Una materialità rimossa: recuperare il materialismo nella teoria del riconoscimento di Axel Honneth


Jean-Philippe Deranty

Macquarie University, Sydney
jp.deranty@mq.edu.au

 
 
 
Abstract: This paper attempts to accomplish two related tasks: a genealogical, exegetical one and a programmatic one. The genealogical reconstruction of Axel Honneth’s theory of recognition serves the aim of making a few propositions for the continuation of the project of a critical theory of society. The first task is guided by the purpose of highlighting the materialist background against which Axel Honneth’s ethics of recognition grew. The beginnings of the theory of recognition lie in the assumption that historical materialism could be salvaged if it was re-grounded in anthropological materialism. In the course of its development, however, the ethics of recognition has tended to focus more and more on intersubjective interactions understood narrowly, and to repress the material mediations with which these interactions are implicated. My argument in conclusion will be that this was a misguided development and that retrieving these material mediations might allow a more substantive model of critical theory. I attempt to give an example of what such theory could look like with the paradigmatic case of work.
 
Keywords: Honneth; materialism; work; recognition; interaction.
 
 
 

Questo saggio[1] tenta di ottemperare a due compiti tra loro connessi, uno genealogico ed esegetico, l’altro programmatico. La ricostruzione genealogica della teoria del riconoscimento di Axel Honneth è volta a formulare alcune proposte per la prosecuzione del progetto di una teoria critica della società. La premessa fondamentale del saggio è che la teoria del riconoscimento di Honneth costituisce sì un modello valido a partire dal quale condurre fruttuose indagini critiche della società contemporanea, ma un modello che deve essere corretto e, più specificamente, corretto attraverso il ricongiungimento con il suo background originario.

Il primo compito è guidato dall’intento di far luce sul terreno materialista, a partire dal quale si è sviluppata l’etica del riconoscimento di Axel Honneth. Con “materialismo” intendo due prospettive diverse ma strettamente connesse: in primo luogo, “materialismo” nel senso del materialismo storico. La preoccupazione che soggiaceva al progetto di Honneth era infatti quella di dar luogo a una valida riattualizzazione del materialismo storico, al fine di rispondere alle sfide concettuali ed empiriche che questo paradigma aveva dovuto fronteggiare in seguito al variare delle circostanze teoriche e sociali. Il secondo senso di “materialismo” è quello legato al nome di Ludwig Feuerbach. Nei suoi scritti giovanili, Honneth riteneva che il materialismo storico potesse superare le sue lacune concettuali e i tratti inattuali di alcune sue diagnosi attraverso il ritorno alle sue basi antropologiche. In breve, gli inizi della teoria del riconoscimento si trovano nell’ipotesi secondo cui il materialismo storico poteva essere salvato, se fosse stato rifondato in un materialismo antropologico. Nel corso del suo sviluppo, tuttavia, l’etica del riconoscimento ha teso sempre più a focalizzarsi sulle interazioni intersoggettive strettamente intese, e a rimuovere le mediazioni materiali con cui queste interazioni sono intrecciate.

Secondo la mia tesi conclusiva, questo è stato uno sviluppo fallace, e ripristinare queste mediazioni materiali potrebbe conferire maggiore solidità a un modello di teoria critica. Tenterò inoltre di fornire un esempio di come dovrebbe configurarsi una simile teoria, riferendomi al caso paradigmatico del lavoro.
 
 
1. Il progetto iniziale di Honneth: un’attualizzazione critica del materialismo storico
 
La teoria del riconoscimento di Honneth, per come essa è presentata in Lotta per il riconoscimento (Honneth 1995) e in Redistribuzione o riconoscimento? (Fraser, Honneth 2003), è di norma ricondotta al filone post-hegeliano della filosofia sociale e politica contemporanea. Molto spesso, soprattutto nel contesto americano, il nome di Honneth è associato a quello di Taylor, sebbene le loro letture e i loro usi di Hegel non siano compatibili. Questa immagine di Honneth come pensatore influenzato da Hegel è ovviamente ben fondata, dal momento che Hegel è, insieme a Mead, la principale fonte di ispirazione dell’opera in cui il suo modello compiuto è stato presentato in forma sistematica. Tuttavia, prima del libro del 1992, Hegel era stato a stento menzionato negli scritti di Honneth, e non costituiva un riferimento così importante. L’autore-chiave prima del 1992 era in realtà Karl Marx, e l’interesse teorico fondamentale negli scritti giovanili di Honneth era lo sviluppo di una teoria materialista della società. Nei suoi primi testi, Honneth, seguendo l’esempio di Habermas, tentava di fornire una ricostruzione del materialismo storico alla luce di mutate condizioni storiche e teoriche. La teoria del riconoscimento esposta nei testi degli anni ’90 appare in una luce assai diversa se è letta come soluzione di un insieme di questioni che erano state formulate in un contesto marxiano, o post-marxiano, anziché strettamente hegeliano.

Questo elementare rilievo testuale pone già l’etica del riconoscimento di Honneth in un’ottica che è in significativo contrasto con le sue letture invalse. Come tentativo di concepire una versione aggiornata di una teoria storico-materialistica della società, la teoria del riconoscimento è soprattutto un ambizioso progetto che mira a sostituire i precedenti modelli di teoria sociale. Prima ancora che un tentativo di rispondere a specifiche questioni etiche o filosofico-politiche, prima di essere una teoria della giustizia, essa è una teoria che mira a dar conto dell’integrazione sociale, della riproduzione sociale e della possibilità della trasformazione sociale nelle società contemporanee. Ovviamente, come teoria della società, la teoria del riconoscimento deve molto a Habermas. Essa segue Habermas accettandone e sviluppandone due premesse fondamentali: quella secondo cui l’integrazione sociale è un processo normativo e non (soltanto) sistemico, e quella secondo cui essa è un processo “intersoggettivo”, cioè un processo in cui la coordinazione delle azioni individuali deve essere spiegata non come somma di individui già esistenti e costituiti, bensì attraverso i meccanismi per il cui tramite gli individui socializzati condividono apparati simbolici sovra-soggettivi. La teoria del riconoscimento non è tuttavia una mera variazione sulla teoria comunicativa della società di Habermas. Essa assume anzi nei confronti di Habermas una decisa posizione critica, di portata almeno pari a quella del debito teorico maturato. L’intero complesso ermeneutico concepito da Honneth nei suoi scritti giovanili era piuttosto sofisticato, perché Habermas era criticato da una prospettiva neo-marxiana, la quale tuttavia era stabilita mutuando le premesse fondamentali della teoria comunicativa della società dello stesso Habermas. Honneth seguiva Habermas nella sua critica di Marx e del marxismo ortodosso, ma si distanziava da lui continuando a tener vive problematiche specificamente marxiane contro il modello di una teoria integralmente comunicativa della società. Se guardiamo un po’ più da vicino ad alcuni dettagli di questa strategia, la mia tesi secondo cui la teoria del riconoscimento ha origini materialiste potrà auspicabilmente trovare conferma.

L’idea decisiva nella ricerca teorico-sociale di Honneth scaturisce dalla sua adesione alla celebre critica habermasiana, secondo la quale Marx avrebbe fatto collassare il concetto di interazione su quello di lavoro sociale, e alla tesi che direttamente deriva da questa critica, cioè all’idea di una intesa intersoggettiva come meccanismo di integrazione sociale indipendente, accanto al lavoro (Habermas 1974)[2]. È questa celebre distinzione di lavoro e interazione a fornire a Honneth l’argomento-chiave per sviluppare una prospettiva che lo mette in condizione di prendere posizione nei dibattiti dell’epoca riguardanti il significato filosofico e politico dell’opera di Marx[3].

