupposto che l’armonia sia la perfezione dei pensabili in quanto pensabili, Leibniz sostiene che alla perfezione dei pensabili corrisponde un grado maggiore di realtà e la maggiore realtà di un pensabile è data dalla sua capacità di mettere in relazione il maggior numero di oggetti e enti. Più vasto è il numero di oggetti/enti interconnessi dal pensiero, più intenso è il suo grado di realtà e la sua perfezione. É chiaro che l’armonia di tutte le cose è pensabile in modo perfetto solo da Dio e, tuttavia, il nesso fra armonia-perfezione-relazione offre un concetto fondamentale per pensare l’individuo come inscindibile dalle interrelazioni e nessi intramondani. Non si può dare individuo – sia in senso concettuale (sostanza individua) sia in senso esistenziale (persona) – se non immerso in un sistema articolato e complesso di relazioni. Il concetto di “realtà dei possibili”, la cui massima perfezione è in Dio, conterrebbe così anche il modello dell’imprescindibile intreccio intramondano fra gli individui che, grazie all’intellezione non astratta di sé e del mondo, solo la persona è in grado di vedere e sentire, agendo in esso e per esso.
 
 
3. La volontà della persona: l’universale pratico
 

La sapienza dell’universale non è astratta nella misura in cui consente di collocare la sostanza individua e il sè personale nella fitta rete di relazioni e interconnessioni mondane. L’universale però non è astratto anche in un secondo senso: vedere l’universale, averne cognizione è al tempo stesso sapienza pratica, ossia sapienza volta all’azione, come asserisce Leibniz stesso nel doppio movimento di avvicinamento e allontanamento dal De Corpore di Hobbes: «Il teorema […] è in vista del problema, la scienza in vista dell’azione»[10]. La vera cognizione (quella sapientissima che ha come modello la sapienza divina) è dunque al servizio dell’azione e della volontà. La volontà, a sua volta, sorretta dalla visione sapiente delle interconnessioni delle cose (ciò che si potrebbe chiamare il tessuto reale dell’universale), è sempre intimamente legata all’affettività, al piacere e al dolore della mente. Sentire è – infatti – pensare con volontà, cioè un pensare pratico cui segue sempre un conato. Cognizione e azione sono in un continuo reciproco scambio. È nell’elemento cognitivo dell’azione che Leibniz, tuttavia, vede la differenza fra l’immagi­nazione – che può portare a mendaci felicità, o addirittura alla follia – e il sentimento di piacere legato alla visione dell’intima connes­sione delle cose.

La natura cognitiva dell’azione e degli affetti consente inoltre di tornare sul concetto di appetitus riscattandone il ruolo e il significato nell’ambito dell’amore d’amicizia: esso non sarà più possesso annichilente, ma motore della ricerca della vera felicità, che è alla base dell’amicizia. Se la felicità è l’ottimo stato della persona e se del bene si dà un progresso all’infinito, ne consegue che l’ottimo stato consiste in un progresso «non impedito» verso beni sempre maggiori. Sotto l’egida della natura cognitiva della volontà, volta al bene, e della missione pratica di ogni cognizione, il desiderio si trasforma radicalmente, divenendo la molla indispensabile per il progredire infinito nella ricerca della felicità; la sospensione del desiderio, infatti, non è pace ma torpore dell’anima. L’assenza di desiderio non impedisce solo la cognizione di beni futuri e maggiori, ma quella di un bene attuale e, proverei a dire, impedisce la cognizione della stessa capacità di possedere un bene, dunque di essere felici: «neppure si accorge del proprio bene chi almeno non ne desideri la continuazione» (Leibniz 2003b, 317; trad. it. 1951, 104). Il bene però può essere desiderato solo da chi conosca a fondo le cose. È questa la differenza fra bene vero e apparente e fra desiderio annichilente e desiderio della mente, legato alla visione sapien­tissima delle cose.

Intelligere le connessioni relazionali e agire guidati da tale cognizione è la base della felicità, del bene e della loro desiderabilità. Il singolo rischia l’abbrutimento del proprio desiderio se è privato della visione (della mente) delle interrelazioni mondane nelle quali è egli stesso immerso. Di un appetitus non solitario e del tutto passivo ma attivo e consapevole ha bisogno la persona per instaurare rapporti d’amicizia. La comparazione dei due diversi concetti di appetito consente, così, di dire che alla persona non può corrispondere l’esercizio individualistico e annichilente delle pulsioni; essa piuttosto sa e può desiderare e agire se guidata dalla cognizione pratica della rete d’interrelazioni in cui è situata. Se dunque da un lato l’amicizia rimanda immediatamente all’analisi del sé e della sua complessità pratico-affettiva che culmina nella saggezza, sono poi i concetti di piacere (della mente)[11], dovuto alla percezione dell’armonia, e quelli di perfezione e felicità a rendere imprescindibile l’immersione della persona, capace di amicizia, nella rete intersoggettiva e comunitaria dei rapporti sociali.

Pur legandosi strettamente alla “persona”, il concetto di amicizia non celebra, allora, la contrap­posi­zione di singolo e comunità, non favorisce la conflittualità e la competizione nei rapporti interpersonali ma mira allo scioglimento e superamento delle opposizioni fra singoli individui e fra singolo e comunità a favore del rispecchiamento attivo della persona nella comunità e della comunità negli inte­ressi più propriamente etico-politici del singolo.

