Cercando un altro Feldenkreis tra Cabbalàh e Psicoanalisi

ETZ_HA_HAYYM_COLOREEugenio Bongioanni

 

 

Alla memoria di

 Yoel De Malach il Nabateo

Profeta del Negev

Havèr veTzaddik

צדיק  ו הבר

 

 

Cercando un altro Feldenkrais

 tra Cabbalà e Psicoanalisi Bioniana *

Chiunque è entrato in contatto con il Metodo Feldenkrais ha ricevuto un dono inestimabile.

Ha cominciato ad apprendere il linguaggio del movimento, la lingua in cui l’Universo è stato creato e in cui tutte le creature viventi hanno appreso a condurre la propria esistenza, poiché ogni forma di conoscenza passa attraverso il movimento.

Per ogni persona imparare a vedersi e a relazionarsi a sé e al proprio corpo nella lingua del movimento codificata da Moshè Feldenkrais (1904-1984) significa ripercorrere i propri stadi evolutivi e andare così alle radici della propria individualità, della particolarità che la rende irripetibile; significa rivedere le proprie motivazioni e scoprire se esse sono incrociate, contraddittorie – e qui si apre l’immenso e inesplorato continente delle relazioni tra il Metodo e l’Inconscio, tra il Metodo e la metapsicologia, tra il Metodo e le psicoterapie. Significa imparare a sentire cosa si può chiedere a se stessi e cosa non si può, pena il dolore e l’infelicità.

 

Moshè Feldenkrais ha tagliato un po’ troppo sbrigativamente con la spada delle Arti Marziali il nodo gordiano di quelle complesse e delicate relazioni, dando così inizio a una scuola che mentre da un lato pretende di rifondare la psicologia e la metapsicologia sul corpo, dall’altro insegna ai suoi praticanti di non esitare ad inviare i propri pazienti a psicologi, psicoanalisti e psichiatri nel caso in cui il Metodo si riveli inadeguato.

 

Una situazione paradossale e imbarazzante, date le pretese trionfalistiche degli inizi; da cui il prezioso libro di David Kaetz ci aiuta ad uscire, verso un paradigma – ma qui lui si ferma e inizio io – in cui la Psicoanalisi e il Metodo lavorino insieme, contemporaneamente.

 

Esso è precisamente la Weltanschauung della Cabbalà, il non detto di Feldenkrais e al tempo stesso il quadro di riferimento di quella che mi piace chiamare la Psicoanalisi dell’Infinito di Wilfred Ruprecht Bion, in cui mi sono formato nei Settanta del Novecento.

 

Muovendomi in questo senso, nella breve introduzione a Kaetz istituirò collegamenti e avanzerò tesi che non sempre argomenterò in modo esauriente, come invece mi propongo di fare in un libro successivo. Me ne scuso anticipatamente.

 

 Una ginnastica…Cerebrale

 

Le sequenze di movimenti messe punto da Moshè Feldenkrais – circa un migliaio, ma in realtà infinite in quanto infinitamente mescolabili e reinventabili, dette di Consapevolezza Attraverso Il Movimento® – C.A.M®, CAM – si  presentano oggettivamente come una ginnastica. Ma esse non sono finalizzate all’esperienza muscolare e al suo sviluppo – che accade come fenomeno secondario – bensì all’ascolto della qualità del movimento e del partecipare e risuonare delle articolazioni e delle membra – anche quelle apparentemente più distanti e “assenti” dal focus dell’azione. La crescente capacità di cogliere le differenze anche minime tra una modalità ed un’altra, la loro economicità, facilità, armonia, reversibilità piuttosto che sforzo, difficoltà, disequilibrio, non reversibilità, segnano il progredire della persona nell’apprendimento della nuova lingua.

 

“Le lezioni di Consapevolezza Attraverso Il Movimento® non hanno come fine quello di perfezionare il movimento, ma di facilitare la consapevolezza dell’intero sistema – azione, sentimento, pensiero e sensazione – e quindi di aprire la strada a un miglioramento”. (Kaetz, p. 101).

 

Le C.A.M®. sono insegnate verbalmente in gruppo – senza essere mostrate – da Insegnanti Feldenkrais® (Feldenkrais Practitioners®) che hanno seguito un training che ha valore internazionale e che dura 4 anni (vedi infra).

 

Gli stessi sono autorizzati a praticare l’Integrazione Funzionale.

 

Essa viene preceduta da un’intervista che accerta i motivi del disagio della persona che la richiede secondo il decalogo affisso sulla porta dello studio di M.F. in rehov (via) Nachmani, 49, Tel Aviv. (Kaetz, p. 147).

 

I dieci comandamenti di Moshe Feldenkrais

Il seguente documento fu affisso sulla porta dello studio di Moshe Feldenkrais al n° 49 di rehov (via) Nachmani a Tel Aviv – quartiere di Jaffa – quando Moshe partì per la prima volta per gli U.S.A. per iniziarvi un training, il 15 agosto 1971. Era rivolto agli insegnanti che lo avrebbero sostituito per occuparsi delle sue classi.

 

La seguente è la traduzione del testo originale dalla trascrizione ebraica del trainer Eli Wadler e della sua successiva traduzione in Tedesco.

 

  1. Nel primo incontro con una persona, non toccatela prima che abbia risposto alla vostra domanda fondamentale su cosa lo tormenta al momento,
  2. Prima di conoscere la fonte delle sue (spiacevoli) sensazioni, e
  3. In quali condizioni sia il suo cuore e se ha avuto malattie serie. Ha mai subìto un’operazione?
  4. Non mettetevi in mostra, limitatevi ad organizzare la persona.
  5. NON FATE CONVERSAZIONE DURANTE IL LAVORO, LIMITATEVI A RISPONDERE ALLE DOMANDE.
  6. Meglio fare meno piuttosto che fare troppo.
  7. Non discutete, non cercate di convincere, limitatevi a chiarire.
  8. Non rispondete immediatamente, ma solo dopo un po’.
  9. Ricapitolate sempre la lezione con una specie di riorganizzazione generale.
  10.  Un atteggiamento sereno, tranquillo, e un approccio pratico e  non personale farà la vostra fortuna e la salute di chi si rivolge a voi.

 

Che abbiate successo nel vostro lavoro, cosicché io possa avere successo nel mio.

Moshe, servo di Dio e fedele servo vostro.1

 

1 “Servo fedele” è una tradizionale espressione rabbinica per designare Mosè. (Per i lettori assolutamente privi di cultura biblica, Mosè è colui che ricevette gli originali dieci comandamenti dall’alto e li portò giù dalla montagna alle tribù ebraiche  che lo aspettavano di sotto. Moshe è la forma ebraica di Mosè.)

 

15.8.71, M. Feldenkrais

 

Si tratta dei medesimi movimenti delle C.A.M.®, che vengono qui diversamente indotti con una manipolazione leggera dall’insegnante sulla persona, in un setting individuale dove i due soggetti sono uniti dal tocco, dal respiro e dal movimento; dove ciascuno è lo specchio dell’altro e dove i due inconsci possono risuonare insieme.

L’effetto è più potente e più immediato, perché la presenza dell’Insegnante-specchio permette alla persona di riconoscere più rapidamente che cosa blocca un movimento o una postura a uno stadio compulsivo e di individuare le possibili scelte alternative.

 

E’ la modalità più indicata per problemi acuti; ma non necessariamente. C’è chi – io, per esempio – sostiene che una o più integrazioni funzionali sono indispensabili per introdurre un neofita al nuovo linguaggio.

Descritta la sua operatività, potremmo provvisoriamente definire il Metodo Feldenkrais come un’ermeneutica che a partire dai movimenti del corpo è in grado di risolvere un’immensa casistica di problemi articolari e posturali, di riabilitare in breve tempo reduci da ictus, andando alle radici dei malfunzionamenti e addirittura ricostruendo la catena di comando che viene e va al cervello, facendo ripercorrere ai soggetti gli stadi evolutivi perturbati da patologie traumatiche, neurologiche, stress e ingiunzioni repressive etico sociali.

 

Oltre a ciò, una particolare caratteristica del Metodo è di permettere agli artisti e agli sportivi di qualsiasi genere di affrontare e superare problemi legati alla necessità di performance.

 

Una pratica costante del Metodo è in grado di modificare e riplasmare (Neuroplasticità, scoperta da 30 anni ma divinata prima da Moshè Feldenkrais) la mente e l’immagine di sé, come è dimostrato sia dall’esperienza sia dalle più recenti tecniche di fMRI (functional magnetic resonance imaging). Esse hanno permesso di riscontrare un notevole aumento di volume delle cortecce cerebrali prefrontali – aumento del numero di sinapsi; fenomeno identico a quello che si riscontra nelle persone in terapia psicoanalitica. (vedi Daniel Stern, The Mindful Brain, W.W. Norton and Company, NewYork, 2007, pag. 36 e sgg. )

 

 

Vixēre fortes ante Agamemnona multi

 

Il libro che presentiamo è il primo che, dopo 50 anni di pratica planetaria e di successi del Metodo Feldenkrais, restituisce finalmente alle sue radici storiche e culturali la figura di Moshè Feldenkrais – 1904-1984 – il suo geniale inventore.

 

E’ importante metterlo a disposizione del pubblico colto, di medici, osteopati, psicologi, psicoanalisti e psichiatri, di chiunque, al di là delle scuole e delle vie, cerca di arrivare a se stesso.

Infine, last but maybe first, agli insegnanti del Metodo Feldenkrais, la cui formazione è orba della cultura ebraica del Hassidismo, ovvero di quella concezione del mondo, di quella cosmogonia e di quel metodo in cui si è formato l’adolescente Moshè Feldenkrais a Slavuta e poi a Baranovitz, oggi Ucraina, ma allora parte del Mondo Perduto di Ashkenaz, per gli Ebrei europei l’Insediamento orientale (Polonia, Lituania, Moldova, Ucraina, Bielorussia) iniziato a partire dal 1348 grazie al  liberalismo del re polacco Kasymir III e formalizzato nel 1791 da Caterina la Grande di Russia; poi, lungo tre secoli, lentamente smembrato, massacrato e cancellato definitivamente dall’invasione Nazista e dall’Olocausto.

 

Poiché quella cultura costituisce a tutt’oggi un modo di rapportarsi al mondo, alla realtà, alle persone e alla conoscenza, riteniamo indispensabile quanto e forse più ancora di Kaetz che chiunque si accinge a formarsi nel Metodo Feldenkrais ne prenda atto.

 

I lettori, gli studenti, i colleghi psicoanalisti e i colleghi Feldenkrais – quelli che non lo sanno già – scopriranno con stupore e con sollievo come in quel mondo perduto i germogli – la profezia, le preconceptions (Bion) – delle due ermeneutiche, delle due pratiche di liberazione e salvezza, Psicoanalisi e Metodo Feldenkrais – vivessero e operassero uniti nella pratica; danzando con le concezioni del mondo che avrebbero prodotto l’Aufklärung – Illuminismo – e la Haskalah – la sua ricezione ebraica – la filosofia di Kant e di Hegel e la loro dialettica, destinata ad infuturarsi in Marx e a ritrovare quell’unità di soggetto e oggetto nell’Apocalissi visionaria del Lukàcs di Storia e Coscienza di ClasseGeschichte und Klassenbewustsein, 1922 – (tr. it. Storia e Coscienza di Classe, Sugar, Milano, 1967); (Cfr. L. Goldmann, Introduction à la Philosophie de Kant, Gallimard, Paris, 1967; Lukàcs et Heidegger, Editions Denoel, Paris, 1973) .