L’adozione di un approccio intersoggettivistico al fine di riattualizzare il materialismo storico conduce a un rifiuto delle prospettive funzionaliste e a un allineamento con le teorie della prassi. Contro il determinismo delle letture economicistiche e funzionalistiche, le diverse varianti del marxismo “della prassi” si imperniano sulla centralità dell’azione storica e sociale. Per quanto riguarda l’esegesi marxiana, esse tendono a negare che vi sia una radicale cesura tra gli scritti giovanili e umanisti di Marx e i suoi maturi studi storici, da un lato, e lo studio più “sistematico” dell’economia politica, dall’altro. Per lo più le interpretazioni imperniate sulla categoria di prassi riconducono alla prima teoria dell’alienazione l’argomento normativo centrale che opera della critica del lavoro astratto e del lavoro salariato nel Capitale. Uno dei primissimi testi di Honneth, pubblicato nel 1977, rappresenta un buon esempio di questa giovanile adesione al marxismo della prassi. In questo testo, Honneth esponeva una dettagliata critica del marxismo strutturalista, colpevole di una posizione riduzionista riguardo la soggettività e la storicità, e argomentava invece in favore di un concetto di agire sociale concepito come «prassi interattiva tra soggetti di azione» e come «intersoggettività storica» (Honneth 1977). Questo programma di una filosofia della «intersoggettività storica» e dell’«agire sociale» si collegava in modo sostanziale con la critica del concetto di lavoro sociale – una critica che costituiva un tema centrale nella prima ricerca di Honneth. In un altro testo dello stesso periodo, Honneth sosteneva che, per ragioni sia concettuali, sia empiriche, il lavoro non poteva più adempiere al suo ruolo di categoria centrale capace di dar conto sia dell’integrazione sociale, e sia dell’azione emancipativa (Honneth 1990a). Tuttavia, questa connessione tra teoria sociale e critica sociale, tra la teoria della riproduzione sociale e la teoria della trasformazione sociale, era identificata da Honneth come il tratto teorico distintivo e più importante della teoria della società di Marx. Inoltre, era proprio in virtù del fatto che, al fine di dar seguito in modo convincente al programma di una teoria materialista della società, questa connessione doveva essere mantenuta, che occorreva sostituire la confusa nozione di lavoro sociale con quella di interazione comunicativa.

La serie di tesi avanzata da Honneth nei suoi primi articoli era chiaramente organizzata in modo tale da usare Habermas per criticare tanto Marx quanto certe varianti del marxismo contemporaneo, ma con lo scopo di sviluppare una riattualizzazione alternativa della filosofia sociale di Marx. Detto nei termini della successiva teoria del “riconoscimento”, la versione modificata dell’agire comunicativo, fornita da Honneth, è sì un concetto hegeliano, ma un concetto hegeliano che serve scopi marxiani, e non hegeliani. Secondo Honneth, tale concetto è chiamato a rimpiazzare l’ormai inattuale categoria del lavoro con una categoria che l’esperienza storica e il progresso della filosofia hanno mostrato essere più appropriata. È essenziale notare, tuttavia, che la struttura della teoria – una teoria della società inestricabilmente legata a una teoria dell’emancipazione – rimane la stessa, ed è una struttura marxiana, e non hegeliana. A mio giudizio, questa idea è decisiva al fine di accostarsi correttamente alla teoria della società di Honneth. In particolare, essa dà conto della sua insistenza sul mantenimento di un “monismo” metodologico nella teoria sociale, che a molti appare inattuale o mal posto[4]. Infatti, il “monismo morale” di Honneth appare ben spiegabile se collocato nel contesto della sua iniziale individuazione degli specifici tratti metodologici di una teoria materialista della società, in cui la teoria dell’integrazione sociale contiene anche le norme sulla base delle quali può essere giustificata e spiegata la trasformazione. In effetti, questa struttura “monistica” della teoria sociale appartiene non soltanto al progetto di Marx, ma anche al programma originario della Teoria critica. Questo è esattamente il significato della celebre massima della “trascendenza nell’immanenza”, che connota il primo programma della Scuola di Francoforte. Potremmo così perfino spingerci a dire che non è soltanto Hegel, ma la stessa Teoria critica, a essere impiegata per finalità marxiste.

Il primo passo nella traiettoria intellettuale di Honneth fu dunque quello di stabilire una posizione “intersoggettivistica” nel dibattito neo-marxista. Fatto ciò, comunque, una rinnovata comprensione della prassi poteva essere retroattivamente applicata allo stesso Habermas. A ben vedere, è un fatto – che è opportuno sottolineare, e che di per se stesso può già suffragare con forza una lettura materialista del paradigma del riconoscimento – tutte le argomentazioni critiche mosse contro Habermas negli scritti che culminano negli ultimi tre capitoli di Critica del potere (vale a dire, i testi che vanno dagli inizi degli anni ’80 alla metà del decennio) sono costruite dalla prospettiva neo-marxista di una filosofia dell’«agire sociale», o della prassi. Un rapido sguardo ai punti critici sollevati da Honneth contro Habermas nei suoi primi lavori può essere utile a dar corpo a questa tesi.

 

  1. Nonostante la critica della confusione concettuale e dell’obsolescenza empirica del concetto marxiano di lavoro, Honneth, in uno dei suoi articoli giovanili più noti, confrontava la fatidica riduzione habermasiana del lavoro all’agire strumentale con la ricca portata normativa del concetto di lavoro di Marx, e difendeva il ritorno a una «concezione critica [normativa] del lavoro» (Honneth 1990b). Questo programma fu presto abbandonato, ma l’idea secondo cui la distinzione analitica tra agire comunicativo e agire strumentale contiene il rischio di una concezione riduttiva dell’interazione rimase un’intuizione importante negli scritti successivi.

 

  1. Un certo numero di tratti della teoria comunicativa della società di Habermas era identificato da Honneth come portatore delle maggiori difficoltà per la prosecuzione del programma materialista.

 

In primo luogo, la decisa critica honnethiana del dualismo di sistema e mondo della vita si ispirava al tentativo di Marx di costruire una teoria unificata attorno a un meccanismo centrale di integrazione sociale. Assumendo questo monismo metodologico come un’indicazione fondamentale, Honneth criticava allora l’affiancamento dell’integrazione sistemica alla comunicazione, percependo in questo gesto teorico il pericolo di una neutralizzazione della capacità della teoria della società di intraprendere la critica delle istituzioni economiche e amministrative. In particolar modo il sistema economico appariva lasciato per così dire intatto dalla teoria di Habermas, che si limitava a denunciarne lo sconfinamento nel mondo della vita. La tesi della colonizzazione del mondo della vita sembra perciò produrre un grave indebolimento del progetto critico. Tale deficit critico appare evidente a paragone della critica immanente dell’economia politica capitalistica fornita da Marx. Conseguentemente, uno degli scopi principali sottesi al passaggio, compiuto da Honneth, dal paradigma della comunicazione a quello del riconoscimento, è evitare qualunque dualismo nella teoria dell’integrazione sociale, in modo da poter condurre di nuovo dall’interno una critica delle istituzioni[5].

In secondo luogo, la critica di Honneth ai vari tentativi, condotti da Habermas, di delineare un modello evolutivo di sviluppo sociale, è informata da un focus su Marx come filosofo dell’agire sociale[6]. Habermas è accusato di aver promosso una visione della storia non più sensibile al ruolo del conflitto nell’evoluzione sociale. Questo è lo stesso argomento che veniva sollevato contro il marxismo di stampo strutturalista e che era incardinato su una lettura dell’intero corpus marxiano come teoria della «intersoggettività storica».

In terzo luogo, anche le prime proposte di Habermas per una logica dell’evoluzione sociale sono accusate di essere incapaci – malgrado il loro scopo auto-ascritto – di riferirsi in modo rilevante e utile alle lotte che attraversano la società contemporanea. Siamo di fronte al tipico argomento storico-materialistico, centrato sulla necessità di articolare teoria e pratica nell’esercizio della teoria stessa.

 

  1. Più specificamente, la critica all’etica del discorso di Habermas, di cui Honneth rileva la scarsa considerazione dei problemi connessi al concetto di classe – cioè la tendenza di Habermas a trascurare il continuo ruolo strutturale svolto dalla lotta di classe nelle società tardo-moderne – è ovviamente mossa in virtù di una preoccupazione di ispirazione direttamente marxista (cfr. Honneth 1990c).

 

  1. Infine, la critica mossa da Honneth alla linguisticizzazione della teoria sociale è, come vedremo, ispirata dalla convinzione che il filo tematico della teoria dell’azione in Marx possa essere ricondotto al suo implicito e costante fare affidamento su un modello sostanziale di natura umana che risale alla precoce inclinazione favorevole di Marx verso Feuerbach e il materialismo antropologico. Questo filone antropologico del materialismo storico dirige l’attenzione su forme extra-linguistiche di interazione e normatività che sfuggono allo sguardo di una teoria sociale oltremodo deferente verso i vincoli metodologici derivanti dall’adesione alla svolta linguistica.