Persona e comunità si sostengono e si completano reciprocamente, in questo consiste la natura sociale dell’amicizia, dell’amore disinteressato per l’altro. Il sodalizio fra individuo e comunità è tuttavia attraversato dalla domanda sul rapporto fra utile (interesse particolare del singolo) e bene pubblico (virtù).

Leibniz affronta questo tema da più punti di vista: politico, etico-giuridico e teologico. All’intreccio di questi significati sono dedicate le pagine successive.
 
 
4. L’amicizia e la concezione politica del vivere comune
 

Il rapporto fra utile e bene si può innanzitutto collegare a una fenomenologia degli affetti che si rivela essere, in realtà, la descrizione dei diversi rapporti politico-sociali fra gli uomini. A seconda se ci si trovi di fronte all’esercizio esclusivo dell’utile (ossia del semplice affetto per gli altri) o della virtù dell’amore si avranno diverse relazioni di potere fra gli uomini e si costituiranno differenti nuclei sociali: la società di schiavi, la famiglia, la comunità civile.

Indicando fino a che punto i singoli si debbano subordinare al bene comune per riceverne in cambio una felicità moltiplicata, Leibniz cerca continuamente di conciliare questa idea con l’esigenza di garantire a ognuno il proprio benessere: tutto dipende dalla natura dell’amore e coglierla può gettare una luce sulla giurisprudenza e sulla teologia – scrive Leibniz parlando della carità del saggio. Duplice è il modo di desiderare il bene altrui: lo si può desiderare per il nostro bene oppure «quasi fosse il nostro bene». Il primo modo è di chi «valuta il secondo di chi ama» (Leibniz 2003b, 236; trad. it. 1951, 93). Alla ricerca del bene altrui per raggiungere il proprio, appartengono l’affetto del padrone verso lo schiavo, del bisognoso verso il mezzo che può soddisfare il suo bisogno. Alla seconda, quella dell’amore e non del desiderio strumentale del bene altrui, appartengono l’amore del padre verso il figlio e dell’amico verso l’amico. Nel primo caso si ricerca il bene altrui in vista di altro, nel secondo si ricerca per se stesso.

Oltre alla chiara ammissione che l’amicizia è espressione della virtù morale dell’amore disinteressato per l’altro, queste brevi riflessioni di Leibniz contengono un implicito rimando ad alcuni passi del Trattato teologico-politico di Spinoza. Egli affronta la trilogia di cui parla in termini leggermente diversi anche Leibniz (schiavo, figlio, amico) nel momento in cui passa dall’obbedienza alla Legge rivelata nella Scrittura all’obbedienza alle leggi civili – nella quale si ritrovano, però, tutti gli elementi dell’obbedienza alla legge divina dell’amore, il più importante dei quali è la natura comunitaria del singolo. Alludo al famoso passo del Trattato teologico politico (cap. XVI) in cui si descrivono tre diversi tipi o livelli dell’obbedienza civile: l’obbedienza dello schiavo, la quale segna la totale alienazione di sé in vista dell’utile del padrone; a essa succede l’obbedienza del figlio che rappresenta l’alienazione della propria volontà per perseguire un utile proprio; e infine l’obbedienza del suddito (colui che chiameremmo oggi il cittadino). Il suddito aliena la propria volontà per obbedire alla volontà suprema del signore, ma proprio tramite il gesto consapevole di alienazione della propria volontà individuale contribuisce al bene della comunità che, grazie al lume naturale, riconosce come proprio bene.

Le tre diverse modalità di obbedienza hanno un vettore, trovano nella figura del suddito il proprio compimento emancipatorio dalla totale reificazione di sé in vista dell’utile dell’altro (schiavo) e dalla ricerca del proprio utile (figlio) per sfociare nell’esercizio della fratellanza e dell’amore (modello di democrazia). Ora questo stesso iter emancipatorio sembra ripresentarsi nelle parole di Leibniz volte a legare l’utile alla sperequazione nei rapporti sociali (la dipendenza e la sudditanza come cifra della relazione fra schiavo e padrone e fra l’indigente e i beni della sua fortuna) e a connettere l’esercizio amicale d’amore a un rapporto paritario di reciprocità. Nell’amore per l’amico il bene dell’altro è «quasi il mio» (Leibniz 2003b, 236; trad. it. 1951, 93) e quel «quasi» è subito esautorato dall’idea che l’amore disinteressato per l’altro, quando lo si persegue per se stesso, è in grado di moltiplicare il proprio piacere (il piacere della mente per l’armonia). Il bene altrui, preso per se stesso, come finalità del nostro agire, va ricercato perché è piacevole (ossia foriero di felicità) proprio e solo in quanto bene altrui. La legge civile della pietas spinoziana e l’amore per l’amico sembrano legate da un filo rosso che ordisce la trama di un potenziale politico basato sulla priorità del bene comune e sul passaggio da rapporti di sudditanza (schiavitù e indigenza) a relazioni eque e reciproche.