L’ultima vampata di messianismo ebraico rivoluzionario del Novecento europeo in un ritorno be-reshit בראשית, all’Inizio; ma un inizio che presuppone la fine della Storia in quanto il suo oggetto, la forza lavoro, negando la sua cosalizzazione capitalistica ne diviene attraverso la Rivoluzione comunista anche il soggetto. Verrebbe da dire anche “negando il proprio corpo come produttore di plusvalore pensato e deciso altrove, affermandosi invece come corpomente in unità (Yichud) rimesso sui piedi (Sefiràh di Malkhut, il Regno) attraverso l’abolizione della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Un corpomente aufgehoben – ovvero integrato in una dimensione teorico pratica superiore – che fa pensare al corpo di luce della tradizione Tantrica, per realizzare un’umanità più alta, un Homo politicus atque analiticus che non era mai esistito prima. Un Übermensch (adombrato da Freud, 1937; Analisi terminabile e analisi interminabile, p. 34, Boringhieri, Torino, 1977; James Grotstein, A Beam of Intense Darkness, Karnak, London and New York, 2007, pp. 2,3,38,53; e, più interessante ai nostri fini di Nietsche (1883), sul simbolismo dell’Uomo-Dio e del lungo viaggio attraverso se stessi vedi Joseph Campbell, The Hero with a Thousand Faces, Fontana Press, 1993). Un Übermensch  capace di ragione ed emozione, di quella Spinoziana “respirazione del contingente nell’eterno [che] è l’apice della grandezza e della bellezza a cui mai si sia potuto e si potrà elevare mente di filosofo o di poeta” (E. Troilo); in un mondo nuovo, che è la Alt Neuland di Theodor Herzl – e di Moshè Feldenkrais. Sarà l’utopia realizzata dai kibuzim d’Israele. Poi il messia nato sulle rive del Danubio rientra nel Leviatano sovietico. Fa pensare a un San Paolo risparmiato dall’Impero perché continui a servirlo – questa volta non per casuali percorsi paralleli; a un Galileo che ha ritrattato le visioni della giovinezza ben sapendo però che la canzone che ha cantato allora risuonerà per sempre nell’Universo.

 

Ma intanto die List der Vernunft, la hegeliana astuzia della ragione, con un’improvvisa ma non imprevista mossa del cavallo si è spostata in Asia, nella Vecchia Terra Nuova di Israele, dove nascono i kibuzim, quasi un eco, al di là del Mare tra le Terre, della Repubblica Ungherese dei Consigli di Bela Kuhn che avevano visto György Lukàcs commissario politico; e dei Consigli operai di Torino, di Berlino e di mille altre città europee all’inizio degli Anni Venti.

 

Nel 1928 il kibuz di Givat Brenner è ancora in gran parte da costruire e gli halutzìm, i pionieri, vivono nelle tende, tra le dune del deserto. In quella Patmos, uno tzaddik nostrano, Enzo Sereni, ha la visione di un’altra apocalissi possibile, e la scrive su fogli a volte rubati dalle piene di un wadi.

 

Vede, gramscianamente, una rivoluzione dei braccianti arabi senza terra contro i grandi proprietari terrieri e i colonialisti dall’Egitto all’Iran all’India, egemonizzati dall’utopia collettivista dei kibuzìm ebraici dello Yishuv.

Sa da sempre che il problema di Israele sarà l’isolamento.

 

Albero della vita e Sefiròt:

 

                       

 

Risuonano entrambi cabbalisticamente questi due profeti ebrei, rivelano come potrà essere il mondo quando le scintille divine saranno tutte redente dalle scorze (kelippot): la Storia sarà finita e tutto l’universo sarà Luce – Luce infinita ma non indifferenziata: paradiso dantesco in dieci Sfere-Sefiròt dove ogni entità ha ritrovato il suo stato perfetto, la sua differenza, la sua Stimmung nelle combinazioni senza numero dei colori (Cfr. infra, p. 26). “Quando ogni parte è” (…) nella circostanza ottimale per espletare la sua funzione” (Zohar 1:135)” (Kaetz. Pag. 97). Gioia infinita goduta da ogni suo essere, quantum, particella, onda, stringa. E poi? Nessun profeta è in grado di vedere oltre.

 

 

(Aperta parentesi

 

Prima di continuare non sarà inutile notare come Dante Alighieri sia stato uno dei sommi cultori cristiani di Cabbalà – ne esistono tuttora parecchi, come Annick De Souzenelle, Il simbolismo del corpo umano, Servitium, Milano, 1999. Quest’ultimo è un contributo importante che illumina anche sull’analogia tra la Cabbalà e le altre culture tradizionali del pianeta, in una prospettiva junghiana.

 

Quel sapere costituisce “uno dei più stupefacenti e complessi mezzi di indagine mai concepiti da mente umana (Corsivo mio)”. (Yarona Pinhas, Onda sigillata, p. 90, Giuntina, Firenze, 2008).

 

Questo per chiarire che la Cabbalà è patrimonio dell’umanità quanto la doppia elica del DNA, l’energia solare e la banda larga gratuite per tutti, Don Giovanni di Mozart e Il Titano di Mahler, “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, le canzoni di Bob Dylan, dei Beatles, e di Jimi Hendrix, e molte altre cose. E quelli che pensano che sia un complotto sionista…Beh, quelli hanno un problema…. Non sono ancora diventati pienamente umani.

Chiusa parentesi)

La Toràh aveva ipostatizzato quell’unità di Creatore e creatura come condizione dell’esistenza del mondo in quanto processo, del suo Da-sein:

 

“Quella mistica parte dalla domanda fondamentale della Cabbalà teurgica di Itzhak Luria (1534-1572): “Com’è possibile il mondo? La risposta è: Dio contrasse se stesso (tzimtzum) per il mondo perché voleva un’unità priva di dualità e di assenza di relazione, voleva permettere alla relazione di emergere (corsivo mio: è il paradigma della psicoanalisi! E’ Nagarjuna che illumina ed è illuminato dall’identificazione proiettiva, è la coppia introiettata delle tantriche deities in embrace); perché voleva essere conosciuto, amato e voluto (…) Così s’irradiarono da lui le sfere…” (Martin Buber, Il messaggio del Hassidismo, Giuntina, 2012, pp.104-105).

 

Ovvero i Quattro mondi – Emanazione, Creazione, Formazione, Azione – e l’Albero della Vita della Creazione continua del mondo e degli umani attraverso le dieci Sefiròt. (cfr. Kaetz, Cap 3).

Dunque la cosmogonia Ebraica dell’Iniziobe-reshit בראשית  (Genesi) – non solo attraverso l’omonimo primo libro della Torah scritta, ma anche e soprattutto attraverso quella Torah orale che origina dal Talmud – che ne è il ramo maschile; e dalla Cabbalà estatica o teurgica, che origina dallo Zohar e dal Sefer Yetziràh, che è il ramo femminile.

 

Per facilitare l’approfondimento al lettore italiano, mi permetto qui di riferirmi a testi di Martin Buber, Adin Steinsalz e Yarona Pinhas che sono diffusi nel nostro Paese, omologhi ai riferimenti americani e israeliani di Kaetz, intradotti e per giunta introvabili.

 

Il movimento Hassidico, cui è dedicata la maggior parte del libro, nasce in Ucraina intorno al 1730.

 

Martin Buber lo definisce dicendo che “Il Hassidismo è Cabbalà divenuta ethos”… “poiché l’anima mistica non può divenire reale se non attraverso la morale” (ivi, p.166).

 

L’impulso fondamentale fu “la ribellione della massa “ignorante”, trattata sovente con disprezzo dalla tradizione religiosa, contro quella scala di valori in cui lo studioso, l’uomo che si applica con zelo allo studio della Toràh, occupava il grado più alto. La reale aspirazione del movimento è in realtà una svolta di valori, una nuova gerarchia, dove il posto più elevato è occupato non tanto dall’uomo che “conosce” la Toràh, quanto da colui che vive in essa e la realizza nella semplice unità della sua vita.”. (Ivi, p. 77).

 

“Qui è l’uomo, quest’uomo miserabile, ad essere, secondo il senso originario della creazione, l’aiutante di Dio. Il mondo è stato creato per lui, per “colui che sceglie”, per colui che può scegliere Dio”. (ivi, p.107).

Dio vuole avere bisogno dell’uomo per l’opera del compimento della sua creazione; e bene lo capisce il Ba’al Shem Tov, spesso abbreviato in BeShT – “il signore del nome buono” ovvero il Tetragramma Impronunciabile al secolo Israel Ben Eliezer, Ucraina, 1700-1760, che è fondatore e centro di un movimento di massa che mette al primo posto la testimonianza e l’unità (Yichud) con Dio nel mondo dell’azione, nella vita comunitaria di tutti i giorni, nella festa, nella preghiera, nella musica, nella poesia, nel ballo.

 

E’ molto importante notare che il Ba’al Shem Tov è stato non solo un saggio illuminato ma un grande guaritore, come tutte le altre principali figure del Movimento, grazie alla loro capacità di vedere e influenzare tutti e quattro i mondi – vedi supra, pag. prec.:

 

BeShT: “Il valore principale di una mitzvah (precetto religioso, buona intenzione) è di realizzarla con piacere”. (L.I. Newmann, Hasidic Anthology, p. 203).

 

Feldenkrais: “Nessuno è in grado di imparare quando viene messo sotto pressione e stressato”. (M.F. articolo www.feldenkrais.wien).

 

 

Pinhas di Koretz: “Ciò che cerchi con ansia non lo otterrai. Ma ciò che lasci crescere lentamente, secondo i suoi modi, ti arriva”. (M. Buber, Tales of the Hasidim, Schocken Books, N.Y., 1947. p. 129).

 

 

Come non manca di farci notare Kaetz, il terreno per rimettere sui piedi della responsabilità individuale duemila anni di messianismo ebraico era stato appena arato dalle catastrofi dei due falsi messia Shapiro, Shapiro, Shapiro, Shapiro, Shapiro, e Jacob Frank: finiti il primo convertito all’Islam, il secondo al Cristianesimo. Lo sfondo è reso ancora più drammatico dalla contemporanea espulsione di Baruch Spinoza dalla Comunità di Amsterdamm, a causa della sua messa in discussione storica della fede ebraica in Dio:

 

”E’ altamente significativo che solo un ebreo avrebbe potuto insegnare agli uomini come agire al di fuori dell’Ebraismo e fu proprio un ebreo a farlo. Spinoza aiutò lo spirito dell’intellettuale all’interno dei popoli a liberarsi di quell’intruso“ (M.Buber, Il Messaggio, cit., p.31).

 

Dopo il Ba’al Shem Tov, – Rabbi Pinhas ben Abraham Shapiro di Koretz (1738-1791) è la seconda figura di maestro, di guaritore, di saggio e giusto, tzaddik, del Hassidismo.  E’ di una generazione più giovane ed è il trisavolo da cui Moshè Pinhas Feldenkrais ha ricevuto il secondo nome.

 

Chi pratica il Metodo Feldenkrais non può non riconoscersi delle parole di Pinhas:

 

“Quando un uomo si impegna nel mondo dell’azione, ed è attento a ogni cosa, se camminare o no, come stare seduti o come ruotare il volto, egli sta unificando il nome divino corrispondente al mondo dell’azione. E quando è attento ad ogni espressione, se parlare o tacere, egli sta unificando il nome divino corrispondente al mondo della formazione. E quando osserva i suoi pensieri, l’unificazione del nome divino corrispondente al mondo della creazione è compiuta. E così arriviamo all’unificazione della coppia sacra, il maschile e il femminile, come rappresentata dall’unione delle Sefiròt di Malchùt e Yésod.” (Kaetz, p.101; cfr. supra,  pag. 9: la coppia tantrica).

 

La ricerca puntigliosa di David Kaetz ci mette di fronte a decine e decine di espressioni di Pinhas che sembrano uscite dalla bocca di Moshè Feldenkrais; e viceversa. E vengono confermate da altri studiosi di Cabbalà:

 

Feldenkrais: “(…) sono capace, ho imparato e ho messo a punto un metodo, che mi permette di tradurre idee astratte in atti semplici, concreti, che ogni essere umano può fare, sentire, e comprendere che egli non è solo un corpo, ma anche un cervello…perché senza un cervello, il corpo non servirebbe a niente.” (Moshè F., registrazione effettuata al workshop di Dallas, 1981).

 

“La relazione tra la Toràh e il mondo è quindi il rapporto tra l’idea e la sua realizzazione, tra l’intuizione e la sua esecuzione.” (A. Steinsaltz, La Rosa dai Tredici Petali, Giuntina, Firenze, 2000, p.76).

 

“Quando un uomo fa questo e quel movimento con la mano, così viene fatto in tutti i mondi, e quando fa un altro movimento con la mano così viene fatto in tutti i mondi.

…Se potessimo davvero vedere in profondità all’interno di un uomo, vedremmo che da ogni vena e da ogni fibra dipendono infiniti mondi.” (Pinhas, I:10)

 

Pinhas: “Un uomo non può avere la piena coscienza del bene finché non conosce il male. Nessuno può apprezzare il piacere finché non ha provato l’amarezza”. (Pinhas in L.I.  Newmann, Hasidic Ant.97:6.)