 
 
2. Il recupero del materialismo antropologico
 
Uno dei tratti più originali del tentativo di Honneth di ricostruire il materialismo storico ai fini di una sua riattualizzazione è connesso alla sua critica dei limiti della svolta linguistica appena menzionata. Mediante il ritorno alle fonti antropologiche del materialismo storico, Honneth sembra voler navigare in un solco tra Marx e Habermas, mantenendo le più importanti intuizioni filosofico-sociali di entrambi, e correggendone nel contempo le rispettive astrazioni. Il contributo fondamentale apportato da Habermas consiste nella dimostrazione della necessità per la filosofia e per le scienze sociali di passare attraverso un radicale mutamento di paradigma – la svolta intersoggettivistica. Questa svolta, che si presenta come derivante da decisivi sviluppi nella filosofia e nelle scienze sociali, colta nel suo significato più specifico per la teoria sociale consente di superare il riduzionismo funzionalista connesso tanto all’opera di Marx, quanto ai successivi sviluppi del marxismo. Tuttavia, nell’opera di Honneth, questo argomento habermasiano non era riproposto in quanto tale, bensì nella misura in cui esso era funzionale a un’appropriazione attualizzante del pensiero marxista. Questa riappropriazione conduce a sua volta direttamente alle origini antropologico-materialiste del pensiero di Marx, e favorisce lo sviluppo di una teoria materialista dell’intersoggettività che può essere rivolta contro Habermas, rendendo pienamente evidenti le astrazioni legate al suo modello linguistico di interazione. Per indagare questo secondo aspetto materialista del pensiero di Honneth, dobbiamo sostare brevemente sul primo libro di Honneth, pubblicato nel 1980 con Hans Joas, Agire sociale e natura umana.

Il libro fornisce una ricostruzione storico-concettuale della tradizione dell’antropologia filosofica tedesca, da Feuerbach a Habermas. L’antropologia è qui concepita nel senso della tradizione tedesca del Novecento, di cui i lavori di Arnold Gehlen, Helmut Plessner e Agnes Heller rappresentano i riferimenti più noti nel mondo anglosassone. L’antropologia filosofica definisce uno studio dell’anthropos attraverso il confronto con altre forme di vita, soprattutto animali, studio che differisce radicalmente dall’indagine comparativa delle diverse maniere di essere umani. Questa ricostruzione dell’antropologia filosofica riconduce le origini della disciplina a Feuerbach, e termina con la teoria dell’agire comunicativo. Come in quell’opera di Habermas, una figura centrale è il filosofo e psicologo sociale pragmatista George Herbert Mead. La sua teoria della «intersoggettività pratica» costituisce il riferimento centrale del libro, e più in generale della prima riflessione di Honneth, fino a Lotta per il riconoscimento incluso (cfr. soprattutto Honneth, Joas 1988, 70).

Con Joas, Honneth sperava di dare attuazione al programma di una revisione del materialismo storico che conducesse a una nuova filosofia della prassi attraverso il recupero di un’antropologia filosofica alternativa attinta dalla tradizione tedesca. Questa tradizione appariva come fonte teorica ideale perché, letta dal vertice ottico di una linea Feuerbach-Mead che ponesse adeguata enfasi sulla costituzione intersoggettiva della soggettività umana, essa sembrava capace di fornire una descrizione compiuta del presupposto intersoggettivistico, evitando però le riduzioni implicate da un’adesione incondizionata alla svolta linguistica. Essa offriva una connotazione pienamente materialistica dell’agire, sia individuale e sia sociale, e in particolare del lavoro. Il primo programma di Honneth era perciò costruito su una «antropologia dell’agire sociale». Questi cursori rilievi descrittivi non sono ovviamente sufficienti a giustificare il ricorso a un’antropologia volto a fornire una versione aggiornata del materialismo storico, soprattutto se si considera il generale sospetto verso gli argomenti antropologici circolante nella tradizione marxista e in generale nella filosofia sociale e nelle scienze sociali. Immergendoci ancor più a fondo nelle ragioni del ritorno del giovane Honneth all’antropologia filosofica, lo sfondo antropologico-materialistico della sua ricerca riceverà una caratterizzazione più precisa.

Honneth e Joas giustificavano il ricorso all’antropologia filosofia in primo luogo appellandosi a un’esigenza politica: «Oggi è a stento necessario fornire articolate giustificazioni per occuparsi di antropologia nel senso tedesco nel quadro delle scienze sociali e culturali. I temi posti dai vari movimenti sociali orientano fin troppo chiaramente in questa direzione» (Honneth, Joas 1988, 1). I giovani ricercatori interpretavano dunque il sorgere dei movimenti sociali degli anni ’70, le «lotte ecologiche, contro-culturali e femministe» come omogeneamente convergenti sulle medesime questioni, cioè le questioni fondamentali della natura, della natura umana e della relazione intercorrente tra le due: «La legittimità della questione del rapporto dell’essere umano con la natura e della natura nell’essere umano è oggi al di là di ogni dubbio» (Honneth, Joas 1988, 3). L’esigenza politica, dunque, custodita dal programma del materialismo storico, guidava la loro indagine teorica. La generazione che interroga il modello di civilizzazione in seguito ai rilevanti fenomeni di crisi e contestazione che lo attraversano, è anche quella che riformula i compiti di una teoria critica della società e la costringe a ripensare radicalmente la relazione tra l’umano e il naturale. In particolare, essa impone alla teoria sociale di concentrarsi di nuovo sul problema della “umanizzazione della natura”, interna ed esterna. Inoltre, questa mossa rivolge attenzione al terreno di fondazione naturale della capacità umana di agire e svilupparsi culturalmente – cioè all’organismo umano. L’antropologia filosofica è proprio quella tradizione di pensiero che tematizza l’unicità dell’accesso umano alle funzioni simboliche attraverso lo studio delle sue precondizioni radicate nella specificità organica dell’essere umano. Il ricorso all’antropologia filosofica tedesca era così giustificato da due prospettive convergenti: da un lato, una prospettiva immanente, derivante dalla ricostruzione del materialismo storico – pur nella sottolineatura delle astrazioni contenute nel modello di Habermas; dall’altro, la prospettiva esterna, connessa ai problemi sociali e alle lotte sociali dell’epoca.

Tra i diversi tentativi di riattualizzare il materialismo storico nel marxismo occidentale degli anni ’80, una simile esigenza di riconfigurare la teoria sociale sulla base di una rinnovata indagine delle premesse naturali della cultura poteva avvalersi di un numero ingente di modelli concorrenti esistenti. Una strategia consisteva semplicemente nel tralasciare simili questioni, come tendeva a fare Habermas con la sua enfasi sul linguaggio come istituzione centrale nell’antropogenesi e nella socializzazione. L’enfasi sul linguaggio come differenza specifica e medium della socialità umana distoglie lo studio esplicativo e soprattutto lo studio normativo della società umana dalle sue interrelazioni con altri mondi non-umani (cfr. McCarthy 1978, 110-126)[7]. La svolta linguistica di Habermas nella ricostruzione del materialismo storico conduce a una separazione dualistica di agire comunicativo e agire strumentale, integrazione sistemica e integrazione sociale, che dalla prospettiva di questo Honneth implica una visione riduzionista e strumentalista della natura e del rapporto umano con la natura (Honneth 1991, 218). In questo modello la natura è semplicemente una dimensione che deve essere oggettivata e dominata ai fini della sopravvivenza materiale. Il primo progetto di Honneth era in larga parte mosso dall’obiettivo di superare i dualismi che agivano nella teoria comunicativa della società di Habermas, attraverso una rimodulazione della teoria sociale intorno all’idea natura, da condurre sia ponendo la questione generale delle precondizioni naturali della cultura e sia, più specificamente, assegnando centralità alla tematica del corpo umano come luogo costitutivo e normativo dell’agire sociale (cfr. Deranty 2005a, 2005b).