L’utile è solo uno scarto dei rapporti sociali e politici, è solo qualcosa da superare tramite l’emancipazione dalla sudditanza del bisogno oppure svolge comunque un ruolo nella coltivazione virtuosa della persona e nella comunità? Non si può tacere, a questo proposito, la famosa affermazione di Leibniz secondo la quale in una società di disgraziati non è possibile sperare nella felicità (Leibniz 2003b, 219; trad. it. 1951, 85). Ai suoi occhi l’utile (il benessere) rappresenterebbe allora l’humus essenziale per lo sviluppo dello stesso comportamento virtuoso, fonte di felicità. Che il giusto e il bene, espressi dall’amore per l’altro e dall’amicizia, tengano conto dell’utile non implica tuttavia che nelle scelte pratiche ci si debba affidare esclusivamente ai calcoli del minor male o del maggior vantaggio. Il minore e il maggiore fra i vantaggi e gli svantaggi segnano solo il limite esterno dell’amore per l’altro, superato il quale l’amore stesso si può trasformare in danno e svantaggio per se stessi; in questo caso la prudenza interviene invitando ad amare senza recare danno a se stessi. Ciò tuttavia non autorizza a concludere che la ricerca del minor danno o del vantaggio per se stessi, ciò che Bentham (1948, 126-127; trad. it. 1998, 91-92) definirà l’utile (cap. I, 4-6), rappresenti il movente primo, il principio sanzionatorio imprescindibile (Bentham 1948, cap. III, lettera a, 147 e ss.; trad. it. 1998, 117 e ss.) di ogni comportamento pratico e civile. Leibniz è, in realtà, alla ricerca di una mediazione fra utile e bene, fra interessi privati e comunitari che può essere letta come un doppio e reciproco esercizio del limite.

Si tratta di una dialettica in cui opera, però, un’interessante asimmetria. Se da un lato – come ho asserito poco sopra – l’utile limita dall’esterno l’amore disinteressato, perché mitiga l’amore per l’altro ed anche per se stessi, quando può provocare danni e svantaggi, dall’altro la virtù benevola e disinteressata può essere letta come il limite non più esterno bensì interno del giusto comportamento sociale; vale a dire l’amore per l’altro diventa, in linea di principio, il regolatore normativo (giuridico-morale) dell’habitus virtuoso. Il criterio dell’amore disinteressato per l’altro decreta, così, come moralmente iniqua la tendenza a rifuggire anche il minor danno per se stessi di fronte al piacere che si prova nell’amore disinteressato per l’altro, anche se – aggiunge Leibniz – gli uomini di fatto tendono a preservarsi dal dolore.
 
 
5. La dialettica fra utile e bene: gli aspetti etico-giuridici dell’amore
 

L’interazione, nel comportamento pratico, di livelli sanzionatori diversi e asimmetrici – la dialettica di utile e bene – emerge nella definizione di giustizia:

 

Giustizia sarà dunque l’abito […] di volere […] il bene altrui di per se stesso e di compiacersene, nei limiti in cui la prudenza lo consenta: in quanto cioè non sia causa di un maggior dolore. Anche il piacere che pigliamo dei nostri beni, infatti, deve essere moderato dalla prudenza (Nam et quae ex nostris bonis voluptas capitur, frenanda est prudentia), perché non succeda che una qualche volta sia cagione di più grande dolore; e questo tanto più necessario per il bene altrui. Però non è opportuno qui parlare di prudenza: infatti, chi creda per errore che il bene altrui possa ottenersi senza proprio dolore, è pur sempre obbligato (obligatus est). La giustizia sarà dunque l’abito di pigliar piacere del supposto bene altrui, fino alla supposizione di un maggior dolore nostro. Ma ancora le ultime parole si possono tagliar via, poiché anche se interviene il nostro dolore, nulla ci vieta di compiacerci di quello che riteniamo il bene altrui, sebbene l’azione effettiva segua il maggior piacere o il minor dolore. […] Per concludere dunque, finalmente, la vera e perfetta definizione della giustizia è: l’abito di amare gli altri, cioè di prendere piacere di ciò che si ritiene essere il loro bene ogni qualvolta se ne mostri l’occasione. (Leibniz 2003b, 240-243; trad. it. 1951, 95-96, corsivi miei)

In questo passo, in cui prudenza e bene (amare disinteressatamente) s’inter­se­cano continuamente, si deve – come in fondo ho già provato a fare – mettere in evidenza che i livelli e i gradi sanzionatori della prudenza e della virtù sono essenzialmente differenti fra loro: moderare (frenanda est prudentia) e obbligare hanno un valore prescrittivo diverso che ha consentito in precedenza di parlare di limite esterno e interno nella reciproca relazione di utile e bene. L’essenziale diversità fra la moderazione (il tenere a freno messo in atto dalla prudenza) e l’obbligatorietà dell’amore (che rimanda alla categoria modale della necessità) è ulteriormente sottolineata dalla «vera e perfetta definizione della giustizia». Grazie a essa l’amore disinteressato per l’altro emerge con tutto il suo valore normativo, qualificando come iniqua la tendenza egoista e prudenziale che induce l’uomo a non aprirsi all’altro amandolo per non incorrere nel rischio di vivere nel dolore e nello svantaggio. Sulla ricerca prudenziale del minor male o del maggior utile per se stessi, l’amore disinteressato per l’altro ha così una priorità etica e giuridica insieme. La scelta dell’amore disinteressato corrisponde, infatti, a quel maggior bene possibile, a quell’ottimo la cui ricerca è inalienabile dalla natura umana e il cui piacere (Leibniz 2003b, 238-239; trad. it. 1951, 95-94)[12] si moltiplica nel rispecchiamento reciproco delle menti[13] cui già ha alluso il concetto di persona e di conoscenza profonda dell’agire e del patire di ogni ente.