 

Feldenkrais: “Vedrete che finché non avrete imparato il suo opposto, non riuscirete a fare il movimento normale ”M.F.,  A.Yanai Lesson # 18, Vol. IA.

 

Io dico che c’è posto anche per Philippe Sollers:

 

“E’ perché è stato nel Paradiso che Dante ha potuto scrivere l’Inferno; ma è perché ha potuto scrivere l’Inferno che gli si è rivelato il Paradiso” (L’Ecriture et l’experience des limites, pp. 46-47, Seuil, Paris, 1970).

 

E per i Tipi Psicologici di Jung, per il suo gnosticismo in cui

 

“ciascun tipo ben definito ha in sé una tendenza particolare a compensare il carattere unilaterale del tipo cui appartiene” già presente “nell’intuizione di Goethe, la forma generale del principio della sistole e della diastole” (Ivi, pp. 15-16, Newton Compton).

 

Senza dimenticare la lucida sintesi di ogni iniziazione simbolica operata da Joseph Campbell; valida anche per il viaggio senza fine dell’uomo attraverso l’Albero della Vita da Keter a Malkhut e da Malkhut a Keter:

 

“L’eroe (…) scopre e assimila il suo opposto (che non sospetta faccia parte del suo ) inglobandolo o venendone inglobato. Una ad una le resistenze si spezzano. L’eroe deve abbandonare il suo orgoglio, la sua virtù, la sua bellezza e la sua stessa vita e inchinarsi o sottomettersi all’assolutamente intollerabile. Allora si accorge che lui e il suo opposto non appartengono a due specie differenti, ma sono la stessa persona – the same flesh.”. (Joseph Campbell, The Hero with a Thousand Faces, p. 108, Fontana Press, 1993).

 

 

E’ però nelle parole di Steinsaltz che possiamo intuire la connessione profonda del Metodo Feldenkrais con i livelli più esoterici della Cabbalà;

 

“Tutti gli organi dell’uomo corrispondono alle essenze più elevate degli altri mondi. La struttura generale del corpo umano è omologa alle dieci Sefiròt, poiché ogni parte di esso è corrispondente a una particolare  Sefiràh”. (A. Steinsaltz, op. cit, p. 98).

 

“Ogni Sefiràh ha un numero e un nome. Le Sefiròt sono collegate tra loro da ventidue sentieri, uno per ogni lettera dell’alfabeto ebraico. L’insieme delle dieci Sefirot e dei 22 segni forma uno dei più stupefacenti e complessi mezzi di indagine mai concepiti da mente umana (Corsivo mio)”. (Yarona Pinhas, Onda sigillata, p. 90, Giuntina, Firenze, 2008).

 

“La relazione fra la mano destra e la sinistra per esempio è una questione di enorme importanza, che deriva dalla differenza tra le Sefirot di Chésed – Amore e Misericordia – e Ghevuràh – Forza e Giustizia; (A. Steinsaltz, op. cit, p. 98; cfr. infra, p. 26).

 

“Il segreto delle mitzvot positive, i comandamenti di eseguire certe azioni, sta, per così dire, nel mettere in attività le membra del corpo, in alcuni movimenti e modi di fare le cose che sono corrispondenti a realtà e relazioni superiori negli altri mondi”. (op. cit., pp 98-99).

 

“Nelle opere cabbalistiche di pratica applicazione si trovano indicazioni su alcuni, vari, talvolta impossibili movimenti di membra e parti del corpo che servono a far luce sugli occulti e complessi sentieri della Carro     [visione di Ezechiele: sul Carro si erge il Trono di Gloria, Adonai Elohim]  sui diversi piani e nei diversi mondi” . (ivi, p.100).

 

Qui sopra si tratta un livello per praticanti molto avanzati ed è stato citato solo per esemplificare il tipo di approccio: il fatto che sia incomprensibile ai più è scontato come anche che questo non è il luogo per porre nemmeno le basi di una spiegazione.

Ma è evidente come le radici del Metodo affondino in quel mondo esoterico e, al tempo stesso simbolico e fisico.

 

A proposito di Fisica.

Nel suo studio di Tel Aviv, M. Feldenkrais aveva grandi volumi in folio rilegati in pelle del Talmud. Suo padre era un famoso talmudista e a Slavuta la tipografia dei suoi trisavoli ne aveva stampati di sublimi. Probabilmente si trattava di quelli (cfr. infra, p. 13).

Negli ultimi giorni della sua vita (1984) li descrive così a Jeff Haller, il futuro trainer di Kaetz – che li guardava incuriosito ma non leggeva l’ebraico:

 

“Quelli sono i migliori libri di Fisica esistenti al mondo. Li ho letti tutti da quando avevo tredici anni. Li ho portati con me in quel vagone [Il treno verso la Palestina su cui è salito a 14 anni, nel 1918. N.d.R]” (Kaetz, p. 119).

 

Non c’è dunque da meravigliarsi se il metodo talmudistico pervade l’argomentare e l’insegnare di Moshè Feldenkrais:

 

“…Questo tipo di studio dava la priorità alla domanda rispetto alla risposta. Lo scopo della domanda è di creare un’apertura: una risposta chiude l’apertura, la ricchezza delle possibilità….”(1)

“Studiare il Talmud è come entrare in una sala di discussione multigenerazionale tra saggi. Si è liberi di partecipare. Nessuno dev’essere d’accordo con niente, ma ognuno dev’essere in grado di giustificare la sua posizione sulla base di un metodo comune. Si entra semplicemente per amore del discorso e si impara a ragionare da saggi. La Torà è il testo; il Talmud è il modo di interrogarlo per far uscire le risposte adeguate ai nostri bisogni”. (Kaetz, cap. 2, p. 31)

 

E’ incredibile che questo affascinante quadro di cultura ebraica – filosofico e storico ma più ancora profondamente spirituale – venga sottratto dai trainers Feldenkrais – salvo rarissime eccezioni – ai loro allievi durante i quattro anni di  pratica formativa.

Magari qualche trainer applica, a volte, pezzi di ragionamento “simil talmudista”; cerca di tenere aperte alcune domande durante una lezione introduttiva o una di CAM – e questo è positivo, in sé. Ma senza dichiararlo, senza storicizzarlo, senza dire “ora facciamo questo perché è nel nostro lignaggio, che origina da Toràh, Talmud, Zohar, Sefer Yetziràh…”. La maggior parte delle persone rimangono perplesse, non afferrano la logica complessiva. Questo l’ho visto e sperimentato personalmente durante il mio training.

 

Vengono utilizzate espressioni come “cercate di fare questo con tutto voi stesso”; o “cercate di stare con la persona”, anch’esse totalmente decontestualizzate dalle tradizioni spirituali e dalle pratiche da cui derivano. Dunque rese incomprensibili. Ma Signori, nel primo caso stiamo parlando di Mitzvòt, di Yichud e di Kavvanàh – ovvero di Cabbalà – e nel secondo di rêverie, la dimensione in cui la madre contiene e detossifica le fantasie aggressive del bambino e gliele restituisce purificate, rassicurandolo. La scoperta di Klein che si perfeziona attraverso Winnicott e arriva in Bion a diventare il paradigma della relazione analitica mistica.

Ci si mettono anni e anni ad arrivarci, a imparare a praticarle. A patto di chiamarle con il loro nome e di scomporle, vivisezionarle. Se poi se ne dà una definizione confusa e oscura, ovvero si parla d’altro, non ci si arriva mai.

 

(aperta parentesi

 

“Ma qui non siamo mica all’albergo popolare!” Sbottava infuriata la mia professoressa di filosofia Cecconi del liceo Parini, odiosamente, razzisticamente ma sacrosantamente, di fronte agli studenti che svilivano con un linguaggio banalizzante e inadeguato il racconto di Duns Scoto o di San Tommaso D’Aquino. E invitava quei giovani e quelle ragazze – virgulti della migliore borghesia milanese – a lasciare gli studi, che non erano roba per loro, a darsi ad attività artigianali, a “guadagnarsi la vita passeggiando sui viali” etc… Aaah, i beati anni del castigo!

 

chiusa parentesi)

 

Sono espressioni che hanno una storia che va filosoficamente articolata, insegnata, praticata e imparata. Altrimenti sono parole morte. Stiamo parlando di pratiche di salvezza, non di entertainment.

Non siamo su Facebook a clickare il più idiota dei tasti: “Mi piace”….

 

Se associamo questa reticenza dominante all’interno dei trainers responsabili della formazione degli insegnanti alla serie infinita di post trainings (vedi in dettaglio pag. 27) e all’assoluta mancanza di chiarezza sull’arco di sviluppo della professionalità, ne esce un’immagine di isolamento e solitudine di ciascuno, che può trovare un sollievo momentaneo solo nell’ embrassons nous,  nella socialità sicuramente positiva – e chi lo nega ? – del prossimo post training. Salvo ripiombare nell’incertezza quando i suoi echi si saranno estinti.

Finché il rimosso della cultura Hassidica rimarrà non detto all’interno del mondo Feldenkrais, le enormi potenzialità del Metodo ne saranno gravemente limitate.

 

Secondo me, il vero dramma è che la maggior parte dei trainers Feldenkrais non ne sa nulla! Vanno così, a braccio. Cercano di essere coscienziosi cloni del Maestro; che, da parte sua, è stato metodologicamente oscuro ed elusivo.

 

Nelle bibliografie dei trainings manca qualsiasi testo in proposito; mentre abbondano libri del genere di Su una sola gamba e Un antropologo su Marte – Oliver Sacks. O come La donna che morì dal ridere – V. Ramachandran. Neurologicamente e anche letterariamente molto interessanti, divertenti perfino, amabili: però sul problema della relazione terapeutica lasciano tali e quali prima.

 

Visto in questa ottica, il libro di David Kaetz risulta ancora più prezioso; e fatidico in quel titolo del III paragrafo della prefazione:

 

“Something is missing”

 

 

Un Genio spuntato dal nulla

 

Nella maggior parte dei trainings dove si insegna il Metodo, circola un’immagine ora mitica ora misteriosa di Moshè Feldenkrais: muratore e carpentiere nella costruzione di Tel Aviv, organizzatore dell’autodifesa nello Yishuv (E’ l’Insediamento in Palestina prima dello Stato di Israele del 1948), ingegnere nucleare laureato a Parigi con Joliot Curie, dove diventa pure cintura nera di judo con Jigoro Kano e  Mikinosuke Kawaishi e calciatore professionista. “Grazie” ai postumi di un infortunio al ginocchio occorsogli in gioventù  inizia a studiare fisiologia-e-tutto-lo-scibile-umano, cosa che gli permette di “mettere a punto” il suo “metodo-non-metodo”. Poi i Grandi della Terra si recano ad imparare da lui: Ben Gurion, Joliot Curie, I.D. Bernal, Arthur Rubinstein, Yehudi Menuhin ….

Mi ricorda le biografie degli attori americani che leggevo da bambino e poi da adolescente sui settimanali, dal barbiere, nei Cinquanta e nei Sessanta. Gli uffici stampa delle majors di Hollywood ci tenevano a sottolineare “ha fatto tutti i mestieri”: dov’era implicito il mito americano del self made man ovvero dalle stalle alle stelle. Magari era vero; forse sarebbe stato anche interessante, se solo avessero fornito qualche episodio autentico, qualche elemento sociologico… Ma messo così, era come dire “E’ successo un miracolo!”. E vabbè….

 

Il libro di Kaetz è la prima e finora l’unica via d’uscita da questa dimensione mitologica e agiografica.

 

Ci permette di andare alle origini del romanzo familiare di Moshè Feldenkrais.

 

Il secondo figlio di Pinhas di Koretz – il trisavolo di Feldenkrais -Moshè Shapiro, mostrò un precoce talento di amanuense e di grafico, che il padre incoraggiò.

Moshè fondò una tipografia a Slavuta, le cui pubblicazioni e gli scandali ad esse legati dovevano imprimersi per sempre nel cuore della mappa  della civiltà Hassidica. (p. 65).

Nel 1776 pubblicò Tanya, di Rabbi Schneur di Liadi, la base del lignaggio hassidico Chabad-Lubavitch, che oggi conta due milioni di aderenti nel mondo.