Una seconda tendenza assai rilevante in quel periodo era rappresentata dagli influenti scritti di Marcuse e di Bloch, i quali proponevano versioni paragonabili di una prassi utopica e rivoluzionaria, guidata dal télos di una riconciliazione della storia umana con la storia naturale, di una natura che «trovasse il suo posto nella teoria della rivoluzione» (Marcuse 1989, 63). Queste teorie “utopiste” della prassi fronteggiavano l’altra grande forza nel campo del marxismo occidentale degli anni ’70, la teoria strutturalista althusseriana, contro la quale Honneth stesso era andato definendo in precedenza la propria prospettiva. Il marxismo strutturalista, in diretta opposizione alle utopie ecologiche di Marcuse e Bloch, rigettava il Marx umanista e “hegeliano” degli scritti giovanili, e dunque anche la contemporanea riproposizione delle Tesi su Feuerbach e dei Manoscritti parigini. Un intervento di rilievo, che fornì un significativo impulso al ritorno agli elementi antropologici del pensiero di Marx, fu la ricerca di Alfred Schmidt, che promosse l’attenzione verso la presenza di argomenti di filosofia della natura in Marx e sottolineò a tal riguardo l’importanza di Feuerbach (cfr. Schmidt 1971; 1973)[8]. Ricollocate nel contesto della teoria sociale marxista dei primi anni ’80, divengono pienamente manifeste tanto le opzioni teoretiche quanto la forte originalità del primo programma di Honneth, imperniato sul ritorno a un materialismo antropologico. L’impiego dell’antropologia filosofica e delle sue interessanti affinità con una certa versione del materialismo storico fu per il giovane Honneth la leva per disporsi su una via mediana tra il marxismo strutturalista e quello utopista, e per far spazio a un’appropriazione critica della svolta comunicativa. Le proposte di Habermas non erano in ultima analisi soddisfacenti perché producevano una dissoluzione teorica e pratica del programma della filosofia della prassi, e mancavano di quella forte preoccupazione ecologica, che in quel periodo era vista come essenziale. D’altra parte, però, le remore manifestate da Habermas davanti al tema neo-romantico della riconciliazione con la natura trovavano accoglienza nel sobrio e scientificamente orientato panorama intellettuale di Honneth. Il ricorso all’antropologia filosofica tedesca dava a Honneth la possibilità di superare la cecità di Habermas rispetto al radicamento (embeddedness) naturale dell’agire umano, ma era anche versato nelle scienze speciali in modo sufficiente a evitare l’accusa di misticismo o di speculazione metafisica.

La principale innovazione teorica contenuta negli scritti giovanili di Honneth risiedeva perciò non tanto nell’impiego di argomenti antropologico-filosofici, dal momento che lo stesso Habermas aveva già mosso passi significativi in questa direzione, attingendo a piene mani da Gehlen e da Mead. Piuttosto, l’innovazione consisteva nella rivisitazione di Feuerbach, ai fini non della mera esegesi marxista, ma del ben più ambizioso proposito della rifondazione di una teoria critica della società moderna. Honneth e Joas presentavano Feuerbach come iniziatore dell’antropologia filosofica. Prima di Mead, sostenevano, è nel “materialismo antropologico” di Feuerbach che si può reperire una modalità alternativa di configurare un’antropologia dell’intersoggettività che affondi le sue radici nell’aspetto “sensibile” – e non limitato al linguaggio – dell’antropogenesi; «Feuerbach riabilita l’esperienza del mondo sensibile e pre-filosofica, non soltanto come fondamento, ma anche come mezzo e come fine del pensiero». Inoltre, egli «integra l’idea di una sensibilità (Sinnlichkeit) radicata nell’organismo umano con il concetto di un’intersoggettività a priori dell’essere umano. È stato il primo a considerare in senso sia epistemologico e sia sostanziale il significato della struttura specificamente umana dell’intersoggettività» (Honneth, Joas 1988, 15). Feuerbach era così letto retrospettivamente sullo sfondo dei successivi sviluppi della psicologia sociale intersoggettivistica, una linea d’indagine che non soltanto secondo Honneth, ma anche secondo Habermas, era poi stata sviluppata da Mead e da Winnicott.

L’importanza del materialismo antropologico nei primi scritti di Honneth era talmente grande che, contro tutti gli altri studiosi materialisti dell’epoca, incluso il più feuerbachiano di loro, Alfred Schmidt, Honneth invertiva la relazione tra Marx e Feuerbach, e lamentava il deficit teorico connesso al passaggio dal secondo al primo. In positivo, ciò significava un recupero del materialismo antropologico, proprio ai fini di una valida prosecuzione del programma del materialismo storico.

La critica sollevata dal giovane Marx contro il materialismo sensistico di Feuerbach è ben nota. Essa insiste sul fatto che l’organicità che sta alla base della relazione umana con il mondo non dovrebbe essere concepita in senso contemplativo, ma come «attività sensibile umana». Inoltre, essa sottolinea che gli oggetti non sono datità eterne, ma sono essi stessi il prodotto del lavoro umano, e pertanto sono storicamente e socialmente situati. Il concetto di lavoro non soltanto permette a Marx di connettere teoria della società e teoria dell’emancipazione, ma anche conserva le diverse linee della sua critica a Feuerbach (cfr. Márkus 1978). Con la correzione del materialismo in materialismo storico, così recita l’auto-giustificazione di Marx, il paradossale pregiudizio teoreticista e la vena quietista di Feuerbach sono rettificate, e le sue intuizioni trasformate in una vera e propria teoria della prassi.

Tuttavia, concentrando i motivi feuerbachiani nella sola categoria di lavoro sociale, si corre il rischio di minimizzare l’articolata ricchezza concettuale di nuclei tematici distinti. In primo luogo, la «sensibilità» fondativa dell’essere umano non è limitata alla sua dimensione prasseologica. È diverso affermare, come fa l’antropologia filosofica, che la percezione umana è definita nella sua struttura specifica dall’incontro tra la carenza di specializzazione dell’organismo umano e le necessità dell’azione, e dire invece che nella sua struttura essenziale essa è riducibile all’azione. Al contrario, l’antropologia filosofica, e in particolare Feuerbach, insiste sul fatto che, pur sorgendo nel contesto della necessità dell’azione, la percezione e più in generale l’apertura al mondo, cioè la sensibilità dell’organismo umano, dota l’essere umano di una capacità di distanziamento rispetto al mondo, una capacità di “contemplazione” – se si vuole utilizzare l’etichetta dispregiativa di Marx. In un’ideale replica a Marx, comunque, la tradizione dell’antropologia filosofica mostra che questa capacità di “contemplazione” svolge anche un ruolo fondamentalmente positivo. Essa designa la capacità umana di percepire gli oggetti nella loro specificità qualitativa, al di sopra e al di là del loro essere oggetti di interesse per i bisogni e per l’azione. Si tratta della capacità di «lasciar essere» le cose (cfr. Feuerbach 1986, 40), della capacità di percezione universale (cfr. Schmidt 1973, 45-50), della fondamentale sensibilità estetica dell’essere umano (cfr. Feuerbach 1957, 112), che è anche l’origine della libertà umana rispetto al mondo a paragone degli altri animali[9]. Tale abilità non dovrebbe essere opposta all’azione, poiché rende anzi possibile l’azione. Anche le sue implicazioni ecologiche sono evidenti.

In secondo luogo, l’altruismo di Feuerbach sottolinea la condizione intersoggettiva della soggettività e della razionalità. La riformulazione marxiana della prassi intersoggettivistica di Feuerbach come lavoro sociale corre il rischio di ridurre il dominio dell’interazione alla sola dimensione della cooperazione nel lavoro. Con questa torsione scompaiono però ampie sfere della costituzione intersoggettiva dei soggetti, insieme alle relative dimensioni normative. L’enfasi posta sull’intersoggettività, tanto come elemento di integrazione sociale, quanto come specifico dominio normativo, richiede, ancora una volta, una correzione feuerbachiana della categoria fondante di “lavoro sociale”.
 
 
3. La teoria del riconoscimento come prosecuzione del progetto emancipativo di Marx
 
Questa rapida ricognizione dei primi testi di Honneth mostra che l’ampio ricorso alla teoria psico-sociologica nei suoi scritti successivi era stato preparato dal suo originario progetto di una revisione del materialismo storico da condursi attraverso il recupero degli argomenti portanti dell’antropologia filosofica, nella misura in cui quest’ultima prefigurava in modo sostanziale le innovazioni teoriche della psicologia interazionista. Più in generale, la prospettiva genealogica riesce a dar conto di ampi tratti del più tardo modello di teoria sociale di Honneth.