Due considerazioni emergono a questo punto: la prima riguarda la definizione di giustizia e la sua capacità di fornire un criterio normativo virtuoso cui ricondurre e subordinare la ricerca dell’utile. Se si va fino in fondo alle riflessioni leibniziane sulla giustizia si può notare come il giusto e l’ingiusto finiscano per sganciarsi dalla “necessità” morale ancorandosi all’ambito della “possibilità” pratica.

Utilizzando le categorie modali del possibile, impossibile e necessario, Leibniz afferma che le azioni contrarie ai buoni costumi (l’ingiusto) non le possiamo fare, ma non dice che non le dobbiamo fare. Regolati dalla categoria del possibile, il giusto e l’ingiusto rinviano al potere di scelta, alla libertà d’azione, mentre l’obbligo (la necessità morale) rimanda alla virtù dell’amore (d’amicizia). L’ambito del possibile non comprende poi solo il giusto o l’ingiusto ma anche il lecito, lasciando, così, aperta una via alla regolamentazione dell’utile.

Dopo aver chiarito che equo è amare tutti gli altri ogni volta che se ne abbia occasione e che siamo obbligati (ecco il valore sanzionatorio della virtù d’amore) a ciò che è equo e dopo aver dichiarato che ingiusto è non compiacersi del bene altrui quando ne abbiamo occasione – Leibniz introduce un secondo significato di giusto facendolo coincidere con il lecito. Giusto (nel senso di lecito) è tutto ciò che non è ingiusto, come l’agire a proprio arbitrio quando non si abbiano obblighi. Agire a proprio arbitrio non sembra qui rinviare all’azione scaturita dalla sapientissima volontà della persona, al contrario sembra prescindere da quella visione profonda e sapiente che coglie il tessuto relazionale degli enti mondani e del sé. Agire a proprio arbitrio sembra voler dire: agire negli spiragli residuali che si aprono nell’ambito del possibile al di fuori e al di là dell’obbligatorietà dell’amore (equità). Se fosse così la ricerca utilitaristica dei propri vantaggi e beni sarebbe lecita nella misura in cui non arrechi danno a sé e agli altri, ossia non contraddica l’obbligo di amare in modo disinteressato l’altro e potrebbe collocarsi  nell’ambito del diritto privato il quale, come risulterà a breve, è la forma giuridica più astratta e primitiva dello Stato.

La seconda considerazione è consequenziale alla prima e riguarda la relazione fra l’amicizia e le forme del diritto. Leibniz analizza tre precetti giuridici – mutuati dalle Regulae di Ulpiano – cui lega tre diverse forme e gradi di diritto. I precetti sono: vivere onestamente, non nuocere ad alcuno, dare a ciascuno ciò che gli spetta (honeste vivere, neninem laedere, suum cuinque tribuere). Vorrei iniziare dalla massima “neninem laedere” che Leibniz riconduce al diritto di proprietà, basato sul concetto aritmetico di eguaglianza e sul criterio commutativo di giustizia. Il diritto di proprietà o privato presume che tutti siano di pari dignità, e ciascuno abbia il diritto di recuperare quanto possiede senza riguardo alcuno al valore della persona. La pari dignità, cui qui si allude, è scandita dal pari diritto di avanzare la pretesa del bonum proprium rispetto al commune. L’estraneità al valore della persona fa del diritto di proprietà una forma giuridica minima, rudimentale basata su un concetto astratto di universale il cui perno è l’uniformità numerica degli individui. Il diritto privato è dunque il gradino giuridico più basso e vige nello stato semplice di natura, in cui nessuno vuole essere privato di ciò che detiene, ognuno è sconosciuto all’altro e giustifica con la diffidenza e il sospetto la propria pretesa di possesso. L’universale eguaglianza che non si basa sul riconoscimento del valore dell’altro, è politicamente improduttiva, foriera di relazioni conflittuali e molto lontana dal concetto di “universale” inteso come visione della massima relazionalità di ogni individuo ed ente, di cui si è parlato a proposito della “persona”.

Solo quando l’uno abbia riconosciuto la virtù e la buona fede dell’altro, sarà possibile cogliere la convenienza della vita associata e comu­nitaria nella quale a ognuno sarà aggiudicato un diritto di proprietà adeguato però al bene comune. Cogliere la convenienza della vita associata regolando il diritto di proprietà con i criteri del bene comune rappresenta in definitiva un diritto largo di proprietà, ritenuto però da Leibniz di difficile attuazione. Non è per nulla semplice arrivare al consenso su ciò che conviene ai più e così anche dopo il convenire in società da parte dei singoli si è preferito regolare la proprietà privata semplicemente con il diritto stretto che prevede anche la guerra in caso di sottrazione di proprietà territoriali. Se appare fallimentare il tentativo di disciplinare con l’idea del benessere comune lo stato di conflitto, insito nella rivendicazione del proprium, e se Leibniz sembra ammettere che l’ideale comunitario riesca con difficoltà a mediare e correggere le storture del diritto di proprietà, quale significato potrà spettare al diritto civile pubblico che è l’espressione giuridica ed etica insieme proprio di quell’ideale?