 

Nel 1800 i due figli, Pinhas e Schmuel, lo affiancarono e la tipografia produsse meravigliose edizioni del Talmud, tuttora ricercatissime, e testi hassidici. Ma questo procurò loro nemici di ogni tipo: ebrei tradizionalisti all’antica, ebrei illuministi e antitradizionalisti e naturalmente le autorità zariste.

 

Così, nel 1835 il suicidio di un dipendente degli Shapiro scatenò contro di loro una persecuzione scandalosa quanto pretestuosa, un processo farsa e una condanna che li avviò in un viaggio a piedi e in catene verso la Siberia; interrotto “fortunatamente” da una detenzione di 16 anni a Mosca.

Finalmente, dopo 20 anni, arrivò la loro liberazione ad opera dell’assolutismo illuminato del nuovo zar Alessandro II.

 

Nel frattempo la tipografia di Slavuta era stata riaperta dai loro figli; e il loro trionfale viaggio di ritorno fu narrato 80 anni più tardi sulla stampa yiddish di New York e divenne poi un libro.

 

Per farla breve, la nonna materna di Moshè Feldenkrais era figlia di Pinhas Shapiro di Slavuta, uno dei due famosi fratelli.

 

Di Pinhas in Pinhas…

Sua figlia, la madre di Moshè Feldenkrais, Scheyndl Pschater, aveva potuto studiare grazie all’agiatezza della famiglia, che produceva carbone. Erano religiosi osservanti ma al tempo stesso sensibili alle idee della Haskalah, tanto che Scheyndl aprì una scuola serale per le ragazze povere e analfabete di Slavuta.

 

Yekhiel, suo padre, andò a cercare uno sposo per lei nella Yeshivàh – scuola rabbinica – di Novograd, dove il direttore gli propose il più geniale e brillante dei giovani talmudisti: Aryeh Leib Feldenkrais.

 

Dai quaderni di scuola che ha portato con sé in Palestina, risulta che Moshè Feldenkrais fosse un genio in matematica e fisica ed avesse un rapporto molto intenso con la natura, poetico ma anche di fine osservazione scientifica.

Nell’intervista di Amherst, 1981, Moshè F. ricorda con emozione il nonno Yekhièl – detto rabbi Yona – mentre non parla del padre: con cui sembra abbia avuto un grande scontro, concluso con la decisione di partire per la Palestina, a 14 anni, nel 1918, pochi mesi dopo la Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917). In ogni caso, l’insistenza del padre perché perfezionasse il suo Ebraico prima ancora di avere la padronanza del Russo gli permise di leggere i giornali sionisti polacchi e russi; e quindi favorì oggettivamente la sua scelta.

Il viaggio durò sei mesi.

 

Molte delle notizie sono tratte dal primo capitolo della biografia di Mark Reese (on line), incompiuta a causa della morte dell’Autore nel 2007.

 

Lo stesso Mark è autore di una lucida introduzione (2002) a L’Io potente, il terzo libro di Moshè Feldenkrais, pubblicato postumo nel 1986. Qui possiamo trovare le radici teorico pratiche di quel vero e proprio vulnus tuttora irrisolto sulla strada del trattamento psicosomatico delle psicosi e delle nevrosi costituito dalla critica frettolosa e insufficiente della psicoanalisi da parte di un genio forse troppo innamorato del suo giocattolo.

 

La mia tesi è nata nella pratica, prima della lettura del libro di Kaetz; ma proprio grazie alla storicizzazione da esso operata mi sono sentito spinto a darle una forma comunicabile. Vado ad esporla.

 

Paradossalmente è proprio Moshè Feldenkrais, l’interprete dell’auspicio ultimo della profezia di Freud, ad impedire il corto circuito profondo e born of necessity tra le due pratiche di liberazione che sono una fino da be-reshit  בראשית, dall’Inizio – Genesi: la costituzione della relazione.

 

Andiamo per ordine.

 

Ciò che intendo come la profezia di Freud è bene espressa da  Christopher Bollas (The Freudian Moment, Karnak Books, London and New York, 2013, p. 41 di “Calibre E-book viewer”):

 

“Penso che la psicoanalisi abbia annunciato l’arrivo dei mezzi più idonei per riflettere sui processi distruttivi. E’ arrivata nel momento in cui il suo utilizzo poteva salvare l’umanità dall’autodistruzione (corsivo mio). Per questo sostengo che, in realtà, la psicoanalisi, come compimento di un percorso filogenetico ed evolutivo, è figlia della necessità”.

 

Lo stesso tipo di “necessità” ha portato l’ultimo Freud londinese di “Analisi terminabile e analisi interminabile” (1937), ad esprimere in modo ellittico, ambiguo e oscuro un auspicio al termine di un bilancio di luci ed ombre dei risultati della sua terapia: “L’influsso ipnotico sembrò essere un mezzo eccellente per i nostri fini [Ovvero abbreviare la cura e stabilizzare i risultati. NdR]. Sono note le ragioni che ci hanno indotto ad abbandonarlo. A tutt’oggi, un sostituto dell’ipnosi non è stato ancora trovato; tuttavia da questo punto di vista si comprendono i tentativi terapeutici, purtroppo vani, cui un maestro dell’analisi come Šandor Ferenczi ha dedicato gli ultimi anni della sua vita”.(op. cit.. p. 39).

 

Questo era lo spazio del profeta Feldenkrais; Moshè però non si è accorto che era già indicato. Si trattava primo, di riconoscerlo, riconoscendo parimenti lo straordinario valore terapeutico e la rivoluzione liberatrice che la psicoanalisi aveva iniziato; e, secondo, di andare oltre, trovandone i collegamenti con la dimensione somatica.

 

Feldenkrais non ha fatto la prima cosa e di conseguenza ha fatto la seconda in modo incompleto.

 

Ciò non gli ha impedito darci un contributo estremamente importante – e di ciò l’umanità gli sarà eternamente grata; ma si è inspiegabilmente messo in contraddizione con Freud, vanificando, almeno fino ad oggi, proprio quella terapia integrata psicosomatica che invoca sdegnato a p. 149 dell’Io potente (L’Io potente, Astrolabio, Roma, 2007):

 

“Il trattamento è generalmente o l’uno o l’altro, per la semplice ragione che non ci sono ancora metodi di trattamento psicosomatico”.

 

Ma è a p. 152 che possiamo capire quanto vorrebbe essere radicale la critica di M.F. alla psicoanalisi e quanto invece si rivela inconsistente.

 

“E’ come quando impariamo a pensare in francese udendo e pronunciando parole francesi, processo con cui, con prolungata e metodica esperienza, ci familiarizziamo sempre più, fino a che possiamo senza rischio abbandonare la nostra lingua madre e smettere di tradurla e cominciare a pensare direttamente in francese.”

 

Ora, non amo particolarmente Lacan, ma questo argomento di M. Feldenkrais mi fa positivamente pensare proprio a quella parola piena –(J. Lacan, Ecrits I, p. 123 e segg., Seuil. Paris, 1969) > in Nota: è identica al language of achievement di Bion?! – con cui il grande psicoanalista francese denota ora il percorso, ora il risultato del rendere chiaro a se stesso l’analizzando. Parola piena in grado di abbracciare l’Io, l’Es e il Super Io dentro un nuovo equilibrio. Sichtbar machen – rendere visibile – diceva Freud e gnwθι   s’αuτον, conosci te stesso,   – sua preconception (Bion). Entrambi sapevano che non solo l’inconscio, ma il Mondo è strutturato come un linguaggio.

 

E sembra risuonare di questo sapere antico la bella metafora, quella di M. Feldenkrais, sia per la lingua che lui ha inventato – e così l’ho descritta all’inizio – sia per la psicoanalisi.

Ma invece, subito dopo M.F. lamenta che

 

“L’assenza di questo apprendimento attivo e diretto del nuovo modo di fare è il grande inconveniente del trattamento odierno”.

 

Ovvero della psicoanalisi, intende M.F..

Secondo lui, l’analisi

 

“non fa un uso adeguato dell’insegnamento diretto e attivo, dato che confida nel fatto che il soggetto si imbatta in un modo migliore di funzionare dopo avere riconosciuto l’inadeguatezza del proprio. Il continuo rifiuto, da parte del soggetto, di abbandonare la sua posizione ovvero la resistenza, in gran parte non è che l’espressione della sua incapacità di rinunciare alla madrelingua”.

 

“Tutto qui?” direte voi.

Purtroppo sì.

M.F. non si rende conto che milioni di persone si sono liberate della loro autodistruttività grazie all’apprendimento di quella lingua. Mettendoci, ovviamente, tutto il tempo necessario. Ma teniamo conto che anche nella pratica del metodo Feldenkrais a volte occorrono 4 o 5 anni per abbandonare posture compulsive! Lo si può vedere molto bene nell’evoluzione dei futuri insegnanti durante i 4 anni di training.

 

E’ un fatto increscioso che un genio come lui non si renda conto che l’analisi di un trauma, di un sogno, di un acting out che permettono di mettere a fuoco la relazione oggettuale del paziente porta rapidamente ad una trasformazione, e non, come egli sostiene, ad un lungo impantanamento, a un andirivieni senza fine tra un vecchio pattern e uno nuovo che non si conosce ancora.

Quello nuovo lo si conosce proprio grazie alla decostruzione di quello vecchio, secondo il metodo visto anche negli esempi alle pp. 10 e 12.

 

Qui, M.F. perde un’occasione storica – che è poi quella che ha spinto me ed altri colleghi psicoanalisti ad imparare e utilizzare il Metodo Feldenkrais unitamente alla Psicoanalisi.

 

Sono argomentazioni che denotano sia una scarsa conoscenza, sia una forte difesa nei confronti della Psicoanalisi.

 

“A dispetto di qualsiasi accusa, il suo [della Psicoanalisi] potere di indagine e la sua capacità conoscitiva si sono rivelati via via incontestabili, tanto che lo stesso “odio” riservatole fu giudicato, già negli anni ’60, da Winnicott una reazione comprensibile rispetto al “bisogno dell’individuo di restare segreto e isolato” e dunque una prova della sua efficacia” (Paulo Barone, Il Manifesto, 14 Luglio 2013).

 

La svalutazione così radicale della talking cure basata sulla parola, poi, da parte di un ebreo colto come Moshè Feldenkrais, risulta davvero difficile da digerire.

 

Be-reshìt בראשית – all’Inizio – Adonài Elohìm ha creato l’universo nominando gli esseri e le cose; lo ha creato attraverso le 22 lettere ותיות  (otiòt); in Ebraico davar דבר significa ugualmente parola e cosa.

Questo fa della Toràh uno specchio e un compendio del mondo.

“Israel è acronimo di iesh shishìm ribbò otiòt le toràh ריבוא אותיות לתורה םישׁשׁ ישׁ:ישראל: “Ci sono seicentomila lettere nella Toràh” (Y. Pinhas, cit, p. 95).

 

Nel sistema ermeneutico della Cabbalà hanno un peso fondamentale i valori numerici e simbolici delle 22 lettere dell’alfabeto Ebraico – che connotano anche le Sefiròt e i loro collegamenti – e i modi di mescolarle all’interno di una parola (ghematria), ottenendone altre di uguale valore numerico ma significato differente.

 

Bruce Lee tra le Sefiròt dell’Albero della Vita

 

Ma di questo bisogno di rimozione, “bisogno dell’individuo di restare segreto e isolato” (Winnicott, cfr. supra) da parte di M. Feldenkrais possiamo trovare i motivi e le tracce nella biografia “(2).

 

All’interno del Sionismo vivevano anime molto diverse.

Per Max Nordau Israele era il luogo dove gli Ebrei dovevano ritrovarsi; per Ahad ha’Am (Asher Ginsberg) quello in cui perdersi…Per Theodor Herzl una Terra Nuova, una Collina di PrimaveraTel Aviv, il titolo della traduzione ebraica di Alt Neuland – che gli Ebrei costruivano per sé e per i popoli del Mondo – ovvero a Brave New World per tutti.

 

Ma un proposito univa insieme i sionisti: la ferrea volontà di cancellare per sempre quell’immagine di ebreo oppresso, in balìa di poteri sempre pronti a schiacciarlo, incerto della sua vita e del suo futuro, attaccato alla Torah e al Talmud come unica madrepatria portatile.

E’ evidente che insieme a quell’immagine, dentro il percorso individuale di ogni pioniere, di ogni halùtz, fatalmente si trasformavano e in parte si cancellavano gli elementi della cultura di origine.