Dopo i primi studi sul materialismo storico, culminati in Agire sociale e natura umana, al centro della filosofia della prassi di Honneth compare il riconoscimento e non più il lavoro, ma il suo modello segue ancora la struttura formale di una teoria storico-materialista della società, poiché nel concetto di riconoscimento sono compresi i processi storici che producono gli assetti sociali, i quali determinano specifiche relazioni con la natura, specifiche tipologie della personalità e specifici mondi istituzionali. La differenza tra la prospettiva di Marx e quella di Honneth sta semplicemente nel fatto che, per quest’ultimo, la “produzione” è ora colta a un livello più astratto e designa i quadri normativi fondamentali entro cui hanno luogo e assumono senso diverse forme di prassi. Ma questo passaggio dalla produzione materiale all’interazione normativa e intersoggettiva non è completamente “smaterializzante”, perché il cruciale elemento “antropologico-materialista” permane, e anzi svolge una funzione centrale. La differenza rispetto alle precedenti versioni del materialismo storico risiede nel fatto che l’elemento propriamente materialistico della concezione honnethiana dell’agire storico e sociale allude ora al radicamento dell’agire sociale in determinate precondizioni organiche, anziché alla specificità del modo di produzione, e che il sociale è concepito come il luogo dell’integrazione comunicativa attorno alle norme, e non come il risultato di una dialettica della produzione.

Il fatto che il concetto di lavoro sia sostituito da un concetto morale non deve condurre alla conclusione che l’etica del riconoscimento manchi di radicalità politica. Piuttosto, la teoria del riconoscimento è portatrice di una maggiore solidità critica e di una più acuta sensibilità ermeneutica verso quelle esperienze pre-scientifiche alle quali, secondo il principio epistemologico centrale della teoria critica, dovrebbe agganciarsi la teoria dell’emancipazione. Honneth giustifica sempre in questo modo il passaggio dal paradigma della comunicazione a quello del riconoscimento. Il guadagno fondamentale legato alla concezione della società come un’instabile soluzione di compromesso di lotte storiche per il riconoscimento è che essa mette al centro la capacità di agire degli individui socializzati e dei gruppi, e come causa ultima del loro agire indica l’esperienza dell’ingiustizia. Questo interesse pratico della teoria del riconoscimento emerge anche dalle risorse concettuali cui Honneth attinge nel delineare il suo modello, ripercorrendo la storia dei movimenti sociali e indagando i contenuti normativi delle rivolte contro le situazioni storiche di ingiustizia sociale. Per esempio, è l’esperienza storica dell’ingiustizia ad aver condotto alla distinzione delle tre sfere del riconoscimento. L’ancoraggio pratico della teoria non significa soltanto che la teoria sociale mira a svelare la “trascendenza immanente” che dall’interno della vita sociale rende possibili la resistenza e la lotta. Significa anche che l’applicazione pratica della teoria, la spiegazione e la giustificazione delle lotte, e infine l’effetto di ritorno sul loro rafforzamento, sono il fine ultimo e la giustificazione della teoria.  La Teoria critica ha un télos pratico. Non v’è alcun dubbio che l’impresa di Honneth si fondi in ultima analisi su un’esigenza politica. Per citare di nuovo il suo primo libro e la sua critica al modello spoliticizzato di Habermas, lo scopo è «costruire un modello che possa essere collegato ermeneuticamente all’unicità della situazione esperienziale dei soggetti che agiscono nel presente», un modello che possa essere «introdotto nella prassi storica al fine di fornire orientamenti pratici ai soggetti agenti» (Honneth, Joas 1988, 166).
 
 
4. La rimozione della materialità nella “matura” etica del riconoscimento di Honneth
 
Tuttavia, è innegabile che oggi l’etica del riconoscimento appare a molti come una teoria critica priva di incisività critica. Per i numerosi sostenitori di una qualche versione del materialismo storico, un modello imperniato sul riconoscimento risulta troppo debole, e una preoccupazione simile può essere espressa anche nel quadro teorico di questo articolo. Se si ha in mente il duplice terreno materialista tratteggiato nelle prime due sezioni, si rimane sorpresi dall’aspetto disincarnato delle interazioni, per come esse sono analizzate nel modello “maturo” di Honneth. Il passaggio dal paradigma della produzione a quello della comunicazione e del riconoscimento pare coincidere con una graduale “smaterializzazione” del significato dell’interazione. Nell’attuale modello del riconoscimento, l’interazione sembra essere stata ridotta all’intersoggettività inter-umana.

Cioè che sembra mancare, o che sembra aver subito una consistente riduzione, sono in primo luogo le mediazioni istituzionali, come ha assai vigorosamente rilevato Emmanuel Renault (2004) nel suo importante libro L’esperienza dell’ingiustizia. Il fatto sociale, cioè la densa realtà della vita sociale che trascende e struttura le interazioni intersoggettive, sembra qui figurare solo indirettamente, come un prodotto delle interazioni intersoggettive e non come un’autonoma realtà determinante. Il mio interesse in questo articolo si volge alle ulteriori mediazioni che sono irriducibilmente collegate all’interazione sociale o intersoggettiva. Per esprimersi metaforicamente, Honneth sembra aver ridotto l’interazione a un’intersoggettività orizzontale, sottovalutando l’importanza di altre tipologie, “verticali”, di relazione, la rilevanza delle dimensioni istituzionali per la formazione delle esperienze soggettive e intersoggettive, e anche l’importanza della realtà materiale. Credo che le relazioni interpersonali debbano essere indagate nel loro intreccio con altre forme di interazione: interazioni tra esseri umani e non-umani, interazioni degli individui con i loro oggetti personali, con gli strumenti, con le macchine, e che l’indagine debba includere la considerazione di fattori come la resistenza della materia, il “metabolismo” della società rispetto al suo ambiente, e così via. Queste interazioni intrecciate sono portatrici di uno specifico peso strutturante e, cosa ancor più importante per una filosofia sociale orientata normativamente, possiedono un loro specifico impatto normativo. Si ha l’impressione che nella matura teoria del riconoscimento sia venuta a mancare la dimensione “sensibile”, la dimensione essenziale dell’apertura dell’essere umano al mondo, la relazione di contemplazione-trasformazione dell’individuo umano e della società umana con la realtà naturale e simbolica.

In breve, pare siano state ridotte al minimo tutte quelle dimensioni che la riscoperta di Feuerbach e del Marx “feuerbachiano” aveva invece ricondotto all’interno della riattualizzazione del materialismo storico. La base materialista della teoria della società proposta in Lotta per il riconoscimento, e la sua versione modificata nei testi più recenti, si riduce ad argomenti tratti dalla psicologia genetica e dalla psicologia sociale per quel che attiene al lato esplicativo della teoria, e ad argomenti tratti dalla psicologia e dall’epistemologia morale per quel che attiene al suo lato normativo (cfr. Honneth 2001). È come se, nonostante la sua critica della dicotomia di agire strumentale e comunicativo, anche Honneth avesse trattenuto della svolta comunicativa soltanto un’interpretazione unilaterale che, nel criticare il modello soggetto-oggetto, perde di vista il polo oggettivo. Vi era inizialmente un’ampia riscoperta dell’apertura essenziale dell’essere umano al mondo – un’apertura che, certamente, è strutturalmente condizionata dalla costituzione intersoggettiva della soggettività, ma che perde di senso se si ignorano l’essere materiale dell’oggetto e le capacità e i limiti del corpo umano. In ogni caso, questa riscoperta non sembra aver pienamente esercitato la sua influenza sulla stessa teoria che essa ha contribuito a rendere possibile.

Nell’etica del riconoscimento “matura”, la tipologia minimale di comunicazione tra due agenti, che Habermas aveva impiegato come situazione idealtipica per indagare la logica degli atti linguistici, continua di fatto a fungere da struttura paradigmatica attraverso cui sono concepite tutte le forme di interazione. Si tratta di «un’agire sociale concepito come procedura comunicativa, nel cui processo almeno due soggetti coordinano le loro azioni dirette a scopi raggiungendo un’intesa su una definizione condivisa della loro situazione, attraverso l’uso di simboli» (Honneth, Joas 1988, 155). Conseguentemente, non soltanto le forme della mediazione connesse alle interazioni sociali retrocedono sullo sfondo, ma la stessa interazione sociale sembra concepita soltanto in guisa strettamente dialogica, come relazione tra agente e agente. Anche la seconda e la terza sfera del riconoscimento, che sembrano implicare una dimensione istituzionale, sono viste come forme di relazione irriducibili alla realtà materiale e sono difatti affrontate a partire da una prospettiva inter-soggettiva “orizzontale”. In termini più ampi, il problema classico di tutto il materialismo orientato antropologicamente, quello cioè del “metabolismo con la natura” che, come abbiamo visto, costituiva l’interesse-guida della prima critica di Honneth a Habermas e il filo conduttore del suo recupero dell’antropologia filosofica, compare ora solo ai margini della teoria sviluppata del riconoscimento.