Derivando dalla massima “suum cuinque tribuere /dare a ciascuno ciò che gli spetta”, il diritto pubblico si basa sul criterio proporzionale, distributivo e non commutativo della giustizia:
 

La giustizia distributiva, in cui è compresa anche quella contributiva, è quella esercitata grazie al diritto pubblico ed ha per scopo di provvedere al bene comune ed evitare i mali pubblici, nonché di ripartire i beni e i mali tra i singoli in modo che ciascuno abbia ciò che gli spetta. Ciò che gli spetta […] non nel senso […] di ciò che un privato può pretendere secondo lo stretto diritto, nella vita sociale secondo un’azione giudiziaria e fuori di essa con la guerra. Bensì di ciò che esso può attendersi dalla giustizia della società, come conveniente alla persona. La distribuzione dunque deve avvenire secondo le esigenze del massimo possibile bene comune. (Leibniz 1893, 48; trad. it. 1951, 117, corsivo mio)

La missione del diritto pubblico è dunque, in primo luogo, segnare il passaggio dal concetto astratto di uguaglianza (tutti hanno diritto a difendere il proprium fino a dichiarare guerra) a un’uguaglianza reale basata sull’equa distribuzione proporzionale dei beni. In essa assumono un ruolo centrale le intenzioni e gli habiti più o meno virtuosi della persona. Sottolineando il valore delle intenzioni sia virtuose che malvagie, Leibniz accentua il ruolo del futuro nella complessa articolazione dei premi e delle pene. Fedele all’idea che la persona è desiderio della propria continua edificazione e perfezione, sarà la speranza nelle azioni più o meno virtuose o più o meno dannose e malvagie a pesare nella valutazione sanzionatoria delle azioni (Leibniz 1893, 48-49; trad. it. 1951, 117-118).

Il diritto civile ha anche una seconda finalità: garantire una vita felice nella e alla comunità sopperendo così alle fragilità e incapacità interne al diritto privato che rimane luogo di conflitti in fondo sanabili solo con l’intervento espropriatorio dello Stato o con le guerre.

Al sospetto, alla sfiducia e diffidenza deve subentrare la cognizione sapiente che vede ogni cosa ordinata secondo le esigenze del bene comune, rispetto alle quali ciascuno si dovrà mostrare remissivo abdicando dal proprio stretto diritto in vista della vita comunitaria; essa saprà poi restituire ad ognuno i propri diritti ben arricchiti di benessere e felicità. Se si vuole fondare una solida alleanza, non basta mitigare dall’interno le storture e gli abusi del diritto stretto di proprietà, si deve piuttosto saper cogliere il valore moltiplicatore del bene comune. Solo così potrà nascere un ordinamento statale capace di limitare l’amministrazione privata e sancire premi e castighi proporzionati al grado di saggezza e di perfezione dei singoli. Per la formazione di un siffatto ordinamento statale Leibniz fa un appello diretto alla prassi sociale, che si deve avvalere dell’educazione e della tradizione, ossia del consolidamento di comportamenti e habiti virtuosi. L’educazione serve a dissodare il terreno e preparare lo sviluppo di consapevoli comportamenti comunitari. Allo stesso modo in cui gli architetti adattano le loro costruzioni alle asperità del terreno, l’educazione deve poter adattare la costruzione dell’ottimo stato alle difficoltà provenienti dagli ordinamenti giuridici vigenti nelle società.

Affidandosi non solo alle leggi, ma all’educazione, alle abitudini e al loro controllo sociale, Leibniz in fondo lega la costruzione dell’ottimo Stato al grado di virtuosità etica delle pratiche politiche e culturali; il criterio di equità della giustizia distributiva si fa dunque dinamico e può diventare ancora oggi un baluardo contro lo sviluppo di società basate su princìpi conflittuali e competitivi che hanno visto il loro apice nell’incontro fra utilitarismo e darwinismo sociale[14].

L’idea che il diritto civile, pubblico offra la possibilità di indirizzare la vita politica verso l’attuazione dell’equità, e dunque sia garanzia di una maggiore felicità rispetto al diritto privato, si deve tuttavia misurare con il grado massimo di felicità espresso dalla terza forma di diritto, corrispondente alla massina “vivere onestamente”.