 

Moshè Feldenkrais era affascinato dagli ideali egualitari e palingenetici del Sionismo, che gli avrebbero permesso di scrollarsi di dosso anche l’oppressione familiare; di realizzare le promesse che aveva letto a 12 anni nel saggio La questione sessuale (1905) di Auguste Forel, biologo, utopista e antesignano francese della rivoluzione sessuale, che aveva acceso la sua immaginazione e le sue rêveries. Forse la lettura di Forel lo introdusse anche alla conoscenza dell’ipnosi, per cui sviluppò un interesse ininterrotto – da Emile Couè a Johannes Schulz fino a Milton Erickson.

 

Arriva nello Yishuv, l’Insediamento Ebraico in Palestina dopo un viaggio di sei mesi, un vero e proprio rito di passaggio. Il Mondo Nuovo si annuncia con il superamento della divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, l’uguaglianza tra i sessi e i drammatici problemi di autodifesa. E’ a questi che si applica, nei tardi anni Venti, quando scopre che il JuJitzu imparato da alcuni compagni tedeschi risulta inefficace in battaglia. Modifica le tecniche e il modo di insegnarle e scrive un manuale che si rivela invece molto efficace e utile.

Poi, quando si trasferirà in Francia a studiare, lo tradurrà in francese, rimaneggiandolo: La défence du faible contre l’aggresseur (1935), che sarà arricchito e titolato in inglese Practical Unarmed Combat, dopo che nel 1940 M.F. dovrà fuggire dalla Francia occupata dai nazisti e si trasferirà in Scozia a lavorare per l’Intelligence Britannica.

 

Dunque sembra abbastanza chiaro: il Ritorno del Rimosso avviene nel medium dell’Arte marziale (2).

 

Prova ne è il fatto che il JuJitzu e il successivo Judo nascono in una cultura, il Buddhismo Zen e il Taoismo, che ha molti punti di contatto con la cultura Ebraica in generale ma anche con talmudismo e Cabbalà (Cfr. M. Buber, Il Messaggio del Hassidismo, cit., cap. 8).

 

“Da un toro nasce un toro, ma da un uomo non nasce un uomo” recita un midrash rabbinico. Vuole alludere sia all’impreparazione fisiopsichica del cucciolo d’uomo rispetto a quello di toro sia al fatto che diventare pienamente umani – il programma di Moshè Feldenkrais – è un duro compito e non è da tutti; e, per gli Ebrei, la Toràh è il suo manuale di istruzioni.

Ma, evidentemente, per Moshè Feldenkrais, il Judo è un manuale superiore, in quanto permette di “prescindere dalla propria eredità culturale”– come utopia palingenetica forse non c’è nulla di più radicale…Ma anche di più presuntuoso! (Cfr. Moshè Feldenkrais, Higher Judo, 1952 e 2010, Blue Snake Books, Berkeley, California). Concetto che Moti Nativ, nell’Introduzione, rafforza ulteriormente dicendo: “In altre parole, sostituite a ‘l’Arte del Judo’‘Il Metodo Feldenkrais’ ed avrete una definizione sintetica di Consapevolezza Attraverso il Movimento associata ad una visione olistica (ivi, xxxix).

 

Finalmente! Ecco la vulgata Feldenkrais che va per la maggiore.

Sul suo aspetto olistico ho seri dubbi.

L’immagine che mi si affaccia con più insistenza è quella di un’intervista a Bruce Lee, vista pochi giorni fa – luglio 2013 – su Rai 4, dove lui racconta come abbia tolto dall’arte marziale della tradizione tutto ciò che non fosse strettissimamente finalizzato a mettere fuori combattimento l’avversario. In tal modo dice di avere avuto il suo enorme successo, rivoluzionando il sistema.

E’ morto 40 anni fa, nel 1973. Viveva in California, negli stessi anni in cui ci viveva Moshè Feldenkrais; i due hanno fatto qualcosa di simile – probabilmente ad insaputa l’uno dell’altro – che si è infuturata nel Krav Maga, l’estrema e micidiale sintesi di arti marziali messa a punto in Israele e adottata dalla C.I.A. – ma non da Tzahal (esercito Israeliano) e Mossad – per l’addestramento dei suoi agenti.

 

E’ comprensibile l’enorme fascino che ha potuto esercitare su un pioniere sionista un’arte marziale indispensabile all’autodifesa dello Yishuv e che, d’altra parte, aveva nel Buddhismo e nel Taoismo un sostrato filosofico così affine all’Ebraismo.

 

Ricordiamo qui solo en passant che nella Babilonia nel secondo e primo secolo avanti Cristo Esseni, Sadducei, Farisei ed altri tzaddikim avevano praticato insieme a Buddhisti, Taoisti e Induisti (Ernest Renan, Vie de Jesus, Ch. VI et passim, R.Laffont, Paris, 1995).

 

“La chiave della verità è l’azione presente, e se uno fa ciò che deve fare in modo tale che il significato della sua azione trovi il suo compimento, la chiave aprirà la porta” (M. Buber, cit., p. 193).

Se quella chiave poi è in grado di fare addirittura la differenza tra la vita e la morte in un combattimento, il suo valore diventa incommensurabile.

 

Dopo un viaggio ventennale attraverso le professioni e le scienze più diverse; che è in realtà, come ogni Bildungsroman, Falsche Bewegung – ossia Falso Movimento, la sintesi più bella della Vocazione teatrale di Wilhelm Meister, nel titolo del film che lo ha ripercorso, ad opera di un Wim Wenders che non ha solo il nome del protagonista, ma incredibilmente il volto, il portamento e certamente una scintilla dell’anima di Johann Wolfgang Goethe – Moshè-Wilhelm Meister ritorna in un luogo-non-luogo che è l’unico in cui può ritornare, esattamente come l’eroe goethiano: la vocazione di tzaddik.

Ma vediamo.

 

Il ritorno del rimosso – nel mezzo del cammin di sua vita: 40 anni – spinge Moshe-Wilhelm Meister a diventare quel Pinhas haTzaddik “che era già fin dall’inizio del viaggio” tra gli tzaddikim di Ashkenaz di Babilonia di Gerusalemme di Qumran. Ma lui ha dovuto operare uno splitting per una question de vie et de mort durante il viaggio allucinante attraverso gli orrori e gli splendori del Novecento; quella parte di sé può dirla e agirla solo in einem anderem Schauplatz e in einen anderen Sprache – calcando un’altra scena e parlando un’altra lingua.

L’orrore di rivivere quell’odissea gli impedisce di pronunciare gli antichi nomi; il rimosso ritorna trasformato in una lingua che, ostinatamente, Moshè Feldenkrais vuole tenere lontana da ogni riferimento alla storia della cultura Ebraica che ha vissuto.

 

Forse, come il Freud di Der Mann MosesL’uomo Mosè e la Religione Monoteista – che vuole Mosè-Sigmund essere solo Egizio e nemmeno Ebreo (mose=bambino, in demotico egizio), Moshe Feldenkrais vuole essere solo Ahad ha‘Am, Uno del Popolo (da non confondere con lo pseudonimo del filosofo sionista citato a pag. 22) che per i popoli della Terra ha inventato un percorso di liberazione.

 

Certamente, di tanto in tanto, sollecitato da giornalisti, ammette piccoli squarci della sua genealogia; ma se non l’avesse rimossa o addirittura forclusa (Lacan) – verworfen, Freudianamente – inserirebbe nel suo insegnamento almeno alcuni testi di introduzione alla Cabbalà e alla storia del movimento Hassidico. Si sa, non sono cose per tutti, ma…Chi ha testa, cuore, fegato, fiato e gambe, corra! O glielo vogliamo impedire?!

 

Usa le stesse parole, le stesse frasi del suo trisavolo Pinhas Shapiro di Koretz, del Baal Shem Tov, dello Zohar e del Sefer Yetziràh. Ma lo fa in una dimensione che sembra una fiction fuori dal mondo e fuori dal tempo: parlando di Judo, di biomeccanica, di fisica, di neurologia. Paradossalmente funziona! Anche grazie alla nota circolarità delle culture tradizionali (cfr. Fritjof Capra, Il Tao della Fisica, Adelphi, 1982 – The Tao of Physics,1975) e, in particolare, alla strepitosa modernità della Cosmogonia Ebraica, alla sua Creazione Continua dell’Universo e in particolare degli umani, attraverso le dieci Sefiròt dell’Albero della Vita, dove gli umani stessi possono concorrere al perfezionamento dell’Universo e di Dio perfezionando se stessi attraverso le mitzvòt.

 

 

Come possiamo chiaramente leggere nell’Io potente, Moshè Feldenkrais voleva reinventare la psicoanalisi su basi fisiche. Se questo era il suo scopo ultimo, egli ha avuto successo individualmente, ovvero è riuscito lui, erede della cultura hassidica in cui le preconceptions delle due ermeneutiche vivevano in unità – v. pag 2 – ad applicarle insieme, in una dimensione sapienziale unica, la sua. Ma successivamente quell’unità di Kultur è mancata – il libro di Kaetz ne è la prova e al tempo stesso la base per ricucire lo strappo. Esso è l’unico, finora, in grado di rimuovere quelle oscurità e ambiguità seminate dallo stesso M.F. e amplificate dai suoi primi allievi, oggi trainers, che hanno impedito fino ad oggi di aprire, di chiarire – sichtbar machen! – di mettere in circolazione una pratica ed un’ermeneutica che devono diventare patrimonio dell’umanità intera – magari in parte anche gratuitamente e senza attaccamento al proprio sapere, felici di donarlo ed essere superati dagli allievi.

 

In questo senso, il libro di Kaetz si pone esattamente sulla linea di trasformazione radicale dell’individuo e della società che lo stesso Moshè si era proposto; poiché aveva individuato che era proprio la società ad impedire di “diventare pienamente umani”. Proposito non sempre espresso con la stessa tensione utopica e organizzativa, ma comunque mai abbandonato.

 

E’ qui che le cose “si complicano” per lo statuto epistemologico del Metodo, che si propone, a partire dal corpo, di ristrutturare il sé degli individui, secondo il celebre adagio di Moshe: “Voglio un corpo più flessibile per avere una mente più flessibile”.

 

Nulla infatti viene insegnato ai practitioners al di là di una generica “apertura” verso la persona. E quando escono sogni, ricordi, emozioni?

I trainers consigliano di “usare il buonsenso”; se non basta, inviare le persone a psicologi, psicoanalisti, psichiatri.

 

“Che spreco!” ho sempre pensato io, che nei Settanta ho avuto la mia formazione psicoanalitica Bioniana. “Avere a disposizione una via così straordinaria all’inconscio e metterla da parte”.

 

Ciò è ancora più inspiegabile in quanto  alla fine del training gli insegnanti Feldenkrais vengono avviluppati in un sistema di formazione permanente attraverso post trainings continui (e costosi: fortunatamente facoltativi) che durano per tutto il corso della loro vita professionale. Fatto in linea di principio positivo. Ma che mi spinge a chiedermi “E’ possibile che su un percorso di così lungo periodo non sia prevista una formazione di tipo psicologico, se non addirittura psicoanalitico?”. (Un fenomeno inquietante: conosco colleghi che sono in analisi e lo tengono segreto, quasi se ne vergognassero, come di un “tradimento” del Metodo. Da non credere!).

 

La domanda è resa ancora più lecita dalla constatazione che la maggior parte dei post trainings, salvo rare e benvenute eccezioni, ripetono sempre le stesse cose che si sono fatte nei 4 anni del training iniziale. Ora, poiché ciò che fa la differenza e la qualità di un practitioner è – lo dice la parola – la pratica di insegnamento di CAM e di Integrazione Funzionale alle persone; su cui durante il training iniziale si sono avute una quantità esagerata di esemplificazioni e notizie tecniche – ma purtroppo non spirituali –  come si spiega quell’addiction decisamente eccessiva a tutti quei post trainings che sono per lo più ripetitivi, mediocri e privi di interesse per chi è già immerso in una professione che insegna ogni giorno nuove meraviglie?

 

Come ho anticipato a pag. 15 la mia tesi è che i colleghi si sentono insicuri, inadeguati for life proprio perché nel training è stata loro sottratta – salvo eccezioni che fortunatamente esistono – la visione spirituale e simbolica complessiva, la base culturale da cui l’invenzione del Metodo è iniziata – ma poi è stata rimossa. Visione che, come abbiamo visto, costituisce la base anche della Psicoanalisi, l’ermeneutica contigua al Metodo.