Questo elemento si presenta in modo particolarmente evidente nelle Tanner Lectures dedicate al concetto di reificazione (Honneth 2005). Negli anni 2000, la teoria del riconoscimento ha subito uno slittamento da un modello imperniato sul concetto di “lotta per il riconoscimento” a un modello imperniato sulla nozione di “riconoscimento affettivo”. Questo slittamento è racchiuso in una nuova interpretazione della tesi secondo cui «il riconoscimento precede concettualmente e geneticamente la cognizione»[10]. Vi è qui un’enfasi molto più marcata sull’idea, già esposta in Lotta per il riconoscimento, secondo cui il primato dell’identificazione affettiva con un “altro significativo” costituisce la precondizione genetica e la condizione di possibilità logica per la normatività di tutte le altre interazioni. Il soggetto ha bisogno della profonda identificazione con un altro soggetto capace di aprire per lui/lei l’accesso alla realtà sociale e materiale, affinché sia possibile sviluppare una disposizione normativa, possibilmente rispettosa ed etica verso queste realtà. E diversi tipi di reificazione sono paragonabili alla condizione del bambino autistico che è in grado di rapportarsi al mondo soltanto in maniera puramente oggettiva perché l’identificazione affettiva primaria con l’altro significativo non è stata possibile. La conseguenza di questo modello è che la natura, e più in generale tutte le entità non-umane, hanno una rilevanza normativa soltanto indiretta. Sono rilevanti solo nella stretta misura in cui sono già stati o saranno rilevanti per altri soggetti. L’inter-relazione tra i soggetti è diventata l’unica interazione normativa da cui tutte le altre dipendono.

La rimozione della materialità è tanto più paradossale dal momento che, come abbiamo appena ricordato, il primo libro l’aveva esplicitamente paventata come una direzione teorica fatale. Nel ricostruire la ricezione di Mead in Germania, Honneth e Joas scrivevano che la sua associazione con l’interazionismo simbolico «dava l’impressione che egli ne condividesse la riduzione dell’azione all’interazione, e che anche lui ritenesse di importanza irrilevante le basi naturali dell’agire, sia che esse consistessero nella dotazione e nella bisognosità corporea dell’essere umano, sia che fossero concepite come un ambiente necessario alla vita» (Honneth, Joas 1988, 61). Ed era proprio perché Mead forniva una teoria più materialista dell’agire umano, garantendo adeguato spazio alle «basi naturali dell’agire», che Honneth lo aveva eletto a riferimento centrale nei suoi primi scritti. Una dimensione rilevante di queste «basi naturali» è il rapporto dell’agente umano con il suo ambiente, la manipolazione degli oggetti, in breve il radicamento dell’agire sociale nella concretezza della realtà non-umana. Questo aspetto era tenuto in alta considerazione da Honneth e Joas, nella misura in cui conservava il “sensismo” di Feuerbach. Come notavano i giovani autori, «Mead non assegna affatto un’importanza centrale alla forma di azione denominata interazione, ma piuttosto alla manipolazione degli oggetti fisici da parte degli esseri umani. […] Lo scopo di Mead non è una teoria dell’interazione, né dell’agire strumentale, ma la congiunzione di entrambe queste teorie» (Honneth, Joas 1988, 61).

Si potrebbe, pertanto, sostenere che la teoria del riconoscimento ha bisogno di un ampliamento del suo scopo. Tuttavia, come ho tentato di dimostrare in questo articolo, questo passaggio non richiede una deviazione dal paradigma su cui originariamente si basava la teoria; al contrario, occorre semplicemente sfruttare appieno le potenzialità insite nel contesto teorico dal quale essa è inizialmente emersa. Si potrebbe formulare questo ampliamento in una serie di massime: la svolta intersoggettivistica, comunque venga fondata, non dovrebbe condurre all’abbandono del polo oggettivo. Una filosofia della prassi corretta in modo tale da tenere in considerazione la struttura intersoggettiva della soggettività e della razionalità non dovrebbe dimenticare che, per esprimersi nel lessico delle Tesi su Feuerbach, l’attività (Tätigkeit) è anche oggettiva (gegenständlich). L’identificazione dei rischi del paradigma soggetto-oggetto e della riduzione della razionalità alla sua dimensione strumentale non dovrebbe condurre al reciso abbandono di quest’ultima. Se da un lato il dualismo di agire strumentale e agire comunicativo risulta fatale da un punto di vista sia concettuale e sia normativo, dall’altro anche la riduzione dell’interazione all’intersoggettività appare erronea.
 
 
5. Verso una svolta materialista della teoria del riconoscimento. Il caso del lavoro
 
Sulla scorta di queste riflessioni, la teoria del riconoscimento potrebbe dar luogo a una nuova riattualizzazione del nucleo antropologico del materialismo storico, sviluppandone questa volta l’intero potenziale. Si tratterebbe di porre un problema analogo a quello di Mead: «non una teoria dell’interazione, né dell’agire strumentale, ma la congiunzione di entrambe queste teorie». Dato però lo slittamento interazionista della teoria di Honneth, ciò implica in primo luogo un ri-orientamento sul polo dell’oggetto, un recupero delle mediazioni materiali non-umane che si intrecciano alle interazioni propriamente intersoggettive e interumane. La rivalutazione del ruolo dell’oggetto conduce a un concetto di interazione più ampio, e permette di comprendere che ciò che è davvero in gioco nella teoria dell’interazione non si esaurisce nel problema della relazione del soggetto con l’oggetto, né in quello dell’intersoggettività, ma è il problema dell’interazione tra quelle interazioni. È interessante notare che una rivalutazione del polo dell’oggetto nella cognizione ha avuto luogo anche in seno alla tradizione analitica, con l’emergere del modello dello “esternalismo attivo”. In questo modello, la mente non è soltanto riferita al mondo esterno attraverso l’intenzionalità, né essa è soltanto intersoggettivamente costituita, ma è concepita come “estesa” nel mondo, e capace di estendersi oltre i limiti fisici del soggetto attraverso meccanismi di feedback e “loop cognitivi” che abbracciano oggetti socio-culturali e materiali (cfr. in particolare Clark 1997; Rowlands 2003). In questo quadro, ha luogo un’integrazione delle tre interazioni fondamentali: la relazione orizzontale soggetto-soggetto, e le due interazioni “verticali”, dell’umano con il non-umano e dell’individuo con la dimensione istituzionale. La scienza cognitiva che teorizza una mente estesa è più vicina alla tradizione qui analizzata di quanto ci si potrebbe attendere, soprattutto se si considera il possibile ruolo di mediazione tra le due tradizioni che potrebbe essere svolto da un autore come Merleau-Ponty – che è probabilmente il filosofo che ha fornito il modello più raffinato di integrazione di queste tre forme di interazione. Un’altra disciplina con cui potrebbe svolgersi un dialogo assai proficuo è l’antropologia culturale, con la quale un modello ampliato di riconoscimento e la teoria della mente estesa avrebbero forti affinità. Dato l’originario interesse di Honneth per l’antropologia filosofica, è sorprendente vedere come egli abbia pressoché abbandonato l’idea di un sostanziale e almeno parzialmente costitutivo metabolismo dell’agente umano con la dimensione non-umana[11].