Così scrive Leibniz ne La giustizia come carità del saggio, da cui hanno preso le mosse queste brevi note sull’amicizia:
 

Rimane il grado supremo del diritto, che dicemmo pietà. Come infatti il diritto di società è più perfetto del diritto di proprietà (poiché non considera soltanto la conservazione dei beni di ciascuno – che del resto neppure si potrebbe ottenere con la sola osservanza rigida del diritto di proprietà – ma anche un certo perfezionamento nei limiti in cui può essere apportato dal reciproco assistersi degli uomini), così il diritto di pietà non solo integra le norme del diritto sociale, ed abbraccia tutto ciò che non pare riguardare l’umana società, ma promette anche una felicità che col solo aiuto reciproco degli uomini non si potrebbe ottenere. (Leibniz 1893, 53; trad. it. 1951, 122)

A quale felicità può condurre la vita onesta, l’habitus dell’uomo fermo e saldo che sa seguire la ragione e moderare le proprie passioni? Vivere onestamente coinvolge l’esercizio continuo di quella cognizione profonda e sapientissima dell’agire e patire di ogni ente volta al proprio perfezionamento; la giustizia universale riguarda così la coltivazione morale della persona. Per questo essa sembrerebbe costituire la destinazione o forse il volano morale del diritto civile. Come diritto interiore o di pietà, il diritto universale si lega al valore etico dell’amicizia intesa come amore disinteressato per la felicità altrui. Nel diritto universale benevolenza, pietasI e amicizia sono in realtà sfaccettature della stessa identica medaglia: ossia dell’habitus alla coope­razione giusta e virtuosa alla felicità (morale) e al benessere dell’altro e per suo tramite al bene della comunità[15].

Il grado maggiore di felicità proveniente dal diritto di pietà è poi dovuto al fatto che la saggezza morale di cui si avvale non può nascere se non in «intima società» con la saggezza divina. La saggezza e la perfezione divine rappresentano, dunque, la vera mediazione fra la persona e la comunità. È, tuttavia, nell’attuazione aperta e progressiva dell’equità sociale che opera l’amicizia, ossia l’esercizio consapevole e sapiente della benevolenza, specchio umano della saggezza divina.
 
 
 