 

Ora l’importanza pratica del libro di Kaetz è più chiara?

 

Questa impressione non è solo mia.

 

Nelle relazioni finali della Prima Conferenza Feldenkrais Europea di Heidelberg, giugno 1995, aperta a seminari interdisciplinari, troviamo due contributi che definire perplessi è dire poco.

Appartengono a due terapeuti della Gestalt, Reinhard Fuhr e Martina Gremmler-Fuhr:

 

– Che tipo di dipendenza viene messo in atto e sostenuto dal lavoro Feldenkrais fra trainers e trainees, insegnanti e clienti? La dipendenza viene esplicitata al fine di poterla eventualmente eliminare, oppure viene accettata e addirittura favorita?

 

– E’ previsto alla fine del training un supporto per la risoluzione dei forti legami di dipendenza che i  trainees sviluppano verso i propri  trainers (la dissoluzione di quei legami può avere la stessa importanza che ha nella relazione figlio/genitore una volta che il giovane è divenuto adulto). (Heidelberg Report, p.38)

Eeh! I due terapeuti della Gestalt non si sono resi conto che al contrario della psicoanalisi la dissoluzione di quei rapporti di dipendenza non è prevista dalla formazione Feldenkrais com’è stata concepita fino ad oggi.

 

Un segno inequivocabile di ciò è che nelle bibliografie dei trainings vada per la maggiore la Attachement Theory nella sua forma più istituzionale: il ponderoso (e costosissimo) manuale di John Bowlby. Neanche le due antologie in paperback di saggi brevi edite da Routledge (London & N. Y., 2005), dove il grande psicoanalista kleiniano si permette colpi d’ala interessanti. No. Etologia pura, ancora al di qua del confine tra psicologia e metapsicologia, al massimo Darwinismo sociale, a ribadire una formazione che gira su se stessa, fondata su una dipendenzaattaccamento  for life. Perfettamente omologa ad una formazione dove i trainers propongono e ripropongono all’infinito se stessi e le stesse cose.

 

E’ evidente che la formazione Feldenkrais lavora sulla dipendenza da una struttura burocratica e autoritaria spacciandola per naturale. (Anche qui, con qualche eccezione. Però, dato che spesso ho parlato di eccezioni, voglio chiarire che riguardano aspetti particolari, aperture parziali di alcuni trainers. Ma non ne esiste uno solo che possieda la visione globale e l’apertura del paradigma che questo saggio persegue).

Al contrario, la psicoanalisi lavora su una dipendenza provvisoria, superabile e il cui superamento è addirittura perseguito e auspicato, in quanto coincide con la fine della cura.

 

Ma c’è un’altra domanda essenziale dei due terapeuti della Gestalt su cui posso portare una testimonianza diretta:

 

 

– In che modo i trainers Feldenkrais gestiscono I conflitti di autorità che sorgono necessariamente all’interno dei gruppi (a meno che non vengano repressi collettivamente o d’autorità)? (Heidelberg Report, p.38).

 

 

Nel mio training sono stato testimone di episodi di autoritarismo disgustosi da parte dei trainers e degli assistant trainers; che erano l’altra faccia di un ostentato quanto spesso strumentale uso di quella didattica dell’empatia (cfr. J. Rifkin, La Civiltà dell’Empatia, Oscar M., 2011, pp. 557 e sgg.) che può portare ottimi risultati ma anche mascherare un autoritarismo profondo, costellato dall’onnipresente “parola magica” condividere. Diciamo che è un talmudismo pervertito e teleguidato.

 

Non a caso dopo la straordinaria esperienza di Grottammare con 20 bambini Sahraui diversamente abili e prevalentemente spastici (organizzata dalla onlus Rio de Oro, estate 2012), nel mio resoconto per la rivista dell’Associazione Italiana Insegnanti del Metodo Feldenkrais non ho potuto fare a meno di registrare il senso di liberazione rispetto all’atmosfera opprimente del training concluso un anno prima:

 

“Integrazione dopo integrazione, emozione dopo emozione, vedendo gli spasmi svanire lentamente e i ragazzi modificarsi, rivomitavo buona parte del mio training come ostile, volto quasi a metterci uno contro l’altro, in una competizione assurda, tra persone che stanno imparando. Per di più, lasciati soli, con domande cui nessuno rispondeva.

Non metto in dubbio l’assoluta buona fede da parte dei nostri trainers; ma per insegnare serve amore e disponibilità infinita e addirittura la voglia e il piacere di essere superati dai propri allievi”.

 

Forse il senso più profondo di quell’esperienza è in questa poesia che scrissi appena rientrato a Roma:

 

Nowhere camp

L’accampamento che non c’è

Spaventosa accerchia

L’Italia a motore

Ferragostana

L’oasi nostra Sahraui

D’infernali diuturni clangori

Angeli siamo

Di bolgia d’Acheronte

Trasparenti al frastuono

Bellezza e Amore

Furon Dèi nostri

Buoni maestri poi

Di saggi verbi

Di magiche scintille

Di mudra e mantra

Di salvifici tocchi e suoni

Ci avvolser tutti

Come di un sogno in protezione

Per mari e cieli e per deserti

Come fiammelle sospesi

Ci salvar

Eppure in terra coll’altri umani

Nel dolore stando!

Sorte volle che insieme

Da silenti messaggi

radunati

gioia conforto cura rifugio

E piccole salvezze

Come acuti d’organo rintocchi

Dentro gotiche volte

D’amor scoccammo frecce

Dell’Infinito all’arco

 “AsSakhraa’ ladaa al Bakhri!”

“Il Sahara sul mare!”

Urlo a Mohamed Salem

A Brahim

Mentre li porto per mano

Nell’acqua turchese e d’oro

Increduli respirano

Tuffano il capo

Espirano sott’acqua

Come il vecchio delfino

Ha insegnato

Battendo le onde

Con la coda

Che giovane

Olimpiche vasche accarezzava

Come ali

Piccole braccia

Come ali

Gioiose sbattono

Sputando goccioline atterrite e ridenti

Pesci volanti

Sull’arenile atterrano

Come tra El Ayoun e Nouhadibou

Sueliki Tumanna Fadila nuotano già

Al largo

Figli sognati

Ora visti ed amati

Gioco infinito

Tra Sahara e Adriatico mare

Luogo che non c’è

Eppure è vivo

A Roma, il 31 di  Agosto 2012

Qui ritorniamo necessariamente all’Etica e alla visione ebraica e hassidica della guarigione.

 

 

Imparare e guarire sono profondamente uniti

(Kaetz, p. 93)

“L’apprendimento organico è essenziale e può anche essere terapeutico. E’ più sano apprendere che essere malati o farsi curare”. (Moshè F. Le basi del Metodo, p. 37, Astrolabio, Roma, 1991).

Assunto che “la vita è un processo e non un’entità, e i processi vanno bene se ci sono molti modi per influenzarli” (ivi), chiediamoci qual è l’atteggiamento della mistica ebraica verso il problema della salute.

 

Esso non può che rinviare ad un concetto più globale di salvezza.

La porta che si apre si chiama Teshuvàh, che noi traduciamo pentimento e che in ebraico ha tre significati, quasi a darne una visione temporale in progress e stereoscopica, olografica: “ritorno”, “voltarsi indietro” o “invertire direzione”, “risposta”. (Cfr. La Rosa…cit,. pp. 104 e sgg.).

 

Al ritorno a Dio attraverso la Toràh, a quella relazione scambievole – vedi supra, pp. 8,9,10 – il cui risultato è il compimento della Creazione – corrisponde un voltarsi indietro, riconsiderando l’intera esistenza passata e separandosene, invertendo la direzione e scegliendo nuovi valori.

Su questa base, può iniziare il cambiamento, Tikkun, o rettificazione.

“La prima fase del processo di Tikkun è di riequilibrio. Per ogni azione sbagliata del suo passato” alla persona “è richiesto di compiere alcune azioni che superano ciò che viene richiesto a un “comune” individuo per completare e riequilibrare il quadro della sua vita”. (ivi. p. 111)

Successivamente, la persona “deve costruire, creare nuovamente e cambiare l’ordine del bene e del male, il modo tale che non soltanto la presente attività della sua vita acquisti nuova forma e direzione, ma che la totalità della sua vita riceva un valore solidamente positivo” (ivi, p. 111).

 

Ora, mentre rileggevo queste citazioni, mi venivano in mente immagini dello sviluppo di una CAM, di una Integrazione Funzionale, del percorso di una terapia come nel “caso di P.” che racconto più avanti, risolto lavorando con psicoanalisi e metodo Feldenkrais insieme.

 

La mia impressione è che siano perfettamente, quasi magicamente contenuti nell’affresco cabbalistico, nell’arco tra Teshuvàh e Tikkun.

 

Anche Edward Bach considera che “La malattia è di per sé benefica ed ha come fine quello di riportare la personalità alla volontà divina dello Spirito; può dunque essere prevenuta ed evitata”. Ma quando essa si presenta è “lo stadio terminale di un disordine molto più profondo”. ”C’è solo una situazione originaria di disagio o malattia”: “L’agire contro l’Unità”. E come ci dice poco più avanti, la sua ricetta è omologa a quella che congiunge Teshuvàh e Tikkun: “La stessa natura di una malattia sarà una guida utile per aiutarci a scoprire quale tipo di azione abbiamo commesso contro la Legge divina dell’Amore e dell’Unità”. (Edward Bach, Le Opere Complete, Macro Edizioni, 2002, pp. 181-183).

 

Siamo ritornati di nuovo, per un’altra via, ai temi del prezioso libro di Kaetz. Esso è l’anello mancante, il metalinguaggio senza il quale il Metodo Feldenkrais non è trasparente a se stesso e quindi non è nemmeno completamente insegnabile e trasmissibile.

 

Appartengo ad una generazione di intellettuali per cui il sichtbar machen di Freud è stato prima  di tutto un imperativo etico. A rendere visibile ci aveva insegnato per primo Marx con il suo linguaggio spettacolare, l’inversione dei genitivi, le capriole entusiasmanti di cui è costellata la critica del feticismo della merce. Tuttavia, un linguaggio che sempre rende conto di sé, passo dopo passo.

 

Freud ha prosciugato lo Zuyder See, sotto ha scoperto un altro continente ed ha progettato e realizzato il veicolo per esplorarlo e renderlo visibile – un super Challenger, anni luce avanti al cingolato della NASA per esplorare Marte quel suo linguaggio olografico – un Ebraico che parla Tedesco, un Ebraico potenziato e aufgehoben nei suoi rimbalzi tra Virgilio e Goethe, tra Shakespeare e Il Flauto magico; uno Yiddish dell’anima, una lingua franca che trova nel Tedesco la perfezione dello Zohar: “nella circostanza ottimale per espletare la sua funzione” (Zohar 1:135)” (Kaetz, pag. 97).

 

Freud che ha il coraggio di scrivere a Jung “ La Psicoanalisi è fondamentalmente una cura attraverso l’amore”- forse la sintesi più bella e amorosa per i mystical aknowledgments di Bion verso Sigmund, perché contiene quella Fede infinita che per Bion era la gründlich scientific attitude: Faith!

 

La Psicoanalisi è già in Freud il coraggio di perdersi nello spazio infinito insieme alla persona da analizzare con la Fede di ritrovarsi, 70 anni prima che Wilfred Ruprecht Bion in Transformations (1965) “attraversando il Rubicone della rispettabilità psicoanalitica” (Grotstein, 2007, p. 114), proclami la sua Psicoanalisi dell’Infinito Inconoscibile ( cfr. infra).

 

Cosa ne pensano Moshè Feldenkrais e i suoi epigoni di quella ininterrotta schiera di intrepid starship commanders dalla Fede incrollabile, da Eraclito a Platone a Meister Ekhart a  Itzhak Luria a Freud a Klein a Jung a Winnicott a Lacan a Bion, i capitani coraggiosi che sono riusciti a fermare l’autodistruzione dell’uomo? Che per farlo hanno creato la lingua per nominarla?