Se continuiamo restare nel solco della tradizione materialista post-hegeliana, l’ampliamento proposto della teoria del riconoscimento in una più generale teoria della relazionalità, capace di includere diversi tipi di interazione, avrà più o meno l’aspetto seguente. Da Feuerbach, traiamo l’idea che
 

Il concetto dell’oggetto è originariamente null’altro che il concetto di un altro Io – ogni cosa appare infatti all’essere umano nella sua infanzia come un essere che agisce attivamente e arbitrariamente – il che significa che per principio il concetto dell’oggetto è mediato dal concetto del Tu, dell’ego oggettivo. Per usare i termini di Fichte, un oggetto o un altro Io non è dato all’Io, ma al non-Io che è in me; perché soltanto laddove Io sono trasformato da un altro Io in un Tu – cioè, laddove sono passivo – si genera l’idea di un’attività esistente fuori di me, l’idea di un’oggettività. (Honneth, Joas 1988, 17)[12]

Potremmo allora seguire l’iniziale impostazione di Honneth e vedere come Mead abbia sviluppato sistematicamente la visione feuerbachiana dell’oggetto come un “quasi-Io” che imprime le sue qualità sull’Io percipiente, posto ora nel ruolo di oggetto, riformulandola nei termini della nascente scienza neurologica. Infatti, l’insistenza di Feuerbach sul polo dell’oggetto anticipa in modo assai significativo le analisi di Mead per quanto riguarda la costituzione del corpo come corpo proprio e la percezione di oggetti permanenti. Secondo Mead, l’unità del corpo proprio di ognuno emerge, per il soggetto individuale, in seguito alla reazione unitaria e alla resistenza opposta dal mondo esterno all’azione del soggetto. In ciò, Mead applica al corpo umano la medesima logica che consente al soggetto percipiente di identificare oggetti identici e permanenti nel flusso caotico delle qualità che ha luogo nella realtà esterna. Nella percezione, ciò che fa realizzare al soggetto che dietro la superficie delle cose vi è un “quasi-Io” è la costante resistenza degli oggetti afferrabili materialmente con la mano o virtualmente con gli occhi.

È sintomatico che in Agire sociale e natura umana Honneth già interpreti l’analisi di Feuerbach concernente l’interscambio di soggetto e oggetto nella percezione in senso puramente interpersonale, cioè come la prima manifestazione della costituzione intersoggettiva della percezione. Infatti, Feuerbach è altrettanto interessato ad affermare l’essere autonomo dell’oggetto contro la riduzione che lo investe nel quadro dell’idealismo trascendentale. L’idea di una costituzione intersoggettiva della percezione è una delle grandi tesi lasciate in eredità da Mead, ed è in effetti già presente in Feuerbach. In ogni caso, la tesi reciproca, riguardante il condizionamento oggettivo della soggettività, è ugualmente significativa. Ma questo è un tema che Honneth lascia sorprendentemente inesplorato in Agire sociale e natura umana. E ciò è tanto più sorprendente dal momento che si tratta della stessa opera chiamata a correggere il materialismo storico mediante un recupero del suo filone sensistico. Per Feuerbach infatti, proprio come per Mead, nella costituzione della mia soggettività e perfino nella strutturazione della percezione io dipendo dalle mie relazioni con gli altri esseri umani. Tuttavia, altrettanto importante per entrambi questi autori è l’altro meccanismo, in virtù del quale io sono me stesso trasformato in un oggetto dell’oggetto, che a sua volta è concepito come un “quasi-soggetto”. Attraverso questa dimensione oggettuale dell’interazione, non soltanto posso percepire gli oggetti come oggetti identici che si mantengono costanti nel tempo, ma più radicalmente divengo conscio del mio stesso corpo come un oggetto temporale identico con sé. È solo attraverso la mediazione della realtà materiale che posso prendere possesso del mio corpo come corpo proprio. La soggettività può essere costituita dalle relazioni intersoggettive o anche sociali, ma io divengo un soggetto incarnato soltanto attraverso realtà materiali, e al loro interno. E a ben vedere questo argomento è esposto in modo simile da Merleau-Ponty.

Questa idea generale reca importanti implicazioni, vorrei suggerire, per la prima sfera del riconoscimento delineata da Honneth. È forse giunto il momento di portare a compimento la teoria delle relazioni oggettuali e di rimarcare l’importanza di cose e oggetti, non solo come simboli passivi e veicoli di interazioni intersoggettive e sociali, ma in se stessi e nella loro materialità, come entità irriducibilmente costitutive della soggettività e della socialità. Molta psicologia moderna, e Honneth con essa, sembra avere una concezione oltremodo ottimistica della realtà materiale, e vedere il mondo come una realtà passiva che può essere permeata a piacimento di significati umani e simbolici. In molta psicologia contemporanea, il mondo degli oggetti non pone alcun tipo di resistenza, e figura anzi come veicolo puramente passivo di intenzioni umane. Ma la materia, gli oggetti, le cose, gli strumenti, le macchine, dimostrano un peculiare talento nel portare l’azione umana là dove essa non aveva intenzione di andare, nell’assegnarle significati imprevisti, nel resistere agli sforzi umani di plasmare la realtà. La reificazione può applicarsi anche all’azione umana, quando essa è deviata o invertita e si perde nell’indifferenza del mondo materiale. Questo pensiero fondamentale, ben posto in evidenza in passato dai filosofi esistenzialisti[13] e oggi dai teorici contemporanei della tecnologia[14], dovrebbe essere preso in seria considerazione da coloro che indagano gli sviluppi della soggettività.

Anziché concentrarmi su questo aspetto, vorrei muovere una serie di passi interlocutori in direzione di una teoria “rimaterializzata” del riconoscimento nella terza sfera. In uno dei suoi più noti articoli giovanili, Honneth sottolineava il deficit normativo connesso al concetto habermasiano di agire strumentale, e tentava quindi di configurare una “concezione critica del lavoro” che conservasse la fondamentale rilevanza normativa che Marx aveva assegnato al lavoro, senza però replicarne le confusioni concettuali (cfr. di nuovo Honneth 1990b). In interventi più recenti, Honneth ha reinterpretato l’aspetto normativo del lavoro affrontandolo dalla prospettiva sociale della sua valutazione all’interno di determinati quadri socio-culturali. Si tratta della ben nota idea secondo la quale i soggetti moderni chiedono di essere riconosciuti non soltanto come soggetti universali di diritti, ma anche nei loro successi particolari, in base al Leistungsprinzip, al “principio di prestazione” o del “successo”.

Per quanto importante sia questa norma, essa è evidentemente non sufficiente a dar conto del grande impatto che l’attività lavorativa esercita sulle soggettività. Nel lavoro, le dimensioni oggettuali e materiali sono ovviamente decisive, ma non soltanto da un punto di vista descrittivo: essa hanno anzi anche un’ingente portata normativa. In primo luogo, il riconoscimento nel lavoro e attraverso il lavoro non riguarda il mero riconoscimento delle abilità e del contributo personale alla “divisione del lavoro sociale”, ma anche il riconoscimento del prodotto del lavoro. Anche quanto i diritti dei lavoratori sono formalmente riconosciuti, e anche quando alla loro professione è garantito un riconoscimento sociale, la negazione del riconoscimento del prodotto del lavoro può avere effetti deleteri sulle soggettività, in misura almeno pari quella connessa alla negazione del riconoscimento delle abilità e delle identità. Il riconoscimento di uno status sociale può benissimo accompagnarsi a una negazione del riconoscimento o a un misconoscimento che investe la produzione dell’agente al quale è riconosciuto quello status. Le persone sono riconosciute come contributori, ma il loro contributo è misconosciuto o non riconosciuto. Questa contraddizione è, a ben vedere, assai diffusa nell’attuale mondo del lavoro.

Inoltre, l’aspetto materiale del lavoro, il confronto dei soggetti lavoranti con la materia, gli oggetti e le macchine, la “astuzia”, come dice lo Hegel jenese, per cui gli ostacoli della materia debbono essere contrastati, aggirati o ingannati attraverso la mediazione di altra materia, tutto questo svolge per le soggettività un ruolo costitutivo determinante, dotato di un suo specifico impatto normativo. Il riconoscimento è anche ciò che il lavoratore riceve o si attende dai suoi pari e dai colleghi per la sua capacità di “ingannare” la resistenza della materialità concreta e la sua sistematica oppositività. Questa visione potrebbe apparire estremamente ingenua e poco meritevole di essere difesa, dinanzi al fatto che il lavoro è diventato, come del resto la società stessa, sempre più “immateriale” e “cognitivo” (informational)[15]. Con la trasformazione dei processi di lavoro generata dalla massiccia introduzione delle tecnologie della comunicazione, e l’esponenziale incremento del settore dei servizi, quella del confronto diretto del lavoratore con la materia bruta sembrerebbe essere un’immagine consegnata a un lontano passato. Tuttavia, sarebbe del tutto erroneo derivare, dalla graduale “smaterializzazione” del lavoro e delle attività sociali in generale, l’idea che la componente materiale sia totalmente scomparsa. I servizi introducono un diverso oggetto di scambio, producendo e offrendo abilità e tempo anziché merci materiali, ma al fondo essi continuano ad avere una base irriducibilmente materiale. Qualunque sia l’attività economica presa come esempio di servizio, sia essa la mercificazione di un’attività compiuta nella sfera privata (turismo, catering, trasporti), una protesi della comunicazione e dell’intelligenza umana (telecomunicazioni, tecnologie informatiche) o l’esternalizzazione di attività che l’impresa fordista svolgeva invece direttamente[16], ebbene in tutti questi settori i servizi implicano un supporto materiale, sia esso un supporto già posseduto dall’utente, che il fornitore di servizi semplicemente trasforma e migliora (come le imprese di pulizie, esterne alla ditta committente, che provvedono alla pulizia del luogo di lavoro), oppure, come ancora accade in larga parte dei casi, un prodotto materiale distribuito all’utente (anche se una compagnia telefonica presenta se stessa come fornitrice di servizi, l’apparecchio e la fornitura del traffico telefonico dipendono da elementi materiali). L’innegabile astrazione e complessificazione degli oggetti e delle attività non deve condurre alla conclusione estrema secondo cui l’intero mondo dell’economia moderna sarebbe diventato “immateriale”.