Bibliografia
 
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Note al testo
 
[1] In questa precisazione sedimentano alcune importanti riflessioni sul carattere estensivo e intensivo dell’armonia che Leibniz lega all’amore di benevolenza. Amare tutti implica il sacrificio degli interessi particolari in vista del bene comune: precisamente questo insegna il carattere estensivo dell’armonia, mentre quello intensivo aiuta a distinguere fra amore potenziale (presumibile anche per il peggiore degli uomini) e amore in atto in una situazione data. Quest’ultimo deve tener conto dei meriti dell’altro, ossia del grado di perfezione nella coltivazione della virtù. Cfr. Leibniz (2003b,  305; trad. it, 1951, 99).
[2] Leibniz (1948; trad. it. 2003a, 95-105).
[3] In M. Ficino, ossia nella fusione mirabile di platonismo agostiniano e neoplatonismo, l’amore divino ha a che vedere con la donazione di forme, relazioni e perfezioni misurate e giuste, dunque con l’armonia e la giustizia. Il legame fra bellezza, armonia, perfezione e giustizia, molto caro a Leibniz, è rinvenibile in Ficino fin dalla sua analisi dei sei attributi di Dio. Iddio è bontà, bellezza e giustizia, principio, mezzo, fine. La bontà, la bellezza e la giustizia sono i primi attributi che Ficino analizza, e costituiscono il primo tema del divino, quello della cristianità, gli altri tre attributi sono mutuati dalla tradizione orfica e sono messi in relazione con gli attributi cristiani di Dio. La separazione iniziale dei sei attributi in coppie di tre e poi il collegamento della seconda triade con la prima, grazie a un Inno orfico, testimoniano la costante preoccupazione di Ficino di unire la tradizione pagana con quella cristiana. Dio crea tutte le cose (esprime dunque la sua bontà) per rapirle a sé in virtù della sua bellezza e avendole attratte non solo provoca diletto (la gioia duratura leibniziana, ossia la felicità) ma dà loro perfezione, ossia dà loro le forme che si meritano distribuendo perfezione secondo giustizia. Se questa è, in sintesi, l’analisi del primo tema, il secondo – quello legato agli attributi di principio, mezzo e fine – non esprime altro che la modalità pagana di concepire la bellezza e la giustizia divine. Questo in fondo cantò Orfeo – scrive Ficino – quando disse che Giove è principio, mezzo e fine dell’universo. Perciò l’essere principio di Giove diviene l’essere principio di bontà nel Dio cristiano, l’essere mezzo di Giove è espresso dalla bellezza nel Dio cristiano e l’essere fine è dato dalla giustizia, ossia dalla capacità divina di assegnare perfezione a tutte le cose secondo misura e proporzione. La bellezza è mezzo perché una volta che Dio produce per e con bontà tutte le cose le attrae a se stesso per conferire loro perfezione. La bellezza è dunque lo strumento attrattivo che Dio rivolge al mondo per esercitare giustizia. Cfr. Ficino (1987, 15-25). Come non rinvenire nella triangolazione armonica di Bontà, Bellezza e Giustizia una fonte importante delle riflessioni leibniziane sull’armonia, sulla bontà e sulla giustizia divine che avranno un ruolo anche nell’elaborazione del concetto di amicizia?
[4]  Mi sembra opportuno specificare il modo in cui Ficino elabora la descrizione di Pausania dei due Amori e delle due dèee. I Platonici – dice Ficino – chiamano la mente angelica con più nomi: Saturno, Giove, Venere e similmente chiamiamo l’anima del mondo Saturno, Giove e Venere. Ma mentre nella mente angelica si allude alla Venere figlia immateriale del Cielo, cioè alla Venere nata da cielo e priva di madre, ossia di materia fisica, per l’anima del mondo si tratta di un’altra Venere. Essa, pur volgare, generata da Giove e Dione, ha in sè la potenza generatrice delle cose inferiori. Questa Venere ha madre, non è orfana poiché essendo infusa nella materia del mondo sembra che ad essa si accompagni.  Venere è dunque di due ragioni una è quella intelligibile posta nella mente angelica l’altra e la Venere chiamata da Pausania volgare, la Venere carnale che è la potenza generatrice dell’anima del mondo. La seconda Venere così disprezzata da Pausania assume nelle riflessioni del Ficino  un’importante funzione mediatrice fra spiritualità e materialità, fra bellezza intelligibile e materia, essa appartiene alle potenze generatrici che infondono nel corpo del cosmo e nel corpo umano bellezza e grazia divine, per questo l’amore anche della Venere volgare è amore onesto come quello contemplativo perché entrambi seguitano l’immagine divina, seguitano nel duplice senso che la seguono, la prendono come arché e la proseguono nel mondo; (cfr. Ficino 1987, 37 e ss.)
[5] L’assenza di azione (la passività assoluta) corrisponde fin dagli scritti giovanili di Leibniz al non essere. Nel De vera methodo Philosophiae et Theologiae (1978, 326-327), Leibniz lega la nozione di corpo a quella di sostanza estesa attiva e la mancanza di azione al suo non essere. «Che cosa aggiungeremmo all’estensione per completare il concetto di corpo? Nulla che non sia testimoniato dal senso. E il senso rivela tre cose: che noi sentiamo, che i corpi sono sentiti e che ciò ch’è sentito è vario e composito, ossia esteso. Dunque al concetto di estensione o varietà va aggiunta l’azione. Il corpo quindi è un agente esteso: si potrebbe dire che sia una sostanza estesa soltanto se si ritenga che ogni sostanza agisca e si chiami sostanza ogni agente. Si può del resto mostrare adeguatamente dai princìpi intimi della metafisica che ciò che non agisce non esiste, poiché è nulla la potenza dell’agire senza alcun inizio dell’atto».
[6] Sull’interpretazione della «morte senza mutamento in cadavere», della condizione di bestie, deprivate della vita della mente, come una condizione asociale, isolata e solitaria dell’uomo, frutto dello sgretolarsi della società civile si veda Godani (2016).
[7] Per far emergere la distanza del concetto di armonia dall’omogeneo astratto e indifferenziato, mi sembra opportuno far vedere come l’armonia intrattenga un rapporto saldo e imprescindibile con le nozioni di varietà e dissonanza. Così, infatti, si esprime Leibniz nelle Frühe Schriften zum Naturrecht (2003b, 316-317; trad. it. 1951, 104-105): «Armonia è la diversità equilibrata dall’identità (Harmonia est diversitas identitate compensata). Armonico cioè è l’uniformemente dissimile. Piace la varietà ma ridotta in unità, ben disposta e collegata. L’omogeneità pure piace quando sia sempre nuova, sorprendente e inaspettata e, pertanto, o suggestiva o ingegnosa; essa è gradevole soprattutto fra cose diversissime, in cui nessuno sospetterebbe una connessione. Per questo sono vane le proposizioni identiche, in quanto ovvie e troppo omogenee. […] I dipinti con le ombre, e i canti con le dissonanze armonicamente composte, è noto che acquistino rilievo. […] In favore di Dio parla l’armonia del mondo, in favore del caso la confusione degli affari umani. Ma a chi guardi più nel profondo una confusione di sei volte mill’anni (per quanto neppur essa manchi di una sua armonia) paragonata con l’eternità, appare come una semplice nota dissonante che, compensata da altre dissonanze e restituita nell’armonia dell’intero, non fa che accrescere l’ammirazione per il Reggitore che, con la sua mente, abbraccia infinite cose».