 

Negli scritti di M. Feldenkrais non ne ho trovato una sola citazione e nemmeno in quelli – davvero pochi – degli attuali trainers. E’ un mondo prevalentemente autoreferenziale, quello Feldenkrais, che si scomoda solo per qualche A. Damasio, K. Pribram, H. Maturana, F. Varela…In una lettera di Marty Weiner – che di prima formazione era un filosofo – una citazione di Martin Buber; in Carl Ginsburg una di Husserl e una di M. Merleau-Ponty.

In psicologia non si va oltre E.T. Gendlin – that is counseling. (Meglio che un calcio nei denti…)

 

Ma in che mondo vivono questi trainers Feldenkrais?!…

 

Un discorso a parte merita Daniel Stern e il gruppo che coordina all’UCLA – Univ. of Cal., Los A. . Vicino a loro, sebbene un po’ diverso, metterei anche Allan N. Schore, che compie un ciclopico sforzo transdisciplinare per fondare la sua Self regulation Theory, aperta alla Psicoanalisi (Affect Regulation and the Origin of the Self, 1994, Psichology Press, Taylor & Francis Group, New York and London).

Normalmente incasellati nella Attachment Theory – da cui hanno preso le mosse, meriterebbero però almeno un prefisso post-post in quanto sono approdati a mettere al centro del loro lavoro il self attunement, mollando gran parte della baracca Ainsworth-Bowlbyana. Per svilupparlo usano la Mindfulness: meditazioni eclettiche e Feldenkrais. Psicoterapie psicoanalitiche e non.

 

 

Forse la strada tutta in discesa, costellata di miracoli che Moshè Feldenkrais ha percorso nell’ultimo quarto di secolo della sua vita non lo ha messo di fronte ai limiti della sua invenzione; oppure li ha visti, ma li ha accettati, gli sono piaciuti così. Ha posto se stesso come modello unico di comportamento e ha voluto che la sua ermeneutica divenisse autonoma; ponendola come punto di incontro tra discipline neurologiche, biologiche, fisiche, matematiche, evoluzionistiche – il suo percorso – ma escludendone la metapsicologia, l’inconscio e la sua pratica trasformativa: la psicoanalisi. In parte, come abbiamo visto, era una difesa contro il ritorno del rimosso di Ashkenaz e in parte la convinzione di possederne i principi istintivamente, in quanto embedded, consustanziali alla cultura hassidica e cabbalistica in cui era cresciuto. Ma i suoi allievi, no. I trainers di oggi no. Vengono da altri mondi.

 

E’ chiaro che, in tal modo, salvo alcune eccezioni, ha creato cloni, copie di sé, magari tecnicamente di alto livello ma prive di quella flessibilità e di quell’apertura alle profondità della storia e al  mutamento dei tempi che la sua tradizione familiare e poi il lungo viaggio attraverso il Novecento aveva creato in lui.

Li ha lasciati appesi in una fiction, in un vuoto storico, (quello che il libro di Kaetz comincia a riempire) – lo stesso in cui si era sentito costretto ad isolarsi per sottrarsi all’orrore della distruzione incombente su di lui per decenni.

 

Di conseguenza, non si è preoccupato di progettare la formazione del futuro.

Chi poi l’ha fatto ha preso una via di conservazione. Ovvero di salvaguardare la professione Feldenkrais a partire da ciò che essa è in grado di garantire – vedi supra, pp. 1-4.

Ma lo scopo di riplasmare la mente e l’immagine di sé, a partire dai movimenti del corpo si è perso in buona parte per strada; l’ipotesi di una psicosomatica in grado di superare i limiti della psicoanalisi è rimasta, al meglio,  una petizione di principio. Al peggio, una pretesa arrogante.

Il pur geniale Mark Reese la sintetizza in termini che, sinceramente, sono sopportabili soltanto in camera caritatis al pensiero del fatto che, in qualche modo, inconsciamente o addirittura mal gré soi, Feldenkrais si è inserito nella profezia di Freud, portandola oltre:

 

“Benché criticasse Freud, Feldenkrais cercò di conservare il meglio e di espungere il peggio della psicoanalisi. Cercò di dare alla teoria psicologica una base più scientifica e più radicata nel corpo. Nelle ultime opere di Feldenkrais si nota come l’influsso di Freud diventi sempre più debole” (Premessa a L’Io potente, Astrolabio, 2007, p. 27).

 

Nota bene che proprio in quegli anni Bion esplodeva con la sua rivoluzione! E vivevano entrambi in Inghilterra!

 

Purtroppo lo vediamo. La pretesa di ristrutturare l’immagine del sé funziona ai livelli medio bassi, per le persone che non hanno problemi psichici seri, come “funzionano” metodi molto più banali, ginnastiche-ginnastiche, capaci solo di “autocentrare” l’individuo – vedi, per tutti, il “Pilates”.

 

Quella pretesa di Moshe Feldenkrais è purtroppo un vulnus contro la prospettiva olistica perché può illudere persone con gravi turbe della personalità, con problemi di relazione pesanti, a risolverli automaticamente nella pura dimensione Feldenkrais.

 

Ciò è impossibile e pericoloso.

 

Certo, “male non gli fa” andare al gruppo di CAM una o due volte la settimana o ricevere Integrazioni Funzionali. Meglio che andare a fare sciocchezze muscolari in palestra.

Ma questo al di fuori di una dimensione metapsicologica, di una talking cure dove si scrive una storia, si interpretano i sogni, le relazioni – il rapporto oggettuale vissuto dalla persona – oltre che inadeguato è un assoluto spreco, perché anche ciò che accade nell’Integrazione Funzionale Feldenkrais è interpretabile, utilizzabile e prezioso. Anzi, dal mio punto di vista è indispensabile all’interpretazione e alla trasformazione. (cfr. infra ” il caso di P.”).

 

Allo stato attuale del Metodo, chi mai si sentirebbe, oggi, di affidare una persona con problemi psichici seri ad un insegnante Feldenkrais, pure il più aperto e geniale della terra? Penso che sarebbe lui stesso a declinare l’offerta.

 

Scienza o ermeneutica?

Trovando un altro Feldenkrais

 

“Esistono problemi che la conoscenza non può risolvere. Un giorno capiremo che la scienza è solo una variante della fantasia, una sua specializzazione, con tutti i vantaggi e tutti i pericoli collegati alla specializzazione” Georg Groddeck, Il libro dell’Es

 

Più in generale, il Metodo Feldenkrais porta nell’analisi einen anderen Schauplatz, un’altra scena. Un teatro dove il corpo è protagonista. Un corpo con cui interagire sulla base del metodo anatomofisiologico di Feldenkrais ma da interpretare anche attraverso il simbolismo dell’Albero della vita, delle dieci Sefiròt della tradizione cabbalistica, per riattivarne i collegamenti, che sono al tempo stesso fisici-e-simbolici.

Questo non è il luogo per resoconti terapeutici; ma solo per un rapido esempio.

 

Una paziente, P., è stata abbandonata dal marito “che voleva la sua libertà”. E’ profondamente addolorata e sente rabbia poiché lo trova ingiusto: lei lo ama ancora ma l’uomo si sottrae a qualsiasi dialogo e chiarimento. D’altra parte, egli continua ad andare e venire da casa. P. gli impone la separazione e il divieto di accesso alla casa in cui vive con la figlia adolescente. Casa di cui però ciascuno possiede la metà. L’uomo insiste perché la casa sia venduta e il ricavato diviso. Ma la donna non vuole nemmeno sentirne parlare, attribuendo la responsabilità e la colpa della situazione al marito.

 

(Segue a pag 40 dopo l’immagine dell’Albero della Vita)

 

 

 

Soffre di pesantezza alla testa. Dolori alle vertebre cervicali e agli estensori del collo. Dolori alle braccia e alle spalle. Sente la testa che le cade. Angoscia, insonnia, incubi dove si sente una clandestina, non ha una casa (!) sogna che deve escogitare trucchi per poter dormire in ospedali, ostelli della Caritas…. Fiori di Bach: Rock Rose, Impatiens. Funziona. Dorme.

Nelle prime sedute si scopre che pratica tamburi Zen, attraverso cui “si sfoga”. Chiariamo nell’analisi: è la rabbia. Ma lo fa in modo troppo violento e da qui i dolori, il rimbombo attraverso le spalle nella colonna e nella testa. Sospetto di irritazione dell’Ottavo nervo cranico nello squilibrio della testa. Ma lo squilibrio fondamentale è tra le Sefiròt di Chésed – Amore e Misericordia – e Ghevuràh – Forza e Giustizia; funzioni delle spalle – le articolazioni dalle braccia fino alle mani – unite dal sentiero Aleph (le scapole) – qabbalisticamente la saggezza, l’unione degli opposti, le ali dell’aquila, “l’uccel di Dio” (Dante, Paradiso, VI…); “…La capacità dello tzaddik di vedere “oltre”, è la visione globale che egli ha della realtà in attesa del futuro…” Yarona Pinhas, Onda sigillata, Giuntina, Firenze, 2008, p. 67). Sentiero Aleph che interseca la Settima cervicale e tutti i sentieri di collegamento tra le Sefiròt superiori e Tiféret, la Sefiràh di Bellezza Verità e Toràh, funzione del cuore. Il blocco di Aleph dis-integra letteralmente testa spalle torace, impedisce loro di funzionare insieme; ovvero impedisce alla persona di esserci intera con tutta se stessa. Intanto P. chiarisce che nei tamburi cercava disperatamente di “darsi un ritmo da seguire”; ma ha capito che quel ritmo deve sgorgare spontaneamente da tutto il suo essere, in unità (Yichud).

Con integrazioni funzionali e CAM il corpo lentamente riacquista la sua unità, i dolori diminuiscono. Si convince a ridurre i tamburi, fino ad abbandonarli. Il lavoro psicoanalitico la mette in grado di elaborare la separazione dal marito – dalle parti di sé con-fuse a lui. Sogna mondi dove ciascuno sta così bene con se stesso che sta bene anche con gli altri e bastano poche parole o addirittura solo sguardi per comunicare.

 

Ora è lei che sente il bisogno di vendere la casa, non ci si riconosce più, ne vuole una più piccola ma che la rappresenti, la rispecchi com’è oggi.

Sogna un’alluvione che spazza via una città e i suoi abitanti mentre lei guarda da un’altura quell’apocalisse di sapore dantesco, meravigliandosi della sua salvezza. Le “ali dell’aquila” adesso ci sono, l’hanno condotta sull’altura e le danno “la visione globale (…) della realtà in attesa del futuro…”.

 

Tratta finalmente la figlia come un’adolescente, qual è; se è il caso la manda al diavolo (non è più fantasma/alias/ricatto del marito) ma ciò non infirma la complicità che le lega, la voglia di divertirsi insieme; e quando incontra l’ex marito con il suo atteggiamento sbruffone, le sue battute non la feriscono più come un tempo.

 

I dolori alla testa e alle spalle sono diventati molto più rari.

 

L’Analisi è durata finora 9 mesi, una seduta la settimana. Dopo la pausa estiva potremo probabilmente iniziare la Sintesi.

 

Penso che si tratti di un esempio in cui l’ascolto e la pratica Feldenkrais si raccordano alla tradizione dell’ascolto hassidico e di quello psicoanalitico attraverso le intuizioni e il genio di Wilfred Ruprecht Bion, che della Cabbalà ha assunto il quadro di riferimento, la Weltanschauung. Qui c’è il sintomo, la resistenza, che si manifestano fisici; e fisicamente, oltre che psico-analiticamente sono trattati.

 

Una Psicoanalisi dell’Infinito dove non esistono certezze e dove l’analista attraverso la capacità di rêverie, di contenimento, di sognare la sessione, utilizza Tutto e Nulla – tenendo fermi i Due principi e la Traumdeutung (L’Interpretazione dei Sogni) di Freud e l’identificazione proiettiva e la posizione depressiva di Klein – per tentare di intercettare le schegge dell’esplosione di “O”, qualcosa di insostenibile che è costituzionalmente umano ma di cui al tempo stesso ci sfugge la logica: “Il nostro sistema psicofisico produce stati che non è in grado di processare, le sue produzioni sono aldilà della sua capacità di digerirli e di utilizzarli…In una delle sue immagini, Bion suggerisce come analogia il paradosso di un’emorragia mortale all’interno degli stessi tessuti del nostro corpo “(Michael Eigen, Kabbalah and Psychoanalysis, Karnac Books, London and New York, 2012,  p.23; W. Bion, Attention and Interpretation, p. 12, Tavistock, 1970, and Karnac, 1984)).