A ogni modo, le intenzioni umane continuano a essere ostacolate dalla realtà di questa insopprimibile materialità, sia essa rappresentata dalla bruta resistenza di una vite che si rifiuta di girare, oppure dalla mancanza di adattabilità della macchina al variare della composizione del sostrato materiale che è chiamata a elaborare, o ancora dagli intoppi nelle complesse reti informatiche che collegano i diversi sottogruppi che cooperano a un progetto industriale. In tutti i casi, l’elemento irriducibile, che molta teoria critica pare aver dimenticato, è quell’elemento di materialità che sta al cuore del processo di lavoro e di scambio. Il peculiare riconoscimento, fornito dai pari, della capacità di un soggetto di “ingannare” la realtà per renderla conforme alle prescrizioni della situazione lavorativa è molto diverso dal generico riconoscimento sociale che poggia sul sistema dei valori sociali generali. Questo aspetto del lavoro, che compariva al centro della concezione marxiana del lavoro sotto l’etichetta della “cooperazione” è, secondo un interessante filone dell’attuale psicopatologia del lavoro, essenziale per stabilire se un’esperienza lavorativa sia o no patologica[17]. Comunque, è chiaro che la normatività implicata da questo aspetto del lavoro è strutturalmente connessa alla capacità di “ingannare” la realtà. È infatti il riconoscimento sociale dell’abilità e della competenza maturata a produrre un senso di autostima, ma l’aspetto rilevante di questo riconoscimento è che esso proviene da pari che sono capaci di giudicare l’abilità tecnica in quanto tecnica, cioè in quanto vittoria della competenza umana sulla resistenza del reale. Il giudizio è sociale, ma il suo oggetto è oggettivo.

A ben vedere, una microanalisi della situazione lavorativa rivelerebbe molti più aspetti del riconoscimento, poiché il passaggio a un’organizzazione del lavoro post-fordista ha significato il relativo ampliamento della sfera di autonomia di molti lavoratori, perfino al più basso grado di abilità e qualificazione. Secondo Dejours, il riconoscimento che è essenziale per alleviare la continua presenza di elementi patogeni nell’esperienza lavorativa non è soltanto quello orizzontale proveniente dai pari, ma anche quello verticale di natura gerarchica. Dal momento che ai lavoratori di oggi è richiesto un sempre crescente coinvolgimento della loro personalità nel successo dell’impresa, crescono anche le loro richieste di ricompensa simbolica nei termini del riconoscimento del loro specifico apporto al processo di lavoro.

Queste stringate considerazioni dovrebbero essere sufficienti a mostrare che il concetto di riconoscimento è in effetti un concetto critico e descrittivo insostituibile quando si tratta di indagare la sfera del lavoro come vettore essenziale di soggettivazione nelle società contemporanee, e che nondimeno esso necessita di essere articolato, in particolare attraverso un’analisi delle molteplici e complesse maniere in cui l’elemento simbolico rappresentato dal riconoscimento interumano e sociale è inestricabilmente connesso con il difficile confronto tra i soggetti lavoranti e la resistenza del reale, per quanto immateriale possa apparire quest’ultimo. La scuola psicologica di Dejours definisce il lavoro come «l’attività che è richiesta ai soggetti per colmare la distanza tra le prescrizioni e la realtà del lavoro» (Dejours 2000, 213; cfr. anche Dejours 1995, 43-44). Questa definizione mostra da sé quanto sia intricato l’intreccio di richieste strumentali e intersoggettive, e il corredo di promesse e aggravi che ne risulta per i soggetti lavoranti. Essa mostra che sussiste un bisogno urgente di una rinnovata indagine intorno alla “concezione critica del lavoro” che Honneth segnalava nei suoi primi lavori. Più in generale, questa definizione chiama la teoria critica a reintegrare la dimensione della materialità che essa aveva adeguatamente e originalmente posto in evidenza attraverso un produttivo distacco dal fondatore della sua stessa tradizione.
 
 
 
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Renault, E. (2004), L’Expérience de l’Injustice. Reconnaissance et Clinique de l’Injustice, Paris: La Découverte.
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Whitebook, J. (1996), The Problem of Nature in Habermas, in Macauley, D., ed., Minding Nature. The Philosophers of Ecology, New York: Guilford.
 
 
 
Note al testo
 
[1] Traduzione a cura di Luca Micaloni, da Deranty, J.-P. (2007), Repressed Materiality. Retrieving the Materialism in Axel Honneth’s Theory of Recognition, in Id. et. al., eds., Recognition, Work, Politics. New Direction in French Critical Theory, Leiden-Boston: Brill, 137-164.
[2] Cfr. anche il cap. 3 di Conoscenza e interesse (Habermas 1987, 43-64).
[3] Invero, i due testi di Habermas appena menzionati contenevano già l’ipotesi secondo cui il modello di una “lotta per il riconoscimento” fornito dallo Hegel jenese poteva fungere da meccanismo di integrazione sociale, in contrasto con l’idea di un’integrazione realizzata dalla sola riproduzione materiale.
[4] Questa è ovviamente una delle più penetranti valutazioni autoriflessive contenute nella polemica con Fraser. Cfr. Fraser, Honneth (2003, 157).
[5] Questo è ovviamente il tema principale della critica a Habermas in Honneth (1991).
[6] Cfr. la parte finale di Agire sociale e natura umana (Honneth, Joas 1988, 162-167).
[7] Cfr. anche l’articolo ormai classico di Joel Whitebook (1979, rist. 1996). Si veda anche la rivisitazione di queste tematiche dal punto di vista della recente letteratura su Schelling in Douglas (2004). Assai accurato e dettagliato lo studio di Haber (2006, cap. 3). Utile anche Voegel (1996).
[8] Schmidt (1973, 21) sottolinea l’importanza delle tesi antropologiche di Feuerbach all’interno della stessa critica dell’economia politica.
[9] Questo concetto di percezione umana come “universale”, dunque essenzialmente diversa dalla percezione istintualmente determinata degli animali è fatto direttamente proprio da Marx nei Manoscritti parigini.
[10] Tale slittamento era già ben segnalato in Honneth (2002).
[11] Il novero dei riferimenti possibili rispetto a questo punto è davvero esteso. Per citare soltanto una tradizione cara a Honneth, si può notare che, sia pure in un ambito disciplinare diverso, già in William James (1890, 291-293) il Self si “estende” ben oltre i limiti corporei e abbraccia tutti gli oggetti personali costitutivi della personalità (selfhood) stessa.
[12] Cfr. anche Feuerbach (1986, § 32) e Schmidt (1973, 44).
[13] Si pensi alla prima sezione della Critica della ragione dialettica di Sartre.
[14] Si vedano in particolare le riflessioni di Bernard Stiegler (1988) sull’aspetto antropogenetico delle tecnologie. Cfr. anche l’idea avanzata da Bruno Latour, secondo cui le reti di azione includono allo stesso livello di elaborazione entità sia umane, sia non-umane.
[15] Cfr. le autorevoli riflessioni di Manuel Castells (2000), e in particolare, per gli scopi di questo saggio, il cap. 4 The Transformation of Work and Employment: Networkers, Jobless, and Flexi-Timers.
[16] Ricorro qui alla descrizione del settore dei servizi fornita da Durand (2004).
[17] Cfr. Dejours (2000), soprattutto per quanto riguarda l’Appendice del 1993 (Dejours 2000, 201-249).
 
 
 

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