[8] É significativo che la traduzione tedesca del testo originale latino leibniziano: «seu pernoscens universalis» sia: «den Grundzusammenhang der Dinge gründlich kennen».
[9] Così Leibniz: «Ora, anche il pensiero è, in qualche modo realtà; e lo è tanto maggiormente quanto più la cosa viene in certo modo moltiplicata dal fatto di pensarla: infatti, le singole menti contengono ognuna una certa rappresentazione dell’intero mondo. Perciò è più perfetto quel modo di pensare attraverso il quale si ha che un solo atto di pensiero si estende a più oggetti insieme: così […] vi è maggiore realtà in quel pensiero. Ciò d’altronde avviene grazie alle Relazioni: la relazione è, infatti, una specie di unità nel molteplice. E le forme di relazioni sono i nessi (nexus) e i rapporti delle cose fra loro, le proporzioni, le proporzionalità. Da tutte queste relazioni considerate insieme in un dato oggetto, risulta l’armonia. Pertanto quante più relazioni (il cui aggregato è l’armonia) vi è nell’oggetto pensabile tanta più realtà o, che è lo stesso, tanta più perfezione vi è nel pensiero di esso; da ciò segue che l’Armonia è la perfezione dei pensabili, considerati beninteso, in quanto pensabili» (Leibniz 1948, 14-15; 2003a, 99, corsivo mio).
[10] Questa è la citazione dal De corpore di Hobbes: «Scientia propter potentiam, theorema propter problemata». (Leibniz 2003b, 317; trad. it. 1951, 104).
[11] Che l’amore sia piacere della mente per la felicità dell’altro e che tale piacere sia connesso all’idea di perfezione è testimoniato dalla stessa necessità di Leibniz di difendersi dalle accuse di blasfemia, recepite nella Prefazione al Codice diplomatico di Diritto delle Genti (1693) § XI, in cui si trova un rimando a un’ulteriore considerazione interna alla Prefazione alla seconda parte del Codice diplomatico di Diritto delle Genti. In essa Leibniz si difende dalla critica di aver posto la felicità più nelle mani dell’uomo, ossia nel concetto di piacere, che in quelle di Dio. La sua difesa è volta a rilevare come, proprio per la natura delle cose, la dimensione volitivo-sentimentale dell’uomo – dunque anche il piacere – sia fondata sul concetto di perfezione il cui modello è Dio. Rinunciare all’agire, al volere e al piacere che può derivare dalla perfezione, significa mettere in atto una cattiva abnegazione di sé e una sospensione dell’agire che solo i mistici difendono per unirsi a Dio, abbandonandosi a Lui. Non bisogna incorrere nel grave errore mistico di credere che la perfezione coincida con l’assenza di azione, con quella quiete che altrove Leibniz considera lo spegnimento di ogni dignità morale della persona. «Giustamente si rimprovera un argos logos, un ragionamento pigro a quelle dottrine che pongono la perfezione nella quiete, ossia nella cessazione dell’agire, che è cosa ben diversa dalla vera tranquillità e carità» (Leibnitii 1768, 313).
[12] Il termine piacere in questo passaggio riprende la polemica contro gli stoici (vaporosi abitator di nubi, meterologous), nei cui confronti Leibniz ha un’avversione nella misura in cui essi negano la dimensione del piacere nell’esercizio della virtù.
[13] «La piacevolezza si duplica poi con la riflessione, ogni volta che noi contempliamo la nostra stessa bellezza, ciò che ha luogo nella tacita coscienza del proprio valore. Ma, al modo stesso che nella visione può intervenire due volte una rifrazione, una volta nella lente dell’occhio e una volta in quella del cannocchiale – la seconda delle quali ingrandisce la prima – così pure duplice è la riflessione nel pensiero: avendo infatti ogni mente una sorta di specchio, vi sarà una riflessione nella mente nostra ed un’altra in quella altrui. E quanto più numerosi saranno gli specchi, cioè le menti che conoscono e approvano il nostro bene, tanto maggiore sarà la luce: non soltanto per la riflessione di luce nell’occhio da parte degli specchi, ma anche per l’accrescimento di luminosità. Lo stesso accade nella mente con la bruttezza, sebbene, per ciò che riguarda l’analogia, non vi sia riflessione di specchi capace di aumentare le tenebre» (Leibniz 2003b, 238-239; trad. it. 1951, 95-94).
[14] La lontananza di Leibniz da una visione competitiva e conflittuale della vita sociale e civile lascia le sue tracce anche nel pensiero politico liberale contemporaneo che va dal socialismo logico di Ch. S. Peirce fino al pragmatismo linguistico trascendentale di Karl Otto Apel. Nella sua concezione dell’Apriori della comunicazione, Apel riprende argomenti legati alle concezioni leibniziane relative all’intrinseca relazionalità dell’amicizia e dell’amore, da intendere come declinazione politica del concetto di armonia. La prima caratteristica dell’Apriori della comunicazione è estendere l’istanza universalistica non solo alle pretese di verità degli scienziati, bensì anche alle pretese virtuali dell’umanità, ossia a tutti i potenziali bisogni di tutti gli esseri umani. Parlare di potenziali bisogni di tutti gli esseri umani implica riflettere anche sull’accordo fra le innumerevoli istanze soggettive ed è in questo contesto che l’Apriori della comunicazione rimanda al principio pragmatista del self-surrender (auto-arresa o auto-limitazione). Il concetto di self-surrender ha il compito di limitare l’imporsi soggettivo-egoistico degli interessi a vantaggio della «transog­gettività della [loro] rappresentanza argomentativa». Si veda Apel (1973; trad. it. parziale 1997). Apel si ispira qui al socialismo logico di Ch. S. Peirce, ma in definitiva attinge ai presupposti leibniziani del liberalismo moderno, ossia a quel nodo problematico del rapporto fra utile e amore disinteressato affrontato da Leibniz nei suoi scritti di diritto naturale e in particolare nella differenziazione fra diritto privato e diritto civile pubblico. Per la critica di Peirce alle degenerazioni del liberalismo e all’esaltazione degli interessi particolari si veda Peirce (1932; trad. it. 1923).
[15] L’idea che il diritto universale di natura costituisca il volano etico del diritto civile sembra ripresentarsi nella distinzione di Ernst Bloch fra diritto naturale destinato a designare la dignità morale dell’uomo e l’utopia sociale volta a riscattare l’uomo dall’iniquità, dalla sofferenza e dall’umiliazione. Cfr. Bloch (1983, 234 e ss).
 
 
 

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