“O” come origine inconscia, inconoscibile infinita e innominabile di una nevrosi/psicosi. “O” come Godhead (Bion) o Godhood (Grotstein), la nostra parte di Divinità. Solo elaborando la sua perdita, il suo lutto possiamo arrivare a noi stessi e recuperarla. Con la Fede che esiste una Realtà Ultima, trascendentale (Kant) e omologa a quella divina, cabbalisticamente en sof or, “infinita luce” – en sof, “infinito”, en “niente”. Esplosione di “O” che, pure, è individuabile, tracciabile, le sue schegge alla deriva nello spazio senza fine sono recuperabili, si lasceranno conoscere e nominare. E dove?

 

Nell’Infinito che ciascuno di noi porta stampato su di sé nell’Albero della Vita, nelle dieci Sefiròt-funzioni del corpomente il cui accesso è stato aperto come non mai da Moshé Feldenkrais, il germoglio hassidico nato in una Ashkenak sull’orlo dell’abisso e trapiantato nella Alt Neuland, la Vecchia Nuova Terra di Israele; e dall’Englishman born in India Wilfred Bion (1897-1979), l’intrepid tank commander delle Ardenne (Legion d’Honneur, 1918; “morto” in battaglia, come lui stesso scrive – “I died on the Amiens-Roye road, on August 8, 1918” (vedi nota 1) – e rinato da quella sua explosion of “O” nella psicoanalisi di Melanie Klein, che ha accerchiato con il suo plotone di invenzioni metapsicologiche radicali la psicoanalisi dei tempi andati, esplodendo i suoi modi nello sconosciuto, inconoscibile innominabile trascendentale Infinito della Cabbalà, ma trasformabile e lavorabile in conoscenza – transforming “O” into K(nowledge)accerchiabile (cfr. supra, il caso di P.)  attraverso l’Albero della vita e la sua nuova psicoanalisi, con la Fede nell’esistenza di una Realtà Ultima. Una psicoanalisi dove il corpo era presente, ma solo per essere interpretato e trasceso.

 

Però The Times they are a changin’ cantava e canterà per sempre Bob Dylan; e dopo che i movimenti studenteschi hanno innescato la rivoluzione sessuale dei Sessanta, il corpo finalmente sdoganato può venire accettato come medium dialogico nell’anamnesi e nella ricostruzione dell’io. Non più presente nella consulting room solo per essere interpretato e trasceso, oppure, reichianamente, mezzo per una scarica liberatoria, bensì corpomente dialogante attraverso il contatto e il tocco con il corpomente del practitioner in una talking cure che parla anche un’altra lingua, Eine andere Sprache aber in dasselben Schauplatz – un’altra lingua ma sulla stessa scena – unificate in una sola lingua mistica. Via uguale e al tempo stesso via altra dalla parola – derekh Burma dicono, memori della English road lunga 3.000 chilometri in Birmania, i vecchi Israeliani legati da amore-odio agli Inglesi, come sicuramente fu anche M. Feldenkrais – percorso alternativo attraverso/intorno alle difese del paziente nei confronti dell’analisi, come io stesso continuo a sperimentare con stupore e gioia. Capace di materializzare e trattare fisicamente il sintomo e la resistenza – vedi supra il caso di P.; e di dare al tempo stesso spazio alla parola, alla talking cure. E’ il modo più semplice e diretto per fare Neuropsicoanalisi.

 

Dunque, come è stato bene espresso da Bollas per la Psicoanalisi – vedi supra, pag. 18 – i processi distruttivi e autodistruttivi dell’umanità hanno compiuto nell’ultimo secolo passi da gigante ed era necessario un salto di qualità nel contrasto; ecco arrivare il Metodo Feldenkrais, che, come “compimento di un percorso filogenetico ed evolutivo”, è anch’esso “figlio della necessità”.

 

Consapevoli dell’urgenza di quella necessità, ci siamo messi in cammino, trovando un altro Feldenkrais; nella nostra pratica e nel prezioso libro di David Kaetz.

 

Un Moshè Feldenkrais disponibile a lavorare insieme al suo coetaneo Wilfred Bion, cabbalista paradossale e visionario quanto lui.

Nella loro ultima vita non hanno potuto farlo, ma possono in quella successiva.

 

Che è il tempo della nostra vita.

 

Il nostro compito.

 

Grazie Moshè, grazie Wilfred, grazie David!

 

 

L’acqua sionista e l’acqua socialista

 

Voglio concludere con una storia di sapore hassidico che è quasi un instant movie. Mi tocca però di scrivere un’intera pagina per dare il senso di quelle 17 parole.

 

Nel 1995, a conclusione di un soggiorno in Israele durante la mia parentesi di ricerche archeologiche, filmai la lunga intervista ad uno dei padri di Israele, che in quegli anni è stato un padre anche per me e tale sarà per sempre.

 

Yoel De Malach (1924-2001), nipote di Enzo Sereni, partito per lo Yishuv a 16 anni da Trieste sul piroscafo Galilea nel 1940, ha lasciato il suo corpo materiale da parecchi anni ormai ma continua a vivere insieme a tutti noi che lo abbiamo conosciuto e amato.

Botanico sommo e archeologo della botanica e dell’agricoltura, ha ricostruito le fattorie Nabatee che con le rare piogge funzionavano in automatico, in regime di aridocultura; Premio Israele per le ricerche desertiche nel 1986, a lui si deve l’impulso principale per l’utilizzo dell’immensa falda di acqua salmastra scoperta nel 1970 a 1000 metri di profondità sotto il deserto del Negev e artesiana fino a 300.

Senza le ricerche di Yoel e della sua équipe del Centro per l’Agricoltura Desertica di Ramat Négev, che hanno modificato geneticamente le principali piante commestibili rendendole resistenti all’acqua salmastra, il Négev – due terzi del territorio di Israele – non potrebbe essere oggi quella nuova frontiera di sviluppo economico e demografico, brulicante di idee e iniziative agricole e industriali.

 

Quell’acqua scorre in tutta la regione pompata dentro grossi tubi di  colore rosso che si affiancano ad altrettanti tubi azzurri che portano l’acqua dolcissima del Condotto Nazionale del Giordano, che viene dal lago di Tiberiade, e che è molto più cara: ma è indispensabile, perché senza un quarto d’acqua dolce, con la sola salmastra, la coltivazione è impossibile.

 

Eravamo in un’area di alberi da frutto del kibuz di Revivim, il sole stava tramontando alla fine di una delle solite giornate estive a 45° Celsius all’ombra e il camcorder Betacam sulla mia spalla – il combo Ampex 300, compagno di viaggio per dieci anni – era un grumo di schede elettroniche in ebollizione a 70° Celsius dentro una camicia di duralluminio rovente; ma secondo le spie nel viewfinder incideva ancora eroicamente sul nastro le immagini in componenti e il Time Code.

Yoel De Malach – uno dei 12 ragazzi della haShomer haTzayr e poi maapilim (socialisti) che fondarono il kibuz nel 1943 – concluse l’intervista così, indicando i tubi di diverso colore:

 

“Io dico che questa blu è l’acqua sionista; e questa rossa è l’acqua socialista. Lavorano insieme”.

 

Sono convinto che lo stesso debbano fare il metodo Feldenkrais e la psicoanalisi di Bion.

 

Un’altra versione, più sentimentale, meno hassidica e un po’ più eccentrica rispetto al nostro tema. Esteticamente ripensata.

 

Fin qui eravamo sulle Ali dell’Aquila, il sentiero Aleph tra Chésed e Gevuràh; adesso scendiamo al cuore, a Tiféret – Bellezza, Verità, Toràh.

Yoel ha alle spalle due filari di vite che corrono verso il sole che sta tramontando – ormai è in Egitto, di là dal Sinài e dai Laghi Amari, forse già incanta il Nilo.

 

I dardi arancione del tramonto trapassano le foglie ventose accendendo la candida testa leonina di Yoel di riflessi di rame incandescente; quando dice “Lavorano insieme” gli inondano gli occhi che brillano come non mai in un’espressione emozionata e visionaria – sì, proprio come in Kipling: “His eyes glittered in more than oriental splendour”!

 

E’ la tua profezia, havèr veTzaddìk צדיק בר וה  compagno e Giusto Yoel De Malach, Giulio De Angelis scappato da Roma perché le Leggi Razziali ti impedivano di studiare e di vivere e rinato in Alt Neuland e in Altneusprache – be Israel ve be Ivrìt בישראל ו בעברית  : tu che hai viaggiato il pianeta per insegnare ai popoli dei deserti ciò che hai divinato nel tuo, nel nostro deserto. Sono onorato di averla raccolta con la mia Betacam, in quel tramonto, Profeta del Negev, Nabateo del Terzo Millennio.

 

 

Roma, 30 luglio 2013                                              אור ןב בארוך  Baruch Ben-Or

                                                                           (Eugenio Bongioanni)

 

psychofeldenkrais@yahoo.it

FINE

NOTE

* Saggio su Making Connections – Hasidic Roots and Resonance in the Teachings of Moshe Feldenkrais di David Kaetz, 2007.

(1) Per farsi un’idea generale di quanto il metodo talmudistico assomigli al  modus operandi di Bion, vedi Grotstein, 2007, op. cit., p. 11. Un’analisi dettagliata e articolata delle profonde analogie di entrambi con il metodo Feldenkrais apparirà nel mio prossimo libro.

 

(2) Un’analisi accurata di Il caso di Nora, l’unico resoconto terapeutico autografo pervenutoci di M. Feldenkrais, getta una luce definitiva sul suo bisogno di rimozione; particolarmente della figura del padre e della cultura esoterica ebraica. Anche questa apparirà nel mio prossimo libro.

 

(3) E’ curioso che anche M. Feldenkrais sia molto probabilmente “morto” in quegli stessi mesi, durante il viaggio iniziatico verso la Palestina (Vedi supra, pag. 18).

Peccato che, al contrario di Bion, non ce ne dia notizia…Ma solo indizi.

Bibliografia essenziale di Wilfred Ruprecht Bion

 

I fondamenti:

Learning from Experience, 1962; Transformations, 1965; Attention and Interpretation, 1970.

Tutti Karnak Books, London.

 

Da qui, poi, si irraggiano altri percorsi. Vedi www.karnacbooks.com

 

A chi intende avvicinarsi seriamente a Bion conviene farlo in Inglese perché è più semplice: Bion è un poeta, come Winnicott – e come Freud – i contenuti che esprime sono inestricabilmente e creativamente embedded nella loro forma letteraria.

 

L’Inglese di Bion è l’Inglese di un bambino – o meglio di un demiurgo bambino, come quello di Chaucer, dello Shakespeare dei sonetti, di William Blake.

 

Una lingua innocente, come l’Ebraico della Torah.

Una Ursprache inconsapevolmente cosciente di stare creando Universi.

 

La traduzione in Italiano frantuma il senso profondo di Bion come la traduzione in Greco ha frantumato quello della Torah.

Va bene che ci si sono messi, ultimamente, Parthenope Bion Talamo e Armando Armando: non proprio i primi due che passano.

E’ come se Pasolini avesse tradotto la Torah – senza dubbio un caso poetico di grande interesse, ma sempre, fatalmente, altra cosa.

 

Non voglio però escludere categoricamente che possano esistere altre vie, attraverso altre lingue, per avvicinare Bion – come per Torah, Freud, Marx. Ma non per conoscerlo. Certo, si può farlo anche – e certamente in modo privilegiato – entrando in una terapia psicoanalitica Bioniana… . Però anche quest’esperienza non è sufficiente ad una sua conoscenza completa, che passa attraverso la lettura delle sue opere in lingua originale.

 

Due libri che testimoniano la ricezione di Bion e che ho già citato sono A Beam of Intense Darkness di James S. Grotstein, Karnak, 2007 – un approccio globale, un esame dettagliato, quasi un’enciclopedia bioniana; e Kabbalah and Psychoanalysis di Michael Eigen, Karnak, 2012, raccolta di due seminari sul tema.

Entrambi risuonano della lezione bioniana, testimoniandone un’esperienza profonda.

 

Bion Today di Chris Mawson, Routledge, 2010, è un’antologia a più voci che copre un panorama di ricezione e influssi di Bion ancora più vasto.

 

Sul sito www.karnacbooks.com si può trovare la bibliografia più vasta su Bion.

 

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